Teologia Trinitaria
Presentazione del corso: (P.
48 dell’ordo).
1.
Soggetto: Dio /
Luogo: Chiesa (Luogo ecclesiale) + Contesto.
Il metodo, ha subìto una svolto
enorme negli ultimi 50 anni.
2.
Noi riflettiamo
su Dio UNO e TRINO. Anche se il luogo in cui è esplicitamente rivelato il Dio
trinitario è il Nuovo Testamento, partiremo dall’Antico Testamento, dalla
Rivelazione che Dio fa di se stesso, dalla promessa che spinge verso il
compimento (per prendere la Scrittura nella sua unità). Nel Nuovo Testamento,
il compimento in Cristo. Lì troveremo in maniera definitiva la Rivelazione del
Dio uno e trino, in Cristo. Nell’evento Cristo, c’è un atto che costituisce il
cuore della Rivelazione che ha fatto Dio, ed è l’evento pasquale!
3.
… (cfr. ordo)
Materiale del corso:
Le dispense: riguardano soltanto la prima parte
(introduzione metodologica).
Per le parti 2 e 3 (la parte biblica ecc …): libro Piero Coda,
“Dio uno e trino”.
Per i punti 4 e 5, del secondo semestre, ci sarà un’altra dispensa!
N.B: Consiglio! a
gennaio 2011, uscirà il libro di Coda, “Della Trinità”, Città Nuova.
Introduzione alla Teologia Trinitaria:
Tra i vari Padri della Chiesa che si sono occupati della teologia
trinitaria, c’è Sant’Agostino
il più noto, che ha scritto “De Trinitate”, dopo che i due primi concili ecumenici
hanno precisato quella che è nostra fede trinitaria. Scrisse quest’opera
durante circa 20 anni (399-420). Ed è interessante cogliere da quest’opera
delle indicazioni metodologiche. Opera costituita di 15 libri. Nella prima
parte indica qual è il metodo da prendere per accedere a questa disciplina.
Dice: “Ci introdurremo insieme sulla via della carità …”. (Metodo = Méthodos
(Metà + Hodòs) = la via sulla quale camminare).
Noi non abbiamo la possibilità di affermare la trinità di Dio; è qualcosa di umanamente
inaccessibile. Senza
la Rivelazione di Dio, è impossibile arrivare a dire questo. Se Dio, in
Cristo, non si fosse rivelato uno e trino, tale mistero sarebbe rimasto per noi
umanamente inaccessibile. Quindi l’uomo corre sempre il rischio di cadere
nell’errore.
“Insieme ci metteremo
così sui sentieri della carità, in cerca di Colui del quale è detto: Cercate
sempre il suo volto. In questa disposizione d’animo pia e serena vorrei
trovarmi unito, davanti al Signore Dio nostro, con tutti i miei lettori di
tutti i miei libri ma soprattutto di questo che indaga l’unità della Trinità,
del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, poiché non c’è altro argomento a
proposito del quale l’errore sia più pericoloso, la ricerca più ardua, la
scoperta più feconda”.
“La ricerca più
difficile, ardua”: Io non posso
circoscrivere Dio con le mie capacità, le mie categorie, i miei concetti che io
uso per parlare; Dio va oltre le mie capacità per “com-prender-lo”
(circoscriverlo, de-finir-lo”). Ogni volta che l’uomo pensa di averlo in mano, trova un idolo in mano,
non Dio (come il popolo di Israele quando ha costruito il loro dio per
vederlo e toccarlo). La ricerca è difficile perché mette alla prova le nostre
capacità intellettuali.
“La scoperta più feconda”: L’impresa è affascinante perché promette i frutti più belli e più
sostanziosi per la vita e per il credente.
“Insieme” e “via della
carità” sono strettamente connessi
(cfr. dispensa, Benedetto XVI, “Deus Caritas Est”).
Come si articola questa “via della carità”? Lo stesso Vangelo ci
chiama ad amare Dio con
tutta la forza, tutta la mente, ecc … ed il prossimo come se stessi.
Quindi innanzitutto bisogna amare Dio con tutto il cuore (considerato
biblicamente tutto l’uomo, l’essenza), l’anima (psyche, che indica la vita
dell’uomo), forze, e la mente (la dianoia, il pensiero, l’intelligenza); insomma con tutto me
stesso!
Giovanni Paolo II: “Una fede che non diventa cultura è una fede
non pienamente accolta e non pienamente pensata e non sufficientemente vissuta
…” (cfr. dispensa).
Ma stare attenti a non accedere soltanto alla conoscenza di Dio, ma
anche amarlo (Benedetto XVI).
Quindi due elementi che rimandano l’uno all’altro; Intelligenza àAmore (e vice-versa).
S. Paolo: “Per grazia, abbiamo il NOUS (l’intelletto) di Cristo”
(1Cor 2,16). Che la nostra intelligenza sia battezzata.
1Cor 2,9: “… cose che occhio non
vide, orecchio non udì, … a noi Dio ha rivelato per mezzo dello Spirito …”: il
mistero della Trinità è uno di queste cose di cui parla S. Paolo, le cose che
Dio ha preparato per coloro che lo amano!
Solo grazie a questo Spirito
che possiamo conoscere queste cose. Se
non ci fosse stato dato lo Spirito Santo, non avremmo potuto conoscere quello
che nessun occhio vide né orecchio udì ….
Possiamo conoscere Dio solamente stando IN Dio! Se no, sarebbe un
oggetto che è fuori di noi. È dentro l’evento trinitario che solamente possiamo
conoscerlo.
“Ama il prossimo tuo come te stesso”: dobbiamo camminare “insieme”;
questo è un altro presupposto imprescindibile, il “noi” ecclesiale.
22 ottobre 2010
Ricapitolando la lezione scorsa:
Prima dimensione: Via caritatis:
Amare Dio, con la propria forza, cuore, …, e con la propria intelligenza. E possiamo fare questo
e ci è possibile perché abbiamo ricevuto lo Spirito “che scruta le profondità
di Dio”. In Cristo, nello Spirito, possiamo conoscere il Padre.
Seconda dimensione,
strettamente connessa alla via caritatis: possiamo conoscere Dio, “percorrendo insieme”
(SIMUL). È una dimensione “dialogica” nella conoscenza di Dio
(Il dialogo, come dimensione costitutiva per la conoscenza di Dio, che si è
rivelato come AGAPE, comunione).
Dispense, p.6: VII° lettera di Platone: il dialogo è
indispensabile per la conoscenza delle realtà più alte. È necessario il lavoro
comune. Dice Platone: “dopo un lungo essere insieme in dialogo su questi
temi …”.
Aspetto metodologico del corso:
1.
Il Soggetto
della teologia trinitaria:
2.
Il Luogo
in cui la nostra riflessione deve svolgersi: il luogo non è isolato da un
contesto culturale.
3.
Il Contesto
culturale: che pone questioni e domande alla nostra riflessione stessa.
4.
Il Metodo:
il metodo specifico della teologia trinitaria.
1.
Soggetto:
Parliamo di soggetto e non di
oggetto, perché Dio non può essere considerato “oggetto” della nostra riflessione.
Il soggetto è il Dio,
rivelato in Gesù Cristo. Quindi c’è una precomprensione della fede che ci è scontata. La
fede vissuta nella Chiesa che noi possiamo esprimerla sinteticamente in questa
formula:
Noi
crediamo in un solo Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo.
Tutto sarà nell’approfondimento di
questa professione di fede, tratta dal simbolo degli apostoli, che è il simbolo
battesimale della Chiesa di Roma, e che riprende anche la forma battesimale
(“battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”: Mt 28,29).
“Nel nome” e non “nei nomi” del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
Questo non nega che si può parlare
di Dio da altri punti di vista (teodicea). Ci sono delle tracce di Dio uno e
trino sì, e ci sono delle riflessioni filosofiche; ma noi non partiamo dalle tracce e
dalle riflessioni filosofiche; ma noi partiamo dall’approccio di fede,
dalla nostra adesione di fede, rivelazione di Dio in Cristo.
Questo ha una giustificazione
duplice: (a)
giustificazione ermeneutica: nel momento che conosco qualcosa, non sono una
tabula rasa, ma c’è sempre una mia precomprensione nell’avvicinarmi a
qualcosa. Quando mi avvicino a qualcosa, lo faccio a partire della mia
precomprensione. Qui, la nostra precomprensione con cui ci avviciniamo è la
precomprensione di fede. (b)
la giustificazione teologica: non è possibile per l’uomo conoscere l’identità
trina (la trinitarietà) di Dio se Dio stesso, in Cristo, non si fosse rivelato
tale! (anche se possiamo rilevare delle tracce di questo, ma noi le capiamo
dopo la Rivelazione cristiana).
Noi crediamo in un solo Dio, Padre e
Figlio e Spirito Santo.
Questa affermazione di fede contiene
due asserti, distinti (anche se non contrapposti) ma indissolubilmente legati
fra di loro:
-
Noi crediamo in
un solo Dio: affermazione monoteistica. Noi crediamo in un Dio che è uno e unico à Monoteismo.
E
questa affermazione non è esclusiva per i cristiani; gli ebrei, i cristiani e i
musulmani credono in un solo Dio.
-
Padre e Figlio
e Spirito Santo è esclusivo
del Cristianesimo à Monoteismo trinitario.
1.1.Cosa intendere in “monoteismo”
1.1.1. All’interno della storia delle religioni
1.1.2. All’interno della filosofia greca
1.1.3. Monoteismo di Rivelazione
1.2.Cosa specifica il “monoteismo trinitario”
1.1.1. Il termine “monoteismo” non lo troviamo nella Scrittura (Antico
Testamento e Nuovo Testamento). Il termine è stato inventato all’interno dell’ambito
dello studio della storia delle religioni; ed è stato sviluppato dentro questo
ambito. La storia delle religioni non è teologia; non presuppone quella
dimensione di fede che è necessaria per fare teologia; la storia delle
religioni prescinde di questa dimensione di fede.
Allora
mettiamo in epoche il discorso di fede per trattare il monoteismo nella storia
delle religioni.
Il
termine “monoteismo” è
stato inventato da Henry Moore, filosofo di Cambridge (1614-1687), che
faceva delle ricerche sulle varie religioni antiche e anche sull’ateismo; ha
usato questo termine in
contrapposizione al “politeismo”; ma non soltanto indicando una differenza quantitativa (un
dio e più dei); ma anche proprio qualitativa per dire che questo Dio uno delle
religioni monoteistiche si caratterizza per Sua unicità, cioè è un Dio unico;
cioè non solo uno, ma uno solo. Perché se fosse soltanto quantitativamente
sarebbe possibile anche che ci siano altri in altri livelli; ma no, è unico.
Gli illuministi considerano le religioni monoteisti più
conforme ai dettame della ragione, e rappresentano il livello più alto. Es. Hume, Voltaire (“la ragione fu illuminata …”, Rousseau, e soprattutto Kant (“cieco
politeismo”). Dunque l’affermarsi
del monoteismo è il cammino della ragione che giunge ad affermare che Dio è uno
e unico.
Nel 1800, col positivismo di Comte,
Comte vede che la ragione
abbia compiuto nel corso della storia dell’umanità tre stadi: teologico (livello più
basso), metafisico,
positivo. Nello stadio teologico ci
sono 3 momenti: feticismo,
politeismo, monoteismo (livello più alto).
A metà dell’‘800, salgono i
principi filosofici di Comte. Edward Burnett Tylor (1832-1917), verifica sul campo etnografico
(tra i popoli primitivi) studiando la loro vita utilizzando criteri positivistici;
e distingue tre tappe: animismo
(dare anima agli elementi della natura, che vengono divinizzati e ci si rende
culto), politeismo
(più dei, Dio del fulcro, del mare ecc …), monoteismo (più alto livello, a cui si è
arrivato dopo una evoluzione). Quindi la sua è una concezione evoluzionistica, un’evoluzione
naturale.
Poi Wilhelm
SCHMIDT e Andrew LANG, che hanno una tesi
di monoteismo
originario; cioè non il culmine di un’evoluzione, ma il frutto di
una rivelazione naturale originaria.
Per Raffaele Pettazzoni (1883-1959),
che ha scritto la voce “monoteismo” per l’enciclopedia “tre cani”, non si può
parlare di monoteismo originario, ma il monoteismo è una rivoluzione in ambito religioso,
grazie alla quale si afferma l’unicità di Dio. Questo è legato all’intervento di un grande personaggio nella
storia della religione (Mosé, Gesù, Mohametto).
Oggi:
Le ipotesi di monoteismo
evoluzionistico sono ormai superate, perché hanno una certa precomprensione ideologica che è quella
positivistica dell’illuminismo. Anche il monoteismo originario è superato, perché studia le religioni utilizzando
come misura il monoteismo ebraico, e caricano ciò che vedono nelle tribù
attribuendogli il carattere di monoteismo; però il monoteismo è una cosa e rendere culto ad un
certo essere supremo è altra cosa; “monoteismo” è il culto per un Dio UNO e UNICO.
Oltre
tutto, il monoteismo è un
fatto molto complesso. Abbiamo nell’antichità delle espressioni monoteistiche,
molto chiare, come in
Egitto p. es. Nella storia egiziana, gli egiziani erano politeisti (Iside,
Eusiride, Ammone, Apile, …) ma c’è stato un faraone, “akènaton”, che ha fatto una riforma del
culto egiziano, nel 14° secolo a.C., e ha chiamato il culto “ATON”, e ha reso una la divinità,
e la quale figura sta nel faraone, (lui: akènaton). Le motivazioni di una tale
riforma religiosa erano motivi politici, perché abbia con lui i sacerdoti del dio Ammone
(che era il più alto nella
piramide degli dei egiziani). Tutanakamoun, che era il figlio di akènaton, ha
fatto tornare l’Egitto politeista. Insomma il monoteismo è più complesso
che quelle scuole hanno proposto.
Esaminando
l’ambito della storia delle religioni, costatiamo che possiamo parlare di monoteismo soltanto
nell’ebraismo, cristianesimo, e islam; le altre affermazioni non sono
monoteismo esplicito, cioè un Dio uno e unico. E nella storia di Israele, si
afferma in modo esplicito e chiaro il monoteismo.
1.1.2. La filosofia greca: la filosofia si pone il problema del monoteismo, e della
concezione del Dio unico che poi il cristianesimo farà suo. J. Ratzinger, in Introduzione
al Cristianesimo, dice: (cfr. dispensa) “… scelta … optando per il Dio
dei filosofi contro gli dei delle religioni”.
In
realtà, la filosofia greca
nasce criticando i dei pagani (cfr. dispensa; Senofane) e porta
l’affermazione del “Dio
uno-tutto”,
che “né per figura né per pensiero è simile agli uomini”
(Senofane).
Parmenide, in “sulla natura” (Peri
Physeos): caratteristiche dell’essere: uno e completo.
Però,
parlare di unità
non è lo stesso che parlare di unicità. Si parla di Dio uno sì, ma non
di Dio unico.
-
Platone:
distinzione tra il mondo
delle idee e il mondo del divenire. Il bene è il principio di unità per
il mondo intelligibile come il sole per il mondo sensibile. Nel dialogo “Parmenide”, è l’Uno il
principio originario (e troviamo quest’Uno nelle dottrine “non scritte”
di Platone).
-
Aristotele: …
(cfr dispense). È uno e
divino (à trascendenza di questo
motore immobile rispetto al resto degli dei).
Ma
detto questo, possiamo dire che si tratta di monoteismo? È considerato un Dio
unico? In Platone, si
parla dell’Uno e basta, è un dio uno sì, ma c’è altro. Per Aristotele, il motore
immobile è uno sì, ma ci sono tutti gli altri motori delle 47-55 sfere celesti
che sono tutte divine. Allora il motore immobile è uno sì, ma non è unico perché anche le
altre sfere sono anche divine.
L’unico
principio del cosmo ma non è l’unico dio, perché ci sono altri divini.
-
Plotino:
che pone come principio di tutto il suo sistema filosofico, l’Uno. (ha avuto un
grande effetto sul Cristianesimo). (cfr dispense su Plotino; N. Abbagnano, “Dio”
in Dizionario di Filosofia): si
trova l’idea di Dio uno ma manca l’idea di Dio unico). Allora la stessa
concezione di Plotino dell’Uno non può essere considerata un’espressione di monoteismo, perché
produce altri “profeti” che sono altri dei per Plotino à L’Uno
plotiniano non è l’unico Dio. Il Nous è anche divino per Plotino. La psyché è anche
divina.
Allora
l’unicità non è affermata
come lo afferma l’ebraismo. Solo l’affermazione veterotestamentaria
dell’assoluta trascendenza di Dio che porta strettamente legata con se
l’espressione della creazione
del mondo; cioè che Dio non è il mondo, ma crea il mondo. Per Plotino, Dio non
crea il mondo; per lui il mondo è parte del processo continuo che giunge
alla soglia del nulla. Solo nell’ebraismo che abbiamo l’affermazione che Dio è
totalmente altro dal mondo, crea il mondo. E finché Dio non si rivela nella sua alterità rispetto al
mondo (e che abbia creato il mondo) la concezione di monoteismo non si può
affermare.
Insomma, non troviamo nemmeno
nella filosofia greca l’affermazione di monoteismo.
25
ottobre 2010
Ricap.:
“Noi crediamo in un solo Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo” à monoteismo trinitario.
1.1.3. Monoteismo di Rivelazione
Nel caso di Israele, noi troviamo
monoteismo esplicito. Un monoteismo fondato sulla Rivelazione che Dio fa di se stesso al popolo di Israele
(per questo lo chiamiamo “monoteismo di Rivelazione”; e questa rivelazione
è una rivelazione nella
storia, e quindi ha una dimensione di storicità e quindi di progresso;
non avviene tutto e subito in un punto nella storia, ma attraverso tutta la
storia del popolo di Israele. Quella auto-comunicazione fonda PRIMA l’esperienza da parte del
popolo e DOPO l’affermazione teorica e formale dell’unicità di Dio. E
dall’esperienza alla formulazione teorica e formale, c’è un passo. Fino alla Rivelazione
abramitica, noi parliamo di una “esperienza” dell’unicità di Dio. Il Signore
che istaura un’alleanza nella storia con il suo popolo; e attraverso questa
alleanza si manifesta come l’unico vero Dio. Dentro questo ambito (della storia
e del rapporto di dialogo di alleanza che c’è tra Dio e il popolo), il popolo
di Israele sperimenta l’alterità di Dio rispetto all’uomo e al mondo stesso; e
nello stesso tempo, la sua vicinanza. Questo Dio, che è assolutamente altro,
stabilisce un rapporto di vicinanza con il suo popolo. (àTrascendenza e prossimità). Nello stesso tempo, la signoria di Dio sul mondo, che è nell’idea di creazione del mondo
(prima e altrove non c’era l’idea di creazione; il demiurgo di Platone non crea
il mondo, ma il mondo c’è già; perché nell’idea di creazione, deve essere
premessa l’alterità di Dio rispetto al mondo).
Allora il monoteismo di rivelazione (o monoteismo
abramitico, perché è costituito dalla rivelazione fatta ad Abramo
nella fede) è il
monoteismo che caratterizza la fede ebraico-cristiana (e in un certo
senso anche quella islamica) perché tutti iniziano nella vocazione di Abramo.
Il rapporto del Cristianesimo con l’ebraismo e l’islam è diverso; con
l’ebraismo, il Cristianesimo ha un più stretto rapporto (perché porta una
novità nella continuità); diverso con l’Islam.
1.1.3.1. Monoteismo e Ragione:
è
possibile fare un’affermazione razionale rigorosa e certa di monoteismo?!
La religione cristiana ha affermato di
sì; basandosi sui due testi Sap 13:1-9 e Rm 1:20 (a partire dalla considerazione della
creazione, delle opere create da Dio, è possibile considerare le perfezioni
invisibili di Dio, come la sua eterna potenza e divinità). Tale affermazione si
è confermata in DEI
FILIUS del
Concilio Vaticano I, appoggiandosi su ciò che ha insegnato San Tommaso
(Dio può essere riconosciuto dalla creazione, e riprende la lettera ai romani
…, “ma tuttavia è piaciuta alla Sua Volontà di rivelarsi al genere umano …”
come nel testo della lettera ai ebrei: “alla fine ci ha parlato con il suo
Figlio”…”).
Questa
costituzione ci dice che l’uomo
è “CAPAX DEI”, cioè capace di Dio, capace di raggiungere a colui
che l’ha creato.
Quindi
c’è nell’uomo questa capacità di percepire, di riconoscere e di affermare
l’esistenza di Dio in quanto principio e fine ultimo del mondo creato;
riconoscere l’esistenza e l’unicità di questo Dio.
Dice
Tommaso: “è possibile a pochi, e dopo
lungo tempo, per arrivare a riconoscere con la ragione l’esistenza e
l’unicità di Dio; e comunque è una conoscenza commista e ha in sé tanti errori”.
Quindi saremmo potuti arrivare alla conoscenza di Dio ma con tutti questi
limiti. Il testo della DEI
FILIUS dice allora: Ecco
perché Dio, nella sua bontà, ha voluto rivelarsi, affinché tutti
gli uomini possano facilmente e senza errore, riconoscerlo e giungere
alla Salvezza. Quindi riprende ciò che dice Tommaso in forma inversa (pochi à tutti; lungo tempo à facilmente; con errori à senza errori).
Teoricamente,
è possibile all’uomo giungere a riconoscere Dio con la ragione (perlomeno la
sua esistenza e unicità), però storicamente l’uomo si è avvicinato alla
conoscenza (vediamo la riflessione filosofica speculativa che è frutto del
pensiero dell’uomo, l’uomo si è avvicinato; ma è soltanto dopo che Dio nella
sua bontà si è rivelato gratuitamente all’uomo che l’uomo lo ha riconosciuto
…). Storicamente, l’uomo
ha fatto l’esperienza di Dio poi è arrivato ad affermare che Dio è l’IPSUM
ESSE SUBSISTENS.
Dice
uno studioso di Tommaso: DI
FATTO, l’intelligenza umana, risanata e purificata dalla Rivelazione
divina (à
interazione), in questa interazione, lo spirito umano raggiunge a poter riconoscere ciò che è DI
DIRITTO (di diritto riconoscerlo, ma di fatto risanata dalla
rivelazione), ed affermare che Dio è l’IPSUM ESSE SUBSISTENS.
1.1.3.2. Critica al monoteismo
Critica neopagana al monoteismo (dalla metà dell’‘800 e in poi). Mentre la prima parte dell’‘800
considera il monoteismo frutto di un’evoluzione oppure la seconda metà che
considera il monoteismo originario …, vengono le critiche al monoteismo come
negazione dell’alterità, della pluralità, … monoteismo come “violenza”, ecc …
Nelle
“Memorie di Adriano”
di M. Yourcenar, scritti che mettono sulla bocca dell’imperatore Adriano le
parole: “nessun popolo, fuorché Israele, ha l’arroganza di racchiudere la
verità tutt’intera nei limiti ristretti di un’unica concezione divina,
insultando così la molteplicità del Dio che tutto contiene …(cfr. dispensa
p. 21)”; considerazione del monoteismo come fonte di odio, di visione patriarcale maschilista
dell’autorità … .
Nietzsche: “due millenni e nessun
dio nuovo e nessuna novità se non quel pietoso ‘monotono-teismo’
cristiano” …. Sembra una caricatura, specialmente
perché Nietzsche sta criticando il monoteismo cristiano, e proprio nel Cristianesimo
si dà la novità della dinamica di Carità nel Dio cristiano, la “perichoresis”
(danzare intorno).
1.2. Il monoteismo trinitario
La
Rivelazione ha il suo centro in Gesù Cristo. La Rivelazione di tutta la storia
trova il suo compimento in Gesù Cristo; c’è una novità (anche se nella
continuità) rispetto alla fede ebraica. L’unico Dio (che si è rivelato al
popolo di Israele), al culmine di questo dinamismo di Rivelazione, si comunica,
si rivela, in Cristo, come Padre e Figlio e Spirito Santo! Cristo rimane il
centro della nostra conoscenza della trinitarietà di Dio.
Sul
fondamento della rivelazione veterotestamentaria, Gesù Cristo si manifesta come
Figlio dell’ABBÀ, nello Spirito Santo. È in Cristo che noi facciamo la
conoscenza del Padre del Figlio che ci trasmette lo Spirito Santo. Il Figlio ci
rivela il volto del Padre nello Spirito, e il Padre illumina il volto di Cristo
come il suo Figlio, nello Spirito.
N.B.:
Cristologia e Trinitaria si rimandano l’una all’altra. Senza Cristo non avremmo
conosciuto la Trinità e senza Trinità non c’è la caratterietà figliale di
Cristo stesso.
Questa
Rivelazione avviene attraverso le parole, la prassi, l’annuncio, la
testimonianza, le azioni che Gesù compie nella sua esistenza terrena; insomma
arriva nella sua persona! La Rivelazione ci avviene attraverso la
persona concreta stessa di Gesù, fino a giungere a quell’evento culminante
della sua esistenza terrena, che è l’evento pasquale (N.B.: Evento pasquale
= Passione, morte, Risurrezione ed effusione dello Spirito).
La
DEI VERBUM §4: “… lì compie e completa la Rivelazione”.
L’evento
pasquale è il culmine di Rivelazione e punto di partenza della nostra
conoscenza di Dio e della sua unicità.
Quindi
Dio non è solo il Dio uno e unico, e non è soltanto il Dio dell’alleanza (come
per Israele), ma è il Dio Cristo che ci Rivela il Padre e che muore e risorge e
ci dona lo Spirito.
1Gv
4: “Dio è AGAPE”! Una tale affermazione ci dà cosa è Dio in sé stesso; il quale
è uno e unico e il quale è AGAPE. Ciò significa dire che Dio è dedizione
incondizionata, inesauribile e continua di sé stesso. La dinamica della vita
intra-trinitaria è caratterizzata in questo. Abbiamo uno sguardo di ciò che è
la vita intima di Dio in sé.
Questo
è stato accessibile all’uomo solo grazie a e in virtù della Rivelazione che Dio
ha fatto di sé stesso e particolarmente nell’evento pasquale.
Catechismo
della Chiesa Cattolica §234: “Il mistero della Santissima Trinità … è la sorgente
di tutti gli altri misteri della fede …”.
1.2.1. Concetto di monoteismo trinitario:
Siccome
il termine “monoteismo” è venuto in contrapposizione a “politeismo”, abbiamo
avuto bisogno di specificare con un genitivo oggettivo che cosa sia il
monoteismo (à“monoteismo
di rivelazione” o “monoteismo abramitico”), e poi dentro il monoteismo di
rivelazione, è anche “monoteismo trinitario”.
Dentro
il monoteismo, esso è caratterizzato da due aspetti: Dio UNO e UNICO. Sono due
questi concetti, e c’è un rapporto tra di loro.
Questo
rapporto varia a secondo se noi lo consideriamo da un punto di vista storico
(storico-salvifico) (1) oppure dal punto di vista teoretico (2).
(1):
Abramo e il popolo di Israele riconoscono Dio PRIMA come UNICO e POI come UNO.
Allora nella dinamica di rivelazione nella storia di Israele, è riconosciuta
PRIMA l’unicità del Dio; ciò che Israele ha un unico Dio, escludendo gli altri
dei.
Nel
canto di Israele quando uscirono dall’Egitto, dicono che i dei degli egiziani
si sono dimostrati vani e nulla. Adonai è l’unico Dio di Israele, per Israele,
perché gli altri non valgono niente. POI, in conseguenza, viene espressa quella
che è l’unità di Dio.
(2):
Nel punto di vista teoretico (astratto), la nozione di unicità presuppone la nozione
di unità. Si parla di un unico presupponendo che è uno.
Ma
questo concetto di unità non sta lì teorico, immutabile, dopo la Rivelazione.
La Rivelazione ci fa ripensare quest’unità.
Se
in Es 3:14 Dio si rivela come “io sono”; quel dato non è che rimane come dato
una volta per tutte e lasciato e che la Rivelazione cristiana lascia immutato;
ma Gesù riprende l’“io sono” e lo attribuisce a sé stesso. E poi in Gv 13:30
Gesù afferma: “Io e il Padre siamo uno”. Quindi il dato poi trova una sua
ulteriore concezione in Gesù Cristo.
05 novembre 2010
Quando Gesù dice: “io e il Padre siamo uno”, questo spinge a
ripensare la nozione di “unità” di Dio. Diventa difficile pensare l’unità come
un dato brevio immodificato e immodificabile, a cui la trinitarietà di Dio si
aggiunge come un “optional”. La rivelazione della trinità di Dio spinge ad un
ripensamento della stessa unità divina.
Abbiamo parlato del SOGGETTO. Adesso parliamo di: LUOGO e
CONTESTO.
Il Luogo è evidente;
Dio ci è rivelato nella Chiesa. La Chiesa è il luogo in cui compiamo la nostra
riflessione, perché la Chiesa è il luogo della presenza di Cristo nella storia.
Cristo ci fa presente nella Parola di Dio nella Scrittura
trasmessa vivente a noi dalla Tradizione della Chiesa ed interpretata
autorevolmente dal Magistero della Chiesa stessa, e manifestata nei Sacramenti
e illuminata grazie ai carismi dello Spirito Santo e alle testimonianze
dei credenti.
Quindi non semplicemente un ricordo di un passato ma partecipazione
reale attuale della presenza reale di Cristo nella Chiesa.
Tale luogo, cioè nostro essere Chiesa, non avviene nella luna; noi
viviamo in un contesto storico; e fare teologia oggi non è come fare teologia
nel 5° o nel 15° secolo. Siamo interpellati dal contesto in cui viviamo. La Lumen
Gentium §1 ci insegna che la Chiesa si sente realmente e intimamente
solidale con il genere umano e con la sua storia … (dispensa p. 28).
Però non sarebbe in linea della realtà stessa della Chiesa prendere
una contrapposizione assoluta rispetto al contesto in cui ci troviamo, e
dall’altra parte, non si può avere un atteggiamento di “acritica” … Infine, il
nostro atteggiamento è il discernimento; siamo chiamati a discernere, ma non
solo sul contesto ma anche su noi stessi (perché in realtà anche noi siamo
immersi).
Gaudium Et Spes (GS) §3: … non
siamo chiamati a condannare … bisogna scrutare i segni dei tempi ed
interpretarli …
GS §4: … mutamenti della società che ci interpellano e chiedono di
essere scrutati e di avere su di loro un discernimento.
P. es. la globalizzazione diventa l’elemento comune in tutto il
mondo, e dentro la globalizzazione per quel che ci riguarda, bisogna prendere
in considerazione 3 sfide:
a.
Il fenomeno che
continua a persistere: il non-credere o l’indifferenza religiosa.
b.
Il ritorno del
sacro, che convive con l’altro aspetto.
c.
Il problema del
pluralismo religioso, che assume una nuova forma in quest’orizzonte del mondo
globalizzato.
La globalizzazione consiste in:
Si è prodotto questo spazio per la prima volta dove le differenti
identità entrano in rapporto di reciproca visibilità e comunicazione. E questo
è irreversibile! Questo avviene attraverso due canali: l’elemento tecnologico e
il discorso economico della globalizzazione in economia e produzione.
Queste 3 sfide interpellano la nostra riflessione sul Dio uno e
trino.
a.
Il fenomeno
della non-credenza e dell’indifferenza religiosa:
È un fenomeno tipico della modernità e non della contemporaneità,
fenomeno dell’ateismo e della non-credenza. Nato all’interno di società
cristiane, e poi dall’Europa e dall’Occidente, questa cultura si è diffusa nel
mondo. Fenomeno complesso che ha tanti aspetti e tante dinamiche, però può
essere riportato in 3 istanze:
-
La volontà di
liberarsi di una sorta di tutela religiosa. Kant, nel “che cos’è illuminismo”,
dice che l’illuminismo è quest’illuminazione della ragione che permette
all’uomo di uscire dallo stato di minorità, in cui l’uomo è stato tenuto dalla
religione.
-
Liberarsi dalla
religione significa liberarsi da quella carica di conflittualità che la
religione ha causato; religione causa di conflitto, di violenza, di
intolleranza, di esclusivismo intollerante.
-
La volontà di
creare uno spazio etico che superi le differenze tra varie religioni. Spazio
etico basato sulla razionalità e non sulle religioni, e che garantisca i propri
diritti e le proprie identità a prescindere dalle religioni.
Però da una parte non si può sottovalutare il fatto che,
specialmente dalla modernità in avanti (ma anche dal tardo-medioevo), la
teologia ha vissuto in una sorta di oblio del volto trinitario di Dio rivelato
in Cristo, nella stessa riflessione teologica cristiana. Cioè è diventata una
disciplina più chiusa su se stessa, e irrilevante, ripetitiva. Nello stesso
tempo, non dimentichiamoci che oggi il cammino della ragione sempre più
autonoma è arrivata essa stessa ad una crisi; il cammino della modernità è
arrivato esso stesso ad un’esplosione. La ragione stessa, è diventata causa
(come hanno considerato prima la religione, ma anche peggio) di violenza, di
conflitti ecc …
b.
Tutto questo
anche se oggi, c’è un ritorno del sacro, un nuovo sacro, in diverse forme.
Il ritorno del sacro, non significa un ritorno a delle religioni
positive, neppure un ritorno al Cristianesimo. Porta con sé diversi problemi;
perché c’è quel svolgersi a delle religioni autonome e dei supermercati del
sacro, dove l’uomo va a prendere quello che gli piace; tutto questo ha portato
ad un relativismo, e delle credenze prive di una reale consistenza e non
aiutano una crescita dell’uomo stesso.
Ecco allora la necessità di riflettere sulla rivelazione che Dio ha
dato di sé stesso …
Queste richieste di religiosità hanno bisogno di essere purificate.
c.
L’ultima
considerazione è quella del pluralismo religioso:
Non è nuova, da sempre si sapeva che ci sono tante religioni. Oggi,
queste religioni sono diventate contemporanee, sia geograficamente sia storicamente.
Perché prima queste religioni convivevano in una spartizione geografica nel mondo,
quasi impermeabili l’una all’altra. Oggi non è più distinguibile, non c’è più
quella distinzione geografica e nemmeno quella storica. Dal nostro punto di
vista, questo comporta un rischio grande, quello del sincretismo e del
relativismo religioso. Quando mettiamo affianco tutte le religioni e diciamo
che sono tutte vie che portano allo stesso Dio. Arrivare ad un relativismo
religioso per cui una vale l’altra, o ad un sincretismo per cui si portano
insieme parti di questa e di quella religione.
Allora: SOGGETTO – LUOGO e CONTESTO. Adesso: il METODO:
Il metodo è importante in qualsiasi disciplina teologica in
particolare, e soprattutto nella teologia trinitaria che ha subito un
cambiamento radicale negli ultimi 50 anni dal punto di vista metodologico.
È necessario ripercorrere le diverse tappe che hanno condotto a
quel cambiamento.
-
La struttura
della riflessione teologica sul Dio uno e trino fino agli anni ’50-’60: Impostazione
Manualistica.
·
(Tre spinte nel
corso del ‘900): Karl Barth (in ambito protestante) + Concilio Vaticano
II.
·
Negli anni ’70
in ambito cattolico: Karl Rahner.
·
Negli anni ’80:
teologie dell’evento pasquale.
-
Impostazione
metodologica che verrà utilizzata.
L’impostazione manualistica:
Fino agli anni ’60, nella nostra università, non c’era un corso
“teologia trinitaria”, ma due corsi (“trattati”) distinti: un trattato che si
chiama “De Deo Uno” e un altro trattato distinto e successivo rispetto
al precedente, “De Deo Trino”; una distinzione (*). (Dopo l’AEterni
Patris di Leone XIII, 1879, e la riproposizione neoscolastica).
Quest’impostazione (*) a fatto risalire alla riflessione di Tommaso
D’Aquino nella sua SUMMA. Però non è vero, non si può attribuire questa
distinzione a San Tommaso.
Fino al 1500, il testo base per l’insegnamento della teologia era:
le sentenze di Pietro Lombardo, e poi il commento di San Tommaso sulle sentenze
di Pietro Lombardo. E questa distinzione non c’era né in Pietro Lombardo né nel
commento di Tommaso. Poi dopo il 1500, si comincia ad usare la SUMMA di
Tommaso. E nella SUMMA, nel prologo della quaestio 2°, dice Tommaso: “prima
vedremo le cose che riguardano l’essenza divina, poi la distinzione delle
persone, e terzo la processione delle creature da Lui”. 3 parti.
Inoltre, Tommaso, formalmente e di fatto, non fa questa distinzione
(*) perché …, e né dal punto di vista formale c’è questa distinzione (*),
perché la SUMMA è un’opera di teologia dalla prima all’ultima questione, che ha
per oggetto la rivelazione che Dio fa di se stesso, anche se alcune cose
fossero raggiungibili dalla ragione con tutto il suo limite ecc … .
Insomma, è una lettura fatta dalla modernità, della SUMMA di
Tommaso, che ha portato a questa distinzione (*).
De Deo Uno:
Trattato in cui venivano esposti i temi dell’esistenza di Dio e poi
dell’essenza e degli attributi divini di Dio nella sua unità; attraverso delle
riflessioni filosofiche. Trattazione metafisica attraverso la quale veniva
dimostrato che Dio esiste, e poi che è uno, quello che si può dire dell’essenza
e degli attributi (bontà, ecc …), a prescindere dall’esistenza delle persone.
Dopo che si fa questa riflessione razionale che porta a che Dio è l’Ipsum
Esse Subsistens, dice il De Deo Uno che tali affermazioni sono
confermate dalla rivelazione veterotestamentaria (letta in chiave metafisica).
De Deo Trino: Si
tratta della trinità delle persone divine. Evidentemente il punto di partenza è
costituito dalla Rivelazione, perché se Dio non si è rivelato tale in Gesù
Cristo, l’uomo non avrebbe saputo una tale verità. Rivelazione
veterotestamentaria considerata in maniera dottrinale; come un corpo di
dottrine (manca la dimensione storica). Si parte dalla Rivelazione del Padre e
Figlio e Spirito Santo nel Nuovo Testamento. E il fine del trattato è mostrare
che questa Rivelazione nel Nuovo Testamento non viene in contraddizione ma
invece in completa conformità a quanto dimostrato nel De Deo Uno. Un
volta mostrata la non-contraddittorietà, si va alla processione in Dio ecc … .
Si studiava nei metodi di Garrigou-Lagrange, prima del Concilio
Vaticano I, che scriveva commentari della prima parte della SUMMA, ecc … (cfr.
Dispensa nota 61 a p.36)
C’era una tensione fra i due trattati! Nel DDU (De Deo Uno) si
parte dalla ragione per arrivare alla fede, nel DDT (De Deo Trino) si parte
dalla fede per arrivare in qualche modo alla ragione. C’è un conflitto tra le
due, una separazione netta, che non proviene dalla summa di Tommaso,
perché le sue considerazioni erano sempre su Dio, e Dio rivelato in Cristo.
La separazione netta tra le due, porta a che la Rivelazione
trinitaria di Dio viene svilita, perché il De Deo Trino non fa altro che
non essere contraddittorio con quanto già detto nel De Deo Uno, e quindi
la fede che viene confermare ciò a cui la ragione ha già giunto; il DDT non cambia
niente nel DDU.
Ecco quello che abbiamo detto che la teologia trinitaria diventa
sempre di più circoscritta e marginale.
Infine, sono allora le categorie della modernità e non Tommaso, che
hanno portato a questa distinzione; è la separazione moderna della ragione e
della fede che in Tommaso non c’è. Perché in Tommaso, l’unico oggetto formale è
Dio, l’impostazione è continuamente teologica.
Secondo Tommaso, l’uomo non potrà mai conoscere il QUID EST di Dio,
l’essenza di Dio, il “che cosa è” Dio. E allora quando diciamo “essenza divina”
non intendiamo questo, ma intendiamo l’essenza in generale. Infatti, ci sono
diversi sensi della parola “essenza” anche nelle diverse parti della summa
stessa. Considera l’essenza divina che coincide con le persone divine e non è
qualcosa di previo rispetto alle persone.
Dell’essenza divina non si può avere una conoscenza positiva, ma
una conoscenza negativa, cioè ciò che Dio NON è (Dio è eterno; NON è temporale.
Dio è infinito; NON è finito!). Via negationis.
12 novembre 2010
Avevamo parlato della distinzione manualistica tra De Deo Uno
(DDU) e De Deo Trino (DDT).
L’impostazione di Karl Barth,
che possiamo chiamarla “Cristocentrismo della Rivelazione”.
Abbiamo un rinnovamento che riguarda per primo il concetto di
Rivelazione. Perché il DDT considera la Rivelazione dal punto di vista
dottrinale, come un corpo di dottrine. Con Barth, abbiamo la rimessa al centro
della nozione di Rivelazione, intesa però come evento. L’evento della
manifestazione che Dio fa di se stesso, in Gesù Cristo. Visione
intellettualistica della Rivelazione come evento; rivelazione storica che ha il
suo culmine in Gesù Cristo.
Per Barth, la Rivelazione intesa in questo senso, diventa il
criterio epistemologico della teologia. Una delle opere fondamentale di Barth è
“Dogmatica Ecclesiale” (1932). Il primo capitolo del primo volume, Barth
parla della Rivelazione, e nel secondo capitolo, quando comincia a trattare dei
contenuti, l’imposizione del mistero di Dio Uno e Trino.
Barth è un riformato protestante, e la distinzione manualistica tra
DDU e DDT è cattolica. Il punto di riferimento di Barth è Lutero, e Lutero
aveva fondato la sua teologia, prendendo San Paolo (invece del filo Giovanneo),
sulla croce; la sua teologia è “THEOLOGIA CRUCIS”.
Lutero, nella tesi §19, dice: “non può dirsi veramente teologo,
colui che conosce le perfezioni invisibili di Dio a partire delle cose
naturali”. (Svalutazione della “analogia entis”).
E nella tesi §20, Lutero dice: “l’autentico teologo è colui che
parte dalla Rivelazione di Dio, la quale ha come centro la passione e la
croce”.
Barth riprende la THEOLOGIA CRUCIS di Lutero, e afferma che noi
possiamo conoscere Dio il Signore solo attraverso la sua Rivelazione, solo
perché e in quanto Lui si è rivelato. Questo è il principio epistemologico di
tutta la teologia barthiana. C’è solo una via discendente che arriva da Dio
all’uomo. Solo attraverso questa via discendente noi abbiamo accesso a Dio.
Questa Rivelazione trova il suo culmine in Gesù Cristo.
Ora, tale Rivelazione è una che è immediatamente ritmata da un
ritmo trinitario. Dio si rivela immediatamente come trino, in Cristo. Quindi
una dottrina della Rivelazione non può che iniziare dalla dottrina della
Trinità.
Citazione di Barth alla p.41 della dispensa.
Non c’è una riflessione razionale su Dio, confermata dalla
Rivelazione, con la quale poi viene confrontato il DDT. Si parte immediatamente
dalla Rivelazione, e si parte immediatamente dalla Trinità, dice “… la
dottrina trinitaria che specifica dall’inizio il carattere
cristiano della dottrina di Dio e del concetto di Rivelazione …”. Quindi
tutta la Rivelazione, contenutisticamente, coincide con la dottrina della
Trinità.
L’“unico soggetto divino” si comunica (si
rivela) come rivelato (il Padre), rivelatore (Gesù)
e tale rivelazione è attraverso quell’atto nello Spirito Santo.
La rivelazione avviene trinitariamente, e contenutisticamente coincide con la
Trinità stessa.
Dio si rivela trinitariamente: Trinità nell’Unità, Unità nella
Trinità, Triunità. Non si separa mai (per Barth) unità e trinità!
Barth dà un contributo importante alla riflessione teologica
trinitaria, perché dà al centro la Rivelazione …
Però c’è un aspetto debole del pensiero di Barth, che è quella
critica senza appello all’analogia entis. Cioè la negazione all’uomo,
fuori della Rivelazione, alcun accesso a Dio; la negazione di quella via
ascendente. Ma l’uomo, prima della rivelazione ebraico-cristiana, ha avuto
un’intuizione di Dio. Quindi è eccessivo fare questa negazione all’uomo.
Allora: La Rivelazione della Salvezza viene come il centro della
Rivelazione trinitaria. E Cristo ci ha rivelato Dio nella sua unità e trinità.
Ecco insomma il “Cristocentrismo della Rivelazione”.
Prima spunta: Tutto
questo ha portato dal punto di vista cattolico a riconsiderare il rapporto tra
DDU e DDT.
Da parte cattolica, abbiamo il docente di Teologia M.
Schmaus, che qualche anno dopo Barth, scrive “la dogmatica
cattolica” (rispetto alla “dogmatica ecclesiale” di Barth J); e parte dal punto di superare quel pericolo di considerare il
DDT come un’aggiunta complementare al discorso sull’unità di Dio. Schmaus
avverte di questo pericolo già dal 1938. Dice: “Vorrei mutare leggermente la
ripartizione usuale dei trattati di Dio Uno e Dio Trino”. Avendo come guida
Sant’Agostino, prendendo l’esempio di Agostino, introduce questa sua “leggera”
modifica.
Propone di repartire la materia in tre parti:
1.
Autorivelazione
del Dio Uno e Trino circa la sua Esistenza.
2.
Autorivelazione
del Dio Uno e Trino circa la sua Personalità (distinzione delle
persone).
3.
Autorivelazione
del Dio Uno e Trino circa la sua pienezza di vita (la vita di
Dio).
Non è leggera questa modifica. Abbiamo una cosa totalmente diversa
dall’impostazione manualistica del DDU e DDT. Quest’impostazione è più
rispondente all’intento originale di Tommaso nella Summa (Tommaso infatti aveva
fatto tre parti: per quanto riguarda il suo essere, poi per quanto riguarda che
è uno, poi la distinzione delle persone e l’agire divino).
Schmaus scrisse questo nel 1938; ma dopo il 1938, fino agli anni ‘60,
continuava l’impostazione manualistica del DDU e DDT, fino al Concilio Vaticano
II, dove, con la DEI VERBUM, abbiamo un’autorevole descrizione trinitaria di
Dio in termini storico-salvifici … (§2, §3 e §4 della DEI VERBUM).
Allora, questo dà la spinta a riflettere su Dio a partire da Gesù,
mentre per secoli, si era rischiato a riflettere su Gesù a partire da Dio. Cioè
si partiva da una nozione di Dio raggiungibile anche dalla ragione, e poi si
considerava Gesù a partire di questa visione. Rispetto alla posizione di vedere
Dio a partire da Gesù (in cui Barth è campione). Noi dobbiamo mantenere
l’equilibrio tra le due posizioni.
Un altro testo della Commissione Teologica Internazionale (che è un organismo formato da teologi da tutto il mondo, nominati
dal Papa, legata alla Congregazione per la dottrina della fede, e il suo presidente
è il segretario della congregazione. Si riuniscono quasi una volta all’anno a
Roma, e discutono di alcuni temi richiesti dal Papa. Non ha un’autorevolezza
magisteriale, ma ha un’autorevolezza in quanto è una commissione legata al Papa
…), “Teologia, Cristologia, Antropologia” del 1982 (Enchiridion
Vaticanum 8, §404-461).
La commissione si chiede in questo documento quale rapporto esiste
tra l’evento di Gesù Cristo e la Rivelazione di Dio, quindi tra le due vie
ascendente (dall’uomo verso Dio) e discendente (da Dio verso l’uomo); quale
rapporto c’è tra queste due vie. Dice il documento: Bisogna evitare i pericoli
della confusione e della separazione. E dice: “Quando si crea confusione,
ci si suppone che al di fuori di Gesù Cristo, il nome di Dio non abbia alcun
senso … negheremmo così il desiderio naturale di Dio nell’uomo, e negheremmo il
cammino storico in cui gi uomini hanno scoperto una prenozione di Dio (cfr. Rm
1:20)”. Invece, quando c’è la separazione, essa porta spesso a supporre che la
sapienza di Dio elaborata dal pensiero filosofico basti per conoscere Dio … si
diminuisce il valore dell’evento Cristo”. Siamo quindi invitati ad evitare
questi due estremi.
Bisogna partire dall’universale precomprensione antropologica del
mistero di Dio; c’è una precognizione nell’uomo di Dio, un desiderio nell’uomo
di conoscere Dio, questo essere “CAPAX DEI”. Partendo da questa presupposizione
antropologica, e dalla Rivelazione di Dio nell’Antico Testamento, siamo
chiamati a muoverci alla Rivelazione cristologica del Padre e Figlio e Spirito
Santo (la quale supera il desiderio naturale umano di Dio) che ci permette di
conoscere l’essere e l’essere unico e trino di Dio. Avremmo quindi un’unica
riflessione (ecco perché un solo corso di teologia trinitaria) che metta al
centro la Rivelazione cristologica intesa come compimento e superamento
(compimento che supera le attese dell’uomo), e collochi strettamente e
intimamente la conoscenza dell’unità e della trinità di Dio (che non solo
compie il bisogno che l’uomo ha di Dio ma dà una risposta che va oltre). Cristo
non è venuto solo per rispondere ad una domanda che c’è nell’uomo. Sarebbe troppo
poco. Ma invece, compiere la domanda e risignificarla!
Una seconda spinta,
sempre nella casa cattolica, fatta dal teologo Karl RAHNER, che
elabora quello che viene chiamato l’assioma fondamentale:
N.B.
bibliografica:
L’articolo di Rahner si trova in Mysterium
Salutis, che è una sorta di nuova summa di tutto il sapere teologico
dopo il Concilio Vaticano II.
L’articolo si trova nel Vol. III
della traduzione italiana del 1969, pp.404-507 (la versione tedesca è del
1967).
C’è anche una ristampa dell’articolo
in un libro: “Rahner. La Trinità”.
Il titolo dell’articolo di Rahner è: “Il Dio trino come
fondamento originario e trascendente della storia della Salvezza”.
Parte da una distinzione tra ciò che fanno i padri greci e ciò che
fanno i padri latini.
La prospettiva dei Padri Greci è quella di partire dall’Oikonomia
per arrivare alla Theologhia. Noi non possiamo conoscere quello che è
Dio in se stesso se non a partire dal discorso della storia della salvezza (oikonomia),
questo da una parte, e dall’altra parte per porre al centro la storia della
Salvezza (e non il DDU e DDT).
E pone l’assioma fondamentale (il Grundaxiom):
“La trinità economica è la
trinità immanente, e vice-versa”.
(SAPERE A MEMORIA QUEST’ASSIOMA!!!!!!)
Dice: “Che i cristiani, nonostante la loro esatta professione
della Trinità, siano quasi solo dei “monoteisti” …”. (p. 45 della
dispensa!)
Cioè la Trinità è affermata, ma di fatto non entra nella
riflessione teologica (aldilà della riflessione trinitaria stessa) e nemmeno a
livello della pietà popolare. Si dice che “Dio si è fatto uomo”. Non si dice
che “il Figlio si sia incarnato”. Per Rahner questo è un indizio che non entra
in quello che è la pietà del cuore e anche della mente. È il Figlio che si è incarnato,
e però si dice Dio si è incarnato; insomma la riflessione trinitaria a questo
livello è un po’ offuscata.
L’altro aspetto è che: la missione di Gesù, che culmina nell’evento
pasquale, è stata sempre considerata in una prospettiva soteriologica (cioè per
salvarci), ma non sempre in una prospettiva rivelativa (cioè per rivelarci il
volto di Dio).
Questi due aspetti, per Rahner, sono indizi che la riflessione
trinitaria di Dio ha avuto un incidenza sempre meno rilevante.
Adesso, non dal punto di vista pratico, ma dal punto di vista più
teologico, Rahner vede che questa irrilevanza viene espressa in due tesi
teologiche, abbastanza comuni ai suoi tempi, che sono:
-
Che se Dio
avesse voluto, una qualunque delle tre persone divine, si sarebbe potuto incarnare.
(N.B.: Rahner attribuisce questa riflessione a Sant’Agostino, che non
l’ha mai scritta da nessuna parte; perché infatti chi l’ha scritta è San
Tommaso; ma Rahner l’ha attribuita a Agostino perché in quel tempo non si
poteva opporsi o parlare contro qualcosa di Tommaso, e poi a Rahner non
interessava molto chi ha detto la tesi piuttosto che la tesi stessa).
Da
questa tesi, emerge che la trinitarietà di Dio è poco rilevante, e che se si
potessero incarnare lo stesso, significa che di per sé l’uno vale l’altro …
però il fatto che il Figlio si è incarnato ha un significato e ci rivela
qualcosa di chi è Dio in se stesso. E poi, un altro problema è che si parte, in
una teologia così, da ipotesi irreali e non a partire dalla Sua Rivelazione e a
partire dall’oikonomia. Però si deve partire dall’oikonomia per
arrivare alla teologia.
Comunque,
Tommaso non è che dice soltanto questo, ma poi altrove Tommaso afferma una
posizione diversa rispetto a quella nella Summa, e dice che comunque
sarebbe conveniente che il Figlio si incarnasse e non un’altra persona.
-
Che “le
opere della trinità ad extra sono indivise”: un'altro assioma della
teologia, attribuito anche ad Agostino, ma non è vero nella sua materialità, e
così come è formalmente espressa nella teologia medievale; però esiste in
Agostino l’idea.
Le
opere della Trinità ad extra (al di fuori, cioè l’incarnazione e la
storia della salvezza).
Questo
assioma è perché c’è un altro assioma della teologia che riguarda la trinità AD
INTRA: “in Dio, tutto è uno dove non c’è opposizione di relazione”;
questa è una tesi di Anselmo di Aosta, ma non soltanto l’opinione sua, perché è
stata recepita dal concilio di Firenze (Denzinger §1330). Questa tesi
sottolinea l’unità di Dio, in Dio tutto è uno; ed è una tesi corretta (è magisteriale
infatti J).
Ora
a livello economico, cosa vuol dire che sono indivise? Cioè che, nelle opere
dell’economia, è piuttosto l’azione di Dio nella sua unità che non nella
distinzione delle persone.
Il
punto che Rahner vuole mettere in evidenza è allora che: la storia della
salvezza ci comunica non solo l’unità dell’azione di Dio, ma anche la
specificità e la singolarità delle missioni di ogni persona delle tre persone
divine. La storia della salvezza ci dice il distinto agire del Padre e del
Figlio e dello Spirito Santo pur nell’unità dell’agire salvifico.
Ecco
allora perché Rahner propone l’economia come unica via di accesso alla
conoscenza del Dio trinitario. Non si può avere una conoscenza astratta del Dio
trinitario, che prescinde dall’agire distinto delle tre persone nella storia
della salvezza.
Dio
si rivela nella storia della salvezza come Trino, perché in sé è Trino. E il
fatto che la teologia abbia avuto una via non quella della storia della
salvezza, questo ha infatti portato a tesi simili a quelle due che abbiamo
visto sopra. Così quindi se io parto da ipotesi irreali che non si fondano
sulla storia della salvezza, arrivo a tesi come quelle.
Dio
si comporta con noi in modo trinitario (nella storia della Salvezza ci si
rivela trinitariamente), (e N.B. che le opere ad extra di Dio sono in
modo libero e non necessario) ed è questa stessa la sua realtà immanente.
19 novembre 2010
(Avevamo visto le due spinte, di Barth e di Rahner).
L’assioma fondamentale di Rahner: “La Trinità economica è la
Trinità immanente, e viceversa”:
La Trinità che si rivela nella storia della salvezza è la Trinità
in sé stessa, per cui, Dio si rivela per quello che è. Dio si rivela come Padre
Figlio e Spirito Santo perché è in sé stesso Padre e Figlio e Spirito Santo. La
Rivelazione che Dio ci fa di stesso, coincide con l’identità di quello che è
Dio in se stesso.
Se Dio si rivela gratuitamente e liberamente nella storia di
salvezza per quello che è, l’unica via per poter fare affermazioni su quello
che Dio è in sé stesso è di partire di ciò che ci ha rivelato nella storia
della salvezza. Bisogna partire dall’oikonomia per poter giungere alla
teologia (che è una riflessione su Dio immanente).
Tuttavia, l’assioma fondamentale di Rahner non finisce qua. C’è la
seconda parte: “e viceversa”.
Quel “viceversa” di Rahner fu criticato da tutti! Cattolici e
protestanti.
Il “viceversa” vuol dire che la Trinità immanente è la Trinità
economica! C’è questa perfetta reversibilità dell’assioma. Ma è giusta o si
deve salvaguardare una certa distinzione?
La Commissione Teologica internazionale, nel documento accennato
sopra, prende posizione dell’assioma fondamentale: “l’assioma fondamentale
si esprime …(e riporta l’assioma tale quale, ma poi continua: ) il
rapporto tra Trinità economica e Trinità immanente va letto secondo i tre
livelli di affermazione, negazione e eminenza”; (che sono i tre livelli del
rapporto di ANALOGIA con Dio; quindi non è un rapporto di assoluta identità,
perché si tratta di due situazioni distinte: Dio in sé stesso, e la sua
Rivelazione):
-
Anche se
l’identità non fosse assoluta, ma l’identità sta nel fatto che parliamo
dell’unico Dio quando parliamo del Dio in sé stesso e Dio che si rivela, ma
comunque sono situazioni distinte. Bisogna salvaguardare questa distinzione, per
salvaguardare la libertà e la gratuità della Rivelazione. Dio non era
necessitato a rivelarsi; è una rivelazione gratuita e libera.
-
E poi c’è
un’alterità di Dio; non possiamo ridurre Dio ad essere con noi e per noi. Dio è
con noi e per noi, ma non è che Dio in sé è “con noi e per noi”.
-
Dio non ha
bisogno di rivelarsi trino per essere trino! Dio è trino! In virtù della sua
Rivelazione libera e gratuita per noi, lo conosciamo trino; ma non ha bisogno
di rivelarsi trino per essere trino.
-
Inoltre,
bisogna tener conto che Dio, rivelandosi, si abbassa, si mette a nostro livello
per comunicarsi a noi; è la kénosi di Dio. Perché se Dio avesse rimasto
in sé e per sé, non avremmo potuto conoscerlo. Dio prende carne umana e parla
un linguaggio umano perché noi possiamo conoscerlo. Quindi in questa donazione
libera e gratuita che fa; è da mettere in conto questo abbassamento che Dio fa
per farsi conoscere a noi. Ecco un’altra ragione che non possiamo ridurre Dio
alla sua Rivelazione, perché la sua Rivelazione implica anche questa situazione
di kénosi.
-
La Rivelazione
che Dio fa di se stesso trova il suo compimento solo nel Regno dei cieli; c’è
una dimensione escatologica della Rivelazione che ha in sé stessa.
Ecco perché allora dobbiamo ritenere l’assioma fondamentale di
Rahner come ci dice la CTI, pur ritenendo le critiche per salvaguardare la
distinzione.
Insomma allora, la Trinità economica è la Trinità immanente, ma
bisogna allo stesso tempo tener conto che la Trinità immanente trascende la
Rivelazione fatta da Dio di sé stesso liberamente e gratuitamente.
La CTI dice anche che bisogna evitare sia la separazione tra
Trinità economica e Trinità immanente, sia la confusione tra di loro:
-
Evitare sia
la separazione (sia come quella scolastica: DDU e DDT, sia anche la
separazione che risulta in: che la Rivelazione non ci dice nulla di Dio in sé
stesso; che la Rivelazione è una falsa. Ma Dio si è rivelato perché ha voluto
auto-comunicarsi a noi).
-
… sia la
confusione che porta a confondere la Rivelazione con la vita intima di Dio;
risulta nel dire che a Dio era dovuto un processo storico per essere quello che
è. La confusione non salvaguarda la trascendenza e l’alterità di Dio.
N.B.: Rahner è molto
formale nel suo metodo, che è un metodo sistematico. Ma metodologicamente
Rahner ci vuole dire che bisogna partire dalla Rivelazione e dall’economia per
giungere alla teologia e alla riflessione su Dio in sé stesso.
Ma questo “giungere” alla teologia vuol dire un “passaggio” dall’economia
alla vita immanente di Dio. Bisogna salvaguardare una distinzione tra questi
due piani. Una confusione tra le due dimensioni (piano storico-salvifico e
piano trascendente) annulla questo passaggio. Dio è trino dall’eternità,
indipendentemente dalla sua Rivelazione; fare la confusione vuol dire che Dio
“diventa” trino rivelandosi. Ma la Rivelazione è PER NOI; sempre dentro la
trinità economica c’è il PER NOI; ma Dio non si limita ad essere PER NOI.
Quindi bisogna evitare questa confusione.
N.B.: Perché Rahner
ha messo questo “viceversa”? (nonostante che in effetti ha perso la
distinzione, mettendo questo “viceversa”). Ma per lui, la Rivelazione è vista
come compimento di questa apertura dell’uomo alla trascendenza, di questa
attesa che c’è nell’uomo. E questo viene in linea di tutta la sua concezione
antropologica storica.
La terza spinta: Le teologie dell’evento pasquale:
ca. 1970-1980. Non è una scuola, ma si tratta di teologi che hanno
lavorato separatamente e solitamente; e si tratta di teologi cattolici,
ortodossi, protestanti ecc. Teologi che dicono che c’è un modo per fare
teologia trinitaria mettendo al centro l’evento pasquale.
Teologi che sono partiti dalla Pasqua di Gesù, dall’evento
pasquale.
Questo avviene in ambito riformato, proprio perché la theologia
crucis di Lutero guardava questo evento (anche se lo guardasse in parte,
cioè soltanto la passione e morte; mentre noi intendiamo con l’evento pasquale
la passione, la morte e la risurrezione e l’effusione dello Spirito Santo).
Quindi in ambiente riformato: e
pensiamo anzitutto a MOLTMANN, che ha scritto “Il Dio Crocifisso” e che
pone al centro la croce di Cristo.
Poi il contributo di JUNGEL, nella sua opera “Dio mistero del
mondo”; visione che parte dalla teologia del crocifisso e da lì si amplia
in un dialogo e confronto con le istanze del mondo contemporaneo (l’ateismo
ecc.).
E poi con la concezione di PANNENBERG con la sua “teologia
sistematica”; letto con il suo linguaggio “PROLESSI” cioè anticipazione
dell’evento escatologico.
Da parte cattolica, abbiamo:
LAFONT, che ha scritto “Peut-on connaître
Dieu en Jésus Christ” (cfr. note
alla p.51 della dispensa), opera provocatoria, per dire che l’evento pasquale è
il luogo di conoscenza del Dio uno e trino o no? Pone la questione provocatoriamente,
come se questa realtà fosse dimenticata per troppo tempo.
Von BALTHASAR, “Mysterium paschale”; teologia dei tre
giorni, segue passo-passo l’evento pasquale (con la discesa di Gesù agli inferi
ecc …).
Dagli ortodossi, BULGAKOV.
Il punto è: (p.51 della dispensa)
Dare una concretezza storico-salvifica a quel principio di
distinzione tra Trinità economica e Trinità immanente. Questi autori partono
concretamente dal dato biblico; fanno una teologia fondata realmente sul
contenuto della Rivelazione (rispetto al formalismo che abbiamo visto in
Rahner; cioè il principio della Rivelazione).
Viene data tutta l’importanza all’evento della croce, della morte,
della discesa agli inferi e della Risurrezione. Consegna interpersonale che caratterizza
l’evento pasquale in sé stesso. Perché nell’evento pasquale emerge al più
chiaro questo dinamismo tra Padre e Figlio e Spirito Santo pur conservando la
distinzione delle persone.
E poi anche emerge il concetto di unità di Dio, nell’AGAPE, Dio
come AGAPE (Gv).
Tutti questi hanno dato contributi al rinnovamento della teologia
trinitaria.
[Fine delle tre spinte]
METODO: (che noi
intendiamo seguire in questa nostra riflessione della teologia trinitaria).
Il centro è: la via di conoscenza di Dio in unità e trinità ci è
data in Gesù Cristo, nell’evento di Gesù Cristo; evento che è reso contemporaneo
nell’azione dello Spirito Santo nella vita della Chiesa, per ogni uomo e in
ogni tempo.
Questo presuppone l’apertura dell’uomo verso Dio, sulla quale si
innesta la Rivelazione che Dio fa di stesso, caratterizzata da diverse tappe,
fino al culmine nell’evento Cristo. Quindi c’è quest’istanza, il desiderio
dell’uomo, apertura dell’uomo verso il mistero di Dio (Sap 13 e Rm 1). (Il nome
di Dio ha un significato anche prima della Rivelazione in Cristo).
Si innesta poi nella Rivelazione libera e gratuita di Dio, che
vuole auto comunicarsi e vuole entrare nella vita dell’uomo.
Perché questo rivelarsi di Dio non è una semplice risposta al
desiderio dell’uomo, non è un semplice compimento di ciò che l’uomo desidera
(cioè che l’uomo desidera A e Dio dà A). Dio risponde sì, ma giudica e ri-significa
approfondendo! Compie e allo stesso tempo supera! Compimento dell’attesa
di Israele e un superamento. Compie e ri-significa quell’attesa caratterizzata
nelle diverse tappe (profeti ecc …).
La conoscenza di Dio in Cristo è articolabile in forme diverse, e
ne individuiamo tre (di ordine interscambiabile):
-
Una conoscenza
nozionale: cioè la dottrina della fede, i dati della fede.
-
Una conoscenza
esistenziale di Dio in Cristo: che parte dal nostro vivere in Cristo,
grazie ai sacramenti (Battesimo, Eucaristia), ma anche la vita di preghiera e
la vita comunitaria.
-
Una conoscenza
mistica: che presuppone l’esperienza della fede, ma che è caratterizzata da
un carisma particolare che “alcuni” hanno ricevuto, non a vantaggio di sé
stessi ma per tutta la Chiesa. E Dio fornisce una conoscenza più intensa di sé
tramite questa conoscenza.
Queste tre conoscenze sono strettamente connesse l’una all’altra.
Forse in ordine, viene quella esistenziale prima che quella nozionale. (Siamo
battezzati e abbiamo una conoscenza esistenziale vissuta dalla comunità
ecclesiale e da questa conoscenza esistenziale ci è venuta la conoscenza dei
dati della fede, andando ad approfondire la nostra conoscenza (questo vale
anche per la vita della Chiesa, non solo per la vita di ciascuno di noi)). E
poi, la conoscenza mistica per chi hanno penetrato più in profondità.
La nostra attenzione sarà ovviamente più rivolta alla dimensione
dottrinale, tenendo conto di quella esistenziale, approfondendo quella
dottrinale e sapendo della conoscenza che i mistici hanno avuto.
Non ci fermeremo a un discorso positivo di rivelare quello che Dio
ha comunicato di se stesso fino ad arrivare a Gesù Cristo. Ma siamo chiamati a
passare dall’oikonomia alla teologia per cercare a cogliere quello che
Dio è in sé stesso.
Dobbiamo allora partire dall’economia, tenendo conto dall’apertura
dell’uomo verso Dio; ma partiamo dalla storia della Salvezza, e in particolare
dall’evento pasquale, dall’evento Cristo. Non possiamo partire dalla conoscenza
di Dio in sé stesso, ma per conoscere Dio dobbiamo partire da quello che lui ha
rivelato di sé stesso. Partendo da lì, siamo chiamati a cogliere chi è Dio in
sé stesso, e quali sono i rapporti che costituiscono Dio in sé stesso, che
costituiscono la Sua Vita immanente.
Nel dinamismo della storia e dell’avvenimento, ci si mostra il
dinamismo: il Padre che consegna il Suo Figlio agli uomini, il Figlio che
risponde in obbedienza al Padre; questa risposta che effonde lo Spirito Santo
sugli uomini … . Questo dinamismo mostra anche la distinzione delle persone e
non le confonde.
Quello che accade nell’economia è la Rivelazione libera e gratuita
e connotata della dimensione di storicità, di quello che Dio è in sé stesso. Il
Padre manda il Figlio e lo Spirito Santo, non va da sé.
Giovanni pone il prologo all’inizio del suo Vangelo e poi al cap. 2
coglie quello che Dio è. Giovanni parte dalla storia della Salvezza e a partire
dalla storia della salvezza coglie quello che è la vita immanente di Dio (Dio è
AGAPE – Hotheos agape stìn).
Economia à Teologia à Economia
Parto dall’Economia (del dato, della fattualità), passo alla
Teologia, e ritorno all’Economia ma come in una spirale (non come un
corto-circuito):
-
L’Antico
Testamento ci dà il Dio uno e unico e poi la Rivelazione trinitaria nel Nuovo
Testamento.
-
L’evento
pasquale e la Rivelazione ci spinge a conoscere quello che Dio è in sé stesso.
-
E poi conoscere
di nuovo l’Antico Testamento alla luce di quello che Cristo ci ha rivelato e
della nostra conoscenza di Dio in sé stesso; e quindi possiamo di nuovo,
conoscere trinitariamente l’opera della creazione, e tutta l’opera di Dio AD
EXTRA, a partire della conoscenza di Dio AD INTRA.
Riconsiderazione
dell’economia a partire della nostra conoscenza di quello che Dio è in se
stesso.
26 novembre 2010
La parte biblica (libro
P. Coda, Dio Uno e Trino).
L’evento centrale è l’evento pasquale; e non viene così; ma è
precipitato dalla rivelazione ad Abramo e gli altri (la premessa
veterotestamentaria).
Le varie tappe che Dio ha fatto di stesso e che troveranno il loro
culmine e compimento in Cristo.
Caratteristiche essenziali del Dio di Israele:
La caratteristica essenziale del monoteismo di rivelazione, il
monoteismo abramitico, è propria del fatto che è Dio che prende l’iniziativa.
5 caratteristiche del monoteismo di Rivelazione, o la rivelazione
di Dio nell’Antico Testamento:
1.
L’iniziativa di
Dio:
La rivelazione veterotestamentaria si caratterizza nel fatto che
non è tanto l’uomo che cerca Dio ma è Dio che cerca l’uomo. Intervento gratuito
e libero di Dio che viene incontro all’uomo nella storia. E in questo modo, Dio
si rivela con una propria personalità, non è una forza cosmica; non un
principio ordinatore del cosmo, ma con tratti personali. Dimensione
personale dell’intervento di Dio.
2.
Progressività
della Rivelazione Veterotestamentaria:
Ha un carattere progressivo, segue determinate tappe. Dio non si
rivela tutto subito, c’è un cammino, una sorta di pedagogia divina, che
rispetta i tempi di crescita dell’uomo. “divina condiscendenza” (come la
chiamano i padri greci).
In questo modo, la rivelazione ha determinate tappe. Allora non
dobbiamo stupirci quando c’è una tappa che supera quella precedente.
3.
Le varie tappe
della Rivelazione e le varie immagine di Dio non vanno lette in
contrapposizione l’una all’altra, ma vanno lette e considerate nella loro organicità
e in armonia tra di loro:
C’è un’armonia di fondo nella Rivelazione. Lettura armonica delle
diverse tappe, nella loro differenza.
4.
La Rivelazione
di Dio pone sempre di fronte a se, un destinatario:
Dio si rivela sempre a qualcuno. Non è una rivelazione astratta. È
un Rivelazione che pone e costituisce il destinatario stesso; sia persone
singole (Abramo, Mosè …), sia il popolo nel suo insieme. Quindi la Rivelazione
si dà all’interno di una esperienza personale e comunitaria. Il popolo viene
raggiunto dalla Rivelazione attraverso singole persone e a sua volta il popolo
di Israele (specialmente nelle tappe ulteriore della storia) diventa mediatore
per trasmettere la Rivelazione di Dio per tutti i popoli. Quindi dai singoli al
popolo; e dal popolo a tutti i popoli (esperienza dell’esilio).
5.
C’è sempre in
ciascuna tappa una tensione e un’apertura verso il futuro, verso un
compimento ulteriore:
Non è che ogni tappa è chiusa su se stessa, ma è aperta verso
un’ulteriorità, un compimento ulteriore; e questo caratterizza anche l’armonia
di cui abbiamo parlato.
L’Antico Testamento è il frutto di sedimentazione di varie
tradizioni e vari scritti che alla fine è giunta a ciò che abbiamo oggi.
L’interpretazione storico-critica sta nel capire questa storia … . Ma il nostro
fine è quello di cogliere (pur nella consapevolezza della problematicità dei
testi; che facciamo in ambito esegetico) quest’esperienza-base al di sotto di
questi testi. Abramo: Dio si è rivelato ad Abramo; e quest’esperienza che
Abramo ha fatto di Dio sta alla base di questa storia.
1.
La
prima tappa: La Rivelazione ad Abramo:
Ci sono due nomi con cui viene indicato Dio. Uno “ÈL” e uno
“Yahvè”. Due nomi che si intersecano nel testo che abbiamo oggi, ma che sono
l’espressione di due momenti e di due fase storiche della Rivelazione che Dio
ha fatto di se stesso. Uno la Rivelazione ai patriarchi (da Abramo in avanti
fino a Mosè) e l’altra la Rivelazione fatta a Mosè.
I patriarchi chiamano Dio con ÈL (radice semitica) = Dio. ÈL è un
nome comune che significa Dio. Nome che veniva specificato da aggettivi (dio
altissimo, dio l’onnipotente …) oppure utilizzato al plurale “Elohìm”,
plurale di eccellenza, il Dio per eccellenza (non di pluralismo di dei).
La Rivelazione che Dio fa con Abramo a partire dalla sua vocazione
che troviamo in Gen 12:1: “Vattene dalla tua terra e dalla casa di tuo padre
verso la terra che io ti indicherò …”.
Da queste poche righe emergono tante cose: intanto, “il Signore
disse ad Abram”: emerge un intervento di Dio che dice, che parla ad Abram.
Allora Dio chiama e se Dio chiama, allora Dio immediatamente si presenta ad
Abram in dimensione personale. Questo emerge subito. E nello stesso tempo,
chiamando Abram, Dio costituisce il soggetto a cui si rivolge. Quindi la Rivelazione
si fa all’interno di un dialogo, in cui c’è qualcuno che chiama e un
destinatario (il chiamato); con questa dimensione personale.
E Dio dice ad Abram “vattene da .. dalla casa del tuo padre”:
Abram era il capo di un clan di pastori; era un nomade. Non pensiamo ad Abramo
che sta nel suo palazzo e Dio gli dice di lasciare tutto. Abram abitava nelle
tende … con sua famiglia e sua servitù ecc … e si muovevano seguendo i cicli di
stagioni della natura. Quindi Abramo era abituato a muoversi ma nella
prospettiva ciclica della vita (ciclica seguendo le stagioni della natura);
visione ciclica e naturalistica. Quindi uscire dalla visione ciclica
naturalistica verso la visione di ÈL che lo chiama. Questa è la
caratteristica della Rivelazione fatta ad Abram. Abram è chiamato a fidarsi in
colui che lo chiama e a uscire verso il luogo che lo indica, ma di cui non gli
dice al momento. E affianco a questa fiducia, sta la promessa che ÈL fa ad
Abramo; che già insita in questi versetti del cap. 12 e poi in Gen 17. Dio si
impegna per il futuro, fa una promessa per il futuro.
ÈL si manifesta allora come partner di Abramo e si manifesta con la
propria personalità; gli chiama alla fede nella sua chiamata di andare verso un
luogo che glielo indica dopo, e poi c’è la promessa.
C’è anche un’altra dimensione nella Rivelazione che Dio fa ad
Abramo, Isacco e Giacobbe: il fatto che Dio rimane trascendente! Da dove
emerge questo?:
Abramo chiama colui che gli si rivela col nome generico utilizzato
per chiamare Dio, ÈL, non con un nome specifico proprio. Giacobbe chiederà a
Dio il suo nome. (nella lotta, di notte, di Giacobbe con l’Angelo …) E la sua
domanda era: “come ti chiami? Dimmi il tuo nome?” – risposta di Dio: “perché mi
chiedi il nome?” – “e lo benedisse”.
Giacobbe chiede “Dimmi il tuo nome” e la risposta di Dio fu
“perché mi chiedi il nome?”; e tace! e rimane ÈL! il nome generico. Per
gli ebrei, conoscere il nome era essenziale; per i greci, conoscere il nome = conoscere
l’essenza di un cosa. Per quelli che fanno i culti orientali, c’è il rito di
impostazione del nome alla divinità che indica avere il possesso di questa
divinità per avere i suoi favori.
Dio non dice il nome a Giacobbe come per dire che non potete
possedermi; io rimango altro da voi à la trascendenza di Dio.
Non potete piegarmi ai vostri voleri, non potete possedermi, dovete fidarvi di
me.
Allora Dio si rivela ma allo stesso tempo rimane trascendente; non
è possibile metterlo allo stesso piano dell’uomo. Non è possibile piegare Dio
ai propri desideri e alla propria realtà.
Dunque possiamo parlare di “monoteismo” nella Rivelazione che Dio
fa di stesso ad Abramo e ai patriarchi?
C’è un termine specifico per parlare di questa prima tappa: monolatria.
Monolatria = Monos + Latrea (culto, venerazione). Quindi culto,
venerazione, all’unico ÈL, che è l’ÈL di Abramo Isacco e Giacobbe. Dentro il
nome di Dio entra l’interlocutore a cui Dio si è rivelato. È l’ÈL che si è
rivelato ad Abramo Isacco e Giacobbe. Quindi Dio viene specificato in virtù di
quel destinatario a cui Dio si è rivolto.
Questo significa che il clan di Abramo, Isacco e Giacobbe riconosce
in quel Dio, l’unico Dio del clan; il che indica che gli altri clan hanno i
loro dei; ecco perché parliamo di monolatria e non di monoteismo in senso
esplicito. Gli altri clan sono ovviamente politeistici, e il clan di Abramo,
Isacco e Giacobbe riconosce come suo dio l’unico dio di Abramo, Isacco e
Giacobbe. Ma si vive con la consapevolezza che gli altri clan hanno i propri
dei, e sono politeisti. Ecco perché parliamo di monolatria e non di monoteismo.
Questa è la prima tappa.
N.B.: l’episodio di
Gen 18: i tre personaggi misteriosi che si avvicinano e poi scompaiono. Alla
luce della Rivelazione cristiana, noi possiamo vedere in questi 3 personaggi
una prefigurazione della Trinità. Riconsiderando la Rivelazione veterotestamentaria
alla luce del compimento della Rivelazione trinitaria in Cristo, allora
possiamo vedere come i primi padri hanno visto una prefigurazione della Trinità
in questi 3 personaggi. E sono i cristiani che vedono questa prefigurazione; ma
gli ebrei, rimanendo fermi a questa prima tappa, non è che possiamo vedere una
rivelazione della trinità. È un vestigio messo lì, che ha bisogno della pienezza
della Rivelazione in Cristo per essere colto nel suo valore. Non è che Abramo,
vedendo questi 3 personaggi, dice: “Ah, Dio è uno e trino” J. (In prima battuta non si può vedere la Trinità; è soltanto in
seconda battuta che lo si può vedere).
2. Seconda tappa: La Rivelazione a Mosè:
La possiamo caratterizzare come la Rivelazione del nome!
Caratteristica generale di questa Rivelazione è il fatto che mentre
ai patriarchi Dio si rivela come Dio della quotidianità, la caratteristica
fondamentale della Rivelazione a Mosè è che Dio si rivela attraverso grandi
gesta, grandi opere! (cfr. l’esodo). Es 15: il canto di vittoria dopo il
passaggio del Mar Morto. Israele fa l’esperienza del Dio forte e potente
che guida il suo popolo nella sua uscita dal Egitto e nel passaggio del Mar Morto,
attraverso grandi segni da Lui compiuti.
Si compie allora una nuova tappa dell’Esodo e della Rivelazione a
Mosè:
(1) l’Alleanza che viene stabilita con Israele e (2): la Rivelazione
del nome a Mosè. Israele viene stabilito come popolo grazie all’alleanza
(altrimenti sarebbero rimasti delle tribù).
Il nome, che non andrebbe detto, è il tetragramma sacro JHWH.
N.B.: Il problema
della pronuncia non è indifferente. Come pronunciarlo? Ha una sua origine
nel verbo “7ayya” che significa vivere, esistere. Ma è difficile sapere
come si pronunci il tetragramma, perché dal tempo dei Maccabei, il tetragramma
non è stato più pronunciato. Soltanto il sommo sacerdote, nel Yom Kippur,
entrava nel Santo dei Santi e pronunciava il nome, ma da solo, nessuno lo
sentiva. Gli ebrei dicevano “ADONAI”; KYRIOS (in greco), o HaShèm = “Il
Nome”. E siccome ci sono soltanto le consonanti e non esistevano le vocali, e
siccome non si pronunciava più, non si sa come lo si pronunciava. Quando i
masoreti inventarono il sistema delle vocali, hanno messo le vocali di ADONAI
per il tetragramma, e come conseguenza è venuta Géova. Probabilmente, grazie
agli studi, si pronunciava “Yahvè”, e noi la usiamo così, però non è sicura.
Al di là della pronuncia, vediamo il significato del nome. E
andiamo a Mosè:
Trascendenza e presenza di Dio (fuoco che non consuma il roveto).
Di nuovo, è Dio che chiama. Dio si presenta di nuovo in dimensione personale e
chiama il destinatario. E dice: “io sono il dio dei tuoi padri, il dio di Abramo,
di Isacco e di Giacobbe”: quindi questa tappa della Rivelazione non significa
abbandonare la prima tappa, ma viene approfondita. La Rivelazione costituisce
un approfondimento di ciò che Dio rivela di se stesso. Dio si presenta come
l’ÈL di Abramo, Isacco e di Giacobbe.
E Mosè chiede del nome à di nuovo la ricerca dell’uomo del nome di Dio.
Dio risponde: “io sono colui che sono” – “’ehjeh
asher ’ehjeh” – “EGO SUM QUI SUM”.
Mosè: “JHWH mi ha mandato da voi” - “IO-SONO” mi ha mandato da voi.
(Io sono colui che sono – io ero colui che ero – io sarò colui che
sarò). È l’imperfetto del verbo “7ayya”, che significa vivere, esistere.
In ebraico, il verbo ha quel senso di continuità nel tempo, tradotto bene in “io
ero, sono e sarò”.
Il tetragramma “io-sono” è esplicitato dal testo dell’Esodo con
questa espressione “’ehjeh asher ’ehjeh”. Quest’espressione “’ehjeh
asher ’ehjeh” è l’esplicitazione del tetragramma. L’autore biblico come
se dicesse che il tetragramma che risulta così criptico, lo esplicitiamo con questa
espressione.
Dio si presenta perché ha visto le difficoltà del suo popolo e
perché vuole liberare il suo popolo e stringere con il suo popolo un’alleanza.
Dio non è soltanto allora il trascendente ma si presenta in questo suo
manifestarsi per prendersi cura e liberare il suo popolo.
Allora non solo Dio in sé, ma il Dio PER e CON il suo popolo, nel
suo venire a liberare il suo popolo, nella sua comunicazione al suo popolo.
Quindi l’espressione sarà: “Io ero sono e sarò CON e PER te,
destinatario della mia Rivelazione”; questo è il contesto! Dio si presenta
così!
Anche perché è colui che è e continua ad essere come è (immanente);
stabilità e fedeltà di Dio nei confronti del suo popolo, perché è eternamente
stabile e fedele in se stesso.
In greco: “egò eìmi ò
òn” = “Io sono l’essente”; c’è una differenza rispetto all’ebraico. Intanto
si perde questa struttura specchio (la ripetizione) e poi abbiamo l’utilizzo
del participio presente “essente” che è una lettura molto di più metafisica.
Viene centrata quella che è l’identità immanente di Dio; Dio è l’essente; colui
che immutabilmente è; ma si perde la dimensione storico-salvifica che è
preponderante nel popolo ebraico; e perdendo quella connotazione di essere CON
e essere PER che esplicita il verbo “7ayya” e il contesto in cui è
inserito.
Non è sbagliata in sé quest’idea, perché c’è un rimando
all’originalità ebraica riguardo l’ambito immanente di Dio (cioè che è ), però
perde la dimensione storico-salvifica.
In Latino: “EGO SUM QUI
SUM” è più vicina a quella ebraica, anche se l’ESSE latino non ha quella
connotazione ebraica di continuità, ma piuttosto l’aspetto metafisico. Però
riprende l’aspetto specchio (SUM-SUM). Quindi siamo a metà. E manca nella
traduzione latina questa dimensione storico-salvifica che c’è con l’ebraico.
Quest’esplicitazione del tetragramma che c’è nell’Esodo potrebbe
essere quasi un nome, ma qualche studioso l’ha interpreta anche come la
negazione di dire come mi chiamo. Tuttavia è un’espressione che vuole
preservare ancora una volta la trascendenza divina. Non è un nome attraverso il
quale Dio può essere posseduto. La grande tentazione idolatra di poter
circoscrivere Dio e averlo a propria disposizione; quella che emerge con il
vitello d’oro: “questo è il dio che ci ha fatto uscire dall’Egitto”;
volevano toccarlo e vederlo. Ma Dio dice: “io sono chi io sono”. Non si lascia
idolatrato con un’immagine per dire “questo è il tuo dio”. La trascendenza
divina è preservata nel momento in cui Dio si rivela a Mosè con questo “nome”.
Dio si sottrae a qualsiasi presa umana che tende a possederlo; si sottrae a
qualsiasi conoscenza umana.
Questo rimane anche in Es 33: Dice Mosè: “mostrami la tua Gloria”.
Dio: “… ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessuno mi vede e rimane
vivo …” poi vede le spalle* (*antropomorfismo).
Date queste caratteristiche della Rivelazione di Dio a Mosè,
possiamo parlare di “monoteismo”?
È meglio parlare di “Monoyahwismo”. L’unico Yahwé.
Perché non ancora monoteismo?
Dio si rivela attraverso queste grandi gesta da Lui compiute e
attraverso queste grandi gesta, il popolo non solo riconosce che Yahwé è
l’unico dio del popolo di Israele, ma attraverso queste grandi gesta e opere
che compie per il popolo, Israele si rende conto che gli dei degli altri popoli
sono nulla, sono idoli vani!
“Chi è come te fra gli dei!” ecco il monoyahwismo; cioè il
riconoscimento dell’unicità di Dio è venuto attraverso le grandi opere che
hanno mostrato nella storia che gli dei degli egiziani sono nulla. Però non si
può ancora parlare nel senso stretto di monoteismo. Siamo vicini al monoteismo,
certo, ma la rivelazione è attraverso l’agire storico-salvifico del dio che ha
fatto vincere Israele attraverso le sue grandi opere. A noi questo interessa
sapere del monoyahwismo.
N.B.: Yahwismo,
poliyahwsimo, monoyahwsimo; si vedranno studiando l’esegesi.
03 dicembre 2010
Vediamo adesso la terza tappa (dopo la tappa dei patriarchi e poi
la rivelazione a Mosè): la monarchia e i profeti:
Siamo in circa 1000 a.C.; monarchia; contatto con i popoli vicini;
contrapposizioni con i popoli che non credono in Adonai; costruzione del tempio
di Gerusalemme!
Profetismo; quelle figure che sono chiamate ad indirizzare i popoli
e i re secondo quello che è il “progetto di Dio”.
Il tempio: Isaia, Ezechiele ricevono la loro profezia nel tempio;
perché il tempio è il luogo della presenza di Dio; del Qibòt; la nube
del cammino di notte, segno della presenza di Dio che guida il suo popolo, e
che scende sulla tenda quando si fermano; (allora scende sul tempio).
Il tempio diventa il luogo della presenza di Dio in mezzo al suo
popolo; senza materializzarla questa presenza, che rimane un “segno”.
La presenza di Dio nel tempio e la gloria di Dio nel tempio rimane
il segno della gloria di Dio che rimane in mezzo al suo popolo.
Rispetto al rivelarsi di Dio nelle diverse tappe della storia di
Israele, qual è la novità e la continuità sta volta?
Patriarchi à
monolatria.
Mosè à
monoyahvismo.
Adesso andiamo verso una rivelazione di Dio in cui viene mostrata
l’assoluta unicità di Dio; e quindi andiamo al monoteismo in senso esplicito.
Circa il passaggio dal monoyahvismo al monoteismo, prendiamo per
prima la scena di Elia in 1Re 18: sfida di Elia ai profeti di Baal. Adonai
interviene e tutto viene bruciato; “… tutto il popolo cade sulla terra e
dicono: il Signore è Dio; il Signore è Dio”.
Il Signore manifesta di essere l’unico vero Dio di fronte al
silenzio, alla vanità e alla nullità degli altri idoli. Vediamo che è sempre
ancora l’agire potente di Dio attraverso grandi gesta che manifesta che Adonai
è l’unico Dio; perché gli altri dei, nella loro impotenza manifestano di essere
niente, di non esistere. Allora abbiamo sempre un’espressione di monoyahvismo.
Anche con Naaman il Siro, questo pagano lebbroso che viene mandato
da Eliseo per essere guarito, e quest’ultimo gli chiede di andare a bagnarsi
nel Giordano. Dopo che è guarito, torna ad Eliseo e dice: “adesso so che non
c’è Dio sulla Terra se non in Israele”. E Naaman volle fare un dono ad Eliseo,
ma Eliseo non accetta, e allora Naaman prende un po’ di terra da Israele per
portarla con lui quando torna in Siria per poter adorare il Signore anche in
Siria. Anche qui, non possiamo parlare di monoteismo esplicito e assoluto, ma
sempre monoyahvismo.
Espressione deuteronomista, dal 721 a.C. fino al post-esilio,
abbiamo una tendenza sempre più verso un’espressione monoteista. Cfr. Dt 6 e Dt
4 (N.B.: Dt 6 è più antico che Dt 4).
Dt 6: il famoso “shema‘”: “ascolta Israele, il Signore è
nostro Dio, unico è nostro Signore” à unicità del Signore. E continua: 9“… guardati dal
dimenticarti del Signore che ti ha fatto uscire dal Egitto …” à l’unicità del Dio che ha compiuto grandi gesta. (quindi siamo più
spostati verso il monoteismo, ma non in assoluto).
Dt 4, 32 e in avanti: “… dal giorno in cui Dio creò
l’uomo sulla Terra. … tu sai che non c’è altro Dio fuori di Lui …” e poi
continua: 39“… il Signore è Dio lassù nei cieli e quassù sulla
Terra e non c’è altro” à stiamo
andando adesso altro; affermazione in qualche modo assoluta che viene fatta.
Però arriviamo ad un monoteismo esplicito e unico, nell’esperienza
del Esilio e il post-Esilio. L’esperienza dell’Esilio fa cogliere a Israele
l’unicità di Dio. Dentro all’esperienza che Dio muove l’orizzonte della storia
e terrorizza gli stranieri, Israele coglie la rivelazione di Dio come l’unico
Dio nei cieli e sulla Terra.
Prendiamo il deutero-Isaia, cap. 44 e 45.
Is 44, 12 e in avanti: “… Dio siede sopra la volta del mondo,
estende il cielo come un velo …”. “… io sono il primo e l’ultimo, fuori
di me, non ci sono dei …”. A questo punto abbiamo un’affermazione assoluta
di monoteismo; gli altri non sono più dei, sono idoli, fatti da carpentieri … “fuori
di me non vi sono dei”.
Siamo nell’epoca Esilio, abbiamo un’affermazione di monoteismo.
C’è anche un’altra affermazione, quella della creazione. Is 44, 28:
“… Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la Terra”.
La nozione di creazione, che è tipica e propria di Israele, si afferma di pari
passo con questa chiara affermazione di monoteismo. Nel momento in cui si
afferma l’unicità del Signore (e il monoteismo), si afferma anche che il
rapporto tra Dio e il mondo consiste in un rapporto di creazione.
Per i greci non c’è l’idea di creazione: dal nulla non viene nulla,
dice Aristotele; al massimo si può dare forma alla materia. Per Platone, il
Demiurgo plasma una materia informa. Per Aristotele, non è così, perché tutto
ciò che è materia ha forma, si dà forma-e-materia.
In Israele, c’è la nozione di trascendenza di Dio; l’unico Dio non
è il mondo, non si confonde con il mondo; è altro dal mondo. Ma Dio c’è, e
allora qual è il rapporto tra Dio e il mondo? Il rapporto di creazione.
La nozione di creazione appare in Israele dopo che viene affermata
l’unicità di Dio.
E la nozione di creazione ex-nihilo viene in 2Mc 7, 28
(II sec. a.C.): si afferma la creazione EX-NIHILO.
Monoteismo e creazione sono due nozioni che si rimandano l’una
all’altra.
La rivelazione che Dio ha fatto a Israele nell’Antico Testamento va
anche oltre. Perché nella sua trascendenza e la sua alterità rispetto al mondo,
Dio opera nel mondo e si manifesta nella storia della salvezza attraverso delle
mediazioni! Prendiamo in particolar modo due mediazioni.
Mediazioni:
1.
Mediazione
dello Spirito: tipica del
periodo profetico.
2.
Mediazione
della parola / Sapienza:
anche nel periodo profetico, ma poi successivamente al ritorno del Esilio, nel
momento sapienziale.
Sono due mediazioni attraverso le quali Dio agisce e si manifesta
nella storia della salvezza.
1.
Mediazione
dello Spirito, ruàh:
Dio si manifesta ad Elia attraverso questa brezza. Dio si manifesta
attraverso la sua ruàh, suo Spirito.
Lo spirito qui è lo spazio di comunicazione di Dio al di fuori di
se stesso. È Dio che si comunica e si fa presente nel suo spirito. Nella
genesi, troviamo che una volta creato tutto, il suo spirito aleggiava sopra la
Terra … .
Soffia il suo spirito, e una volta ricevuto lo spirito di Dio,
permette all’uomo di ricevere la comunicazione che Dio fa di se stesso; quindi lo
spirito come luogo e spazio di comunicazione di Dio con l’uomo. L’uomo
diventa l’interlocutore di Dio perché ha ricevuto la ruàh, diventa il
“tu” di Dio.
E nella storia di Israele, Dio pose il suo spirito su alcune persone
che hanno un ruolo particolare in Israele.
Mosè, Nm 16. I giudici. E poi i profeti.
E il senso fisico di questa presenza dello spirito, diventa l’unzione!
I re, i profeti e poi i sacerdoti sono unti. L’unzione è segno di
presenza dello spirito in queste persone che fungono nella mediazione di Dio
con il popolo.
E anche ci fu questa figura, quella dell’unto, del Messia!
Is 11,12: “un germoglio … su di Lui si poserà lo spirito del
Signore …”. E quindi l’attesa del Messia diventa uno dei momenti di attesa
più forti di Israele. Perché su di Lui ci sarà una sovrabbondante effusione
dello spirito, perché attraverso di Lui, si avrà effusione dello spirito su
tutto il popolo e su tutto il mondo; Is 42?: “egli porterà diritto alle
nazioni”.
Questo spirito nuovo, e l’attesa del Messia conduce ad una duplice
manifestazione: universalizzazione dell’alleanza (rispetto a tutti i popoli,
che anche loro sono chiamati a questa comunione con Dio) e una
interiorizzazione dell’alleanza stessa (Es 36: “… mettere in pratica le mie
leggi”).
Lo spirito del Signore rimane solo lo spirito del Signore; non ha
una sua autonomia distinta rispetto a Yahvé. La ruàh è la ruàh di
Yahvé. Non è personalmente distinta da Adonai! La ruàh non è lo Spirito
Santo (per essere chiari)! La ruàh non è personalizzata. A parte
che in Sap 9 (che è venuto più tardi infatti), si personifica la ruàh,
ma si tratta di un artificio letterario, dove lo spirito viene personificato!
Quindi non è una personalità, ma è una personificazione.
2.
Mediazione
della parola / sapienza:
La creazione, secondo la Genesi, avviene quando “Dio disse”. “Dio
disse” facciamo l’uomo … .
Quindi la creazione si fa attraverso la parola, la dabàr,
questa parola efficace, che produce, che opera.
Quindi ecco questo spazio di comunicazione di Dio ad extra,
altro che lo spirito, la parola.
La parola è anche la legge; perché la legge, la Torah, diventa
segno di presenza di Dio in mezzo al suo popolo. E nell’epoca post-esiliare, la
parola prende senso dalla nozione di Sapienza. La parola, secondo i libri
sapienziali, diventa anche quella parola attraverso la quale Dio agisce e crea
e opera.
Pv 8,22 e seguenti: “... e io ero davanti a lui come architetto
(la sapienza parla)”. Quindi la sapienza diventa anche spazio di rivelazione di
Dio.
Parola e sapienza sono strettamente connesse attraverso quello
strumento di mediazione attraverso il quale Dio agisce nel mondo.
C’è “quasi” una propria soggettività, in Sap 7, attributi della
Sapienza: azione della sapienza nella creazione e nella storia della salvezza
“… forma profeti”.
Non è considerata una persona divina, perché la nozione
fondamentale è l’unità e l’unicità di Dio. Quando troviamo queste espressioni
più tarde (anche con lo stile retorico greco), dobbiamo considerarle come personificazione
soltanto. Senza il Nuovo Testamento, non possiamo parlare di “personalità” di
spirito e di sapienza.
Giustizia come donna con la bilancia in mano à è una personificazione; nessuno pensa che la giustizia è una
donna.
Si tratta quindi di artifici letterari di personificazione.
Appellativi dati al Signore:
L’unico Dio rivelatosi ad Israele, oltre ad essere chiamato Adonai
(Yahvé), nel corso della rivelazione profetica, avrà altri appellativi (oltre
“Adonai”):
1.
“Padre”:
2.
“Sposo”:
1.
Il Dio rivelatosi
a Mosè non viene chiamato “padre”; perché dai popoli vicini, i dei erano
chiamati padri, perché c’era con questi dei un rapporto genealogico. (p. es. a
Roma, i discendenti di Romolo appartengono alla genealogia del dio …). Israele
volle eliminare tale visione, e quindi non chiama Dio padre. Il rapporto è un
rapporto di alleanza. Dio ha scelto Israele come suo popolo, e quindi non viene
chiamato Padre.
Viene chiamato padre da Osea e in
avanti, nel momento in cui la trascendenza divina è ormai un dato acquisito e
che il rapporto di alleanza è acquisito; allora a questo momento si usa un
linguaggio meno giuridico che quello dell’alleanza.
Os 11,1: “..quando Israele era
giovinetto, e dall’Egitto ho chiamato mio figlio”.
Gr 31: “io sono un padre per Israele”.
Quindi la paternità di Dio è presa
in considerazione solo in senso di una paternità elettiva. Dio è padre perché
ha scelto, ha eletto il suo popolo. à padre nel senso elettivo, non una paternità naturale!
Anche, ci sono espressioni
caratteristiche femminili; il rapporto tra Dio e il popolo viene descritto come
una madre che prende cura del figlio. Abbiamo in Osea il termine “ra’min”
= amore di una madre nei confronti del frutto del suo grembo. In Is 49: “si dimentica
forse una donna da suo bambino? … anche se questa donna lo fece, io non mi
dimenticherò mai”.
Allora atteggiamenti sia
caratteristici di un padre, uomo; sia caratteristici di una madre e suo figlio.
Però Dio viene chiamato PADRE
nell’Antico Testamento, ma non viene chiamato mai MADRE! È chiaro che Dio non è
né maschio né femmina; ma vengono utilizzate espressioni sia come quelle del
rapporto tra padre e figlio, sia tra madre e figlio. Ma come appellativo,
Israele dà l’appellativo di “padre”.
In “Gesù di Nazaret” di J.
Ratzinger, alla p.160, scrive: “… Dio non è né uomo né donna … nelle
religioni vicine, c’era quella visione panteistica dove spariva la trascendenza
del creatore rispetto alla creatura; e allora per conservare la trascendenza si
usa l’appellativo padre …”.
Noi, infatti, possiamo sapere di Dio
quello che Lui ci ha rivelato; e nella sua rivelazione attestata nella Sacra
Scrittura, Dio si è rivelato come padre e non come madre. E quindi è giusto
nella nostra riflessione teologica usare l’appellativo “padre”.
2.
“Sposo”:
Oseo sposa una prostituta … e sempre c’è una confusione con la vita
del profeta … .
Dio è “sposo”, per esprimere questo rapporto di amore di Dio verso
il suo popolo.
Il termine sposo/sposa è proprio per veicolare quest’idea di amore
di Dio, come sposo del suo popolo.
Anche in Ez 16; e poi nel cantico dei cantici, che è un cantico
sponsale che viene inserito nella Scrittura per cantare il rapporto sponsale
tra Dio e il suo popolo; per indicare la comunione profonda tra Dio e il
popolo.
Figura del servo sofferente:
Un’altra figura di mediazione, la figura del servo sofferente, che
emerge nel deutero-Isaia (42 a 53), abbiamo 4 carni del servo sofferente:
“uomo dei dolori (sofferenza – disprezzo)” – “si è caricato
delle nostre sofferenze” – “è stato trafitto fino alla morte per i nostri
delitti” – “per le sue piaghe noi siamo stati guariti … giustificherà molti e
si addossa della nostra iniquità”.
Sono caratteristiche atipiche rispetto a ciò che abbiamo visto
finora.
Non ci interessa chi intende Isaia con questo servo; ma ci
interessa che è un mediatore profetico:
-
Missione
vicaria del servo: il servo è
giusto, non ha commesso peccato, eppure prende su se stesso le colpe di Israele,
si addossa le iniquità di Israele; prende il posto di qualcuno; (ecco la
missione vicaria), fino alla sofferenza e la morte.
-
Qua la
sofferenza e la morte assumano una dimensione salvifica; (mentre
la sofferenza e la morte hanno valore di disprezzo). Valore salvifico tale che
attraverso la sua sofferenza il popolo ha la salvezza e la santificazione.
All’inizio la figura del servo sofferente non era legata alla
figura del Messia; ma andando avanti, nella letteratura extrabiblica di
Israele, sempre più strettamente avvicinandosi verso la fine dell’epoca
pre-cristiana (anno 0), la figura del Messia e la figura del servo sofferente
vengono associate; e la figura del Messia assume sempre di più le
caratteristiche del servo sofferente. Ed è una figura di attesa.
L’ultimo aspetto della rivelazione veterotestamentaria: la
rivelazione sapienziale; la crisi che emerge nella sapienza!
La letteratura sapienziale si afferma nel periodo post-esiliare,
quando il tempo del profetismo termina e abbiamo lo sviluppo della letteratura
sapienziale (Giobbe ecc …).
Giobbe: è una coscienza di crisi rispetto all’immagine di Dio
proprio della rivelazione deuteronomista. Ma questo progresso non viene inteso
nel senso illuministico (cioè progredisce sempre verso l’alto e la luce); ma
anche si sviluppa anche attraverso dei momenti di crisi e di sofferenza. In
Giobbe, c’è una messa in crisi dell’immagine di Dio deuteronomistica. Giobbe è giusto, e nonostante ciò subisce una
serie di prove fino alla sofferenza fisica; e la tentazione del diavolo è di
vedere se Giobbe maledice Dio. E dalle opinioni degli amici di Giobbe, si vede
il concetto deuteronomista di Dio: tu ti comporti bene secondo la legge, e Dio
ti tratta bene e ti concede benefici; tu ti comporti male, e Dio ti fa subire sofferenza
e disprezzo. (E Giobbe dice No non ho commesso peccato). È proprio questo
concetto del rapporto tra Dio e l’uomo, che viene messo in crisi.
Gb 19: “… vedrò Dio …”. Ma rimane la domanda di Giobbe,
perché questa sofferenza!
Gb 28, 4: “dov’eri tu quando ho stabilito le fondamenta della
Terra …” à
forte trascendenza di Dio: Dio non può essere imprigionato dentro uno
schematismo dell’uomo. Ma lasciare intervenire Dio.
Gb 42: “... nessuna cosa è impossibile a te … … che io non
comprendo” à
nella crisi, emerge questa rivendicazione da parte di Dio della suo propria
trascendenza! Dio rivendica la sua propria trascendenza!
10 dicembre 2010
Parte neotestamentaria:
Siamo al centro, al cuore della Rivelazione trinitaria di Dio;
l’evento Cristo; l’evento Pasquale.
Sono legati alla premessa veterotestamentaria. Sono un compimento
che supera le attese dell’Antico Testamento. E nell’evento pasquale, vediamo la
rivelazione definitiva che Dio fa di se stesso.
L’evento pasquale si pone come centro; e raggia la sua luce e in
dietro e in avanti poi (con la comunità degli apostoli).
A livello teologico, è nell’evento pasquale che abbiamo la pienezza
della Rivelazione che Dio fa di se stesso.
L’evento pasquale è strettamente connesso con le parole e attività
del Gesù prima dell’evento pasquale, il Gesù terreno.
1.
Il kerygma di
Gesù: l’annuncio che Gesù ha fatto nel corso del suo ministero terreno.
2.
Il kerygma su
Gesù: l’annuncio che la Chiesa, la comunità apostolica, fa su Gesù, alla luce
dell’evento pasquale, che costituisce il punto di discrimine.
Due momenti che studiamo distintamente, ma vengono considerati
nella loro complementarietà. Perché studiare il Gesù storico a prescindere
dall’evento pasquale significa ridurlo a uno degli maestri sapienti che sono
venuti nella storia. E il contrario significa ridurre la resurrezione ad un
mito. Per cogliere la piena identità, è necessario mettere insieme questi due
momenti; perché tutto quello che ha fatto Gesù nel suo ministero terreno deve
essere capito alla luce dell’evento pasquale, e l’evento pasquale … .
Tutti e due momenti vengono quindi mantenuti nella loro
complementarietà, ma nello studio, li distingueremo per poter studiarli.
Materialmente, sono le stesse realtà che vediamo in Cristologia con
il prof. Ciola, ma noi qui vediamo le dinamiche delle relazioni che emergono
tra Padre e Figlio e Spirito Santo.
Il nostro studio sarà in tre momenti:
1.
Opere e
predicazione di Gesù prepasquale.
2.
L’evento
pasquale.
3.
Approfondimento
post-pasquale che, alla luce e sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, la
comunità apostolica compie della Trinità.
1.
Fase
prepasquale:
Vedremo:
-
L’annuncio che
Gesù fa del Padre; il rapporto di Gesù con il Padre.
-
L’identità figliale
di Gesù.
-
L’annuncio
dell’opera e dell’attività dello Spirito Santo.
Il tema fondamentale dell’annuncio di Gesù è il Regno di Dio.
Che cos’è il regno di Dio? Questo termine è in greco nel Nuovo
Testamento, ma alla radice è nella mentalità ebraica, l’idea ebraica di regno.
L’idea di regno si pensa come un territorio sul quale un re ha la
sua sovranità. Non così è il regno di Dio, perché in ebraico quando si parla di
regno di Dio, si intende la signoria stessa di Dio, la regalità stessa di Dio,
si intende più il soggetto che l’oggetto.
Il soggetto è Dio, e la concentrazione va a questa signoria di Dio.
Gesù annuncia questa signoria di Dio! E lo fa in vari modi e passi.
Talvolta la annuncia come qualcosa di futuro (il Padre Nostro; o le
beatitudini), e a volte come qualcosa che sta già arrivando, e in parte è già
presente (basti pensare all’inizio del Vangelo di Marco, il regno di Dio è
qualcosa che si sta avvicinando, e che sta per affermarsi nel mondo; oppure
quando dice che il regno è come il lievito nella pasta, come il granello ecc
…). Quindi è già presente ma che deve svilupparsi. E si realizzerà perché c’è
già il seme, c’è già il lievito; al meno in potenza, o nella piccolezza.
Lc 17,20: il regno come qualcosa che è già in mezzo a voi; “il
regno di Dio non viene in modo osservabile, il regno di Dio è in mezzo a voi”.
Gesù qui dice che il regno di Dio è presente. Ma è Gesù stesso che
è presente; e quindi implicitamente Gesù lega la presenza del regno alla sua
persona stessa.
Quindi Gesù non è semplicemente l’annunciatore di un regno, ma
questo regno si istaura attraverso la sua persona, è attraverso di Lui che
passa il regno di Dio.
Dentro questo contesto possiamo collocare il rapporto tra Gesù e il
Padre.
Una delle caratteristiche essenziali dell’annuncio di Gesù e della
identità stessa di Gesù sta nel suo rapportarsi al Dio di Israele, chiamandolo
con il nome di Abbà.
L’utilizzo di questo termine ci testimonia una coscienza particolare
che Gesù ha della paternità di Dio nei suoi confronti.
Paternità per il popolo di Israele, era la paternità elettiva, per
esprimere la categoria dell’alleanza, e per evitare la paternità genealogica
pagana.
Ma dai testi del Nuovo Testamento che abbiamo, possiamo trarre la
coscienza di Gesù nel suo rapportarsi con Adonai, ed è una coscienza
particolare di una paternità di Dio nei suoi confronti, ed è una paternità
particolare.
Gesù non dice con gli apostoli “Padre Nostro”; ma dice a loro: “VOI
DITE Padre Nostro”; e anche poi dice: Dio mio e Dio vostro; Padre mio e Padre
vostro. C’è una distinzione di livelli.
Troviamo “Padre mio” attribuita a Gesù.
Negli alcuni passi in cui troviamo le preghiere di Gesù, e in
questi testi non si rivolge mai a Adonai chiamandolo Dio, ma chiamandolo Padre.
Soltanto sulla croce, citando il salmo 22, si rivolge a Dio chiamandolo “Dio
mio” (ma questo per citare il salmo). In tutti gli altri passi, Gesù si rivolge
a Dio con il nome di “Padre”.
Mc 14,36: Gesù chiede al Padre di allontanare da lui questo calice;
Marco usa il termine “Abbà” o “Pater”.
Usa il termine “Abbà” che è un termine aramaico, e affianco ci
mette la traduzione greca “Pater”.
Gesù parlava aramaico e ha detto “Abbà”.
Negli altri passi, abbiamo solo il greco, “Pater”; ma in Marco
abbiamo sia il greco sia l’originale aramaico.
Negli altri passi evangelici, passi di preghiera: inno di giubilo
(Mt 11 e paralleli); sulla croce (Lc 23); e in Giovanni, nell’episodio in cui
Gesù risuscita Lazzaro; e nella preghiera sacerdotale (Gv 17).
Questi sono i testi di preghiere dirette che Gesù fa nel Nuovo
Testamento in cui si rivolge con il nome di Padre.
JEREMIAS studia l’uso del titolo di “Abbà”, e dice:
È un termine usato nei rapporti famigliari, o dai bambini (però non
è esclusivo del linguaggio dei bambini, altrimenti sarebbe stato “Pappas” in
greco). Ma è un linguaggio famigliare. Quindi Gesù per rivolgersi al Dio di Israele,
usa un termine famigliare, che non veniva mai usato nel giudaismo prima e nei
tempi di Gesù (dopo di Gesù sì; ma prima e nei tempi di Gesù, NO; non c’abbiamo
nessun testo giudaico in cui figura questo termine).
Che cosa indica?
Indica un rapporto di intimità famigliare tra Gesù e Dio. Un rapporto unico che va oltre ogni rapporto di un giudaico con
Adonai. È un rapporto di intimità famigliare stretta esclusivo per Gesù. Gesù Lo
chiama come il “suo Padre”.
E questo è recepito dai primi cristiani. In Romani e in Galati (Gal
4,6) troviamo questo termine.
Quindi Gesù rivendica questo rapporto tutto speciale tra sé e il
Dio di Israele.
Tutta la sua vita è vista come relazionata all’Abbà; tutta la sua
esistenza è un’esistenza relativa all’Abbà. Tutto quello che Lui ha, è per
quanto ha questa relazione unica con Abbà.
Nel Battesimo e nella Trasfigurazione emerge questo legame stretto forte tra Gesù e il Padre (e nel
Battesimo anche con lo Spirito Santo). La voce che proclama la figlialità di
Gesù.
Intima dinamica di comunione tra Gesù e il Padre e lo Spirito Santo
(nel Battesimo). Nella Trasfigurazione figura di meno, però è durante la
preghiera che avviene la trasfigurazione, quindi dal rapporto con il Padre. E
poi c’è l’idea della tenda, la schekinà, che era la presenza di Dio tra
il popolo; ma è Gesù la presenza di Dio; e poi c’è la voce … à intima comunione tra Gesù e l’Abbà.
Insomma, emerge questo rapporto unico tra Gesù e Abbà. E questo
rapporto unico ha le sue conseguenze anche nella relazione che c’è tra il Padre
e gli uomini; perché emerge una paternità di Dio nei confronti degli uomini, la
quale ha una peculiarità ed è che si rivolge agli ultimi, ai poveri, ai
peccatori. Questo per sottolineare due realtà della paternità di Dio:
1.
La sua
universalità: Dio è padre
di tutti, perché è Dio degli ultimi. Il Suo Amore verso gli ultimi significa
che ama tutti; il Suo Amore verso gli ultimi designa l’universalità della
paternità di Dio. E la gratuità dell’Amore di Dio; paternità di Dio che
va aldilà dei meriti. La sovrabbondanza di tale paternità, che non è legata
ai meriti delle persone.
2.
La paternità
non paternalistica: un Padre che
sollecita la responsabilità dei suoi figli. Paternalismo = padre che copre
tutto, ovattare la realtà dei figli facendo sì che non prendano responsabilità.
Il Cardinale Martini, nella lettera dell’anno preparatorio al
Giubileo, l’anno dedicato al Padre, dice che il Padre non è nonno; non toglie
le responsabilità dalla persona. Questo si vede dall’insegnamento di Gesù e
dalla vita stessa di Gesù; “allontana da me questo calice” ma non lo allontana.
Gesù si relaziona all’Abbà con una relazione intima nei confronti
del Padre.
Questo rapporto emerge poi dagli atteggiamenti di Gesù, in
particolare l’atteggiamento della sua Exousìa.
Gli israeliti dicevano: predica con autorità, o piuttosto con
autorevolezza. Gesù ha una autorevolezza che lo pone sullo stesso piano di
Adonai. Pensiamo ai miracoli che Gesù compie; li compie con autorevolezza;
pensiamo al perdono dei peccati (il paralitico; Dio solo può rimettere i
peccati à
consapevolezza di Gesù della sua autorità che lo pone sullo stesso piano di
Adonai). Come Adonai chiamava i suoi profeti nell’Antico Testamento con
autorità; così Gesù chiama i suoi discepoli, con autorità, perché lo seguano.
La legge e il tempio: Gesù non si pone mai CONTRO la legge, ma si
pone spesso contro le interpretazioni della legge che venivano date dai
giudaici; e qui si pone come interprete definitivo e autorevole della legge. Di
nuovo, l’attestazione di una exousìa, di una autorevolezza unica.
Anche quando dice del tempio, distruggetelo e io lo ricostruisco in
tre giorni; Gesù pone se stesso come il luogo della presenza definitiva di Dio;
e lo fa in maniera inaudita à Insomma,
una exousìa propria e esclusiva di Dio.
Anche la propria coscienza figliale di Gesù, la sua propria
identità:
Gesù non dice mai di se stesso profeta (Gesù sicuramente lo
riteneva insufficiente), ma la gente usava questo termine per Lui. Anche c’è il
titolo di Messia, che la gente usa, ma Gesù lo ritiene anche insufficiente (per
non ridurre la sua venuta a questa nozione degli ebrei).
Il titolo che Gesù usava per se stesso era: “Figlio dell’uomo”.
Negli anni 100 (contesto ellenistico), nelle lettere di Ignazio di
Antiochia, scrive: Gesù Cristo è Figlio dell’uomo e Figlio di Dio; dove Figlio
dell’uomo indica la natura umana di Gesù e Figlio di Dio indica la natura
divina. Quindi per un cristiano dei primi secoli, dire Figlio dell’uomo indica
l’umanità di Gesù.
Ma quando Gesù usa questo termine, non lo usa secondo la mentalità
greca (ellenismo), ma secondo le categorie giudaiche che avevano elaborate il
termine Figlio dell’uomo.
Nel libro di Daniele, cap. 7, c’è questa figura del Figlio
dell’uomo. Dove, dopo aver tolto il potere dai 4 bestie, appare la figura come
“una figura di uomo al quale Dio dà potere e Gloria”.
La ripresa di questa figura negli scritti successivi a Daniele, che
ha avuto negli scritti di letteratura giudaica un grande sviluppo anche nei
tempi di Gesù. Quindi ci riferiamo alla letteratura “inter-testamentaria”
perché è tra i due testamenti; è extra-canonica, non è canonica.
In questa letteratura, si parla molto spesso del Figlio dell’uomo,
che viene associato al Messia; si parla di Lui come colui che fu scelto in
nascosto, da Dio, da prima che ci fu ogni cosa (preesistenza), associata al
giudizio escatologico, collegata alla figura del servo sofferente, e collegata
alla figura del servo di Yahvé.
Insomma, nell’ebraismo, la figura del Figlio dell’uomo rappresenta
una figura altissima, il massimo vicino a Dio che si può esprimere (sempre
nell’ottica del monoteismo non trinitario, che non c’è nell’ebraismo).
Per gli ebrei, dire “Figlio dell’uomo” aveva tutti questi
significati; e Gesù usa questo termine per se stesso; sia per quanto riguarda
la sua attività presente, sia il discorso del giudizio escatologico, sia il
potere di rimettere i peccati, sia nella sua passione e morte … Tutte le
volte in cui si presenta allo stesso piano di Adonai, usa questo termine
à rapporto
strettissimo che Lui ha nei confronti del Padre (a livello di preesistenza,
presente, escatologica, ecc …).
Questa categoria ha un valore di più che dire “Figlio di Dio”;
perché “Figlio di Dio” poteva essere detto a qualunque: il popolo di Israele è
figlio di Adonai; il re lo è; gli angeli sono considerati figli di Dio (tutti
certamente nel senso di figlio adottato). Quindi se Gesù lo usava, avrebbe
avuto nel contesto ebraico una rilevanza di meno.
Però Gesù parla di se stesso come il Figlio del Padre, in
senso assoluto (prendiamo la parabola dei vignaioli omicidi).
Mc 12,6: Parabola dei vignaioli omicidi
Quel Signore che manda alla fine “il Figlio” il quale viene ucciso;
(E nei passi paralleli, dicono che viene portato fuori e poi ucciso).
Il Figlio: Agapetòs = il Figlio diletto!
Anche in Mt 11,27: “tutto è stato dato dal Padre mio; nessuno
conosce il Padre se non il Figlio; e nessuno conosce il Figlio se non il Padre
e colui a chi il Padre vuole rivelare”.
Insomma, relazione UNICA tra Gesù e il Padre.
Gesù dice: “… ma IO vi dico …”
Questo “IO” si ritrova nel Vangelo di Giovanni, dove figura sempre
“IO SONO”. In quest’espressione emerge l’IO di Gesù, la consapevolezza
di avere un IO tutto particolare, e nel Vangelo di Giovanni abbiamo l’utilizza
del IO SONO in senso assoluto.
Gv 8,57-58: nella disputa tra Gesù e i capi del giudei: “prima che
Abramo fosse, IO SONO” (“EGO EIMI” in greco). Questo è il nome di Dio; è la
bestemmia per gli ebrei.
Gesù si pone allo stesso livello del Padre. Tutta la sua vita è relazionata al Padre sì, ma è una
relazione tale che Gesù si pone allo stesso livello del Padre. IO SONO tanto
quanto IO SONO del Padre.
Pur non essendo arrivati ancora all’evento pasquale, a quella luce
della Rivelazione del Padre e Figlio e Spirito Santo, emerge già nella fase
prepasquale la figura del Padre e del rapporto del Figlio con Lui e l’identità
di Gesù.
Lo Spirito Santo:
Sono pochi passi. Ma emerge in tutto il ministero di Gesù questa
opera dello Spirito.
Ci sono tre LOGHIA di Gesù dove emerge lo Spirito Santo:
1-
Mt 12,28: “Se caccio i demoni con lo Spirito di Dio, quindi è giunto per
voi il Regno di Dio”.
Emerge il tema fondamentale della predicazione di Gesù che è il Regno.
Il fine dei segni e i gesti che Gesù compie è il Regno. Ma questo regno si
istaura attraverso e per lo Spirito di Dio. à azione
trinitaria: Regno di Dio; che si istaura grazie alle azioni di Gesù,
attraverso e per lo Spirito di Dio.
Quindi lo Spirito di Dio è messo in evidenza con la prassi, i gesti
che Gesù compie.
2-
Mc 3,28 (e paralleli): bestemmia contro lo Spirito Santo.
Passo difficilmente interpretato.
Gesù menziona lo Spirito Santo.
Questa bestemmia probabilmente consiste (secondo il contesto del
passo) nella non-riconoscenza dell’opera di Dio, dell’identità di Gesù che fu
attribuita a Satana. Chi non riconosce la missione e identità di Gesù, che
si riconoscono grazie all’azione dello Spirito Santo non può essere perdonato.
Emerge il legame tra lo Spirito Santo e la missione di Gesù!
La missione di Gesù è legata all’azione dello Spirito Santo e
vice-versa. (legame forte).
3-
Mc 13,11 (e paralleli): Gesù promette lo Spirito ai suoi discepoli: “non
sarete voi a parlare, ma lo Spirito Santo”).
Lo Spirito Santo che continuerà l’opera di Gesù agendo nei suoi
discepoli.
Questi sono i 3 loghia, brevi
ma tuttavia significativi!
Dovremmo aspettare poi nella
Rivelazione che Dio farà di se stesso nell’evento Pasquale, dove tutte le
azioni e affermazioni di Gesù avranno tutta la loro valenza, e troveranno il
loro compimento.
17 dicembre
2010
L’evento
Pasquale:
L’evento pasquale è preceduto da un
momento, che è la cena pasquale, su cui ci fermiamo in alcuni punti (il
passaggio pasquale del popolo ebraico di cui si fa memoria nella cena pasquale
ebraica).
Il compimento che Gesù fa supera
l’attesa stessa; Gesù non faceva memoria di quello che tutti gli ebrei facevano
memoria (passaggio dal Mar Morto); ma del compimento che Gesù porta con la sua
morte e risurrezione.
Connessione e compimento della
storia della salvezza veterotestamentaria.
Cena pasquale:
anticipazione memoriale e chiave ermeneutica di quello che Gesù compierà con la
sua morte e risurrezione:
Anticipazione à
prendete e bevete .. per la remissione dei peccati. Anticipazione di quello che
Gesù compierà sulla croce; il dono della sua vita, il suo corpo e il suo
sangue.
Anticipazione che diventa memoriale
per il futuro à fate
questo in memoria di me; la cena pasquale diventa di nuovo il memoriale di
quello che anticipa.
Ermeneutica à
Gesù attraverso il gesto e le parole della cena pasquale ci dà la chiave
interpretativa di quello che avverrà con la sua morte e la sua risurrezione. Il
mio corpo spezzato PER VOI; il mio sangue versato PER VOI; essere PER
GLI ALTRI che ha caratterizzato tutta la vita di Gesù raggiunge il suo culmine
con la Pasqua.
Gesù sulla croce non può spiegare
quello che sta facendo; è nella cena pasquale che ce lo spiega e dà il significato
di quello che sta facendo. Ecco perché ermeneutica; ci dà l’interpretazione.
È il culmine di questo ESSERE PER.
Atto che Giovanni descrive
attraverso il gesto della lavanda dei piedi, perché è complementare di quello
che hanno scritto gli altri evangelisti.
Evento
Pasquale:
Prospettiva
nostra: Evento pasquale come culmine della Rivelazione. Quindi la valenza rivelativa dell’evento pasquale. (certo c’è la
valenza salvifica, ma noi ci fermiamo sulla valenza rivelativa).
Vedremo l’evento pasquale come atto
del Padre e atto del Figlio e atto dello Spirito Santo. L’evento pasquale va
considerato nella sua totalità, e non separato; però possiamo distinguere una
duplice dimensione dell’evento (croce e morte / Risurrezione).
Atto del Padre (nella duplice
dimensione: croce, sofferenza, morte / Risurrezione)
Atto del Figlio (nella stessa
duplice dimensione).
Atto dello Spirito Santo (anche
nella stessa duplice dimensione).
Altra nota sul metodo: lo
consideriamo in quella prima posizione economica (rispetto al ciclo Economia à Teologia à
Economia); poi passeremo all’aspetto immanente, cioè passeremo alla teologia,
rivelazione di quello che Dio è in sé stesso, eternamente Trinità, e questo poi
diventa fondamento della Rivelazione nella storia della salvezza (à ritorno all’economia, vista in base a quel fondamento trinitario
che costituisce la stessa vita immanente di Dio).
1.
Atto
del padre:
Vediamo un silenzio del Padre
(non dice nessuna parola quando Gesù era sulla croce; invece nel Battesimo e
nella Trasfigurazione troviamo parole del Padre; ma sulla croce no. N.B.:
non parliamo di “assenza”; parliamo di “silenzio”). Non troviamo una
diretta azione del Padre. L’exousìa che Gesù mostrava nel suo
rapporto con il Padre, la troviamo di meno sulla croce.
Gesù si avvicina alla sua passione
perché sa che c’è un disegno, e che questo rientra in un disegno. Non è che
Gesù subisce un fato o un destino; o un frutto della casualità; NO. C’è un
disegno, ed è il progetto del Padre. Gesù si avvicina all’evento sapendo che
c’è un disegno del Padre: la salvezza degli uomini.
Eliminiamo
quindi ogni visione della croce come atto dell’ira divina, o di una giustizia vendicativa di Dio; il Padre che fa del Figlio
come sacrificio vendicativo, NO!
Il disegno del
Padre è un disegno di Salvezza; è
quindi un disegno di amore, di misericordia, di salvezza. E in virtù di questo
disegno, il Padre
CONSEGNA il Figlio. Il verbo Consegnare (Paradidomi)! (IMPORTANTE).
Il Padre non interviene per salvare
il Figlio che gli grida. Lascia che il Figlio fino in fondo aderisca a quel
progetto di Salvezza (che è quello del Padre) e che mostra fino in fondo la sua
fedeltà al Padre e al suo progetto per gli uomini.
Ecco la paternità non paternalistica
del Padre; (della quale avevamo già parlato prima). È un padre che richiama
alla responsabilità. Lascia che il Figlio mostri la sua adesione al piano
del Padre e viva con solidarietà nei confronti degli uomini.
Il Padre
interviene nella Risurrezione; per cui la Risurrezione viene considerata e
letta come atto del Padre.
La risurrezione di Gesù diventa
l’attestazione ultima e definitiva che il Padre dà della Figliolanza di Gesù
Cristo. Attestazione definitiva che quel uomo è il Figlio.
Nel primo discorso che Pietro
fa dopo la pentecoste (Atti 2,22 e in avanti: “..Gesù di Nazareth, uomo
… consegnato a voi secondo quel progetto del Padre, voi l’avete crocifisso e
ucciso .. Dio lo ha risuscitato (il Padre lo ha risuscitato)”).
Il Padre
attesta in maniera ultima e definitiva che quel uomo è il Figlio risuscitandolo
dai morti.
Se questa è l’opera del Padre
nell’evento pasquale, in questa duplice dimensione della morte e la
risurrezione, adesso vediamo l’atto del Figlio.
2.
Atto
del Figlio:
è difficile parlare di “atto” del
Figlio; perché Gesù, più che “attore” sembra colui che subisce. Altri
sembrano attori: i capi giudei, la folla, i romani … . Ma ricordiamo quello che
ha detto in Gv10,18: Nessuno mi toglie la vita, io la offro … ho il potere di
dare la vita e il potere di ritirarla. Dietro a questo apparente “subire-tutto-quello-che-sta-accadendo”;
dietro questo, c’è la dimensione di offrire la sua vita; (gli
altri sono strumenti). Il
progetto del Padre che accoglie il Figlio il quale OFFRE da se
stesso la sua vita.
Gesù vive e muore fedele fino in
fondo al Padre; e Gesù che vive in amore e solidarietà nei confronti degli
uomini fino alla morte.
La croce:
Dal punto di vista sociale per i
romani, la croce era il supplizio per i non-cittadini romani; cioè coloro che non
hanno diritti, cioè chi non aveva dignità, la morte degli ultimi: schiavi, ecc
... (Paolo non viene crocifisso perché cittadino romano, invece viene
decapitato).
Gesù con la sua
morte si fa solidale con gli ultimi, non considerati della città.
Dal punto di
vista giudaico, l’essere appeso
al legno, nella mentalità ebraica, significava essere esclusi, fuori,
dell’alleanza. Colui che è maledetto da Dio. Ecco perché crocifisso FUORI
della città, FUORI dell’alleanza.
Gesù sulla croce pronuncia questo
primo versetto del Salmo 22: Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?
Questa è l’unica volta che Gesù si rivolge al Padre chiamandolo Dio e non Abbà;
e questo perché cita un salmo.
Collochiamoci nel contesto: Gesù
abbandonato, prima dalle folle, poi dai discepoli nel Gethsemane; poi da
tutti (tranne Maria e Giovanni come ci indica il Vangelo); e poi pronuncia
queste parole del versetto del salmo. Questo salmo sono le parole di un
giusto che ingiustamente sta subendo ingiustizie degli uomini. (cfr. Salmo
22 nella Bibbia).
I Padri della Chiesa in generale
hanno letto questo salmo, il senso del salmo, sulla bocca di Gesù in base al
salmo stesso. Per gli ebrei, dire il primo versetto era come
intenzionalmente dire tutto il salmo; e siccome il salmo finisce con una
lode al Signore, i Padri della Chiesa dicono: leggiamo quello che dice
Gesù alla luce del salmo, che dice le sue agonie, ma anche la lode a Dio che
lo salva.
Von Balthasar e
Moltmann: non è Gesù per il salmo, ma è il salmo per Gesù. Si interpreta l’Antico Testamento con il Nuovo Testamento; non
vice-versa. Non si interpreta l’esperienza di Gesù in base all’esperienza
veterotestamentaria. È il vecchio che si interpreta alla luce del nuovo.
Gesù si rivolge al Padre; coglie fino in fondo il silenzio del Padre; si
fa solidale con tutti coloro che con la proprio esistenza hanno
esperimentato e esperimentano il silenzio di Dio nella loro esistenza; e
nonostante ciò Gesù rimane fedele. Ecco la fedeltà fino in fondo di Gesù
nonostante il silenzio del Padre; la sua fiducia nel Padre rimane immutata.
14
gennaio 2011
Gesù non
soltanto muore, ma muore in croce. Dal punto di vista sociale, morte di croce
riservata agli schiavi, e non all’uomo libero e l’uomo romano con diritti. Gesù
nel suo farsi solidale a noi si è fatto solidale con gli ultimi della società.
Dal punto di vista religioso, secondo il Dt 22,22, colui che era appeso al
legno era colui che era considerato maledetto da Dio, fuori dell’alleanza,
fuori della comunità del popolo dell’alleanza. Gesù si è fatto solidale con
questi. E il fatto che Gesù sia stato crocifisso fuori della città, si vede
questa solidarietà con l’umanità.
Anche la
sua solidarietà si vede nel suo grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato”. Gesù si rivolge sempre a Dio con il nome di “Padre”, ECCETTO
che in questo momento dove Dio viene chiamato Dio e non Padre, e questo perché
si tratta di una citazione di un salmo.
Contesto: Gesù abbandonato dalle folle, dai
discepoli nel Gethsemane, e poi da tutti (rimangono il discepolo amato e Maria
e le donne). Gesù sperimenta fin una sorta di abbandono anche da parte del
Padre.
Il
Salmo si conclude con un inno di lode: questo giusto che subisce queste sventure si rivolge a Dio
nel profondo della sua sofferenza e Dio interviene e lo libera, e il salmo si
conclude con un inno di grazie e di lode a Dio che lo ha liberato.
Come
interpretare questo salmo sulla bocca di Gesù?
1. Interpretazione generale dei Padri
della Chiesa: tenendo conto che pronunciare il titolo del salmo, il
primo versetto, significa pronunciare tutto il salmo, e quindi non è soltanto
la prima parte (abbandono) ma anche l’ultima parte della lode e del
ringraziamento per quest’intervento di Dio.
2. In realtà, se guardiamo all’evento
pasquale in sé e per sé, vediamo che Dio Padre non è intervenuto, perché Gesù
muore in croce.
I
teologi contemporanei (Von Balthasar e Moltmann p.es.) hanno detto che in
realtà non è Gesù per il salmo, ma il salmo per Gesù! non dobbiamo
interpretare l’esperienza di Gesù in base all’Antico Testamento, ma
interpretare l’Antico Testamento alla luce dell’esperienza di Gesù. Si
interpreta l’Antico Testamento alla luce del Nuovo Testamento (e non
l’inverso).
Quindi
bisogna rileggere il salmo alla luce dell’esperienza di Gesù; e allora cogliere
tutta la profondità di queste parole, dove Gesù sperimenta fino in fondo il
silenzio del Padre; e così si fa solidale con tutti coloro, nell’umanità
e nel corso della storia, che hanno sperimentato e sperimentano e
sperimenteranno il silenzio di Dio nella loro vita.
Non
è un grido di disperazione, ma un grido in cui emerge tutta la sua fedeltà, in
maniera totale e radicale, al Padre. Tutto il suo aderire al progetto del Padre
su di Lui. Questa fedeltà emerge soprattutto sulla croce. Esprime fino in
fondo quell’adesione e fedeltà al Padre che caratterizza la sua natura divina
nell’eternità.
Quindi
un’affermazione totale e finale e radicale della figliolanza del Figlio al Padre!
E
ricordiamoci che il Figlio ha il potere di offrire la sua vita e di prenderla.
E la risurrezione allora è un atto non solo del Padre, ma anche del Figlio.
Nel silenzio del Padre, emerge la fedeltà totale e radicale al Padre.
La
risurrezione allora opera condivisa dal
Padre e dal Figlio.
3. Atto dello Spirito Santo:
L’evento
pasquale è anche atto dello Spirito Santo:
Possiamo
fare qua un discorso analogo a quello dell’atto del Padre. Non troviamo nei
Vangeli una presenza ESPLICITA dello Spirito Santo; non è menzionato nei
racconti della Passione.
Quindi
analogamente possiamo parlare del fatto che Gesù non sperimenta quest’azione
dello Spirito Santo;
mentre tutto il suo ministero avveniva sotto il segno dello Spirito Santo,
questa presenza non è rilevabile durante la Passione. Non possiamo dire
“assenza dello Spirito Santo”, non usiamo questo termine, però non c’è
questa sperimentabilità della presenza dello Spirito Santo, non è una presenza
sperimentabile, ma non è un’assenza.
Nel
vangelo di Giovanni, Gv 19,28, Gesù dice: “ho sete”. Gv ha un
approfondimento teologico più esplicito rispetto ai sinottici. Gv riporta
questa richiesta di Gesù non semplicemente per un fatto biografico, ma ha un
significato teologico. Gesù in questo momento si riferisce a che cosa? Gv 4
e Gv 7,37; Gesù parla dell’acqua viva e dove si fa riferimento allo Spirito
Santo come ACQUA. Gv riferisce questa richiesta di Gesù non come casuale;
ma Gesù sperimenta la non presenza efficace, il silenzio, dello Spirito
Santo. Così, dicendo “ho sete”, c’è un riferimento allo Spirito Santo
(analogo a “Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato”).
Questo è
vero altrettanto per il momento della risurrezione, dove è anche riferita allo
Spirito Santo. Paolo, nella lettera ai romani, dice: “… secondo
lo Spirito di santificazione … risurrezione”. Lo Spirito Santo
agente nella risurrezione tanto quanto il Padre e il Figlio sono agenti.
N.B.: Noi qui, rimaniamo ad un livello
fenomenologico di ciò che accade sulla croce. Siamo al livello economico e
rimaniamo all’economia; dopo, aiutati dalla Sacra Scrittura, vedremo il
passaggio dal livello economico al livello immanente, vita divina immanente.
Perché infine non è che il Padre o lo Spirito Santo sono assenti, perché
nell’eternità il Padre e lo Spirito Santo sono co-presenti, anche nel momento
della croce.
L’azione
dello Spirito Santo è allora esplicita nella risurrezione (in Paolo), e anche
Giovanni stesso, descrive la morte di Gesù, in Gv 19,30, e NON dice “spirò”, ma
dice “emise lo Spirito”, “consegnò lo Spirito”.
Qua c’è un
significato teologico profondo. Gv 19,28: “ho sete” | Gv 19,30: muore e
quindi “consegna lo Spirito”. A chi consegna lo Spirito? A chi erano
sotto la croce: Giovanni e Maria. È a loro che consegna lo Spirito. Loro
sono il primo germe della Chiesa. Consegna lo Spirito a quel primo germe di
chiesa che è già raccolta ai piedi della sua croce!
Gesù
dice “ho sete”
à l’esperienza di aver “perso” lo Spirito à
ma poi per ritrovarlo, e non per se stesso, ma per gli altri! Lo “perde” per
ritrovarlo e donarlo sulla croce.
Giovanni
concentra tutto in questo momento, senza la cronologia degli eventi (come gli
altri evangelisti); già a questo momento c’è l’effusione dello Spirito
Santo. A Giovanni interessa quest’unità dell’evento pasquale, più che la
cronologia degli eventi. Quindi un’unità del: la morte e la risurrezione di
Gesù (che avviene nello spirito di santificazione), e il momento in cui Gesù
ritrova lo Spirito per donarlo alla comunità rappresentata da Giovanni e Maria
(l’effusione dello Spirito Santo).
Quindi
nell’evento pasquale vediamo la distinzione e l’unità e comunione del Padre e
Figlio e Spirito Santo.
Distinzione
perché: quando Gesù sperimenta il silenzio del Padre e dello Spirito Santo,
questo ci fa capire che Gesù non è il Padre né lo Spirito Santo. Questa esperienza “scandalosa” del
silenzio sulla croce, ci rivela la distinzione del Padre e Figlio e Spirito
Santo. Allora l’evento pasquale ci rivela la distinzione che c’è tra il
Padre e Figlio e Spirito Santo. (Proprio perché il Figlio non è il Padre e che
non è lo Spirito Santo e che il Padre non è il Figlio ecc …, proprio per questo
che Gesù sperimenta il silenzio …).
E anche
l’evento pasquale ci rivela l’unità e comunione nella Trinità.
(Questo è
nuovo rispetto al monoteismo giudaico dove non c’è questa distinzione, nemmeno
quando parla della ruàh).
Abbiamo
finora visto Gesù prepasquale poi l’evento pasquale. Adesso vediamo
l’approfondimento, della Rivelazione che Dio ha fatto di se stesso, sotto la
guida dello Spirito Santo (nella comunità della Chiesa), (nell’ispirazione dei
testi canonici …).
I primi
scritti neotestamentari à Atti 2,38: i cristiani sono
battezzati “nel nome di Gesù Cristo”.
In Mt,
dove la formula battesimale è essere battezzati nel nome del Padre e Figlio
e Spirito Santo (Mt 28,19).
Le due
formule non si possono essere messi in contrapposizione. “il nome di Gesù” è
tale perché è in unità con il Padre e lo Spirito Santo. La formula adottata
dalla Chiesa è quella trinitaria.
L’inserimento
nella Chiesa avviene quindi nella Trinità, nel nome del Padre e Figlio e Spirito Santo. Allora questo
avviene dentro l’esperienza della Trinità che la prima comunità ha fatto dopo
Pasqua.
Esplicitazione
di quello che è stato rivelato nell’evento pasquale:
Lettere
di Paolo: in esse
troviamo quello che chiamiamo “le formule trinitarie”:
2Tessalonici
2:13-14: nel
testo greco “Dio” ha l’articoloà“il Dio”; “HoTheòs” con
l’articolo significa il Padre. (Quando troviamo HoTheòs, il Dio, ci riferiamo
al Padre).
Notiamo
il ritmo trinitario.: “Noi però dobbiamo rendere sempre grazie a Dio per
voi, fratelli amati dal Signore, perché Dio vi ha scelti come primizia per la
salvezza, attraverso l'opera santificatrice dello Spirito e la fede nella verità,14 chiamandovi a questo con il nostro vangelo,
per il possesso della gloria del Signore nostro Gesù Cristo”.
2Cor
13:13: “La
grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito
Santo siano con tutti voi”,
che è diventato il saluto nella formula liturgica. Anche qui “HoTheòs” e
la esplicitiamo nella liturgia dicendo “il Dio Padre”.
Tutte
queste formule hanno una forma funzionale, cioè trattano della storia di
Dio che agisce per la salvezza dell’uomo. L’azione di Dio nei confronti
dell’umanità ha questo ritmo trinitario. Nel suo agire AD EXTRA, Dio agisce in
quanto Padre e Figlio e Spirito Santo.
Negli
scritti neotestamentari non troviamo soltanto queste formule funzionali, ma
anche notiamo la possibilità di conoscere l’identità immanente di Dio.
è Passaggio dall’economia alla vita
immanente.
La
possibilità di conoscere l’identità di Dio in se stesso.
Vediamo
adesso inni che sono testi pre-paolini inseriti da Paolo nelle
sue lettere. Noi cogliamo allora non soltanto queste formule trinitarie, ma
il lavoro di approfondimento di quello che è Dio immanente, che la prima
comunità ha fatto sotto la guida dello Spirito Santo:
Col
1:13-19,
(sull’identità del Figlio): “… è l’immagine del Dio invisibile”. Paolo
utilizza le categorie sapienziali (della Sapienza veterotestamentaria):
relazione con Adonai, discorso dell’immagine. Paolo riprende il discorso
dell’immagine: il Figlio è visibile, il Padre è invisibile; può essere solo
visto tramite l’immagine che è il Figlio.
1:15 Ój ™stin e„kën toà qeoà toà ¢or£tou , prwtÒtokoj p£shj kt…sewj
Che è l’immagine di Dio l’invisibile, primogenito
di ogni creatura
Il
Figlio è immagine del Dio invisibile: Protótokos = primogenito, primo generato, generato
prima | pàses ktìseos = di ogni creatura.
“Protòtokos”
à verbo “tikto” = generare. Il Figlio, immagine
del Dio invisibile, è colui che viene generato. Le altre cose sono cose
“create”. “ktìseos” à “ktiso” = creare. Solo il
Figlio è generato, mentre le altre cose sono create.
L’immagine,
il Figlio, non è il primo di una serie; perché le altre cose non sono generate,
sono creature!
Distinzione
chiara di Paolo tra il Figlio immagine, e le altre cose. Solo il Figlio è
generato e viene chiamate “protòtokos”, le altre cose sono creature.
“tutte
le cose sono state create in Lui” à
tutte le cose, nei cieli e nella terra, visibili e invisibili.
“per
mezzo di Lui e in vista di Lui” à Distinzione di Paolo tra “per
mezzo” e “in vista”. Il Figlio “causa
efficiente” (per mezzo del quale sono create) e “causa finale”; è il fine verso
il quale tendono tutte le cose.
“e
tutte le cose sussistono in Lui” à
permangono nel loro essere.
Notare quando
dall’economia siamo passati ad una riflessione teologica.
Allora: Distinzione rispetto alla
creazione – mediazione rispetto alla creazione – il fine – e in Lui le cose
permangono nel loro essere.
“il
primogenito di coloro risuscitati dai morti” à usa di nuovo il termine “protòtokos”!
il Figlio immagine allora non è il primogenito delle creature ma è il
primogenito di coloro che sono risuscitati dai morti!
“in Lui
ha fatto abitare ogni pienezza” à Il Figlio ha ricevuto tutto dal
Padre; tutto quello che è il Padre l’ha donato al Figlio.
Allora: Deciso approfondimento di quello
che è la vita immanente di Dio.
Anche nel Prologo
della lettera agli ebrei:
Analogia
evidente con il testo dei Colossesi.
“…“karaktèr”
della sua sostanza” à (“hypostasis” – SUBSTANTIA =
l’ESSERE DI DIO). Impronta, irradiazione della sostanza di Dio.
“tutto
sostiene con la sua Parola” à mediazione nella creazione.
“remissione
dei peccati” à dinamica storico-salvifica del
Verbo incarnato (mediazione nella redenzione).
Tutto viene
messo nella stessa frase; per indicare che è lo stesso che sta nell’eternità in
comunione con il Padre è lo stesso che redime i peccati.
1Cor
2:10 e in poi:
“a noi
Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito Santo” à
ruolo e azione dello Spirito Santo a livello economico.
“lo
Spirito conosce ogni cosa anche le profondità di Dio” à
passaggio all’immanente.
“nessuno
li ha conosciuti se non lo Spirito di Dio”.
Lo spirito
che scruta le profondità di Dio e ci fa conoscere Dio: quindi l’azione dello
Spirito Santo che prende azione dalla stessa vita immanente di Dio. Lo Spirito
ci viene a noi e ci fa conoscere perché è lo Spirito che scruta le profondità
dello Spirito.
E si
rivela la distinzione tra la personalità del Padre e Figlio e Spirito Santo.
Distinzione
tra la personalità del Padre e Figlio e Spirito Santo:
Emerge
soprattutto in Luca, negli Atti degli apostoli, dove cogliamo in maniera
chiarissima la personalità propria dello Spirito Santo.
Il
vero protagonista degli Atti degli apostoli è lo Spirito Santo. Luca ci fa
vedere questo.
Questo
emerge in maniera evidente in tutti gli Atti. Ma in particolare:
Atti
13: “…
Barnaba e Saulo per l’opera alla quale erano chiamati .. essi inviati dallo
Spirito Santo … 9 Saulo, colmato dallo Spirito,
…”.
Lo Spirito
Santo assume una personalità assolutamente stagliata negli Atti degli Apostoli.
Atti
16:6: “… lo
Spirito Santo li chiama a … Lo Spirito di Gesù non li permise … Lo Spirito
Santo li impedisce …”.
È lo
Spirito Santo che agisce, spinge, impedisce; è Lui il protagonista.
Insomma,
vediamo evidenziata in maniera chiarissima questa personalità dello Spirito
Santo.
Approfondimento
della distinta personalità del Figlio rispetto al Padre; dello Spirito rispetto
al Padre e al Figlio.
Alla luce
dell’evento pasquale, e alla luce delle prime missioni della Chiesa dopo
Pasqua; emerge sempre di più questa distinzione del Padre e Figlio e Spirito
Santo; ma soprattutto del Figlio e dello Spirito rispetto al Padre (perché la
divinità del Padre non è mai stata messa in dubbio; ricordiamoci che il Cristianesimo
proviene dal monoteismo giudaico).
Distinzione
nell’opera giovannea:
(Distinzione e unità)
Vedremo la
prossima volta come emerge, nell’opera giovannea, sia la distinta identità del
Figlio e lo Spirito Santo (il nome LOGOS per il Figlio; e il nome PARACLITO per
lo Spirito), e sia dei termini per esprimere in maniera rilevata l’identità UNA
di Dio; cioè l’unità di Dio (“Gloria” e “Agape” termini che rivelano in maniera
più precisa l’identità una e unica, l’unità, di Dio).
21
gennaio 2011
[cont
…] Approfondimento nell’opera
giovannea: (opera = vangelo e lettere)
Vediamo la
distinta personalità del Figlio rispetto al Padre e allo Spirito Santo. E i
nomi DOXA AGAPE e LOGOS. E lo Spirito Santo lo chiama “PARACLITO”.
Quindi
nell’opera giovannea vediamo da una parte, la distinzione tra le personalità
del Padre e Figlio e Spirito Santo e dall’altra parte, una nuova espressione
dell’unità di Dio,
alla luce della Rivelazione avvenuta dell’evento pasquale; dove la fede
monoteistica giudaica non viene messa in discussione ma viene riformulata
l’unità di Dio, e troviamo in Giovanni “DOXA” e “AGAPE” utilizzate per ri-significare
quella che è l’unità di Dio.
L’identità
del Figlio LOGOS:
Il termine
LOGOS lo troviamo solamente nel prologo del vangelo di Giovanni. Gli esegeti si
sono interrogati sul significato da dare a questo termine, perché non ha
paralleli nel Nuovo Testamento. Il parallelo a prima vista è quello della
filosofia greca, perché LOGOS è stato utilizzato da sempre. (p.es. Eraclito).
Lo stoicismo utilizza ampliamente il termine LOGOS. Nello stoicismo, il LOGOS è
il principio dell’unità e dell’intelligibilità del cosmo. Il cosmo ha la sua
unità grazie al LOGOS, e in quanto principio di unità del cosmo, è anche
proprio l’intelligibilità del cosmo; l’ordine logico del cosmo è grazie al
Logos. Però il LOGOS stoico ha una connotazione impersonale; è quasi una
forza cosmica, non ha una dimensione personale.
Mentre
il logos giovanneo ha una dimensione personale. Ecco quindi che nonostante la
presenza del termine linguistico stesso, il significato di questo termine è ben
diverso in questi due ambiti. Non possiamo allora tenere che la fonte di Giovanni
sia primariamente filosofica. Lo possiamo forse allora ricondurre alla
Rivelazione veterotestamentaria, e quindi alla nozione di Parola, DABAR.
Ed è più vicino a PAROLA perché è una Parola personale. Dio crea con la sua
Parola; Dio disse e le cose furono create. La Parola di Adonai è quindi legata
alla figura di Adonai e quindi più personale; è legata anche alla Sapienza,
alla SOPHIA degli scritti sapienziali; la quale assume quasi una
dimensione personale. Il nesso di questo termine è più da rintracciare nella
sapienza e nei scritti veterotestamentarii che nella filosofia greca.
Ma il
termine LOGOS giovanneo contiene molto di più rispetto alla Parola-Sapienza.
LOGOS rimanda di più al tema della Rivelazione, al Figlio Rivelazione del
Padre.
E la
chiave ermeneutica per capire il significato del termine è costituita dall’evento
di Gesù. Cioè noi possiamo trovare dei rimandi più lontani sia alla categoria veterotestamentaria
sia alla filosofia; ma la chiave di lettura rimane primariamente l’evento
Gesù! Non possiamo capire il Nuovo Testamento alla luce dell’Antico
Testamento, no! Questi possono aiutare, ma per dare il senso del termine LOGOS,
dobbiamo guardare la novità che il Cristo ha portato. LOGOS è immediatamente
riferito a Cristo. Giovanni non legge l’evento Cristo alla luce della sapienza veterotestamentaria
e neppure alla categoria greca del LOGOS, ma semmai a partire dall’evento
Cristo, rilegge la categoria veterotestamentaria sulla sapienza e quella più
lontana della filosofia greca.
La
chiave ermeneutica rimane quindi l’evento Cristo! È grazie a questo che anche il rimando
all’Antico Testamento e alla sapienza greca sono reinterpretati dalla luce
gettata dall’evento Cristo e particolarmente dall’evento pasquale.
Leggiamo
Gv 1:1:
En
archè en ò logos à in principio era il Logos (o il
Verbo).
Il punto
di partenza è “in principio”. Se negli altri vangeli il punto di partenza era
l’evento dell’economia, nel vangelo di Giovanni il punto di partenza è “in
principio”, non perché Giovanni nega l’economia, ma perché la presuppone! Ecco
il passaggio dall’economico all’immanente! Il punto di partenza di Giovanni
è chiaramente l’evento pasquale, ma a partire dall’evento pasquale, coglie
quella che è la vita immanente di Dio. Passaggio dall’OIKONOMIA alla
THEOLOGHIA.
En
archè,
in principio à rimanda alla GENESI, prima che ogni cosa fosse creata,
prima della creazione, cioè quando c’è Dio.
Allora già
Giovanni compie questo passaggio a quello che era la vita divina immanente; e
poi fa il passaggio inverso, cioè all’evento economico (“si è fatto carne”).
Economia
à Theologhia à
Economia.
En
arché en ò logos
à in principio, prima della creazione, prima dell’economia
della salvezza, dall’eternità; c’era il LOGOS.
E il LOGOS
era presso “IL DIO”.
E quando
si usa THEOS con l’articolo (HO-THEOS), si indica il Padre! Quando si usa Dio
senza articolo “THEOS”, si indica Dio in quanto tale.
E il fatto
che Giovanni utilizzi Dio talvolta con l’articolo e talvolta senza l’articolo
non è a caso.
PROS = rivolto verso.
è Rivolto verso il Padre.
Allora
questo significa che il Logos non è il Padre; perché è rivolto verso il Padre.
Questa è una distinzione in Dio. È rivolto verso il Padre perché non è il
Padre, non è “il Dio”.
Ma allo
stesso tempo, RELAZIONE: è rivolto verso il Padre; il Logos è tale in
quanto rivolto verso il Padre; l’identità del Logos sta nel suo relazionarsi
con il Padre.
Giovanni
può dire questo perché ha visto Gesù, che nella sua vita terrena (preghiera,
azione) ha continuamente mostrato che tutta la sua esistenza, tutto il suo
essere è continuamente relazionata/o al Padre. Il Logos è tale, proprio perché
è eternamente rivolto verso il Padre, eternamente relazionato al Padre.
Allora
troviamo chiaramente espressa la distinzione tra la Parola – LOGOS e il Padre;
e allo stesso tempo la sua relazione con il Padre; il Logos trova la sua
identità proprio nella sua relazionalità al Padre.
LOGOS e
PADRE.
Il LOGOS
non è HO-THEOS; ma il LOGOS è THEOS, è Dio; non è una creatura, non è inferiore
al Padre in quanto Dio. (C’è in Giovanni distinzione tra “Il Dio” e Dio. È
una distinzione all’interno di Dio e questo avviene “en archè” quindi
non c’entra la creazione).
Tutto
questo avviene nell’unica vita divina, dove non ci sono gradi, perché il LOGOS
e il HOTHEOS tanto quanto THEOS.
Guardiamo
in un versetto la profondità teologica contenuta.
2°
versetto: in principio era presso Dio.
3°
versetto: tutto è stato fatto per mezzo di Lui (di autù). Tutte
le cose sono state create per mezzo di Lui à la mediazione del Logos nella
creazione di tutte le cose.
Allora si
passa qui al livello della creazione. Allora il rapporto che c’è tra
creazione e Dio, non è lo stesso il rapporto che c’è tra il Padre e il Logos;
siamo a due livelli diversi.
Il Padre,
al di fuori di sé, si esprime attraverso il Logos. Quando il Padre agisce AD
EXTRA, l’agire AD EXTRA segue l’ordine della vita divina immanente.
Poi si
passa all’economia della salvezza con riferimento a Giovanni Battista … fino al
versetto 14.
Versetto 14:
“e (kai) il Logos carne divenne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi”.
Abbiamo un passo ulteriore: Dio non solo agisce ad extra attraverso
il Logos, ma si tratta della novità dell’evento Cristo. E il LOGOS
SARX EGHENETO.
A livello
esegetico, Schnackenburg dice che “questa frase non vuol dire che il
Logos si è trasformato in carne; ma non può neppur significare che il Logos è
apparso soltanto sotto un rivestimento di carne, come se fosse qualcosa di
estrinseco. Invece con “EGHENETO” si esprime un cambiamento nel modo
di essere del Logos: prima era nella gloria con il Padre suo, ora pianta la sua
tenda tra gli uomini, nella piena realtà della SARX per riprendere quando
ritorna presso il Padre la sua gloria. Quindi Il Logos ha “ASSUNTO” la SARX. (Noi
usiamo il termine “ASSUNTO la sarx”).
SARX =
carne; ma stiamo attenti (in quanti eredi della mentalità greca), carne non è
intesa come nella mentalità greca, cioè non come una parte dell’uomo (contrapposta
alle altre parti: la psiche, l’anima; corpo-anima); ma carne intende “tutto
l’uomo”, l’uomo nel suo aspetto di debolezza e di mortalità e di caducità e
di limite (è la kenosi).
Il
Logos ha assunto tutta l’umanità, non soltanto una parte. (le eresie diranno poi che
soltanto una parte).
“la
tenda” è chiaramente un riferimento veterotestamentario: il luogo della
presenza di Dio in mezzo al suo popolo. A questo punto non c’è più bisogno
della tenda per prendere posto; è la SARX il luogo della presenza di Dio in
mezzo a noi. È l’umanità di Cristo il luogo della presenza di Dio nel mondo.
“e noi
vedemmo la sua gloria” (la DOXA): è nell’umanità di Cristo che noi vediamo
la sua gloria, la gloria di Dio.
“gloria
come di unigenito (monoghenes) dal Padre”: l’unico monos, non protos,
ma monos. L’unico generato; l’unico che è stato generato dal Padre è
il Logos. Di nuovo, il rapporto che c’è tra il Padre e il Logos è unico ed
è ad un altro livello rispetto al rapporto tra il mondo e Dio, che è un
rapporto di creazione (un altro livello).
“Dio – THEOS, nessuno lo ha mai visto”:
(N.B.: THEOS = natura divina; Dio in quanto tale).
Il Logos
che è nel seno del Padre (che è rivolto verso il Padre; Lui che ha questa
relazione con il Padre).
“Lui lo ha
spiegato”: lo ha rivelato, lo ha manifestato, lo ci ha fatto conoscere.
La natura
divina si è resa visibile quando il Logos ha assunto la SARX.
Ugualmente
profonda è la riflessione sullo Spirito Santo:
Da
Gv 14 a Gv 16:
cinque discorsi del Paraclito, in cui Gesù promette ai suoi discepoli un altro
Paraclito.
Paraclito
= avvocato = AD-VOCARE = Para-Caleo = Chiamare-presso.
“altro
Paraclito”: perché Gesù stesso è Paraclito.
L’altro
Paraclito si trova già relazionato a quell’altro Paraclito che è Gesù. Lo
Spirito Santo è relazionato a Gesù.
In questi
cinque discorsi è espressa la relazione tra i 3:
-
Gv
14, 16-17: io pregherò il Padre ed Egli vi manderà un altro Paraclito.
Dimensione
trinitaria che emerge chiaramente. Emerge la distinzione e allo stesso tempo
l’unità.
-
Gv
14, 25-26: “ma il Paraclito, che il Padre manderà in mio nome, …”:
il Padre
manda lo Spirito Santo nel nome del Figlio. E poi il compito e il ministero
dello Spirito Santo è quello di ricordare tutto ciò che il Figlio ha detto.
Quindi la missione del Paraclito è assolutamente connessa e relazionata a
quella del Figlio; non autonoma; distinta ma relazionata.
-
Gv
15, 26-27: “Quando vi arriverà il Paraclito che io vi manderò dal Padre ... mi
renderà testimonianza”:
Gesù dice
che io vi manderò dal Padre; tutto quello che il Figlio ha l’ha ricevuto dal
Padre; ecco perché manda il Paraclito, ma dal Padre.
“… che
procede” à “Ekporeuomai”
= sgorgare da una sorgente. È il rapporto che c’è tra il Padre e lo
Spirito Santo. È allora un rapporto di ekporeusis = Lo sgorgare
fontalmente, come da una fonte.
Nel Nuovo
Testamento, l’unico verbo che troviamo e che spiega il rapporto tra il Padre e
lo Spirito Santo è questo; non c’è un altro. Sottolineiamolo!
“Egli
mi glorificherà perché …”: di nuovo questa dinamica trinitaria. Il compito
dello Spirito Santo è di glorificare il Figlio. Il compito dello Spirito Santo
e la sua missione è di prendere quello che è del Figlio e di annunziarlo. Il
Figlio dice anche che tutto quello che è mio l’ho ricevuto dal Padre; ecco il
Padre che è la fonte! Vediamo il rapporto trinitario.
Vediamo
il dinamismo che è nella distinzione e nell’unità (Prendere e consegnare …).
Non
c’è il termine “persone” nel Nuovo Testamento, ma parliamo di distinzione tra
Padre e Figlio e Spirito Santo e nello stesso tempo la loro relazionalità,
perché l’uno è riferito all’altro. Quello che lo Spirito Santo fa lo fa in riferimento al
Figlio, e quello che il Figlio fa è in riferimento al Padre.
Riflessione
che riguarda l’economia e parte dall’economia, ma che trova la sua applicazione
in quello che è la vita immanente di Dio.
“TO PNEUMA”
è neutro; ma in riferimento al Paraclito usa il maschile “quello”. Quindi non è
qualcosa di astratto. Se fosse rimasto al neutro, potrebbe essere capito come
qualcosa di astratta, ma quando usa “quello” è proprio per indicare la sua
personalità rispetto al Padre e al Figlio.
Insomma
allora: emerge la distinta personalità del Padre e Figlio e Spirito Santo, e
l’approfondimento della distinta personalità del LOGOS e del PARACLITO; però troviamo anche termini che
esprimono la stessa unità di Dio, in cui Giovanni ridice l’unità di Dio: DOXA
e AGAPE:
DOXA = Gloria.
Ma questo
termine assume un ulteriore valenza perché esprime il rapporto tra Padre e
Figlio e Spirito Santo, perché si parla non solo di gloria ma di
glorificazione; reciproca glorificazione tra il Padre e Figlio e Spirito Santo
(Gv 17,5: io ti ho glorificato … adesso glorificami …). C’è questa reciproca
glorificazione tra il Padre e il Figlio che dimostra che sono UNO. Gv 14,8:
“Filippo dice: mostraci il Padre e basta; … chi ha visto me ha visto il Padre …
io sono nel Padre e il Padre in me …”. Si può dirlo solo perché il Padre e il
Figlio sono uno.
E per
esprimere questa unità, Giovanni usa questo termine che indica la gloria; la
reciproca glorificazione tra Padre e Figlio; e non è escluso lo Spirito Santo;
“lo Spirito Santo prenderà del mio e mi glorificherà”. Anche lo Spirito Santo è
inserito in questa reciproca glorificazione; anzi, sembra che questa
glorificazione si identifichi con il dono stesso dello Spirito Santo. Allora la
Gloria veramente è quel linguaggio utilizzato da Giovanni che indica l’essere
uno in Dio e la reciproca glorificazione dell’unica vita divina che avviene tra
Padre e Figlio e Spirito Santo. E questa glorificazione consiste nel fatto
che il Padre comunica al Figlio e il Figlio ridona al Padre in questo
meccanismo che avviene nello Spirito Santo; la gloria è il dono reciproco di
sé che il Padre fa al Figlio e il Figlio al Padre nello Spirito Santo.
Il
linguaggio della DOXA, della gloria esprime il linguaggio della comunicazione,
la dinamica nell’unica vita divina.
E esprime
questa rinnovata unità di Dio alla luce dell’evento pasquale con il termine
AGAPE; Gv 4:
Che Dio
sia amore è già emerso nell’Antico Testamento. Quando parlavamo della
misericordia di Dio nel prendersi cura del suo popolo; si esprimeva l’amore di
Dio AD EXTRA; Dio AD EXTRA si comporta con amore, esprime il suo amore come un
padre …. Ma prima dell’evento pasquale, non era mai espresso l’amore di Dio AD
INTRA.
Quel nome
di Dio dell’Es 3,14 che esprime il nome di Dio AD EXTRA (io sono con voi e
per voi, cioè nella sua azione AD EXTRA), ma Gv 4,8-16, dicendosi
che Dio è AGAPE in se stesso, ci mostra non solo l’agire ad extra di
Dio, ma quello che Dio è in se stesso; DIO, in sé, è AGAPE.
Da questo
ci viene mostrato quello che è Dio in se stesso e che per questo si manifesta ad
extra in amore. E ci fa vedere l’unica dinamica d’amore tra i tre.
Distinzione
nell’unità e unità nella distinzione: L’amore implica una distinzione, perché un amore
solipsistico non è amore. Perché ci sia amore, si deve che ci sia una pluralità
di soggetti che esprimono l’amore l’uno verso l’altro; e perché ci sia amore,
ci deve essere unità tra questi soggetti distinti.
L’amore
del Padre nei confronti del Figlio e del Figlio nei confronti del Padre, nello
Spirito Santo, rapporta l’amore di Dio per noi. “HO-THEOS AGAPE STIN”; la fonte
è nel Padre che ama il Figlio e il Figlio che ritorna questo amore, nello
Spirito Santo.
“In questo
si è manifestato l’amore di Dio per noi, perché Dio ha mandato il suo Figlio
unigenito perché noi avessimo la vita in Lui …”: questa dinamica ci è donata
perché nel dono del suo Spirito, noi rimaniamo in Dio e Dio in noi.
Ecco
questo modo nuovo ricco della novità dell’evento pasquale, in cui Giovanni
ridice Es 3,14: l’essere di Dio è AGAPE.
Qualcuno
direbbe che questa è una nuova definizione di Dio; però non possiamo dire
“definizione di Dio”; e che “ecco un nuova definizione di Dio nel Nuovo
Testamento” (rispetto a quella di Es 3,14). È contradditorio dire “definizione
di Dio” perché non si può delimitare Dio in una definizione, e in qualsiasi
linguaggio. Possiamo dire
che è un nuovo “nome” di Dio, che possiamo mettere in parallelo a Es
3,14; ma che allo stesso tempo esprime la novità: quello che Dio è in sé!
Quindi non soltanto quello che Dio ha fatto, e fa, per noi, ma quello che Dio è
in sé. Dio è AGAPE.
Questo
esprime l’unità di Dio che è AGAPE, ma anche che dice la distinzione e l’unità
allo stesso tempo. Perché abbiamo visto come AGAPE implica la distinzione e
l’unità allo stesso tempo.
[Fine
dell’esame del Nuovo Testamento].
[Nel secondo semestre, continueremo con l’approfondimento
dogmatico]
Per
l’esonero:
1- Tema a piacere (3 minuti;
sinteticamente facciamo capire al prof. che abbiamo centrato questo tema).
2- Il prof. chiede alcune domande.
21
febbraio 2011
[Parte
storico-sistematica]
Parte su
Agostino (lettura del De Trinitate).
Testimonianza
neo-testamentaria: La Chiesa ha approfondito quello che è stato rivelato nella
testimonianza neo-testamentaria. E questo avviene nella storia.
Un duplice
livello:
1. La storia della Salvezza è il punto
di partenza imprescindibile della riflessione. “Evento” pasquale. La
Rivelazione che Dio ha fatto di se stesso, lo ha fatto nella storia! I Padri
orientali della Chiesa, hanno detto che la “THEOLOGHIA” intesa come la
contemplazione di Dio in se stesso, deve per forza partire dall’oikonomia;
cioè da quel disegno di salvezza che è realizzato da Dio nella storia. Perché
l’economia (che è la Rivelazione che Dio fa di se stesso nella storia) è il
punto di partenza necessario della teologia, e per raggiungere la teologia che
è la contemplazione del mistero di Dio in se stesso.
2. Perché è nella storia della Chiesa
che avviene quella penetrazione esperienziale e poi intellettuale della realtà
del Dio Uno e Trino. Nella storia, la Chiesa compie questa opera di riflessione,
prima di tutto dal punto di vista esperienziale (vita, preghiera …) e poi viene
approfondita con il punto di vista intellettuale. Tutto questo nell’assistenza
dello Spirito Santo; Gv 16:3 (uno dei discorsi del Paraclito): lo Spirito Santo
indica e guida alla Verità tutta intera. Tensione escatologica, e dentro questa
tensione escatologica, c’è la vita e la storia della Chiesa; e dentro questa
vita, viene penetrato il mistero di Dio.
Questo
lavoro risponde a due sfide:
1. AD EXTRA: le domande che le culture
hanno posto man mano al Cristianesimo; il quale nasce in un contesto giudaico
ebraico e poi si sviluppa nel mondo greco ellenistico; che aveva categorie e
dimensioni culturali diverse da quello ebraico. Allora il Cristianesimo è
chiamato a rispondere a quelle domande delle culture in cui viene sviluppato;
perché queste culture sfidano il Cristianesimo su ciò che crede.
2. AD INTRA: lo sviluppo risponde a
quelle false credenze che sono state formulate nel seno stesso del
Cristianesimo. Sono stati fatti passi falsi nel cammino e allora la riflessione
vuole rispondere a questi passi falsi che sono stati compiuti e che hanno
richiesto una presa di posizione che ha richiesto un approfondimento. C’è paradossalmente
un mistero provvidenziale in qualche modo in questi passi falsi (eresie),
perché sono state provocazioni che hanno spinto a questi approfondimenti.
La Chiesa
coglie quegli stimoli per esprimere meglio e cogliere la Rivelazione. È proprio
dalle culture che la Chiesa ha assunto determinate categorie e nozioni per
poter approfondire meglio e esprimere meglio la Rivelazione. Questa
assimilazione viene sempre misurata e verificata a questa apostolicità
(insegnamento degli apostoli) e della cattolicità (recezione da
parte di tutta la Chiesa). Allora i due criteri sono l’apostolicità e la
cattolicità per misurare e verificare le verità del lavoro di approfondimento.
Nei
concili dei primi secoli, sono state formulate quelle chiavi interpretative del
mistero cristiano, che sono espressioni dell’apostolicità e la cattolicità che
sono stati formulati con l’assistenza dello Spirito Santo. Dogmi che esprimono
e stabiliscono i punti fermi. E questi punti fermi richiedono un approfondimento;
ma sono punti di partenza e punti di riferimento insostituibili per un maggiore
e ulteriore approfondimento del mistero di Dio. Sono gli argini di un fiume; e
al di fuori di questi argini si va fuori del mistero di Dio; e dentro di questi
argini non è che niente richiede approfondimento; ma tutto deve essere
sviluppato e approfondito; ma i dogmi rappresentano questi argini.
1. Periodo pre-niceno, precedente al
concilio di Nicea 325: periodo in cui senza che venissero formulati dei dogmi,
viene compiuto un primo approfondimento della fede e del mistero di Dio
rivelato in Cristo, in un confronto e in una dialettica (anche con posizioni
erronee) ma che vengono superate in quel confronto interno alla comunità
cristiana senza che sia stato un intervento magisteriale esplicito. Il primo
concilio fu a Nicea (325). E ci sono state parecchie eresie e parecchi scontri
ma furono superati con questa dialettica interna.
2. Dall’epoca di Nicea à tardo medioevo: l’epoca patristica
e scolastica: formulazione dei dogmi cristologico-trinitari, Efeso, Calcedonia,
Costantinopoli II ..) in cui viene fissato un linguaggio trinitario (grazie
anche all’opera dei filosofi e dei Padri della Chiesa); e poi viene
approfondito il mistero e l’identità del Dio cristiano dai Padri della Chiesa
utilizzando determinate categorie e determinate espressioni.
3. L’epoca moderna: Dice Bruno Forte:
“esilio della Trinità”. La riflessione sul mistero della Trinità assume una
forma sempre più schematica. Perde quella vitalità e centralità che fino al
medioevo ha invece avuto. Però ci sono ulteriori approfondimenti: dalle aule
delle università, l’approfondimento sulla Trinità passa ai mistici.
4. Il periodo del ‘900: ripresa e
riformulazione (dal punto di vista metodologico e contenutistico). C’è un
rilancio della dottrina trinitaria, nel quale noi viviamo.
1. Padri pre-niceni:
La
riflessione teologica presuppone l’esperienza della fede. I primissimi decenni,
dopo l’evento Cristo e l’evento pasquale, e dopo che si chiude il canone degli
scritti neo-testamentari, prima di una riflessione, c’è un’esperienza del
Dio Uno e Trino (la prima comunità vive nel mistero trinitario: Battesimi, e
momenti liturgici). Battesimo avviene nel nome del Padre e Figlio e Spirito
Santo. Passaggio nel Nuovo Testamento: (Matteo) Battesimo nel nome del Padre e
Figlio e Spirito Santo; l’ingresso nella vita cristiana è ingresso nel mistero
trinitario. Anche l’Eucaristia: al Padre, nel nome del Figlio e nello Spirito
Santo.
Nei
simboli di fede della prima comunità cristiana, (cfr. Denzinger) le singole
comunità avevano simboli di fede, tutti in forma trinitaria, ma diversi,
rispetto all’esperienza e la propria storia di ogni comunità cristiana. Es.
comunità giudaica, comunità … e ogni comunità ha dovuto confrontare diverse
eresie e diversi problemi. In parte allora, questi simboli sono comuni sì, ma
dall’altra parte sono diversi, in quanto esprimono l’esperienza di ogni
comunità.
Così
troviamo nei primi autori cristiani espressa questa fede trinitaria, anche se
non approfondita teologicamente. Sant’Ignazio di Antiochia (l’inizio del
II° sec.): dove la vita di comunione nella Chiesa è vista come la comunione
tra il Padre e Figlio e Spirito Santo. L’armonia tra presbitero, vescovo,
laici, è vista come espressione di questo mistero trinitario.
San
Giustino (+163),
padre apologista (perché il genere letterario che usavano era quello
dell’apologia, dove durante la persecuzione, scrivono per l’imperatore per
difendere la fede cristiana). “I semina Verbi” è di San Giustino:
cioè i semi del Verbo sono già presenti nei filosofi pre-cristiani, cioè in
tutti coloro che hanno detto qualcosa di vero, proprio in quella partecipazione
al Verbo divino. Anche i filosofi pagani hanno detto qualcosa di verità, la
quale è stata pienamente rivelata nel Cristianesimo. Allora non possiamo
disprezzarli.
Ed ecco
che San Giustino, in questo forte dialogo con la cultura, esprime nelle sue
apologie come la vita cristiana è una vita trinitaria, sia al livello del
Battesimo, sia al livello della liturgia (celebrazione eucaristica).
Anche la
testimonianza cristiana è connotata trinitariamente, cioè la testimonianza che
arriva fino al martirio.
Testimonianza
di San Policarpo di Smirne (+155), termina la sua professione di fede
con una professione della Trinità. San Policarpo è stato discepolo diretto di
San Giovanni l’apostolo! Cita negli Atti dei Martiri questa
testimonianza: “…” (cfr. dispensa II p.6). Rende grazie al Padre, per
renderlo degno di partecipare al calice di Cristo, nella incorruttibilità dello
Spirito Santo. Martirio vissuto come atto trinitario!
Fine II° e
inizio III° sec.: sfide ad extra (penetrare l’identità di Dio con la
cultura circostante) e ad intra (difendere la fede dalle eresie). Due
figure in particolar modo (perché si distinguono con la loro reazione di fronte
alle sfide; e le reazioni sono due: sia contrapporsi radicalmente
alla sfida, sia cercare un dialogo con tale cultura e tale
pensiero. Per entrare in dialogo con qualcuno, devo cercare di assumere e
utilizzare le categorie del pensiero e del linguaggio dell’altro con cui
dialogo. E questo non manca di rischi, perché queste categorie possono
compromettere le mie verità.
Sant’Ireneo
di Lione (+232),
il quale si confronta in maniera netta con la gnosi: Ireneo nasce a
Smirne, è discepolo di Policarpo (Giovanni apostolo à
Policarpo à Ireneo). Ireneo è in qualche modo di 3° generazione, quindi
c’è ancora questo stretto legame con la fede apostolica. È ponte tra Oriente e
Occidente (perché nasce a Smirne in Oriente e diventa vescovo di Lione, in
Occidente). C’era ancora unità tra Oriente e Occidente.
ADVERSUS
HAERESES, Contro
gli eretici: contrapposizione chiara e netta. Chi sono questi eretici? La
Gnosi! (eresia pericolosa che rischia le fondamenta della fede).
Lo gnosticismo
è un fenomeno molto complesso. È certamente sincretista (mette insieme
vari elementi di diverse religioni). È molto variegato al suo interno, diverse
scuole gnostiche.
Si va da
Marcione, che aveva eliminato l’Antico Testamento, ritenendo che il Dio
dell’Antico Testamento non fosse il vero Dio.
E ci sono
Basille, Valentino … .
Secondo
Valentino, nel suo sistema, all’inizio di tutto, c’è l’abisso, o Padre. Abisso
cioè qualcosa di impensabile, incomprensibile assoluto. Dall’unione tra abisso
e silenzio, nascono eoni, che sono intelletto e …, e dalla loro unione, nascono
30 eoni, che raggiungono la pneuma.
L’ultimo
degli eoni è SOPHIA; SOPHIA compie un peccato, quello di guardare dentro
l’abisso. Conseguenza di questo peccato è la creazione (il nostro mondo).
Sistematizzazione
del mondo, della concupiscenza, e dell’uomo.
Gli eoni
creano Gesù per risanare il mondo.
Uomini
spirituali o pneumatici, nel quale contengono particelle divine.
Uomini
materiali, necessariamente dannati, perché tutto tornerà nel nulla.
Uomini
psichici, che sono una media, e che hanno soltanto una possibilità di salvarsi.
Per
salvare questi, nasce un uomo (semplice uomo) … Il compito di quel Gesù è di
comunicare la gnosis, che è quella conoscenza e quell’insegnamento
dell’eone Gesù entrato in quel uomo, che permette ai psichici di salvarsi. Solo
questa conoscenza ha il valore salvifico; la sofferenza, la passione, la morte
non hanno valore salvifico perché l’eone Gesù lascia l’uomo prima della sua
passione.
-
L’eone
lascia l’uomo prima della sofferenza.
-
Tutto
quello che è creazione è male, e allora anche l’Antico Testamento ecc …
-
…
Commistione
di elementi cristiani, elementi mitologici pagani (teogonia che si rifà ai
pagani), elementi del pensiero filosofico greco (soprattutto quello più
genericamente platonico, che disprezza tutto quello che è materiale …).
È
pericoloso per il primo Cristianesimo nascente, perché usa categorie e elementi
della cultura e una ripresa del pensiero dominante in quell’epoca, e in cui c’è
quell’ansia e quel desiderio di salvezza, assume alcuni elementi del
Cristianesimo, svuotando questi elementi; l’inganno era forte! La possibilità
di trovare nel gnosticismo una verità era forte. Ecco perché era così forte la
risposta di Ireneo.
Nella sua
opera, di fronte a queste favole gnostiche Ireneo si basa in maniera chiara
e precisa sulla storia della salvezza; bisogna partire ed essere radicati nella
storia della salvezza, perché in essa Dio ha rivelato se stesso in Cristo.
Nell’Antico Testamento che trova il suo compimento nel Nuovo Testamento. Per
scoprire il vero volto di Dio, NON dobbiamo ricorrere a delle favole
immaginarie pagane, ma alla storia della salvezza che ci è trasmessa nella
Sacra Scrittura. Ecco perché la sua opera è molto centrata sull’oikonomia
e molto prudente in quello che è la THEOLOGHIA, cioè la contemplazione del
mistero di Dio in se stesso, la vita immanente di Dio. Cioè come se dicesse:
rimaniamo solo sulle soglie di quello che è la vita immanente di Dio.
E dice che
attraverso lo Spirito Santo che siamo inseriti in Cristo, e grazie a questo
inserimento in Cristo, arriviamo al Padre.
Ireneo
quindi parte dall’opera dello Spirito Santo.
C’è
un ritmo trinitario della verità cristiana in Ireneo; c’è un passo dell’Adversus
Haeresis, dove Ireneo dice: “lo Spirito Santo conduce al Verbo che è il
Figlio, e il Figlio li presenta al Padre”.
Se questo
è l’ordine della storia della salvezza, tale è l’ordine della creazione, in
maniera discendente, ritmo trinitario nella creazione: “il Padre decide e
ordina, il Figlio esegue e foggia (dà forma), lo Spirito nutre e
incrementa”. Quindi Ireneo parla dello Spirito Santo e del Figlio
come le due mani del Padre.
Creazione
e storia della salvezza sono due realtà separate e collegate (come l’Antico
Testamento e il Nuovo Testamento).
Il Figlio
è l’unico da darci la conoscenza del Padre, il Figlio è la conoscenza del
Padre.
Il
Figlio è il “visibile del Padre”, dice Ireneo; perché il Padre è invisibile; come dice
Giovanni: “Dio nessuno lo ha mai visto, il Figlio unigenito …. ce lo ha
spiegato”. (infatti possiamo leggere l’opera di Ireneo come commento a
Giovanni, ricordiamoci del nesso con Giovanni!).
Noi
passiamo al Padre, nel Figlio …
Tutto
questo riguarda l’aspetto economico. Per quanto riguarda la vita immanente,
Ireneo rimane molto prudente! Non c’è nessuna analogia con la psiche umana.
Ireneo evita radicalmente queste analogie della persona del Figlio, le nature,
la processione dello Spirito Santo … non troviamo nessuno di questi, perché non
si può essere messa in discussione la divinità del Figlio e la divinità dello
Spirito Santo. Perché Ireneo deve contrapporsi allo gnosticismo che fonda il
suo sistema su quello che è la vita immanente di Dio. Ci si contrappone
basandosi sulla Sacra Scrittura, rimanendo fedele al testo biblico, concentrato
sull’aspetto economico della storia della salvezza.
Ireneo
dice: “L’uomo vivente è la gloria di Dio, ma la vita dell’uomo è la visione
di Dio”. L’uomo “che vive” è la gloria di Dio, ma questa “vita” dell’uomo è
la visione di Dio. E questa visione di Dio avviene attraverso un ritmo
trinitario!
Un altro
approccio alle sfide che l’ambiente circostante pone al Cristianesimo, e che è
il dialogo con la cultura, è la scuola di Alessandria (Alessandria
di Egitto). La quale è caratterizzata da questo sforzo di dialogo nei
confronti della cultura, e in particolare la cultura predominante che è quella
PLATONICA (genericamente), medio-platonica (nel II° sec.) e neoplatonica (nel
III° sec.).
La LXX
(traduzione) è stata fatta ad Alessandria.
Filone
alessandrino,
ebreo, vissuto a cavallo tra l’Antico Testamento e il Nuovo Testamento, ha
vissuto ad Alessandria. In Filone troviamo la sintesi tra la prospettiva
ebraica e quella greca. Già con Filone, c’è quel tentativo di dialogo, di
rapporto con la cultura ellenistica, e le categorie greco-ellenistiche.
C’è quindi
quel tentativo di rapporto e di dialogo con la cultura e le categorie
greco-ellenistiche già a partire dal fondatore, che è Clemente di
Alessandria. Nella sua opera dice: “ci sono due fiumi: la legge ebraica e
la filosofia greca, che confluiscono nel Cristianesimo”. Se l’Antico
Testamento ha preparato gli ebrei alla Rivelazione di Cristo, i greci sono
stati preparati dalla sapienza greca.
23
febbraio 2011
[Appunti di Marco Bilewski]
Un altro approccio
alla cultura e alle sfide della cultura greco-ellenistica viene dalla
scuola alessandrina, perché si procede cercando di intavolare un dialogo con un
linguaggio comune.
Con la crisi
dell’Accademia di Platone, dal I sec. a.C. si sviluppa il medio-platonismo,
dove troviamo Plutarco, Apuleio, Attico, Celso (cfr. Contra Celsum di
Origène). Al mondo sensibile, contingente, corrisponde un mondo intelligibile
delle idee. Nel medio-platonismo c’è la ripresa della dottrina delle idee, che
vengono sistematizzate in una gerarchia, abbastanza differenziata da un
filosofo all’altro, ma viene ad assumere una struttura triadica: 1°, 2°
intelletto, anima del mondo, … fino al neo-platonismo del III sec. Plotino (+270 Roma) fonda la sua
scuola a Roma. Plotino distingue il mondo divino in tre ipostasi: Uno, Nous,
Anima (psyché). L’Uno è aldilà di ogni comprensione, non è neppure
Essere, è ineffabile. Dire che è Essere sarebbe inserire una dualità. L’Uno è
Uno. Non posso dire niente, non posso conoscere nulla. Dall’Uno procede una
seconda ipostasi, che è il Nous, l’intelligenza, che è essere. Il
termine emanazione non è appropriato. In quanto seconda ipostasi è
inferiore, nel Nous ci sono le idee, gli archetipi di tutte le cose, la
molteplicità non può essere riferita all’uno, ma alla seconda ipostasi, divina,
ma inferiore rispetto all’Uno. Questa molteplicità dell’ipostasi è dovuta a
che è essere e pensiero, soggetto pensante e oggetto conosciuto, ricettacolo di
tutte le idee.
A sua volta, da
questa sovrabbondanza di essere che è il Nous, procede la terza ipostasi
che è l’anima, l’anima del mondo, il principio vitale del mondo intero, che poi
si particolarizza nelle singole anime individuali. C’è una forte dimensione
ascetica all’interno della dimensione platonica: attraverso la propria anima
nella interiorità, perdersi nell’anima del mondo e perdersi nell’Uno (“lascia
tutto il resto, segui la tua interiorità!”). Dall’Uno tutto deriva e tutto
ritorna. Non c’è la materia, la materia va abbandonata.
Questo sistema
filosofico è molto simile al Cristianesimo: Uno-Padre, Nous-Logos, Psyché-Pneuma.
Plotino conosce il Cristianesimo e costruisce il suo sistema con una intenzione
pagana in contrasto con il Cristianesimo. C’è il forte rischio che questa
visione del mondo prevalga e sminuisca la Rivelazione nel momento in cui viene
assunta in modo acritico dal Cristianesimo stesso.
La visione
plotiniana triadica del divino è molto diversa dal Cristianesimo. Assumere
acriticamente tale visione porta ad una serie di eresie, si vuole cioè piegare
la verità dentro questo sistema di pensiero.
Origène:
Ha avuto lo stesso
maestro di Plotino, Ammonio Sacca,
un tipo come Socrate che non ha lasciato niente di scritto. Il confronto di
Origene non è tanto con Plotino, che verrà dopo, ma con i medio-platonici.
Opere: Peri Archon (sui principi).
Origene sostiene che
il Padre è l’unico Dio in sé. Auto-Theos. Il Figlio è il deutero-Theos. Il
Padre è l’Archè (tutto deriva dal Padre, il principio di tutto). In questo
senso è superiore al Figlio e allo Spirito Santo. Se tutti gli altri esseri
sono creature, il rapporto tra il Padre e il Figlio, il rapporto è quello di
generazione. Origine è il primo che distingue la generazione del Figlio dal
Padre della nostra generazione à generazione eterna. Padre e
Figlio sono co-eterni. Nella nostra esperienza, la generazione della
creatura non è mai eterna. Il tempo è implicito nella generazione: il figlio è
sempre più giovane del padre. Invece il Padre da sempre ha generato il Figlio.
Dio è eternamente Padre del Figlio. Non possiamo pensare Dio prima di essere Padre
del Figlio. Da sempre Figlio. Da sempre Padre. Il Logos ha una sua
individualità distinta (ipostasi) rispetto al Padre. Il Figlio ha una sua
sussistenza personale. Il Figlio fa conoscere la Luce del Padre. La sfera è
distinta dalla creazione.
Elemento critico
nella teologia di Origene: il Padre genera il Figlio di sua volontà:
si tratta di un processo libero, che in qualche modo si collega anche alla
creazione del mondo, che è atto libero. (Origene pone in stretta connessione il
Figlio con la creazione). Dio è
libero di creare il mondo, quindi avrebbe potuto non crearlo. Analogamente, se
il Padre è libero di generare il Figlio, avrebbe potuto non generarlo? à elemento critico. Punto che sarà poi
rigettato dalla Chiesa. Non è possibile parlare di volontarietà nella
generazione del Figlio o nella processione dello Spirito Santo.
In Origene non si
trova il subordinazionismo in modo esplicito, ma c’è comunque una tendenza di
subordinare il Figlio, e i suoi discepoli cadranno in questa eresia.
Infatti afferma L. Ladaria: in Origene non c’è eresia, perché la
divinità del Figlio non è compromessa dalla volontà del Padre, dal momento che
il Figlio viene da Dio in modo diverso di come vengono tutti gli altri esseri.
Origene si salva, perché pone in maniera chiara la distinzione del venire del
Figlio dal Padre, rispetto al piano del venire delle creature da Dio. Nell’eresia
subordinazionista si sposta il Figlio tra le creature.
Rispetto ad Ireneo,
la riflessione di Origene va dritto al mistero della vita immanente della
Trinità.
Se solo il Figlio
viene direttamente dal Padre, lo Spirito Santo non può essere generato,
altrimenti sarebbe il Figlio, non può essere ingenerato, altrimenti verrebbe
dal Padre. Viene dal Padre mediante il Figlio, per mezzo del Figlio,
dall’eternità (siamo nel piano divino).
Non è passato dal
nulla all’essere, ma ad una esistenza eterna, tale quale quella del Figlio.
In Origene abbiamo
tre ipostasi, eterne, distinte (rispetto alla creazione) in una linea
discendente:
P à F à S. Non è subordinazionismo, perché sono Dio, non
creature soggette al tempo. C’è tendenza a subordinare il Figlio rispetto al
Padre.
28
febbraio 2011
La scuola
alessandrina … Filone, traduzione dei LXX … la comunità cristiana ha continuato
un po’ questa linea; cercare nella sapienza dei pagani quei semi di verità, che
sono stati una preparazione per accogliere la Verità.
Gli
alessandrini si confrontavano con il medio e il neoplatonismo (N.B.: Platone
fonda l’accademia, ma nel 1° sec. a.C. passa in una crisi (scettica), per cui
arriva un periodo di medio-platonismo tra l’accademia classica e il
neoplatonismo, ed è caratterizzato di parecchi autori (Plutarco, Albino, …),
nella prima età del Cristianesimo. Recupera il trascendente soprasensibile, c’è
la ripresa della dottrina delle idee, del demiurgo, ma quello che è caratteristico
è che questo mondo platonico delle idee viene gerarchizzato; una gerarchia
delle idee; assumendo una dimensione sempre più triadica, il mondo divino viene
gerarchizzato in un modo triadico, che porterà a quella formulazione gerarchica
del mondo divino, che è il neoplatonismo, 3° sec, scuola che ha come
fondatore Plotino.
Quando
parliamo degli alessandrini, non è che si confrontano con il neoplatonismo che
è molto successivo; ma si confrontano al medio-platonismo (del loro
periodo). Avrà un flusso enorme sul Cristianesimo sia nell’ambito ortodosso,
sia su quello eterodosso.
Per Plotino,
che fonda la sua scuola a Roma, il principio di tutto è l’Uno. L’Uno che è
qualcosa di assolutamente trascendente, incomprensibile, ineffabile. (Uno à
Nous à Anima).
Origene chiama il Padre, il “Dio in sé”,
l’Autotheòs. Il Figlio è il deuterotheòs, il secondo Dio. Quindi il Padre è l’Archè,
il principio di tutte le cose, di tutto; per il fatto che tutto deriva da Lui
(anche il Figlio deriva da Lui). Ma la differenza di tutte le creature rispetto
al Padre, è che il Figlio e lo Spirito Santo sono trascendenti rispetto a tutte
le altre creature, sebbene derivino dal Padre. Vediamo una forte monarchia
del Padre. Il Padre è l’unico principio di tutto, da cui deriva il tutto,
anche il Figlio e lo Spirito Santo; ma il Figlio e lo Spirito Santo sono altro
che le creature; perché il Figlio è “generato” (dice Origene), e aggiunge un
aggettivo: “generazione ETERNA del Figlio”; il Figlio è generato dal
Padre eternamente; è un’eterna generazione del Figlio; cosicché non si può dire
che il Figlio non è stato per un momento, e il Padre è stato da sempre Padre.
Ecco che
quando si parla della generazione del Figlio, viene liberata dalle categorie
creaturali; perché nell’ambito creaturale, il figlio non ha mai la stessa età
del padre; ma quando parliamo di una generazione in Dio, il Padre è eterno e il
Figlio è eterno, perché la generazione in Dio è eterna.
Se
nell’ambito dell’idea di generazione, che certamente parte di quella che è la
nostra esperienza del mondo temporale, la generazione avviene in tempi diversi;
in Dio la generazione è una generazione eterna.
Il
rapporto del Figlio rispetto al Padre è diverso da quello del mondo rispetto al
Padre.
Vediamo
allora lo stacco che compie Origene tra l’ambito divino e quello creaturale.
Il Figlio
è distinto dal Padre per Origene, tuttavia Origene parla della generazione del
Figlio come atto volontario del Padre; c’è una volontarietà del Padre nella
generazione del Figlio.
Parlare di
volontarietà significa che c’è una sorta di libertà da parte del Padre nella
generazione del Figlio. Il Figlio è mediatore della creazione (c’ha un ruolo
nella creazione); e la creazione è un atto libero; in virtù di questo nesso,
Origene parla di volontarietà. Ma nell’ambito dogmatico, è scorretto parlare di
volontarietà qui, perché volontarietà indica che c’è la possibilità di fare la
cosa o non farla; ciò significa che il Padre, almeno ipoteticamente, avrebbe
potuto non generare il Figlio; e questo non è corretto! Ecco che Origene,
malgrado il suo sforzo, essendo un pioniere nel parlare della vita immanente di
Dio, ha sbagliato in questo punto.
Origene è
stato accusato di essere un subordinazionista; però insieme a Ladaria, il prof.
ritiene che non si può parlare di subordinazionismo in Origene; c’è una
tendenza sì, ma non un vero subordinazionismo.
[Lettura
del passo di Ladaria (a p.12 della dispensa II, nota 15)].
I
subordinazionisti spostano il Figlio dal lato della creazione; lo pongono dal lato della
creazione; Origene non afferma questo; parla sì di volontarietà e questo è il
punto debole del suo pensiero; ma afferma la trascendenza del modo di venire
dal Padre del Figlio e il modo di venire da Dio delle creature. C’è una
tendenza verso il subordinazionismo, ma non si può parlare di proprio
subordinazionismo (che è un’eresia).
Il Figlio
è Dio per Origene, perché solo se il Figlio è Dio può divinizzare l’uomo. Non è
una creatura; è Dio.
Lo Spirito
viene dal Padre mediante il Figlio; e anche questo venire dello Spirito dal
Padre mediante il Figlio è eterno!
S (lo Spirito, che viene dal Padre mediante il
Figlio, eternamente)
Questo non
è subordinazionismo, perché Origene, geniale, non ci cade. Altri dopo di lui,
cadranno.
Differenza
tra Ireneo e Origene:
la teologia di Ireneo è fortemente ancorata e fondata sull’economia. Non dice
niente di quella che è la vita immanente di Dio; ma rimane nell’economia
(perché si opponeva agli gnostici che facevano quella contemplazione …).
Origene
compie questa opera e la compie in dialogo con la filosofia della cultura
ellenistica con cui si trova a confrontarsi ad Alessandria.
C’è quella
tendenza a subordinare, che non è subordinazionismo, ma è l’utilizzo di queste
categorie che porta a questa tendenza; tendenza che porterà alle eresie del 3°
sec, quando sorgono le principali eresie trinitarie.
Specificazione
dal punto di vista terminologico:
|
Hypostasis
|
|
physis
|
||
Tò Tì
Esti
|
Prosopon
|
|
|
L
|
SUBSTANTIA
|
PERSONA
|
NATURA
|
|
ESSENTIA
|
|
Ousìa: è la sostanza. Noi la diciamo “sostanza”, ma ousìa è
un participio presente, e quindi di per sé andrebbe tradotta con “essenza”.
Che
significa ousìa?
Aristotele
distingue le sostanze prime dalle sostanze seconde. Protousìa è
l’individuo (la sostanza prima). La sostanza seconda è la nozione che c’è
dietro questa sostanza.
Marco,
Paolo, Giovanni sono sostanze prime; uomo è la sostanza seconda.
Questa
cattedra qua è sostanza prima; l’idea “cattedra” è una sostanza seconda.
Per
Aristotele, quelle che esistono sono le sostanze prime; la sostanza seconda aderisce
a quella prima, e non esiste in astratto.
Il tò
ti Esti = tò ti eneinai = ciò che fa la cosa quello che è; perché ha
una forma, un’essenza che la fa non uguale alle altre.
La prima
categoria, l’Hypokeimenon = sostrato = ciò che sostiene tutte le altre
determinazioni accidentali che non hanno di per sé una sussistenza ontologica.
Vediamo
allora la complessità del termina Ousìa.
Physis: tradotta come “natura”.
Tò
tì esti: Aspetto
formale della sostanza.
Hypostasis: “Hypokeimenon” è il termine che usa Aristotele,
perché significa ciò che sta sotto. Significa sostanza … .
Hypostasis è una sostanza che deriva da
un’altra sostanza, rispetto alla quale è inferiore, perché non può essere
identica alla prima, altrimenti sarebbe la prima.
È allora
un’altra sostanza; capace di dare anche un’altra sostanza nella stessa
processione … .
Sono
quindi sostanze in quanto gerarchicamente posta l’una sopra l’altra; questa è
la visione neoplatonica.
Hypostasis allora corrisponde a ousìa,
ma è una sostanza inserita nel gioco delle processioni. C’è allora una
corrispondenza tra ousìa e hypostasis.
Allora i
nostri amici del 3° sec, pensando a Dio (e alla Trinità) per compiere un’opera
di Intellectus Fidei, utilizzavano tutte queste categorie che hanno a
disposizione, con questa polivocità che hanno (cioè che ciascun termine abbia
tutti questi significati) e c’è questa corrispondenza tra hypostasis e ousìa.
Nel Nuovo
Testamento, troviamo 5 volte hypostasis (2Cor 9 e 17 (2 volte); Ebrei (3
volte): all’inzio della lettera agli Ebrei: “il Figlio come impronta della sua hypostasis”,
impronta della sua sostanza). Ma l’utilizzo del termine non era filosofico, ma
comune.
Pròsopon: = volto; ciò che cade davanti agli occhi (ciò che
immediatamente cade agli occhi è il volto).
Il volto
identifica l’individuo. Ha una forte caratterizzazione individuale. Dal pròsopon
si passa all’individuo. Nel linguaggio teatrale indica anche la maschera (intesa
come il personaggio). Nel linguaggio comune ellenistico, pròsopon indica
“individuo”.
C’è quel
aspetto del mostrarsi (nell’idea del pròsopon); il termine pròsopon
rimanda ad un aspetto fenomenico, di manifestazione, epifanico.
Più tardi,
nell’ambito ellenistico, anche in seguito all’influsso che ha avuto dal mondo
latino, viene utilizzato per intendere l’individuo dal punto di vista
giuridico.
Nella
Scrittura è utilizzato il termine “pròsopon”, nell’Antico Testamento,
per la traduzione di “Pàlim” (ebraico) in greco, viene utilizzato il
termine Pròsopon. Quindi il termine pròsopon è ricorrente sia
nell’Antico Testamento che nel Nuovo Testamento (2 Cor 1:11: pròsopa
(molti individui), in senso generico).
Nell’ambito
latino abbiamo:
Sostanza: che viene utilizzato come la
traduzione di ousìa; ma sostanza (SUBSTANTIA) sarebbe la traduzione di hypostasis.
Natura: physis. Esprime l’aspetto
formale di un essere, di una certa natura.
ESSENTIA: di per sé traduzione di ousìa,
ma viene utilizzato per esprimere il Tò tì èsti; la determinazione di un
determinato ente.
Anche per
Agostino è forte questo ancoraggio di ESSENTIA a Essere (ESSE) come participio
presente.
Il mondo
latino è allora meno complesso rispetto a quello greco.
Persona:
L’apologista
che per primo ha utilizzato in latino il termine “persona” è Tertulliano
(intorno al 230). Tertulliano usa per primo in teologia il termine “persona”.
N.B.: cf. “Persona in Teologia” di
Andrea Milano (testo importante).
“Persona”,
in latino, ha per primo significato: “maschera”! Forse perché nella commedia
latina sia il volto dei personaggi ossia anche il PER-SONARE (per amplificare
il suono à finalità pratica della maschera). Ad ogni caso è legato al
teatro. Allora il termine “persona” nel mondo latino è legato al mondo
teatrale, ha una indicazione teatrale. In questo senso la maschera indica il
personaggio, e traduce “pròsopon”.
Poi, dai
latini, buoni giuridici, “persona” assume un significato di diritto; utilizza
“persona” per dire individuo che ha diritto.
Poi anche
in retorica, (i latini anche buoni retori) “persona” per indicare “l’esegesi
prosopografica”, che cerca a partire da un testo di intrecciare alcune
proposizioni e ricollegare le “VOCES” a determinati personaggi. Da un testo
scritto deve estrarre delle parti per determinati personaggi per farne una
scena teatrale; (come con un film); cioè a partire da varie espressioni, presenti
nei testi, ricondurre le espressioni presenti, a diversi personaggi; questi
personaggi vengono chiamati “persone” .
Tertulliano, che è un apologista, non è un
padre della Chiesa, non è un santo, (perché è morto eretico, passato ad una
sette ereticale), ha compiuto un lavoro enorme; ha fissato il linguaggio
teologico trinitario una volta per tutte, da sua epoca in avanti. Noi
tutt’ora utilizziamo il suo linguaggio.
È il primo
che utilizza il termine “persona”; che il Padre e Figlio e Spirito Santo sono
TRE PERSONE; in Dio c’è una SUBSTANTIA, TRES PERSONAE.
È il primo
anche ad usare il termine TRINITAS, DEUS TRINITAS (Dio Trinità), e UNA
SUBSTANTIA, TRES PERSONAE (tre persone).
Tertulliano
è un avvocato ed è un retorico. Grazie all’esegesi prosopografica, Tertulliano
vede, prendendo il Nuovo Testamento, che ci sono espressioni riferite al Padre,
altre al Figlio, altre allo Spirito Santo.
Una è la
sostanza di Dio, tre le persone.
Allora
SUBSTANTIA non è PERSONA nel mondo latino del 3° sec.
Il Padre e
Figlio e Spirito Santo hanno una loro distinta individualità in quanto sono 3
persone. Il linguaggio è allora fissato al 3° sec. Tutti seguiranno questo
criterio d’allora in poi.
In ambito
greco, perché si arrivi che ousìa non è hypostasis o pròsopon,
bisogna aspettare il Concilio di Costantinopoli II (553) per stabilire questa
differenza. Invece nel mondo latino, era nel 230 che fu fissata la differenza.
In questa
incertezza dei termini, possiamo immaginare tutti i problemi e tutte le eresie
possibili quando non si distinguono i termini.
Eresie
trinitarie del 3° sec.:
Dividiamo
queste eresie in due grandi gruppi: Monarchianismo e
Subordinazionismo.
Monarchianismo: Dio come unico archè, unico
principio. Si sottolinea quindi l’unità di Dio; Dio è un solo principio.
Ovviamente questo unico principio è il Padre.
Monarchianismo
Dinamico:
ha come protagonista Paolo di Samosata (3° sec.): il Principio è uno
solo; e Figlio e Spirito non sono altro che DYNAMIS, delle energie divine. Sono
delle forze o energie divine.
Questo
monarchianismo dinamico, dal punto di vista cristologico, va verso l’adozionismo,
nel senso che quest’energia viene dentro l’uomo Gesù e poi lo lascia al momento
della passione e della morte. Per la visione bassa della materia, per cui
quest’energia lascia l’uomo davanti alla morte … .
Monarchianismo
Modalista:
Sabellio. Sono tre modi di manifestarsi; Padre e Figlio e Spirito Santo non
hanno una individualità propria; sono 3 modi. (Tertulliano invece sottolinea
che sono 3 persone, tre individui).
Nella concezione
modalista, sulla croce quindi è anche il Padre a soffrire, ma soffre come
Figlio, sulla croce.
Sottolinea
l’unità di Dio! In quanto monoteismo trinitario, quello che viene sottolineato
è il monoteismo; e così si perde la distinzione dei tre. La perdita del
monarchianismo è la distinzione dei tre; che è così debole che rischia di
perdersi.
Subordinazionismo:
Sottolinea
che Padre e Figlio e Spirito Santo sono tre distinti l’uno dall’altro; hanno
un’individualità distinta l’uno dall’altro.
Sono tre ipostasi
distinte l’una dall’altra; e come si distinguono? Si distinguono
subordinandole! Si distinguono solamente mettendole in ordine gerarchico.
Il Figlio
non è il Padre ed è realmente distinto perché è almeno “un pochettino”
inferiore al Padre. Lo Spirito a sua volta è un po’ inferiore rispetto al
Figlio e quindi rispetto al Padre.
Utilizzando
quel linguaggio, non è facile uscire dall’una all’altra (Monarchianismo o Subordinazionismo):
perché se sono la stessa ousìa, allora sono la stessa hypostasis
(si cade nel monarchianismo); se sono tre ipostasi diverse sono allora tre
sostanze diverse (subordinate l’una all’altra) à subordinazionismo.
Tertulliano
è importante per aver fissato il linguaggio trinitario, lo fissa per opporsi al
monarchianismo, ma lui stesso cade nel subordinazionismo.
È
difficile conservare l’equilibrio in quel tempo con la limitatezza del
linguaggio e la sua confusione.
Né l’una
né l’altra è fedele alla Rivelazione cristiana; bisogna preservare sia l’una
sia l’altra e non eliminare né l’una né l’altra. Il monarchianismo perde la
Rivelazione di Dio come Trino e il subordinazionismo rischia di creare tre dei.
I vescovi
si rendono conto dei rischi del monarchianismo e del subordinazionismo: Dionigi
vescovo di Roma scrive a Dionigi vescovo di Alessandria.
Aldilà di
tutto questo, erano ben chiari i difetti sia dell’una sia dell’altra, e che
bisogna andare in un’altra via che non è né l’una né l’altra per “rimanere
fedeli a come Dio si è rivelato in Cristo”.
Era
difficile chiarire le cose; e l’eresia non è una deviazione da una dottrina che
era chiara, ma stava chiarendo; e le eresie erano in qualche modo anche uno
stimolo per chiarire la dottrina.
Ario
spinge radicalmente il subordinazionismo …; e poi viene l’intervento della
Chiesa per mettere le cose in maniera corretta.
02
marzo 2011
Il
monarchianismo (nelle sue 2 forme) salvaguarda l’unità e l’unicità di Dio; ma
perde la distinzione dei tre.
Il
subordinazionismo salvaguarda la distinzione, ma si perde l’unità di Dio, nel
senso che: o alla fine si considera veramente Dio solo il Padre (e Figlio e
Spirito sono dio sì, ma inferiore, secondo lo schema delle ipostasi del
neoplatonismo); oppure si va verso il triteismo.
Bisogno
capire la difficoltà che c’era per interpretare la fede cristiana con le
categorie di quel tempo; però era chiaro ad alcuni vescovi l’errore e il limite
sia del monarchianismo sia del subordinazionismo.
Nella
lettera di Dionigi vescovo di Roma a Dionigi vescovo di Alessandria, nell’anno
260, (Denzinger §112 e §113): (cfr. dispensa II p.18).
Dionigi, il
vescovo di Roma si rende conto che queste eresie minano il fondamento del
Cristianesimo; da una parte c’è quelli che lacerano l’annuncio della Chiesa,
cioè la reggenza unica di Dio in tre forze indeterminate (si tratta dei
monarchiani; i DYNAMIS, il monarchianismo dinamico); oppure da un’altra parte
hanno 3 divinità separate (subordinazionismo). E queste eresie non sono fatti
di un teologo, ma erano entrati a livello di catechisti.
Poi parla
di Sabellio … che bestemmia considerando il Figlio fosse anche il Padre.
N.B.: Dagli orientali, il principio di
unità della Trinità è ricondotto nella persona del Padre. Invece poi gli
occidentali avranno un’altra posizione.
Dice poi
che il Figlio e lo Spirito non sono una produzione; il Figlio non è una
creazione; ma è generato; monoghenès (l’unico generato) dicono Paolo e
Giovanni.
“…
questo significherebbe che c’era un tempo che Dio non aveva l’ESSE, e questo è
assurdo!”: quindi era chiaro a Dionigi il vescovo di Roma quale era
l’errore sia di questa parte sia di quell’altra.
Gli
eretici forzano la Rivelazione dentro delle categorie a priori, già date, e in
questo modo sminuiscono il valore della Rivelazione stessa, svolgendola verso
una via interpretativa falsa.
All’inizio
del 4° sec, Ario, presbitero di Alessandria in
Egitto, porta all’estrema il subordinazionismo.
Si oppone
al Sabellianismo; tuttavia, nel suo opporsi al Sabellianismo, occorre
nell’errore opposto, e in maniera esagerata, perché porta all’estrema
condizione quella tendenza al subordinazionismo.
Nella
lettera di Ario al suo vescovo Alessandro, abbiamo una sintesi del suo
pensiero.
Ario
mescola affermazioni ortodosse con affermazioni decisamente subordinazionisti.
Dice: “noi
confessiamo uno solo, solo … …. …” (affermazione di monoteismo). “Questo
dio ha generato il figlio; unigenito; prima di tutti i secoli; … figlio vero
non adottativo, … immutabile, inalterabile, …” (affermazioni ortodosse fin
qui); “una creatura perfetta, ma non come le altre creature …”.
Il suo
pensiero è insidioso; insieme ad affermazioni ortodosse mette delle affermazioni
eretiche.
Considera
il Figlio come una creatura SUI GENERIS, ma che non è sullo stesso piano con il
Padre, e anche non sullo stesso piano delle creature. E considera il Figlio
come non eterno.
Il Figlio
è detto “generato” ma anche “creato”; perché per Ario, l’idea di generazione
implica quella di creazione; perché ragiona utilizzando il termine
generazione secondo le categorie che utilizziamo normalmente nel nostro ambito,
l’ambito delle creature (che la generazione implica la creazione; e che implica
anche la temporalità).
Se è
generato, deve allora avere un principio, e dunque la generazione implica la
creaturalità. Dunque contro i monarchianisti ritiene che il Figlio è distinto
dal Padre; ha una ipostasi distinta da quella Padre; e quindi avendo una
ipostasi distinta, ha una sostanza distinta da quella del Padre. E quindi ha
avuto un inizio nel tempo, e quindi è creato. Perché la sostanza del Padre è
increata, ingenerata; e il Figlio, essendo la sua sostanza distinta da quella
del Padre, è quindi creato. La sua generazione è sì diversa dalle altre cose e
viene prima; ma è già una creazione; quindi non si può parlare di co-eternità
del Figlio rispetto al Padre.
Quindi
anche se fosse stato prima di tutti i tempi, ha iniziato ad esistere nel tempo.
Ciò
nonostante che per Ario il Figlio è dio. Perché nel mondo greco, il divino è
una concezione ampia; quindi si può dire che il Figlio è dio, ma un dio
inferiore al Padre (generato e creato).
N.B.: C’era in quel secolo la antifona
rivolta a Maria, SUB TUUM PRAESIDIUM, e Ario non aveva problema di chiamare
Maria Madre di Dio (in quest’antifona); madre di dio, il dio inferiore al
Padre.
Allora usa
schemi medioplatonici che riducono l’originalità del Cristianesimo stesso:
questo è l’errore di fondo di Ario.
È “catousìan”,
nell’essenza, distinto dal Padre.
Ario
prende quello schema già presente nel medio-platonismo e lo applica alla Rivelazione
cristiana; l’idea dell’Uno, la monade, che veniva in esistenza prima che
venisse la seconda ipostasi. Primato dell’Uno (il Padre), e l’idea che il NOUS
(il Figlio) viene dal Padre, unico principio, viene in maniera successiva e
estraneo alla sostanza, e il primo principio esiste prima del secondo; per cui
si può dire che c’era un tempo per cui il secondo principio non c’era.
In
sintesi:
-
Il
Figlio è generato e creato. (Rispetto a Origene, il quale aveva l’idea
dell’eternità del Figlio molto chiara e esplicita; vediamo l’impoverimento che
viene a causa dell’applicazione di un sistema filosofico medio-platonico). Il
Figlio è la “prima creatura” (ma comunque creatura), voluta dal Padre in vista
della creazione del mondo.
Essendo creatura, dunque: “c’era
un tempo in cui non c’era” (famosa espressione dell’arianesimo).
-
Proprio
perché creato, non è della stessa sostanza del Padre, diverso (catousìan)
secondo la sostanza, dal Padre.
Vediamo
allora questo subordinazionismo portato all’estrema fosse distruttivo alla fede
cristiana. E la fede cristiana, che nel tempo di Costantino ha avuto la sua
libertà di professione di fede. Costantino si trova allora in una Chiesa
divisa, e lui contava ad una Chiesa che garantisce l’unità dell’Impero, ed ecco
che Costantino decide di convocare un primo concilio ecumenico a Nicea che lui
presiede. E a Nicea, per la prima volta, a tavolino, viene formulato un primo
simbolo di fede; prodotto di quest’assise di vescovi rappresentativi di tutta
la Chiesa, e che diventa normativo per la Chiesa stessa.
Lo
svolgimento del concilio di Nicea ci proviene da Atanasio, che era diacono
della Chiesa di Alessandria, quindi del vescovo Alessandro; (e che poi lui stesso
diventa vescovo di Alessandria di Egitto); e da Eusebio di Cesarea, storico,
con una tendenza ariana.
I vescovi
hanno elaborato il simbolo di fede di Nicea, basandosi su un simbolo già
presente, che è il simbolo della Chiesa di Cesarea, e lo elaborano con
determinate espressioni anti-ariane (per combattere l’eresia ariana).
07
marzo 2011
L’obiettivo
del simbolo di Nicea è quello di combattere l’eresia di Ario; e quindi affermare qualcosa che
neghi l’eresia di Ario (espressioni anti-ariane).
Il simbolo
è diviso in tre parti: al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo. La parte più
sviluppata è ovviamente quella del Figlio, perché l’eresia di Ario era legata
al Figlio.
La parte
relativa al Figlio è divisa in sottopunti: IIa e IIb.
IIa riguarda il Verbo nella sua
dimensione pre-esistente. Si parte dalla preesistenza del Verbo.
La parte IIb riguarda il
Verbo nella sua dimensione incarnata.
Si segue
lo schema del prologo giovanneo; prima il Verbo nella sua esistenza e poi il
Verbo incarnato e la sua passione morte e risurrezione.
IIa è
diviso in [1]e [2]:
[1] il
Verbo nel suo rapporto con il Padre.
[2] il
Verbo nel suo rapporto con la creazione (nella sua mediazione rispetto alla
creazione).
I tre
articoli riguardo al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo sono coordinati con
una “e”, cioè una “kai” in greco; proprio per indicare dal punto di
vista grammaticale non la subordinazione ma una perfetta parità; sono
perfettamente coordinate, proprio per sottolineare la pari dignità del Padre e
Figlio e Spirito Santo.
“Crediamo
in”, “pistamos eis”:
in plurale
perché è una professione di fede ecclesiale.
“in”;
“eis” à grammaticalmente non è molto corretta, perché si doveva
usare sia l’accusativo sia “credere a qualcuno”. L’uso dell’“eis” vuole
dimostrare che l’oggetto della nostra fede non è un oggetto al di fuori di noi,
ma noi siamo inseriti in quel Dio uno e Trino in cui crediamo. (à
appartenenza e inserimento).
“in
un solo Dio”: professione di fede monoteistica.
“Padre
onnipotente” (pantocràtor):
l’articolo
primo relativo al Padre è molto sintetico perché mai nessuno ha messo in dubbio
la verità del Padre; e quindi non c’era bisogno da parte dei Padri niceni
ribadire l’identità del Padre, quindi basta ricordarla.
“creatore
di tutte le cose visibili e invisibili”:
Questa
sottolineatura di visibili e invisibili è ancora antignostica; perché gli
gnostici dicevano che il mondo creato non fosse creato da Dio.
Invece qui
viene affermato che TUTTO, spiriti e materia è creato da Dio; non c’è niente di
cattivo.
II. “kai
en eia Kyrion Iesu Kriston …”; “e in un solo Signore Gesù Cristo
Figlio di Dio”:
incomincia
a questo punto la parte più direttamente anti-ariana:
IIa. “generato
unigenito dal Padre”:
Qual è il
rapporto tra Figlio e il Padre è quello di generazione; ma questo Figlio è
l’unico generato dal Padre, perché è monoghenes; allora il rapporto tra
il Figlio e il Padre è un rapporto di generazione ed è un rapporto unico e
singolare; c’è un solo Figlio del Padre.
Termine
tratto dal Vangelo di Giovanni. Tutti i termini del simbolo di Nicea infatti
sono tratti dalla Sacra Scrittura tranne un solo termine.
I Padri di
Nicea preferiscono il termine giovanneo rispetto a quello Paolino “prototokos”;
ma in questo contesto con Ario, usare “prototokos” = primo-generato
diventa pericoloso; quindi hanno preferito usare “monoghenes” di
Giovanni perché dice l’unicità del Figlio generato dal Padre. Unicità del
Figlio che né in Dio né fuori di Dio è ripetuto. Rapporto unico e singolare.
Ma per
spiegare la parità con il Padre, dicono: “dalla sostanza del Padre”;
per dire:
colui che
è generato da qualcun altro ha la stessa sostanza dell’altro; da un uomo si
genera uomo, da Dio si genera un Dio. Quindi se il Padre è Dio, colui che è
generato da Dio è tanto quanto Dio; è dalla stessa sostanza del Padre, proprio
perché è generato.
Siccome è
generato: “Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero”.
“Dio
da Dio” anche Ario lo avrebbe accettato, dicendo che sì è Dio inferiore
da Dio superiore.
“Luce
da Luce”: per indicare la perfetta identità di natura tra il Padre e il
Figlio, perché se traiamo una fiamma da un’altra, non è che viene inferiore o
meno luminosa; è la stessa luce.
“Dio
vero da Dio vero”: a questo punto Ario non l’avrebbe accettata, perché
per Ario Dio vero nel senso pieno sarebbe stato soltanto il Padre. Quindi
quest’espressione è esplicitamente anti-ariana.
[2]
Figlio nel suo rapporto nei confronti della creazione:
Abbiamo
elementi che esprimono la distanza tra il Figlio rispetto alle creature:
Qua
abbiamo le due espressioni le più importanti della posizione del simbolo di Nicea:
il Figlio
è “generato non creato”: tra il Padre e il Figlio à
generazione (monoghenes); tra Dio e il mondo à
creazione (poiesis; verbo poieio).
Questa
espressione è anti-ariana perché Ario diceva che il Figlio in quanto generato è
creato; ma i Padri di Nicea affermano la distinzione tra generazione e
creazione. E questa distinzione non è scontata, perché se partiamo dal
ambito creaturale, tutto quello che è generato è anche creato; ma il concilio
di Nicea dice: in Dio, no! Quando parliamo della generazione in Dio, bisogna
eliminare l’ambito della creazione.
Ario
considera il Figlio come la prima creatura, una sorta di punto di mezzo tra Dio
e la creatura, ma messo da parte della creatura.
Però il
concilio di Nicea afferma che il rapporto tra il Figlio e il Padre è un
rapporto unico, e distinto completamente dal rapporto tra Dio e la creazione.
Per
ribadire che il Figlio non sta sul piano della creazione, ma è Dio tanto quanto
il Padre, viene utilizzato una seconda espressione fondamentale del concilio di
Nicea:
Homoousios;
consustanziale:
Questo è
il termine extra-biblico, filosofico, utilizzato dal Concilio di Nicea.
Viene
utilizzato per ribadire quello che è già detto nel punto primo; stessa sostanza
del Padre.
Questo
termine che nasce in ambiente gnostico addirittura e poi utilizzato all’inizio
del terzo secolo da Paolo di Samosata, il monarchiano; ma per un monarchiano,
usa il termine homoousios per dire che sono un’unica sostanza (il Padre
e il Figlio) e si perde con loro la distinzione; è in senso modalista, un'unica
sostanza che perde la distinzione.
Però Ario
sottolinea la distinzione perdendo l’unità; e i modalisti sottolineano l’unità
e perdono la distinzione. Ma i padri niceni non usano il termine in senso
modalista, no! Ma lo usano perché è un termine forte contro Ario; per
sottolineare che la generazione del Figlio dal Padre non rende inferiore il
Figlio rispetto al Padre; il Figlio non è di una sostanza inferiore rispetto
al Padre (come invece diceva Ario).
Possiede
lo stesso essere divino come il Padre; il Figlio è Dio come il Padre; il Figlio
è Dio tanto quanto il Padre, non di meno.
L’uso del
termine “homoousios” ha soltanto questo senso in Nicea: dire che il
Figlio è Dio come il Padre, non meno. Nicea non entra nel merito della nozione
di “ousìa”! l’utilizzo del termine “homoousios” voleva solo
indicare che il Figlio è Dio come il Padre, e in quanto generato ha la stessa
sostanza del Padre, non è inferiore rispetto al Padre.
“Per
mezzo del quale tutto è stato creato”: mediazione del Figlio nella
creazione; ciò che è in cielo e ciò che è sulla terra à
parallelismo rispetto al primo articolo. Non c’è quindi un dominio del Figlio
inferiore a quello del Padre; la mediazione del Figlio riguarda tutto; quello
che è in cielo e quello che è in terra.
Il
rapporto Figlio–Padre che sta su un piano; e il rapporto tra Dio e il mondo che
sta su un altro piano.
Distinzione
chiara tra il livello divino (intra-divino) e il livello del mondo (extra-divino).
IIb.
Si parla dell’incarnazione:
“IL
QUALE” (cioè si tratta dello stesso di cui si parla precedentemente).
“…
per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso … incarnato … morto … risorto
… salito al cielo …. verrà a giudicare (dimensione escatologica)”.
Il punto
che Ario poneva in questione era l’identità del Figlio nella vita divina e non
l’attività storico-salvifica del Figlio nell’incarnazione. E per questo il
punto dell’identità del Figlio nella vita divina viene sviluppato di più nel
simbolo.
III. “e crediamo nello Spirito
Santo”: nessuno ha messo in dubbio fino a questo punto la divinità
dello Spirito Santo, e quindi non c’era bisogno di fare un’ulteriore
specificazione, si afferma soltanto la fede nello Spirito Santo.
Qua
finisce il simbolo di fede e iniziano gli anatematismi:
“la Chiesa cattolica anatematizza
coloro che dicono: “C’era un tempo in cui non c’era” e “Prima che
nascesse non era” (perché la generazione è eterna) e “Fu creato dal
nulla” (il Figlio è generato non creato) o che affermano che fu fatto da
un’altra sostanza [ipostasi] o essenza [ousia] o che ...” (infatti, hypostasis
e ousìa, a Nicea, sono ancora sinonimi).
Si capisce bene da qui come Nicea
non usa “ousìa” in senso preciso e distinto. Hypostasis e ousìa
sono considerati sinonimi.
Vogliono affermare che il Figlio non
ha un’altra sostanza o un’altra ousìa rispetto al Padre; questa era
l’idea loro, contro Ario. Non intendono essere modalisti e considerare il
Figlio e il Padre la stessa ipostasi. Occorre aspettare un’ulteriore
distinzione e approfondimento per fare questa distinzione.
L’intenzione del Concilio di Nicea è
quindi quella di negare l’errore di Ario; affermare la piena divinità del
Figlio ma lasciare aperta la strada per gli ulteriori approfondimenti.
Problemi:
1. Come interpretare correttamente l’homoousios?
2. Perché in un simbolo di fede è stato
utilizzato un termine filosofico?
1. Atanasio che poi succede ad
Alessandro sulla cattedra di Alessandria e diventa l’interprete più importante
del concilio di Nicea, scrive il motivo per cui è stato introdotto questo “homoousios”
a Nicea. (perché i seguaci di Ario hanno cercato di ridurre la portata del
concilio di Nicea, e hanno cercato di interpretarlo in un modo ad avvicinarlo
il più possibile alla posizione di Ario).
Atanasio scrive che l’espressione “da
Dio” fosse comune a noi e al Logos (e c’è l’intenzione cattiva di interpretarla
come se fossimo sullo stesso piano), perciò i padri di Nicea furono “costretti”
a specificare che cosa volesse dire “da Dio” e dire che solo il Figlio
venisse “dalla sostanza” del Padre e solo il Figlio ha la stessa
sostanza del Padre. Solo il Logos viene dal Padre mentre tutte le altre cose
sono create.
E Anche homoousios veniva
interpretata come “homoiousios”; cioè di una sostanza “simile” (homoios).
Quindi la sostanza del Figlio è “simile” a quella del Padre, non la stessa.
Se è simile, non è poi la stessa,
perché è inferiore. Gli ariani interpretavano in implicito questo.
E allora Atanasio dice ancora una
volta che i vescovi furono “costretti” ad esprimere più chiaramente quello che
c’è nella Scrittura, nel momento in cui qualcuno ha travisato il pensiero delle
Scritture; e allora il Figlio non è solo “simile” “homoios”, ma è
identico. C’è un’identità di sostanza tra il Padre e il Figlio che è generato
dal Padre.
Secondo alcuni, con Nicea sarebbe
iniziato quello che si chiama l’ellenizzazione della fede: Quando comincia
l’utilizzo sempre più massiccio di categorie filosofiche dentro le espressioni
della fede.
In realtà, chi ha compiuto una vera
ellenizzazione della fede era Ario; perché era lui ad inserire la Rivelazione
dentro uno schema medio-platonico. Lui ha tradotto, tradendo, la Rivelazione
cristiana, in quello che era la mentalità del tempo; questo infatti spiega il
successo dell’eresia ariana, perché interpella la mentalità del tempo, ma
riducendo il Cristianesimo dentro questi schemi interpretativi filosofici.
I padri di Nicea hanno compiuto un
lavoro di de-ellenizzazione, costretti a utilizzare questi termini, per negare
l’errore di Ario. E se devo negare un errore, non posso utilizzare un altro
linguaggio, devo usare lo stesso linguaggio per negarlo. Era necessario
utilizzare queste stesse categorie ma per negare l’eresia di Ario, e per
affermare la verità e l’autenticità della Rivelazione biblica; nel momento in
cui Ario non solo traduceva, ma riduceva, la Rivelazione biblica dentro uno
schema interpretativo filosofico.
L’intento dei padri di Nicea rimane
un intento storico-salvifico; perché l’eresia ariana minava il fondamento del
Cristianesimo.
E dice Atanasio infatti: “l’uomo
non poteva essere divinizzato rimanendo unito ad una creatura se il Figlio non
fosse vero Dio”. Se il Figlio è una creatura, pur grande e primo, come può
una creatura divinizzare, cioè salvarci? Come possiamo diventare figli di Dio
se siamo uniti ad una creatura come noi? Quindi il fatto che Ario abbia
spostato il Figlio dal lato della creazione veramente mina il fondamento della
salvezza nel Cristianesimo, perché il Figlio creatura non potrebbe salvarci; se
il Figlio non è vero Dio non può divinizzarci, non può salvarci.
Questo è il fine –dice Atanasio,
interprete fedele del concilio di Nicea– dei padri di Nicea, e non era un
intento di ellenizzazione della fede, ma questo era il loro fine: affermare la
verità e l’autenticità della Rivelazione cristiana … .
Rimane allora aperta dopo il
concilio di Nicea:
1. La questione terminologica: rimane
aperto chiarire l’uso del termina ousìa e hypostasis.
2. Problema cristologico: finché Ario diceva che il Figlio
sia una creatura e che questa creatura si faccia uomo e muore ecc … non creava
problemi; ma quando si afferma che il Figlio è vero Dio; allora come pensare
il rapporto tra umanità e divinità di Cristo. Con Ario, questo problema
cristologico non si pone, perché essendo da parte della creazione il Figlio può
farsi uomo e morire ecc … . Ma nel momento in cui si afferma la perfetta
divinità di Cristo, si pone il problema del rapporto con l’umanità di Cristo.
(lo vedremo in cristologia).
3. Lo Spirito Santo: Ario aveva negato la piena
divinità del Figlio. Dopo, ci sarà un’altra eresia: i “pneumatonachi”
considerano un’inferiorità dello Spirito Santo, che è un’energia che è stata
scesa su Cristo per farlo compiere questa salvezza; quindi un’inferiorità dello
Spirito Santo rispetto al Padre e il Figlio.
Allora nel 4° sec, rimangono due
questioni:
I.
Approfondire
la piena divinità dello Spirito Santo; questione pneumatologica che finora non
è stata fatta.
II.
L’altro
lascito di Nicea: compiere riflessione teologica dove vengano chiariti i
termini.
I padri cappadoci saranno quelli che
influiranno su entrambe le questioni. E i loro contributi daranno vita al Concilio
di Costantinopoli I (381).
I padri cappadoci: Basilio Magno –
Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo:
I.
Sullo Spirito Santo:
Trattata soprattutto da Basilio, che
ha scritto “sullo Spirito Santo”.
Basilio riprende la stessa
argomentazione di Atanasio per il Figlio, e dice allora: se lo Spirito Santo è
colui che ci rende partecipi della natura divina, e ci fa figli nel Figlio,
come fa a farci partecipi della natura divina se non è Dio?
Lo Spirito Santo ha quindi la stessa
natura divina del Padre e del Figlio.
E per sottolineare il fatto che lo
Spirito Santo ha la stessa natura divina del Padre e del Figlio, Basilio
propone un cambiamento nella dossologia, che fin allora diceva: “Gloria
al Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo” à
seguendo quindi l’ordine economico, dove siamo inseriti nel Figlio e per mezzo
del quale rendiamo gloria al Padre nello Spirito Santo.
Basilio propone (quasi quello che
diciamo oggi): “Gloria al Padre insieme al Figlio con lo Spirito Santo”,
proprio per mettere sullo stesso piano il Padre e Figlio e Spirito Santo.
-
“nello
Spirito Santo” indica quello che è in noi, esprime il dinamismo dell’economia e
della vita cristiana.
-
“con
lo Spirito Santo” indica la realtà intima di Dio, della comunione divina del
Padre e Figlio e Spirito Santo.
Basilio dice che entrambe sono
valide … .
09 marzo 2011
I padri cappadoci:
I padri cappadoci hanno
un’impostazione teologica che ritiene un grande equilibrio tra l’aspetto
apofatico e catafatico, cioè teologia negativa e teologia positiva.
Apofatica
(teologia negativa) cioè che l’essenza di Dio rimane sempre ineffabile, ecco
perché si parla di quello che Dio non è (per questo negativa).
Catafatica
(teologia positiva) la teologia che tenta di dire qualcosa di positivo di Dio,
uno dei suoi attributi.
I cappadoci tengono in grande equilibrio
questo aspetto di teologia positiva e negativa.
San Basilio scrive in un suo
discorso (cfr. DISPENSA II p.26): “Non ho ancora cominciato a pensare
all’unità che la Trinità già mi risplende, e non ho ancora cominciato a pensare
alla Trinità, che già l’unità mi riafferra. … la mia mente, già piena a pensare
uno, non basta … ”.
Ci mette di fronte a questo limite
della mente umana, la mente umana che rimane colmata del mistero di Dio.
Ma i padri cappadoci danno un
contributo notevole per il problema terminologico.
A Nicea, non si distingue ancora hypostasis
da ousìa. Per primi, sono i padri cappadoci a fare questa distinzione.
Con Basilio magno, si comincia
perlomeno ad utilizzare il termine hypostasis per individuare ciascuno
dei tre Padre e Figlio e Spirito Santo e si comincia ad usare ousìa per
ciò che si riferisce a Dio nella sua unità.
Un passo di Basilio nella sua
lettera: “ousìa sta a hypostasis come un nome comune sta ad un individuo;
come uomo sta a Pietro. Ognuno di noi esiste perché partecipa all’umanità, ma
ciascuno … il termine ousìa è un nome comune … hypostasis distingue …”.
Nel linguaggio ellenistico, hypostasis
è ousìa. Basilio allora cerca a far vedere la distinzione.
Già hypostasis indica
sostanza con questa allusione un po’ particolarizzante, Basilio va avanti in
questa distinzione.
Certo la distinzione è importante,
tuttavia l’argomentazione che porta Basilio ancora non è sufficientemente
elaborata e non è del tutto pertinente:
In Dio, dire che ousìa sta a hypostasis
come uomo sta a Pietro, quest’analogia regge? No, perché non si può fare
della sostanza divina un genere. Anche perché non si può dare il rapporto
tra genere e individuo nel senso che p.es. del genere umano ci sono 6 miliardi
di individui, allora anche per il “genere” divino, perché siano 3 individui e
non un altro numero?
Allora non si può pensare alla
sostanza divina come un genere.
Il merito certamente è di Basilio
per aver cominciato questa distinzione, però stiamo attenti a non pensare la
sostanza divina come un genere.
Gregorio di Nazianzo ci dà
contributi importanti e porta avanti questa distinzione. Scrive Gregorio:
“per noi c’è un solo Dio, perché
una sola è la natura divina, e gli esseri che derivano da Lui, ritornano in
unità …”.
Allora pensa all’unità divina così:
“dei tre, non è possibile che uno sia più Dio dell’altro (quindi non in termini
di gerarchia), né che uno sia avanti e l’altro dietro (quindi non si può in
termini spaziali), né divisa dalla volontà (la generazione non è un atto
volontario); né …; né è possibile pensare come gli essere divisi in parti (non
è una divisione in parti della sostanza divina)”.
Né gradazione, né partizione, né
divisione nel senso spaziale.
Già a questo punto la distinzione
dei tre perde una serie di coordinate che usiamo per distinguere più individui
(come p.es. se fossero individui umani). Quando penso alle ipostasi divine,
devo perdere queste categorie.
Continua Gregorio: “come il sole,
la luce … ”.
Come fondare allora questa
distinzione?
Se c’è una perfetta unità, una
indivisione in Dio, ci dice Gregorio, bisogna fondare questa distinzione
sulle relazione d’origine! E proprio in virtù
della specificità della relazione d’origine, che la distinzione tra le ipostasi
regge (e non nella distinzione di genere-individuo).
Pensiamo ad un padre e un figlio
umani:
differenze: due individui diversi; due corpi diversi con delle caratteristiche
diverse; età diverse (uno più vecchio e uno più giovane); e uno è padre e
l’altro è figlio (rapporto che li lega insieme).
Se cominciamo a rimuovere gli
accidenti: colore dei capelli, degli occhi ecc …; togliamo il fatto che hanno
due corpi diversi; togliamo anche il fatto che hanno delle età diverse; che
cosa rimane? Rimane la relazione! La relazione di paternità e di figliolanza.
Per aiutarci a pensare questo
rapporto tra le ipostasi, questo potrebbe essere di aiuto.
Continua allora Gregorio: “… il
Padre non ha origine perché … il Figlio ha origine perché prende origine dal
Padre, ma se tu prendi “origine” nel senso temporale, il Figlio non ha inizio …
… non è generazione ma è PROCESSIONE “ekporeusis” …”.
Il fatto che non ha origine distingue
il Padre, è l’unico che non ha origine; il Figlio ha origine perché è Dio da
Dio in quanto è generato, non creato perché non ha inizio nel tempo (infatti in
questo senso temporale, nessuna delle tre ipostasi ha origine); è Dio da Dio
nel senso della generazione, generazione unica in Dio; lo Spirito Santo è Dio
da Dio anche Lui, perché ha un’origine anche Lui dal Padre, ma quest’origine
non può essere generazione perché sarebbe il Figlio; dunque la modalità di
essere “da” dello Spirito Santo è diversa dalla modalità di essere “da” del
Figlio; se fosse la stessa modalità di generazione (se fosse la stessa
relazione di origine) sarebbe stata la stessa ipostasi. La relazione di origine
dello Spirito Santo è la PROCESSIONE!
Dunque non c’è altra distinzione tra
le tre ipostasi, la distinzione è solo nella relazione di origine.
Qui abbiamo fatto passi da giganti,
Gregorio fa un lavoro di approfondimento enorme.
N.B.: “ekporeuo” in greco vuol
dire “sgorgare dalla sorgente”, e la sorgente può essere solo una.
Il simbolo di Costantinopoli I (dispensa
II p.28-29):
Nicea avendo affermato la piena
divinità del Figlio, apre la questione del rapporto tra umanità e divinità nel
Figlio.
Per sottolineare l’umanità del
Figlio c’è allora qui quest’insistenza per quanto riguarda l’incarnazione, la
morte, la sepoltura, … (la dimensione della carne). E “da Maria Vergine”
(non c’era in Nicea) – “sotto Ponzio Pilato” – ecc … .
Il simbolo di Costantinopoli vuole affermare
l’umanità del Figlio e la consustanzialità tra il Padre e Figlio e Spirito
Santo (cioè la divinità dello Spirito Santo), tuttavia il termine homoousios
della parte dello Spirito Santo non viene utilizzato, e questo perché, come
abbiamo visto i problemi che accadono a causa dell’uso di un termine
extrabiblico, allora cercano di affermare tutto usando termini biblici,
espressioni bibliche; ma il fine è affermare che lo Spirito Santo ha la stessa
sostanza del Padre e del Figlio, ma non si usa il termine homoousios.
Si comincia a dire che lo Spirito
Santo è “Signore”, “Kyrios”, “Adonai” (nell’Antico Testamento).
Lo Spirito Santo è Signore, quindi viene messo nello stesso piano con il Padre
e il Figlio.
“dà la vita”; è Dio che ha il potere
di dare la vita; (anche la vita di grazia nella dimensione economica).
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