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Sunday, March 9, 2014

TEOLOGIA PASTORALE- II

 I principali modelli operativi di pastorale

Quando molte persone, all'interno di una struttura sociale (la parrocchia, ad esempio), esercitano una stessa funzione (pastorale) in ordine a un determinato obiettivo (l'attuazione della salvezza, per rimanere nel nostro campo), in uno stesso modo, per un lungo perio­do di tempo, si sviluppa un'abitudine sociale che, a sua volta, influenza i comportamenti degli altri: questa abitudine sociale o schema culturale è il modello.
Noi assumiamo il significato attribuito a tale termine all'inter­no di un contesto sociologico e quindi, per modello, intendiamo «qualsiasi cosa formata in modo da servire come guida nel formare qualche altra cosa»[1].
Gli elementi che determinano un modello sono: la ripetizione frequente di comportamenti omogenei; la molteplicità di persone che si adeguano a questo schema culturale; il fatto che agisca come norma per le persone di un determinato insieme sociale.
Il modello non è una riproduzione in scala della realtà che si vuole spiegare o capire, ma piuttosto un modo per aprire alla cono­scenza o alla comprensione di tale realtà.
A partire da queste precisazioni, chiamiamo modelli di pastora­le gli schemi di riferimento più significativi che si riscontrano nella comunità - nel nostro caso, parrocchiale - in ordine all'attuazione della salvezza.
Il punto di partenza consiste nel superamento della cosiddetta di pastorale di cristianità sviluppata dal concilio di Trento fino ai tempi nostri e ora ormai, sostanzialmente, desueta perché non risponden­te alle esigenze di una realtà sociale e culturale postmoderna[2].
Proponiamo due tipi di modelli di Chiesa.
Il primo (A) è stato elaborato mettendo insieme studi e osser­vazioni partecipate;[3] il secondo (B) riporta, in sintesi, i modelli individuati da A. Dulles, gesuita e teologo americano[4].
Prima di addentrarci nell'esposizione più dettagliata dei singoli modelli, ci sembra utile ricordare che essi hanno una duplice funzione: esplicativa, poiché permettono di esporre i tratti che configurano gli elementi che li compongono, e propositiva, come guida per l'elaborazione di ulteriori modelli.
Nel tipo B sono indicati anche alcuni teologi che hanno contri­buito a elaborare tali modelli, i cui nomi possono essere anche ascritti ai modelli tradizionale, comunionale e di servizio presentati nella tipologia A.

1. Tipo A
Presenta i vari modelli avvalendosi, per ognuno, dei seguenti indicatori: l'obiettivo, il giudizio sulla concreta situazione storica, gli orientamenti metodologici o le scelte educative, il rapporto Chiesa-mondo, la prassi associativa e, infine, l’immagine di Chiesa.
Al termine della descrizione di ogni modello si prospettano alcuni problemi o pericoli in cui il modello incorre e se ne evidenziano i principali aspetti positivi.
Con la presentazione dei due tipi non s'intende esaurire l'universo dei modelli o sottomodelli presenti nelle comunità ecclesiali..
Prima di iniziare la descrizione di ciascuno secondo gli indicatori presentati, specifichiamo che il nome con cui ognuno è siglato indica la caratteristica principale attorno alla quale sono ritagliati gli altri elementi che ne configurano l'identità.

1.1. Il modello tradizionale
Partiamo dal primo dei tre modelli ritenuti principali e generatori di altri: il tradizionale che si rifà, in sostanza, a una pastorale di cristianità e preconciliare; quello della Chiesa-comunione e quello della Chiesa nel mondo e per il mondo, che derivano dall'ecclesio­logia del Vaticano II. In figura ecco i suoi elementi essenziali.

Modello tradizionale di Chiesa
 

      Cristo - Deposito della fede
 

                 Chiesa che insegna

Papa
 

Vescovi

Presbiteri
                   
 
                  Cristiani laici                                         Chiesa che impara


Si può percepire come il processo sopra descritto sia del tutto discendente. Al vertice superiore del triangolo ci sono Cristo e lo Spirito Santo, sorgente della fede, i cui contenuti sono mediati dalla Chiesa docente - nell'ordine papa, vescovi e presbiteri, i soli com­petenti in materia di fede e di dottrina. Alla base del triangolo sta la Chiesa discente e cioè i cristiani laici, il cui compito è di ascoltare e mettere in pratica. Non c'è un processo ascendente.
L'obiettivo a cui mira il modello è di condurre ad accogliere nella vita il progetto di salvezza di Dio. Dio parla e l'uomo accoglie (il contenuto della rivelazione è una serie di informazioni da cono­scere e da accogliere).
L'esistenza personale e la storia sono oggetto passivo della rive­lazione: dal principio fontale che è Cristo, la Parola è consegnata ai pastori della Chiesa, attraverso i quali - secondo un ordine discen­dente di autorità e responsabilità - arriva fino alla moltitudine dei fedeli.
Ne emerge un giudizio sulla storia piuttosto negativo perché il modello prospetta la ricerca di spazi alternativi, vale a dire di nuove strutture pastorali, o potenzia quelle esistenti, in concorrenza o in parallelismo con le istituzioni della società civile. Il modello ha biso­gno di non «lasciare spazio a soggetti pericolosi», di conseguenza esprime qualche diffidenza verso i non cattolici e i non credenti.
Per quanto riguarda gli orientamenti metodologici, cioè il crite­rio con il quale si selezionano e organizzano le risorse pastorali e si configurano le conseguenti scelte, il modello si rifà al triplice sche­ma: dottrina, sacramenti, vita personale; modello declinato in moda­lità deduttiva dai contenuti oggettivi della fede.
La prassi catechistica è impegnata a offrire informazioni dottri­nali precise: la dottrina, così viene chiamato il momento catechisti­co, è sviluppata soprattutto per i bambini e i ragazzi. Viene proposta per lo più in funzione della ricezione dei sacramenti (all'apice di svi­luppo del modello, la prima comunione e la cresima si facevano nello stesso giorno e nei primi anni delle scuole elementari). Non c'è molta varietà di schemi propositivi - prevale l'uniformità allo sche­ma scolastico - perché l'adattamento dei contenuti alle situazioni di vita del destinatario non è percepito come dimensione fondamenta­le dell'annuncio: si punta tutto sulla trasmissione di contenuti espressi per lo più attraverso il linguaggio teologico e globalmente incarnati in un orizzonte culturale globale di tipo filosofico oggetti­vo. Praticamente l'attenzione al pluralismo delle situazioni di vita dei destinatari e alla conseguente creatività propositiva è vista - almeno nella forma più rigida del modello - come un non problema, proprio perché a dominare l'intero impianto di trasmissione dei contenuti oggettivi della fede è esclusivamente la scelta di informa­re su un insieme di verità da credere, da ricordare a memoria.
In quest'ottica il catechista - spesso un maestro o una maestra teologicamente formato/a - applica le didattiche scolastiche anche nel far apprendere le verità della fede presentate nel catechismo, l'u­nico testo che, per un lunghissimo tempo, è stato quello a domande e risposte chiamato di Pio X. Anche i bambini e i ragazzi sono radu­nati per classi scolastiche.
Dopo il concilio Vaticano II, detto catechismo fu sostituito dai testi di catechesi nazionali impostati linguisticamente, metodologi­camente, didatticamente e anche graficamente in modo decisamen­te più attento alle condizioni di vita del destinatario.
Il modello, pur rimanendo attestato fondamentalmente sulla convinzione della necessità di informare e di farlo in modo oggetti­vo, sia per quanto riguarda i contenuti sia per quanto concerne il lin­guaggio, assume questi testi e si adegua alle loro esigenze, ne accet­ta la dimensione biblica, l'istanza comunicativa e l'invito al coinvol­gimento dei destinatari.
La comunicazione, che rimane normalmente di tipo discendente, chiede di lasciare grande spazio alle figure di adulti nella fede, i quali hanno il compito specifico di trasmettere un patrimonio di nozioni, di preghiere e di pratiche, tra le quali la partecipazione alla messa dome­nicale e la ricezione dei sacramenti: al centro c'è, dunque, la persona del catechista e non una vera e propria comunità educante.
La catechesi degli adulti si realizza attraverso incontri tipo con­ferenza su argomenti teologici e nel momento omiletico delle cele­brazioni. Poco rilievo ha l'evangelizzazione: la predicazione ai fede­li avviene quasi sempre all'interno delle funzioni liturgiche - si ricordi, ad esempio, la predica del parroco nella celebrazione pome­ridiana del vespro - o in paraliturgie.
La liturgia, di fatto, è quasi del tutto identificata con la parteci­pazione alle pratiche sacramentali, tra le quali emergono la messa domenicale e l'amministrazione dei sacramenti, perché essi sono mezzi di salvezza e quindi di realizzazione personale, da ricevere spesso, quando la Chiesa lo consente (ad es. la confessione e la comunione).
Dunque il modello sviluppa una concezione di liturgia piuttosto limitata alle pratiche di culto intese, prevalentemente, come fedele esecuzione del rituale, più che pervase dalla necessità dell'adatta­mento alle diverse circostanze e alla specifica fisionomia di ogni assemblea; una liturgia tutta incentrata sulla figura del sacerdote celebrante, modalità che favorisce una certa «passività» dei fedeli, un inadeguato coinvolgimento dell'assemblea e, di conseguenza, una scarsa o quasi nulla attenzione ai ministeri e ai servizi laicali. Il clima globale della celebrazione risulta, dunque, piuttosto formale, freddo e anonimo.
L'espressione della carità è realizzata, prevalentemente, nelle forme individuali della beneficenza - elemosina - e dell'assistenza; non poche tra le opere promozionali e assistenziali sono pensate in funzione della pratica liturgica. Non si sviluppa un impatto sociale e strutturale, ma si preferiscono forme di aiuto porta a porta.Per quanto riguarda la concezione del rapporto fra la Chiesa e il mondo, pare verosimile rilevare che essa è di tipo prettamente funzionale, nel senso che l'attività profana viene valorizzata solo se e in quanto messa al servizio della sfera religiosa. Non solo, ma Chiesa e mondo sono considerate due realtà parallele, talmente diverse l'una dall'altra che vengono percepite come destinate a rimanere tali e a non incontrarsi mai. Le attività profane che i credenti svolgono nel mondo, quali la professione, il lavoro, la scuola, le professioni, la stessa famiglia, sono luoghi in cui si è chiamati a dare prova della coerenza morale e della testimonianza cristiana; l'impe­gno nel sociale ha uno spazio piuttosto ridotto.
Questo primo modello concede un ampio spazio per l'associa­zionismo organizzato e centralizzato inteso come struttura di colle­gamento fra gruppi, mentre dedica poca considerazione ai gruppi valutati come attività facoltative e funzionali che non hanno valore come tali. Gli specialisti, cioè gli adulti che ne sono a capo, hanno il compito di elaborare e proporre i contenuti, mentre la base si limi­ta a recepire senza alcuna preoccupazione di creare o ricreare. La configurazione associativa è polarizzata dalle strutture della parroc­chia, dalle associazioni e confraternite, orientate prevalentemente verso l'attività di tipo devozionale liturgico o per l'esercizio della beneficenza.
Infine, l'immagine di Chiesa che il modello lascia trasparire risulta gerarchica e di massa, mediocre, aperta a tutti, presente tramite le istituzioni, forte delle tradizioni. La gerarchia è l'elemento attivo e responsabile; il popolo dei fedeli è ricettore prevalentemen­te passivo; carismi e ministeri sono tenuti in scarso rilievo. L'appar­tenenza alla Chiesa è più frutto di pressione educativa che di con­vinzioni personali.
Come vedremo per ogni modello, anche in questo emergono problemi insieme ad aspetti decisamente positivi.
Tra i problemi è segnalato, come primo e più importante, il prevalere dell'attenzione all'iniziativa di Dio che si comunica attraverso la dottrina della Chiesa. Di conseguenza è la comunica­zione oggettiva dei contenuti che assorbe quasi totalmente le ener­gie del sistema, a scapito della presa in carico delle situazioni di vita dei compagni di cammino e della loro formazione ad assumer­si responsabilità dentro la storia, a livello personale, sociale ed ecclesiale.
Pur non teorizzandolo espressamente, il modello indulge nel favorire il distacco tra fede ed esperienza quotidiana, tra fede e sto­ria; privilegia un'etica che non mette in rapporto dialettico i valori oggettivi con la soggettività, ma è orientata a puntare solo sulle norme, a favorire un 'immagine di uomo poco libero e responsabile, diversamente da quanto proposto nel vangelo e dalla Chiesa, e a pri­vilegiare la dimensione individuale a scapito di quella sociale ed ecclesiale.
Non mancano, per converso, gli aspetti positivi, tra i quali emer­gono, in modo evidente e costante, l'insistenza sull'integrità dei contenuti di fede, l'attaccamento alla tradizione (più che alle tradizio­ni), l'insistenza sui sacramenti nella loro accezione originale di mezzi di salvezza, la proposta sistematica delle verità della fede, e il riferimento alle realtà ultime e alla grazia da accogliere personal­mente per salvarsi l'anima.

1.2. Il modello comunionale

Tutte le energie qui sono indirizzate nel costruire una comu­nità a specifica identità cristiana dove sia possibile fare esperienza, costruire rapporti interpersonali nuovi all'insegna dell'amore, della fraternità e della comunione evangelica tra gli uomini, dove siano banditi formalismi, anonimato, individualismi e ogni forma di egoismo.
Il riferimento dal quale trae linfa vitale è teologicamente ben fondato e consistente: il modello, infatti, si propone di tradurre, nella quotidianità della vita delle persone e della Chiesa, le modalità rela­zionali che si sviluppano all'interno del mistero trinitario e che richiedono la contemporanea presenza e coniugazione nei rapporti fra persone dei tratti dell'unità e della diversità.

Chiesa, in Cristo, mistero di Comunione

 

Cristo
Mondo                                                                           Ruoli e compiti:
Chiesa
 
                                                                                                          annuncio, celebrazione
                                                                                                            servizio, comunione
                    Animatore
             della chiesa                         Spirito Santo                 
                                                                                                         


L'obiettivo che questo secondo modello cerca di realizzare ri­sulta totalmente diverso dal precedente, ed è la comunione tra gli appartenenti alla comunità.
Il giudizio sulla storia è di sostanziale rifiuto dei contenuti della cultura dominante, rifiuto che nasce dalla consapevolezza che la fede è tutto per l'esperienza umana e quindi, pur avendo tali conte­nuti valore proprio - diversamente dal modello precedente -, essi non aggiungono nulla a un «di più» che rappresenta già il «tutto» che spegne ogni sete e sazia ogni appetito. Sarà necessario, dunque, per far vedere questa peculiarità, creare proposte e luoghi alternati­vi in cui sia possibile fare esperienza di comunione e di fraternità.
Il modello sviluppa un proprio orientamento metodologico e una sua prassi educativa alla fede centrati sulla relazione e, di con­seguenza, sul superamento di situazioni di anonimato, soprattutto attraverso la creazione di opportunità di incontro, di dialogo, in cui le persone si trovino bene, siano gratificate; valorizza i piccoli gruppi come luoghi di identificazione, vale a dire siti nei quali sia possi­bile fare esperienza di ciò che si annuncia, per lo più attraverso pras­si educative ispirate a itinerari di tipo kerygmatico e mistagogico.
Vengono intensificati i rapporti primari; si valorizza l'esperien­za concreta più che riflessioni o contenuti astratti; si prospetta la ricerca di una forte omogeneità interna e un'ampia circolazione di comunicazione all'interno dei gruppi e tra i gruppi, tutti orientati verso una proposta di identità cristiana attraente sicura e rassicu­rante.
L'esperienza dei piccoli gruppi si sviluppa particolarmente nella catechesi, intesa innanzitutto come compito di tutta la comunità attraverso, appunto, la dimensione del gruppo, al servizio della paro­la di Dio per la crescita e la maturazione della fede, realizzata attra­verso percorsi differenziati e che integrino, in se stessi, come riferi­mento unitario, le diversità dei ministeri e dei carismi.
Si tratta, in sostanza, di una catechesi nella quale si privilegia l'esperienza di comunità; il messaggio cristiano è presentato attra­verso il filtro di un orizzonte culturale di tipo personalista e come relazione di amore tra Dio e gli uomini e tra gli uomini fra loro, e di cui si può fare esperienza nella Chiesa, soprattutto attraverso il pic­colo gruppo.
Per realizzare luoghi in cui la comunità cristiana sia sperimen­tabile sono chiamati in causa, per primi, gli adulti: genitori e cate­chisti sono invitati a una relazione positiva con i ragazzi, perché si sostiene che si è cristiani quando ci si trova bene insieme e si stabi­liscono rapporti positivi. Viene privilegiato il metodo induttivo: a partire dall'esperienza di vita dello stare bene insieme, si prospetta la ricerca comune, l'approccio ai segni della presenza e dell'azione di Dio nella comunione, e si fa esperienza di attività in cui tutti hanno l'opportunità di essere protagonisti, felici e partecipi.
La stessa logica guida anche la formazione e l'azione del grup­po dei catechisti - non più la singola persona del catechista come nel modello precedente - i cui componenti sono chiamati a fare in prima persona l'esperienza di comunione e di condivisione che, poi, saranno in grado di proporre ad altri attraverso l'animazione dei gruppi.
L'obiettivo della catechesi non è l'informazione solo sui conte­nuti, ma è l'introduzione dei ragazzi nella vita della comunità par­rocchiale, attraverso l'esperienza del piccolo gruppo. La parrocchia è punto di riferimento e la catechesi non è che un luogo della sua presenza, che si esprime in forme molteplici. Anche la catechesi degli adulti privilegia lo strumento del piccolo gruppo.
Non c'è, quindi, una catechesi monopolizzata e neanche un modello unico di catechesi: essa viene esercitata da persone diverse (preti, diaconi permanenti, laici, genitori, religiosi...) e secondo modalità diverse, anche se sempre ispirate a un fondamento carismatico-sacramentale.
La liturgia è preparata e vissuta come momento di incontro della comunità con il mistero. Viene valorizzata l'assemblea, verso la quale ci si adopera per favorire la partecipazione cosciente e atti­va di tutti. Il ruolo del presidente dell'assemblea è recepito come guida e animazione dell'azione celebrativa, e non come competen­za esclusiva e autonoma esercitata da una persona; cioè come dele­ga di responsabilità e competenze ad altri animatori, valorizzazio­ne dei ministeri e servizi laicali nella programmazione, nella prepa­razione e nello svolgimento delle celebrazioni. Anche per il servi­zio liturgico vengono predisposti gruppi nei quali si pianificano interventi, monizioni, ruoli diversificati (guida del canto, lettori, ministranti...).
Le assemblee liturgiche risultano così meno formali e anonime, e si attiva un certo stile di accoglienza reciproca, un certo livello di scambio e di rapporti umani, non senza il pericolo che tutto si concluda nel prevalere della dimensione orizzontale (rapporti vicendevoli) su quella verticale (senso della trascendenza, rapporto primario di tutti con Cristo).
La dimensione della carità, segno ecclesiale del Regno, si espri­me meglio nella ricerca di forme strutturali che permettano la comunione intraecclesiale con i soggetti che hanno più bisogno, piuttosto che nel maturare la solidarietà concreta con i soggetti sociali più deboli e l’impegno di collaborazione per la trasformazione delle strutture. La persona in difficoltà è inserita in una rete di rapporti più intensi; si cura la presenza degli operatori. In questo contesto nascono e si sviluppano le Caritas.
Nella relazione Chiesa e mondo, questo secondo modello espri­me qualche diversità dal precedente perché si propone il cambio della realtà sociale e culturale attraverso la testimonianza e la crea­zione di strutture comunitarie alternative; la stessa comunità cristia­na diventa così luogo di efficacia politica. Il giudizio globale che esso manifesta nei confronti del mondo non è, tuttavia, esente del tutto dal sospetto di negatività.
La prassi associativa ha come fulcro i rapporti interpersonali, i piccoli gruppi o le piccole comunità a misura d'uomo. Vengono favorite forme strutturali che permettano di impostare nel segno della comunione, l'esperienza cristiana della Chiesa e si ricercano rapporti con esperienze similari. Anche in questo modello, seppure in misura quantitativamente e qualitativamente inferiore e diversa dal precedente, emergono vertici culturali adulti destinati al con­trollo della base e si potenzia la dimensione comunitaria della pras­si pastorale in tutte le sue espressioni: organizzazione, attività, culto, servizio, predicazione, missioni...
Sulla base di queste realizzazioni, si parla di ristrutturazione della parrocchia e delle altre strutture ecclesiali come comunità di comunità[5].
L'immagine di Chiesa che percorre il modello è comunionale, anche se piuttosto elitaria e a carattere selettivo. L'accentuazione della dimensione comunitaria-misterica mette in secondo piano le dimensioni istituzionali e di socialità.
Si propone un’immagine di Chiesa tutta ministeriale, caratteriz­zata dalla missione di servizio nel mondo al grande progetto del regno di Dio, nella varietà dei ministeri (ordinati, occasionali, spon­tanei, temporanei o più stabili) e dei carismi (ogni dono dello Spiri­to per il servizio e l'edificazione della Chiesa).
Il potenziamento della comunicazione interpersonale, della partecipazione affettiva, del rispetto e dell'accoglienza delle perso­ne, della libertà di parola ha il sopravvento sul culto dell'efficienza, sulla distinzione dei compiti e sulle esigenze burocratiche e ammi­nistrative. Non sono evitabili tensioni fra istituzione e carismi: tutto però può essere ricomposto attorno alla comunità, nella comunità e nell'agape.
Nel tentativo di valutazione del modello emergono come fatto­ri positivi determinanti: l'attenzione alle persone, la valorizzazione della dignità battesimale di ognuna, il far leva sulla relazione tra le persone e con Dio fonte di ogni autentica relazione (orizzontale e verticale), la valorizzazione dei ministeri, dei doni di tutto il popolo di Dio alla luce della misteriosa relazione trinitaria. La stessa imma­gine di Chiesa, che si ispira a quella conciliare elaborata dal Vatica­no II, è di per sé positiva se non si riduce a un puro orizzontalismo e a una mera pianificazione ben organizzata.
L'osservazione ci introduce a mettere in evidenza alcuni tratti che fanno problema e rappresentano possibili pericoli: primo fra tutti quello di dedurre le norme dell'agire dalla fede vissuta in quella comunità particolare, e quindi il porsi in situazioni di con­flittualità con esperienze diverse; esagerare la funzione della comunità a detrimento della dimensione personale, che è comun­que sempre alla base della comunità e non va mai travalicata; ridurre l’esperienza di fede a modelli emotivi e fideisti, insieme al pericolo sempre incombente di costruire isole felici alienate dal mondo e dalla storia.

1.3. Il modello di Chiesa nel mondo e per il mondo

L'obiettivo di questo terzo modello induce a un cambio di rotta globale e non solo per quanto riguarda l'immagine di Chiesa cui si ispira.
Si entra all'interno della problematica relativa alla relazione Chiesa e mondo, e quindi si centra l'attenzione su tale rapporto inte­so come paritario, nel senso che Chiesa e mondo hanno ciascuno una loro propria dignità da riconoscere e da valorizzare attraverso il dialogo, nel rispetto reciproco, senza ricerca di privilegi, invasioni di campo né, tanto meno, contrapposizioni e dualismi.

Chiesa nel mondo e per il mondo
                                                                                                  Strutture e istituzioni
 

                                                                                                         
Cristo
Chiesa                                                                                  Mondo
                                                                                                         
                      comunione                                                              Azioni: missionaria,                                         
                       annuncio                                                                    catecumenale,                                                      
              celebrazione servizio                                                           pastorale                                                                                           
                                                                                                      presenza nel mondo      
La Chiesa, come rileva la costituzione pastorale Gaudium et spes, è nel mondo ed è chiamata a evangelizzare per il bene dell'uo­mo nel mondo. Così, infatti, esordisce la costituzione:

Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini, i quali, riuniti insie­me nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinag­gio verso il Regno del Padre, e hanno ricevuto un messaggio di sal­vezza da proporre a tutti (GS 1: EV 1/1319).

L'obiettivo del modello che assume la dichiarazione della costi­tuzione conciliare, non può che essere evangelizzare l'uomo nel mondo, testimoniando e servendo la causa del Regno nel mondo, proprio come quel po' di lievito evangelico che fermenta la massa.
Questo obiettivo proietta la Chiesa (come Abramo) fuori da una situazione di cristianità - una terra tranquilla - per lanciarla in un'azione pastorale di evangelizzazione, vale a dire per farla cam­minare verso un futuro aperto e nuovo, in mezzo al mondo, in gran parte sconcertante e difficile.
In rapporto ai due modelli precedenti cambia anche il giudizio sulla storia: in questo caso si accettano i fenomeni sociali, culturali e politici come dato di fatto e li si valuta nell'ottica dell'avvento dei valori del Regno. Il mondo oggi, con i suoi problemi e le sue attese diverse, deve costituire, in qualche modo, il terreno nel quale e per il quale fare l'ordine del giorno delle urgenze ecclesiali, cercando di «discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni cui prende parte, insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio» (GS 11: EV 1/1352).
Gli orientamenti metodologici e le scelte educative che ne con­seguono sono regolati dallo schema induttivo-ascendente gover­nato da costanti educative, quali: la gradualità, la criticità, l'inte­riorizzazione (o coscientizzazione), la responsabilizzazione perso­nale, la ricerca dei valori non in assoluto ma dentro il fare, l'agire quotidiano.
Prevale la prassi letta con riferimento prioritario alla Bibbia, in modo personale ma anche nelle piccole comunità o nei gruppi di base, valorizzando il contributo interpretativo di ogni partecipante, aderente o militante che sia.
La catechesi punta ad abilitare le persone alla riappropriazione della Parola da parte della comunità, la quale rivendica, attraverso forme più o meno decise, una reale autonomia e indipendenza nei confronti del magistero e della gerarchia.
In essa emergono spesso due momenti: l'iniziazione dei ragazzi, degli adulti o dei nuovi arrivati alla vita della comunità e la riap­propriazione della fede. L'azione viene svolta, generalmente, attra­verso modelli operativi molto partecipati e vitali e lo sforzo di reinterpretazione e di riformulazione del messaggio cristiano, realizzato in comunità anche attraverso la rivendicata riappropriazione della Scrittura, dei sacramenti e della Parola di fede in genere. Un esem­pio italiano può essere l'esperienza catechistica dell'isolotto di Firenze, sviluppatasi nei primi anni del postconcilio e nella quale, fra l'altro, si compone un nuovo catechismo. Ad altro livello, di Chiesa nazionale, sono dati alle stampe Il nuovo catechismo olandese (tra­dotto in italiano dalla ElleDiCi, con la presentazione del card. Michele Pellegrino), il Catechismo tedesco, ecc.
In alcune esperienze italiane di parrocchia e/o movimenti che si ispirano oggi a questo modello, si utilizza il metodo della revisione di vita nel quale si sviluppano tre momenti interagenti: vedere, ossia osservare da una prospettiva di fede la realtà che ci circonda, per discernere i segni evangelici e antievangelici in essa presenti, avva­lendosi anche degli strumenti messi a disposizione dalla ricerca scientifica; giudicare, alla luce degli imperativi che emergono dalla lettura comunitaria della parola di Dio, della tradizione e dei docu­menti magisteriali, e dedurre gli orientamenti che ne derivano all'a­gire: finalmente, agire e cioè elaborare un piano organico e articola­to di interventi dentro la realtà esaminata e valutata dalla prospet­tiva della fede.
La catechesi, attenta a tutte le dimensioni della vita della per­sona, parte dalle situazioni di vita personali, sociali ed ecclesiali in cui i destinatari vivono per ritornare a esse e trasformarle, cambiar­le radicalmente dal punto di vista sociale e strutturale, alla luce del messaggio cristiano percepito nelle sue dimensioni bibliche, liturgi­che e vitali.
Il suo obiettivo non è solamente informare, inserire in una comunità ecclesiale, ma è decisamente realizzare l'integrazione tra fede e vita nel quotidiano, e cioè

educare al pensiero di Cristo, a vedere la storia come Lui, a giudica­re la vita come Lui, a scegliere e ad amare come Lui, a sperare come insegna Lui, a vivere in Lui la comunione con il Padre e lo spirito Santo: in una parola, nutrire e guidare la mentalità di fede (RdC 52-55,38).

È rivolta ai fanciulli e ai ragazzi, con i quali sono coinvolte atti­vamente la famiglia e la parrocchia, additata, nella totalità delle sue espressioni e per il clima credente che riesce a creare in sé e attor­no a sé, come vera e propria comunità educante, grembo in cui nasce la vita cristiana, da viversi poi altrove. Non manca la catechesi agli adulti realizzata in forma di dialogo, privilegiando il loro coinvolgi­mento e invitandoli all'assunzione di responsabilità da cristiani nel mondo.
Il catechista è un testimone e un educatore, che si fa compagno di cammino e guida a capire che cosa Dio vuole da ciascuno. Eser­cita questo servizio valorizzando il metodo antropologico, esperien­ziale, globale, permanente. Il messaggio cristiano è rivolto a tutte le età della vita e integrato in tutte le sue dimensioni.
La liturgia, più che attestarsi come celebrazione del mistero, diventa spesso celebrazione della prassi; infatti le celebrazioni litur­giche sono vissute fortemente come momenti-simbolo della propria identità di credenti in mezzo al mondo.
In essa la prospettiva soggettiva, e cioè la liturgia intesa come espressione della propria fede, tende a prevalere su quella oggetti­va, ossia la liturgia partecipata come comunicazione della grazia di Cristo.
A volte il momento liturgico-celebrativo viene insensibilmente strumentalizzato in funzione etico-sociale attraverso preghiere dei fedeli intonate alla situazione sociale e politica. Nelle omelie ritor­nano spesso i temi della conflittualità sociale, politica ed ecclesiale, il cambio di preghiere liturgiche, ecc.
L'insistenza di creatività nell'uso del rituale prevale su quella dell'accettazione pregiudiziale del rituale predeterminato; non è molto sentita la preoccupazione di fedeltà a norme e rubriche per cui, nelle espressioni più radicali, si assiste ad adattamenti liturgici piuttosto soggettivi. Lo spirito di creatività si esprime anche nella ricerca di un forte coinvolgimento di tutti nella celebrazione, attra­verso la marcata accentuazione dei rapporti umani tendenzialmen­te egualitari all'interno dell'assemblea.
Rimane difficile, a volte, riuscire a decifrare il ruolo specifico della presidenza dell'assemblea; a essa, infatti, sono attribuite dal presidente stesso parti tipicamente presidenziali, quali ad esempio, nell'eucaristia, la dossologia «Per Cristo, con Cristo e in Cristo...».
Particolare significato assume la dimensione del servizio della carità: assolutamente intesa non come beneficenza o assistenza indi­viduale ma come testimonianza di servizio e di fraternità, nella soli­darietà con il mondo dei poveri e come impegno storico per la libe­razione integrale degli uomini e dei popoli.
A proposito del rapporto fra la Chiesa e il mondo, il modello tenta di farsi interprete della parola conciliare per la quale la Chiesa

che è insieme società civile e comunità spirituale cammina con l'u­manità tutta e sperimenta con il mondo la medesima sorte terrena, ed è come il fermento e quasi l'anima della società umana destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio (GS 40: EV 1/1443).

La costituzione conciliare propone, dunque, la collocazione della Chiesa nel mondo descritta nella Lettera a Diogneto.
Tale rapporto è ispirato dai seguenti atteggiamenti: rispetto della legittima autonomia delle realtà temporali, disposizione al dialogo e alla collaborazione, libertà e indipendenza evangelica, superamento progressivo delle tradizionali posizioni dualistiche: la supplenza, l'ingerenza, la tutela... Il modello punta anche a un riesame e a una riqualificazione delle istituzioni cattoliche (scuo­le, università, sindacati, partiti ecc.) spesso sorte o conservate come riaffermazione o difesa del proprio ambito istituzionale, di fronte alla progressiva autonomia delle istituzioni secolari, e acco­glie il pluralismo culturale e religioso ponendosi in atteggiamento di dialogo costruttivo con tutti, al servizio sempre dei valori del Regno.
La prassi associativa, vale a dire il sistema con il quale si radu­nano i fedeli, è pressoché interamente orientata al piccolo gruppo o alle piccole comunità di base - le Comunidades eclesiales de base (CEB), così chiamate in America Latina, e Comunità ecclesiali di base in Italia -, luoghi in cui è possibile realizzarsi come persone, coltivare le istanze partecipative e collettive, fare esperienza di Chiesa, avere un riferimento religioso.
Normalmente nelle Comunità di base dell'America Latina, pre­senti quasi esclusivamente nelle situazioni di povertà, si nota la per­sistenza del rifiuto a collegarsi con altre CEB presenti tra persone che appartengono a situazioni sociali più fortunate e/o ceti sociali e di cultura più elevati, di collegarsi con altre forme associative.
Nella loro conduzione si fa largo uso del riferimento alla Bib­bia, ma anche alla dinamica di gruppo e alle scienze analitiche e interpretative.
L'immagine di Chiesa che ispira il modello è quella tratteggiata da Paolo VI nel discorso di chiusura del concilio Vaticano II, il 7 dicembre 1965, «nel mondo e per il mondo» presente come «segno di contraddizione» (Lc 2,34), ma anche come realtà che, alla luce del concilio,

considera con grande rispetto tutto ciò che di vero, di buono e di giu­sto si trova nelle istituzioni, pur così diverse, che l'umanità si è crea­ta e continua a crearsi [...] e vuole aiutare e promuovere tutte que­ste istituzioni, per quanto ciò dipende da lei ed è in armonia con la sua missione (GS 42: EV 1/1453).

Il  modello, dunque, intende realizzare una Chiesa in stato di missione, di evangelizzazione non nel senso tradizionale di azione ad extra per ottenere nuovi addetti, ma come dimensione perma­nente e predominante della sua prassi e come invito a una perenne riconversione al vangelo. Di conseguenza, il criterio di appartenenza ecclesiale non è più dato dalla sociografia battesimale, ma dall'ortoprassi, ossia dal retto agire a scapito, a volte, dell'ortodossia ossia del retto essere.
All'interno di tale criterio sono sottolineate due istanze: anzitutto la scelta dei poveri, degli emarginati, degli handicappati, degli oppressi, in tutte le forme, per riconoscersi e riconoscere in loro i soggetti privilegiati della presenza ecclesiale; inoltre la rinuncia al potere sia nella Chiesa sia nelle diverse forme di convivenza civile, politica, economica...
Per coerenza, dunque, la prassi ecclesiale deve diventare impe­gno storico che superi i difetti della retorica (accontentarsi di paro­le e gesti simbolici) e dell'ingenuità (complicità inconsapevole con le forze disumanizzanti), e l'azione dei cristiani - intesa come impe­gno storico - deve andare oltre i limiti del privato e del personale per inserirsi ai livelli del sociale e del politico.
     Una Chiesa, dunque, al servizio del mondo in termini di pre­senza e di promozione, secolarizzata e povera, aperta a tutti, che non privilegia le élite ma le stimola al servizio della massa e nella quale si superino prospettive ecclesiocentriche e centripete, per assumere l'orientamento proprio del popolo messianico che si sente inviato nel cuore del mondo.
Il     modello, assai affascinante e coinvolgente, non è tuttavia - come i due che lo precedono e quelli che seguono - esente da qual­che problema o pericolo. Il primo e anche il più incombente è la marginalità dei contenuti oggettivi della fede e della sua pratica, per cui il profano, ossia il mondo per cui si lotta, può prendere lenta­mente il sopravvento sulle motivazioni di fede.
L'accentuazione della soggettività personale e/o di gruppo, lo scarso rilievo dato all'istituzione Chiesa, il forte impulso all'impe­gno sociale e politico rischiano di mettere in secondo piano l'ispi­razione fondante della fede; in alcuni casi, legati a interpretazioni ideologiche della teologia della liberazione, anche ad annullare praticamente l'ispirazione di fede, ossia quella liberazione evange­lica dal peccato e dalle sue conseguenze, e quella comunione trini­taria di cui, tuttavia, si decanta l'irrinunciabilità attraverso il conti­nuo riferimento alla Bibbia. In queste situazioni diventa allora per lo meno problematica la definizione dello specifico cristiano e aumenta il rischio. Si osserva, inoltre, che dal punto di vista peda­gogico il modello può scadere nella pedagogia del consenso, ossia nel favorire un'adesione emotiva acritica (ingenua, in ultima anali­si più che verificata), pedagogia che, a parole, dichiara però di non accettare.
     Inoltre la categoria egemone dei poveri può diventare una cate­goria di divisione, di contrapposizione più che di sviluppo e di inte­grazione.
     L'uso della Bibbia - altra realtà fondamentale del modello - non appare poi ermeneuticamente corretto: un suo uso ideologizzato, vale a dire piegato a categorie antropologiche quali la lotta di classe, è riscontrato non solo nella letteratura ma anche nella prassi.
     La comunità e il popolo come soggetti della Parola - con la Bib­bia e i poveri - sono spesso enfatizzati, a detrimento dell'accoglien­za del ruolo direttivo e interpretativo del magistero ecclesiale e della gerarchia. Questa sensibilità conduce, anche non intenzional­mente, a favorire troppo la presenza e l'azione di capi carismatici che si pongono in alternativa e sostituiscono magistero e gerarchia, e che rischiano di dare alla prassi pastorale un'impronta piuttosto integrista di cui un segno è l'eccessivo privilegio accordato all'ortoprassi sull'ortodossia.
     Questi rilievi, e altri che si potrebbero ancora fare, lasciano tra­sparire come nodo non compiutamente risolto quello che il model­lo indica come il proprio riferimento ecclesiale qualificante, precisa­mente il rapporto Chiesa e Regno, Chiesa e mondo.
     L'aver indicato subito alcuni aspetti che fanno problema e indu­cono a rischi, non vuole tuttavia essere motivo per sottacere gli indubbi aspetti positivi che il modello offre per la prassi pastorale. Il primo tra questi è il deciso superamento della prassi di cristianità clericale e intraecclesiale per una prassi di evangelizzazione e mis­sionaria che esprima la sollecitudine della Chiesa per la salvezza e il servizio di tutti gli uomini, specialmente i più poveri, e la conse­guente formazione di cristiani credenti più che praticanti.
Segue, in un ideale ordine di merito, la scelta di operare per integrare fede e vita, fede e realizzazione personale, fede e impegno strutturale, e quindi favorire con forte determinazione l'impegno storico del cristiano, ossia la sua presenza e azione nella realtà socia­le, politica ed economica.
     Non possiamo dimenticare, infine, il grande sforzo di valorizza­re la Bibbia, di metterla nelle mani della gente, di leggerla insieme con essa e di trarne forza per il cambiamento della vita a livello per­sonale, ecclesiale, culturale e sociale; insieme alla valorizzazione dei contributi delle scienze umane un po' demonizzati da una pastorale più attenta al kerygma.
     Al termine dell'esposizione di questo primo tipo, ricordiamo che i modelli sono stati presentati valendosi dei riferimenti che li contraddistinguono allo stato ideale.
     Nella realtà - anche nella traduzione concreta più vicina all'i­deale - esistono sempre variabili legate alle persone, alla situazione sociale e culturale in cui la parrocchia è collocata, e alla storia della parrocchia stessa. In pratica si può verificare il caso che una parroc­chia, pur assumendo le caratteristiche di fondo di un modello, assu­ma anche tratti tipici degli altri due, specialmente a livello di orien­tamento metodologico (catechesi, liturgia, prassi caritativa).
     Si può anche riscontrare il fatto che una comunità stia passan­do da un modello all'altro o - in alcuni ambiti della vita pastorale - assuma i tratti tipici di diversi modelli (catechesi tradizionale unita a una liturgia di stampo comunionale e a una prassi caritativa tipica del terzo modello, ad esempio).
     Nell'avviare una comunità o nel tentativo di rinnovarla è deci­samente opportuno partire dal modello esistente e farlo evolvere verso modelli che si ritengano opportuni; l'importante è essere sem­pre consci dei limiti e degli aspetti positivi di ognuno.
     E’ ovvio che la proposta di salvezza non è racchiudibile in nes­suno dei modelli di pastorale presenti nella Chiesa; essi sono solo e sempre mediazioni limitate, parziali e relative, anche se necessarie perché siamo in un'economia sacramentale.
     Identificare un modello pastorale non vuol dire verificare o valutare la capacità di salvezza di Dio e della sua grazia, e neppure mettere sotto giudizio chi fa pastorale; molto più semplicemente, significa osservare se il modo globale con cui si propone la salvezza è significativo e interpellante l'uomo di oggi, e se lascia trasparire il più possibile i contenuti della salvezza stessa.
     Nei loro tratti essenziali i tre modelli si possono sintetizzare così.



Modello         Tradizionale            Comunionale           Servizio nel mondo

                              e per il mondo
 

Parole            Informare sulla          Mettere                   Attivare un
chiave            verità                          in relazione,             dialogo
                                                            far incontrare          con il mondo



                       Chiesa                        Chiesa                                  Una Chiesa a servizio
                       istituzionale               comunionale           del Vangelo del Regno
                       gerarchica


2. Tipo B

Si riferisce, come ricordavamo sopra, ai modelli indicati dal gesuita A. Dulles. Li presentiamo in una nostra sintesi.
Dulles individua cinque modelli fondamentali di Chiesa: istitu­zione, comunione, sacramento, banditrice, serva. Come si può nota­re immediatamente, essi, in sostanza, riprendono temi e terminolo­gie dei tre fondamentali proposti nella tipologia precedente.
     Anche lui osserva, in apertura, che non esiste il modello allo stato puro e intende il termine come riferimento condiviso attorno a un nucleo comune o a un'idea generatrice (per i modelli del tipo pre­cedente è l'immagine di Chiesa) da cui prendono significato i vari modelli.
Un buon ecclesiologo e un buon pastore non sono mai legati a un modello unico, ma sono capaci di adattarsi a quelli che trovano e a svilupparne le potenzialità in rapporto a modem ideali praticabili nella situazione specifica.
     La conoscenza dei modelli e la comprensione dei meccanismi che ne determinano la configurazione possono aiutare molto il pastore, perché favoriscono in lui la capacità di conoscere altre modalità ecclesiologiche; lo stimolano a non fermarsi al proprio modello, il quale non può durare tutta la vita, specialmente in una situazione, come l'odierna, di profonde e rapide trasformazioni sociali e culturali; lo abilitano a un dialogo fruttuoso con coloro che praticano altri modelli.
La presentazione dei cinque modelli è articolata sui seguenti indicatori: il significato e le caratteristiche; la relazione con l'escato­logia; gli esponenti, vale a dire teologi e pastori che li condividono; i punti di forza e di debolezza.

2.1. Il modello chiesa-istituzione

Il significato e le caratteristiche sono originati dal concetto di Chiesa del Vaticano I, ossia Chiesa-società nella quale i poteri sono: magistero (insegnamento, ossia scuola per imparare la dot­trina e le sanzioni giuridiche e spirituali), santificazione (potere di ordine legato ai ed espresso dai ministri ordinati), giurisdizione (ossia potere di governo rigidamente gerarchico). Come si può osservare, la struttura di potere è identica a quella dell'istituzione società[6].
Il modello, del tutto simile al primo presentato nel paragrafo precedente, è stato etichettato dal vescovo di Bruge, Emile de Smet, nella prima sessione del Vaticano II con i tratti del clericalismo (divisione fra alto e basso clero, per cui il clero alto è fonte di pote­re), del giuridismo (la forte presenza e azione dell'autorità che è giu­dice, del Codice di diritto canonico eretto a sistema di riferimento pastorale), del trionfalismo (l'immagine di un esercito ben compat­to e ordinato schierato contro il potere di satana).
Nei confronti dell'escatologia, l'attenzione è fissata sul triplice deposito della dottrina, del ministero e dei sacramenti: tale deposi­to è un dono escatologico e la Chiesa, in quanto chiamata ad ammi­nistrarlo, è escatologica.
In questa teoria la Chiesa appare semplicemente come un tra­mite della grazia, una specie di cabina di una funivia che porta le persone a destinazione.
     Tra i principali esponenti ricordiamo il card. Roberto Bellarmi­no. Raggiunge il suo culmine nella seconda metà del secolo XIX con la costituzione dogmatica sulla Chiesa preparata per il Vaticano I, e le encicliche di Leone XIII e di Pio XII che insistono sulla Chiesa come società perfetta. La massima fondamentale è extra ecclesia nulla salus. In questa teologia la Chiesa tende a diventare un'istitu­zione totale, cioè un'istituzione che esiste per conto proprio e serve gli altri solo per ingrandire se stessa.
     Per quanto concerne i punti di forza, possiamo segnalare il soli­do appoggio che il modello va cercando nei documenti ufficiali della Chiesa degli ultimi secoli, l'insistenza su un forte spirito di corpo, vale a dire sulla continuità con le origini cristiane e la solida identità cooperativa.
     Tra i punti di debolezza indichiamo: la scarsa valorizzazione della Scrittura (solo pochi testi del Nuovo e dell'Antico Testamento sono citati); l'obbedienza cieca richiesta, la quale è fonte di sfortu­nate conseguenze per la vita cristiana personale e comunitaria; l'in­nalzare ostacoli contro ogni teologia creativa e fruttuosa (lega la teologia solo alla difesa delle posizioni ufficiali del momento e perciò sminuisce il pensiero critico ed esplorativo); i problemi teologici derivanti da un eccesso di istituzionalismo, per cui sembra enorme­mente difficile la salvezza dei non cattolici, si prospetta l'identifica­zione fra Chiesa e Regno, non c'è posto per i doni dello Spirito e i ministeri... Infine, il modello non si presenta in sintonia con le domande dei tempi. Senza dubbio la Chiesa è istituzione, ma non lo è solo o primariamente.

2.2. Il modello di chiesa-comunione mistica

Si passa dalla Chiesa intesa come società (Gesellschaft) alla Chiesa intesa come comunità (Gemeineschafi).
Premesso che occorre distinguere bene fra gruppi primari e comunità (la componente dirimente è la continuità nel tempo e l'a­desione ai contenuti che determinano l'appartenenza), questo secondo modello, assai simile al secondo presentato nel paragrafo precedente, assume significato e caratteristiche dalla visione di comunità che persegue: non una comunità in senso sociologico, ma una comunità ritagliata sull'idea di Chiesa come comunione che deriva dal mistero della Trinità; ha riscontri biblici (ad es. Rm 12 e 1Cor 12) ed è stato sviluppato – nell’accezione di corpo mistico - anche da molti Padri, compreso Agostino, il quale formula già l'idea della Spirito Santo come anima della Chiesa[7].
Lo sviluppo di questo modello ha radici nella Chiesa intesa come corpo mistico (Pio XII, enciclica Mystici corporis, 1943) e viene ulteriormente esplicitato nella Lumen gentium del Vaticano II. All'interno del modello sono compresenti due immagini di Chie­sa: la Chiesa come corpo di Cristo e quella di popolo di Dio.
     In proposito Dulles osserva: «I due modelli Corpo di Cristo e Popolo di Dio illuminano, entrambi, da differenti angolazioni, la nozione di Chiesa in quanto comunione o comunità. Da questo punto di vista, la Chiesa non è, in prima istanza, un'istituzione o una società visibilmente organizzata. E’ piuttosto una comunione di per­sone, primariamente interiore ma anche espressa da vincoli esterni della fede, di culto e di aggregazione ecclesiastica»[8].Viene qui evi­denziata la relazione fra la Chiesa e lo Spirito Santo, che emerge nei modelli del popolo di Dio e del corpo di Cristo.
Se la Chiesa è vista come comunione mistica, la sua relazione con l'escaton è radicalmente diversa da quella del precedente modello. Secondo questa ecclesiologia, la Chiesa sulla terra non è semplicemente una promessa o un pegno della Chiesa celeste, ma ne è già un'anticipazione poiché lo Spirito Santo, il dono escatologico, è già stato diffuso sulla comunità cristiana.
Tra gli esponenti di spicco ricordiamo D. Bonhoeffer, che svi­luppò la nozione di Chiesa come comunione interpersonale. Nella sua principale opera teologica Communio sanctorum, egli scrive: «La comunità è costituita dal completo oblio di se stessi proprio del­l'amore: la relazione tra io e tu non è più essenzialmente un doman­dare, ma un donare»[9]. Nell'ecclesiologia cattolica emergono le figu­re di Yves Congar (che preferisce l'immagine di corpo di Cristo, per­ché quella di popolo di Dio non evidenzia con pari chiarezza la novità della nuova alleanza) e Jérôme Hamer, il quale ha assunto la categoria di comunione o di comunità come punto centrale della loro ecclesiologia.
Una riflessione attenta sul modello individua i seguenti punti di forza e di debolezza.
     Prima di proporli, ricordiamo che i beneficiari del modello sono i membri della Chiesa. La meta loro proposta è di indole spirituale, soprannaturale, disincarnata e i legami che si stabiliscono tra loro sono frutto della grazia interiore e/o delle doti umane delle persone.
Tra i punti di forza vanno ricordati: la visione globale di Chiesa non più solo come istituzione ma come koinonia, così come la si trova in Paolo e negli Atti degli apostoli; il fondamento che tale visione ha nella tradizione cattolica fin dai primi secoli (l'idea di comunione è dei primi tre secoli); l'accentuazione della relazione personale tra il fedele e lo Spirito Santo, che aiuta a rinvigorire la spiritualità e la vita di preghiera; l'accoglienza del bisogno di rela­zionalità tipico della cultura odierna.
Tra gli aspetti di debolezza ricordiamo per primo la non chia­rezza nella relazione fra la dimensione spirituale e quella visibile della Chiesa (c'è il pericolo di cadere in una sorta di dualismo fra comunità spirituale e Chiesa, che è nell'ordine della legge secondo l'interpretazione di E Brunner, o di opposizione fra comunità spiri­tuali e Chiese secondo quella di P. Tillich).
Un'altra difficoltà consiste nel fatto che questo modello tende a idealizzare e divinizzare la Chiesa oltre il dovuto. In terzo luogo questo tipo di ecclesiologia risulta carente nel dare ai cristiani un senso chiaro della loro identità o missione. «Poiché non può assu­mere come scontato che evangelizzazione, battesimo o appartenen­za alla Chiesa coincidano con l'effusione dello Spirito Santo, la motivazione per la missione cristiana è lasciata nell'ombra»[10].
Infine, in questo modello si registra una certa tensione fra la Chiesa come rete amichevole di relazioni interpersonali e la Chiesa come comunione mistica di grazia. La Chiesa è un'amichevole asso­ciazione di persone o una comunione mistica che ha il suo fondamento in Dio?
     Ricordiamo la posizione del teologo americano Gregory Baum, il quale esprime sagge riserve sulla tendenza di certi cattolici a cer­care Chiese underground, nella speranza di trovare qualche tipo di comunità più ideale. «Alcune persone coinvolte nei movimenti underground sono ansiosamente alla ricerca della perfetta comu­nione umana». Desiderano una comunità che realizzi completamen­te i loro bisogni,e nei termini che essi sono in grado di definire. Questa ricerca è illusoria, specialmente ai nostri giorni, in cui essere per­sone significa partecipare a diverse comunità, rimanendo critici nei confronti di tutte. Il desiderio nostalgico di una comunità calda, che ti comprende totalmente, è la ricerca della madre buona, ricerca che alla fine è destinata alla delusione: «Non ci sono buone madri né buoni padri, ma c'è solo il mistero divino che ci libera e ci invita a crescere»[11].

2.3. Il modello di Chiesa come sacramento

Molti teologi del secolo XX, per superare le tensioni fra visio­ne istituzionale e visione mistica della Chiesa e unirne gli aspetti esterno (istituzione) e interno (grazia) in sintesi intelligibile, hanno fatto ricorso al concetto di Chiesa come sacramento[12]. Anti­cipato da Cipriano, Agostino, Tommaso d'Aquino, questo tipo dì ecclesiologia è emerso con chiarezza proprio nel nostro secolo. Tra gli altri, De Lubac ha dato un forte contributo a questa teoria, sostenendo che nella Chiesa il divino e l'umano non possono mai essere separati.
Il significato e le caratteristiche del modello sono espressi dal concetto di base che permette di evitare dualismi, contrapposizioni anche nella concezione di Chiesa: esso è quello di Chiesa sacramento. Concetto che si rifà anche alla struttura simbolica della vita umana.

Un sacramento è dunque un simbolo socialmente costituito o un simbolo comunitario della presenza della grazia che giunge a com­pimento. Sulla base di questa concezione generale di sacramento possiamo ora rivolgerci a due nozioni teologiche più specifiche; quelle di Cristo e della Chiesa in quanto sacramento [...]; caratteriz­zando Cristo come sacramento di Dio, noi guardiamo a Cristo in quanto discende dall'alto. Ma c'è anche, per così dire, una cristologia dal basso. La grazia spinge l'uomo verso la comunione con Dio e, per il fatto che essa opera sugli uomini, li aiuta a esprimere ciò che essi sono a un determinato stadio del processo di redenzione[13].

La Chiesa allora appare, in Cristo, come un evento dinamico che si realizza in quanto la grazia di Dio, che opera in lei, si traduce nella storia. Dunque la Chiesa si realizza in quanto è sacramento (segno e strumento visibile che dà e non solo indica l'invisibile, ossia la grazia). La Chiesa in Cristo è sacramento del divino e dell'umano.
     «La Chiesa è, in qualche modo, il sacramento ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano»: così recita il concilio Vaticano II (LG 9 e 49: EV 1/3O8ss; SC 26: EV 1/42; AG 5: EV 1/1096ss; GS 42: EV 1/1449ss).
     Luogo pieno della realizzazione della sacramentalità della Chiesa è l'eucaristia, dove cristologia ed ecclesiologia si incontrano. La Chiesa è aperta a tutti: l'evangelo va annunziato a tutti nel mondo, ma nel mondo essa non si realizza pienamente, lo sarà nell'escatologia.
Tutti i segni visibili della grazia di Dio, operante nei cristiani credenti, sono i legami che uniscono. Ne beneficiano tutti coloro che sono a contatto con la Chiesa: da tale contatto avranno una partecipazione piena se contribuiscono ad attuarne la missione nel mondo, saranno spettatori esterni se ne colgono solo qualche aspetto. La meta comunque del modello è con­durre a essere, in Cristo e nella Chiesa, la mediazione visibile, stori­ca della salvezza.
La visione della relazione escatologica di questo modello si può dire sia intermedia fra i due che la precedono, perché riconosce sia la distanza della Chiesa dal cielo (I modello) sia la nascosta pre­senza del dono celeste dentro la Chiesa pellegrina sulla terra (II modello).
La Chiesa è vista qui come sacramento del regno escatologico, e quindi il primo segno. Come tale e nella logica della semantica umana che la contraddistingue, deve continuamente sforzarsi per diventare un segno credibile in quanto trasparente e fonte di spe­ranza per tutti gli uomini.
     Gli esponenti di spicco sono teologi assai conosciuti, come K. Rahner, il quale si muove sulla scia di De Lubac e sviluppa il con­cetto ecclesiologico della Chiesa come sacramento universale di sal­vezza. Dopo di allora, l'idea è stata ripresa da E. Schillebeeckx, il quale nel secondo capitolo di Cristo sacramento dell'incontro con Dio sviluppa il concetto della Chiesa come sacramento del Cristo celeste. Seguono P. Smulders (La Chiesa sacramento di salvezza), Y. Congar (Ecco la Chiesa che amo), J.Martelet e molti altri.
Non mancano anche in questo caso punti di forza e di debo­lezza.
Tra i punti di forza emerge il fatto che il modello ha rappresen­tato un forte riferimento per molti e importanti teologi di profes­sione che, almeno all'interno della Chiesa cattolica, l'hanno condivi­so. Si nota poi l'ampio spazio che viene attribuito, nel modello, all'a­gire della grazia divina, nonostante i limiti della Chiesa-istituzione. Come vantaggio finale «possiamo ricordare che questo modello presenta motivi per una forte fedeltà alla Chiesa e per un umile sfor­zo nell'aderire alla sua disciplina, dando spazio, nello stesso tempo, a un sano spirito critico»[14].
Tra gli aspetti segnalati come punti di debolezza si può notare come l'ecclesiologia sacramentale abbia relativamente poca giustifi­cazione nella Scrittura (cf. Paolo che parla del matrimonio come di un mistero o sacramento in «Cristo e nella Chiesa»: Ef 5,32); ma questa obiezione non è certamente decisiva. Hamer afferma che in alcuni autori, tra cui Rahner, egli riscontra un eccessivo interesse per gli aspetti esterni e una corrispettiva trascuratezza circa la dimensione esteriore del mistero della Chiesa che, secondo lui, è meglio salvaguardata nella sua teoria della Chiesa come comunione. McBrien, riflettendo sulla posizione di Schillebeeckx, osserva come nel suo libro Cristo sacramento dell'incontro con Dio ci sia un rigi­do sacramentalismo che accorda uno spazio insufficiente alla diaco­nia, servizio nella missione della Chiesa e del mondo[15].
Infine, due altri argomenti si aggiungono al quadro dei punti deboli: la scarsa predicabilità dell'ecclesiologia sacramentale e la risposta molto esigua riservata dal pensiero protestante a tale eccle­siologia.

2.4. Il modello di chiesa come banditrice della Parola

Questo modello differisce dal precedente, perché mette al primo posto la Parola e considera secondario il sacramento[16].
Per quanto riguarda il significato e le caratteristiche, il modello è di impronta Kerygmatica. Considera la Chiesa come banditrice, che riceve un messaggio ufficiale con l'incarico di diffonderlo. L'im­magine fondamentale è quella di un banditore incaricato dal re, che arriva per proclamare un decreto sulla piazza pubblica. «Questo tipo di ecclesiologia è radicalmente centrato su Gesù Cristo e sulla Bibbia come testimonianza primaria di lui»[17].
In questo modello il ruolo assegnato alla Chiesa è quello di ban­ditore, ruolo che ha, sotto diversi aspetti, una funzione escatologica, perché è annuncio che gli ultimi tempi sono arrivati, per cui la con­sumazione finale è vicina, perché la Chiesa, nella sua attività, aiuta a prepararla. E una visione coltivata soprattutto in ambiente prote­stante[18].
Il concilio Vaticano II, in proposito, afferma:

Il periodo dell'attività missionaria si colloca tra la prima e la secon­da venuta di Cristo, quando la Chiesa, come messe matura, sarà rac­colta dai quattro venti del regno di Dio. Infatti, prima della venuta del Signore, il vangelo deve essere predicato fra tutte le genti (AG 9: EV 1/1108).

Tra gli esponenti, il principale è senz'altro K. Barth, teologo pro­testante che attinge in abbondanza da Paolo (famoso è il suo com­mento alla Lettera ai Romani), da Lutero e da altri, e sviluppa il suo pensiero nella Dogmatica ecclesiale. Egli distingue fra teologia della gloria e teologia della croce, e afferma che la prima si riscontra ogni volta che la Chiesa identifica se stessa con il divino e fa riferimento a se stessa come se contenesse quello che proclama. La visione della Chiesa intesa essenzialmente come una banditrice è stata assunta anche dal teologo H. Küng (La Chiesa), il quale vede la Chiesa nella sua forma terrestre ben distinta dal regno di Dio, considerato come una realtà escatologica.

È il Regno di Dio ciò che la Chiesa spera, ciò di cui rende testimo­nianza e proclama. Non è colei che porta o sostiene il Regno di Dio che deve venire ed è, nello stesso tempo, già presente, ma ne è la voce, il messaggero, il banditore. Solo Dio può portare il suo regno: la Chiesa è totalmente dedicata al suo servizio[19].

In Bultmann, e nei teologi da lui influenzati, si riscontra una variante essenziale nella teologia kerygmatica. Egli insiste nel dire che la parola di Dio non è un insieme di idee fuori dal tempo, ma è un evento concreto, un incontro. Nella predicazione del kerygma la Parola è autoritativa: si fa evento storico e questo evento è Gesù Cristo. I discepoli di Bultmann hanno spinto la riflessione sull'even­to come evento linguistico della proclamazione, fino a identificare questo evento linguistico con la costituzione della Chiesa.
Il linguaggio, dunque, viene ad avere la funzione di convocare l'assemblea, perciò la proclamazione cristiana deve essere intesa come evento linguistico in cui il corpo di Cristo è costituito e riuni­to in assemblea. La Chiesa, in quanto assemblea, si realizza nell'at­tività stessa della proclamazione.
Ultimo esponente di questo modello è G. Ebeling, il quale, nel suo libro La natura della fede, sostiene che la Chiesa è convocazio­ne attorno alla Parola, convocazione in materia di fede.
Si tratta dunque di un approccio che mette come elemento pri­mario la fede vista come risposta al vangelo, cioè proclamazione dell'evento Gesù. Si sviluppa allora una forma di convocazione eccle­siale congregazionalista, tipica dell'ecclesiologia protestante, per cui la Chiesa viene considerata completa in ogni piccola congregazione locale (anche Küng la pensa così, in dissintonia con la Chiesa catto­lica). I vincoli strutturali fra comunità locali possono anche essere auspicati per promuovere interazione e mutuo consiglio, ma non sono essenziali. Di questa visione di Chiesa possono beneficiare tutti quelli che ascoltano la parola di Dio e mettono la loro fede in Gesù Cristo come Salvatore; la meta del modello è semplicemente quella di annunciare il messaggio. E un'ecclesiologia pervasa da un forte impulso missionario di evangelizzazione.
Tra i punti positivi, peraltro molti, si deve registrare: una buona fondazione biblica nella tradizione profetica dell'Antico Testamen­to; un chiaro senso dell'identità e della missione, specialmente per la Chiesa locale; il condurre all'obbedienza, all'umiltà e alla prontezza del pentimento e della riforma; infine, il dare origine a una ricchissi­ma teologia della Parola come espressione, un legame forte inter­personale di comunione.
Tra gli aspetti problematici appare subito insufficiente l'aspetto incarnazionistico; occorre parlare non solo della Parola ma della Parola fatta carne. La visione di Chiesa appare come una serie di avvenimenti scollegati fra loro, una specie di happening, accadimen­ti totalmente privi di una connessione che li unisca. Infine, il model­lo insiste fortemente sulla testimonianza e poco o nulla sulla validità dello sforzo umano per raggiungerla: è un po' segnato da pessimi­smo e quietismo. Il concilio Vaticano II ha cercato di far tesoro dei vari tentativi derivati dalla teologia barthiana della Parola, ma non si è accontentato di una sua comprensione meramente profetica (cf. DV 1 e 10: EV 1/872ss). «La parola medita non solo su ciò che ha udito ma anche su ciò che è apparso ed è stato visto, e la meta della predicazione non è la semplice professione della fede nel messaggio ma piuttosto la comunione di vita e di amore»[20].


2.5. Il modello di chiesa come serva

Mentre i precedenti modelli sono centrati sull'identità della Chiesa vista come soggetto attivo e il mondo come oggetto della sua azione di salvezza, questo è un modello centrato sulla relazione tra Chiesa e mondo: qui la Chiesa accetta di dialogare con un partner riconosciuto come autorevole, in quanto tale.
E’ un modello che nasce anche sulla spinta dei cambiamenti cul­turali della modernità e della postmodernità. L'immagine della Chie­sa che rende meglio questo dialogo con il mondo - senza identifica­zioni reciproche - è quella del servo, vale a dire dell'ecclesiologia al servizio nel mondo e per il mondo visto come locus theologicus[21].
Nel proporre i principali esponenti occorre avvertire che questo nuovo corso dell'ecclesiologia era stato preparato dal pensiero di numerosi teologi del XX secolo, due dei quali possono essere segna­lati con una speciale menzione: Teilhard de Chardin e Bonhoeffer.
Il gesuita Teilhard lottò tutta la vita per compiere una riconci­liazione tra le sue due grandi fedeltà: quella verso la scienza e quel­la verso la Chiesa. La sua doppia vocazione di antropologo e di sacerdote gli fece sentire che non poteva essere interiormente dila­niato. Doveva esserci, riteneva, un'unità ultima fra teologia e scien­za, tra religione e tecnologia, tra Chiesa e mondo. La sua sintesi fu cristocentrica (cf. L'ambiente divino), poiché sosteneva che tutte le energie dell'universo, in definitiva, convergono verso Cristo ( Il punto Omega) e quindi verso la Chiesa in quanto porzione di mondo coscientemente cristificata.
La Chiesa, affermava, è il principale punto focale delle energie d'amore nel mondo; essa è l'asse centrale della convergenza univer­sale e il punto esatto dell'incontro che emerge tra l'universo e il punto Omega. Secondo Teilhard, la Chiesa è necessaria per impedi­re che le energie vitali del mondo vengano dissipate inutilmente. D'altra parte, il modello è necessario alla Chiesa, altrimenti questa «appassirebbe» come un fiore fuori dall'acqua.
In sostanza Teilhard insegnava che la Chiesa è chiamata divina­mente a essere una società in progresso, la punta dell'asse dell'evo­luzione, e che, per adempiere la sua vocazione, deve essere aperta a ogni cosa buona che emerge dal dualismo dello spirito umano come si riscontra nella scienza e nella tecnologia. La sua visione è ancora moderatamente ecclesiocentrica, ma egli scopre prove della tensio­ne verso il punto Omega nel movimento del mondo, anche fuori dai confini della Chiesa.
Per quanto riguarda Bonhoeffer, abbiamo già visto che nelle sue prime opere, specialmente in Communio sanctorum, mette in forte rilievo la natura della Chiesa come comunione di persone riu­nite insieme a Cristo. Successivamente, nella sua Etica, si muove verso una posizione più kerygmatica, in corrispondenza al quarto modello. «L'intenzione del predicatore - egli scrive - non è di migliorare il mondo, ma di incitarlo a credere in Gesù Cristo, a dare testimonianza della riconciliazione che è stata compiuta per mezzo di lui e della sua signoria».
Infine, nella sua opera postuma Resistenza e resa, Bonhoeffer diventa del tutto critico circa la teoria kerygmatica di Barth, carat­terizzandola come un positivismo della rivelazione.
Egli auspica una Chiesa umile e serva:

La Chiesa è Chiesa soltanto se esiste per gli altri. Per cominciare, essa deve fare dono di tutte le sue proprietà a quelli che sono nel bisogno. I pastori devono vivere esclusivamente delle offerte della comunità ed eventualmente esercitare una professione nel mondo: la Chiesa deve partecipare agli impegni nel mondo propri della comunità umana ordinaria, non dominando, ma aiutando e servendo[22].

Sia Teilhard che Bonhoeffer erano assillati dalla sensazione che il mondo stava per fare a meno della Chiesa, mentre la Chiesa, orgo­gliosamente, presumeva di avere già dalla rivelazione tutte le rispo­ste ai problemi del mondo.
Fin dai primi anni '60 del XX secolo quasi tutti i cultori di eccle­siologia che hanno raggiunto una certa notorietà appartenevano al nascente nuovo stile della teologia secolare-dialogica.
     Nel mondo di lingua inglese - siamo tra il 1968 e il 1970- i più noti rappresentanti di tale ecclesiologia nell'ambito del protestante­simo e dell'anglicanesimo sono G. Winter, H. Cox (La città secolare) e J.A.T. Robinson (Una nuova riforma?).
Essi, in sostanza, sostengono che la Chiesa deve liberarsi della pesantezza delle proprie strutture per operare in quelle del mondo, piuttosto che collocarsi e costruire strutture in modo parallelo a esso. Diventerà così l'avanguardia di Dio, come afferma Cox nel secondo capitolo della Città secolare.
La meta che intende raggiungere il modello consiste nell'abili­tare alla capacità di discernere i tempi. Attraverso una guida e una critica profetica, la Chiesa non mirerà primariamente a conquistare nuovi adepti, ma piuttosto a essere di aiuto a tutti gli uomini, dovun­que si trovino.
Il modello dunque propone la Chiesa come la casa di tutti e non solo dei suoi membri.
Qui il rapporto fra Chiesa ed escaton potrebbe apparire giocato tutto in sfavore dell'escaton, essendo forte l'attenzione agli avveni­menti terreni. Sono eccezioni le visioni di Winter e Cox, in cui l'escaton, come futuro ultimo, quasi scompare dalla prospettiva, a causa dell'impor­tanza annessa alla presenza penultima di Dio nel processo storico; le altre teologie della Chiesa-serva prendono una posizione forte­mente escatologica.
Si ritrovano nel dettato della Gaudium et spes, dove si afferma:

Benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del Regno di Dio, tuttavia, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l'umana società, tale progresso è di grande importanza per il Regno di Dio. Infatti i beni, quali la dignità dell'uomo, la fraternità e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra in obbedienza allo Spirito del Signore e al suo precetto, li ritrovere­mo, poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfi­gurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre il Regno eterno e universale che è regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. Qui sulla terra il Regno è già presente, in mistero; ma con la venuta del Signore giungerà alla piena fioritura (GS 39: EV 1/1440s).

     Per quanto attiene i punti forza del modello, emerge il tentati­vo di rendere la Chiesa più vicina alla nuova situazione culturale dell'oggi. Così concepita, sarà l'unica casa che può dare a tutti la fede in Cristo Gesù, la speranza nella venuta finale del regno di Dio e l'impegno per i valori della pace, della giustizia e della fraternità umana che tutti sono temi biblici dominanti.
Inoltre, l'ecclesiologia di servizio supera, almeno intenzional­mente, tentazioni corporative e di insensibilità nei confronti del mondo, e offre una sensibilità spirituale nuova che stimola la Chie­sa a mettersi al servizio dei poveri e degli oppressi (cf. quanto detto a proposito delle teologie della liberazione).
Apre la successione dei punti deboli una critica seria contro questa teoria, vale a dire la sua mancanza di ogni diretta fondazio­ne biblica. Benché il servizio in essa venga spesso lodato, tuttavia la Bibbia non sembra considerare il servizio (al mondo) come compi­to della Chiesa.
Altra difficoltà viene dalla polisemia attribuibile alla parola servo. Essa connota tre tipi di opera: quella non scelta libe­ramente ma per ordine ricevuto; quella svolta per il bene degli altri invece che per vantaggio personale; quella, infine, servile che smi­nuisce chi la compie.
In ognuno dei tre significati rimane l'ambiguità nei confronti di Cristo e della Chiesa; si preferirebbe allora usare la parola diakonia già applicata alla Chiesa del Nuovo Testamento. Gli uffici della Chiesa sono forme di diakonia. L'idea moderna di Chiesa serva ha solo un'indiretta fondazione biblica. Il concetto di servizio deve quindi essere ulteriormente precisato per mantenere limpida l'au­tentica identità della Chiesa.
Permane, infine, la questione del rapporto fra Chiesa e regno di Dio (opera di Dio e non dell'uomo, così come viene indicato nel Nuovo Testamento). La Chiesa non ha il compito di rendere il mondo un posto migliore per vivere, ma esiste per la gloria di Dio e di Cristo, nonché per la salvezza in una vita oltretomba. «L'idea del Regno come servizio porta dunque fuori strada se cerca di afferma­re se stessa in opposizione alla dimensione kerygmatica»[23].
     Come sempre occorre distinguere, specificare senza confonde­re e senza contrapporre.
Lo schema che segue presenta in sinossi i modelli e i tratti essen­ziali di ognuno.


Modello
Istituzione
Comunione
Sacramento
Banditore
della
«Parola»
Serva
Parole      
chiave
Trasmettere
il ministero,
la dottrina,
i sacramenti
Mettere
in relazione,
far
incontrare
Attivare
segni
o simboli
Proclamare
la Parola
Instaurare
il dialogo con
il mondo
Immagine
di Chiesa
Chiesa
istituzionale
gerarchica
Chiesa
comunionale
Chiesa corpo
mistico
Chiesa
congregazione
evangeliz-
zatrice
Chiesa
soggetto
attivo
nel mondo
Esponenti
Bellarmino
Vaticano I
Bonhoeffer
Congar
Hamer
De Lubac
K. Rahner
Congar
Smulders
Bultmann
Barth
Kung
Ebeling
De Chardin
Bonhoeffer
Gaudium
et spes
Paolo VI
Ecclesiam
suam

3. Osservazioni conclusive

     Al termine della presentazione dei modelli di Dulles si ram­menta che anche per questi tipi valgono le considerazioni finali rela­tive ai primi, più attenti agli orientamenti operativi in termini pro­gettuali.
     Ricordiamo, inoltre, che sulla formazione di un modello o sul suo rifiuto è, di fatto, determinante la figura del sacerdote, il quale ha il compito della presidenza eucaristica e, di conseguenza, anche la responsabilità (ultima anche se condivisa con le diverse e artico­late presenze ministeriali, laicali, di religiose e religiosi) della pasto­rale della comunità.
     La Chiesa ha una sua particolare identità, perché è, nello stesso tempo, originata e modellata dal mistero trinitario ed è istituzione composta da uomini. Non solo, ma il mistero fondante viene reso visibile alla maniera umana e, in qualche modo, si esprime avvalen­dosi delle regole corrette che codificano un'istituzione.
Tra queste c'è anche il ruolo che le persone vengono ad avere all'interno dell'istituzione.
Un'altra regola importante è la relazione di ogni ruolo con altri, in modo da esprimere in sintonia il mistero che è chiamata a rendere visibile.
Parlando di ruoli, ci possiamo chiedere quale sia quello del sacerdote all'interno di una parrocchia. Biblicamente dovremmo dire che egli è un pastore. Tuttavia sulla figura del pastore si creano, spesso, sovrapposizioni di ruoli e mansioni, che producono confu­sione. Così per il pastore: è importante distinguere fra pastore, modo di essere pastore e agire come pastore.
         1) Il pastore che si cura della «visione globale»: è chi ha la con­cezione di un pascolo preciso al quale condurre il gregge. Magari non ha ben chiaro tutto il tragitto e le tappe del percorso, ma sa dove bisogna andare. Il suo modo di essere consiste nell'indicare una meta, un obiettivo, sotto forma di visione. Il suo agire consiste nel creare un movimento in una direzione precisa. Potremmo attri­buire al vescovo questa tipologia di pastore.
    2) Diverso è il caso del pastore che si cura dell'«organizzazio­ne». Qui, il ruolo è assolto in due modi, che potremmo chiamare l'in­dividuazione della strada e la creazione di una cultura. Trovare la strada vuol dire definire il percorso per portare il gregge alla meta prevista. La creazione di una cultura può essere considerata la capa­cità di mantenere nel tempo questo orientamento verso l'obiettivo. Il pastore dell'organizzazione esercita il suo servizio nel definire la sequenza del percorso e nel sostenere chi direttamente percorrerà la strada, di tappa in tappa. Potremmo attribuire questo ruolo ai più diretti collaboratori del vescovo.
    3) Il pastore che si cura della «realizzazione» si distingue dai due tipi precedenti perché s'incentra su uno stile d'azione rivolto piuttosto a creare un buon clima di lavoro per ottenere la collabo­razione degli individui; egli lo fa adattando il proprio stile alla dupli­ce dimensione dell'orientamento: al compito e alla relazione. Potrebbe essere il ruolo dei sacerdoti, quindi anche del parroco come sacerdote.
Se si volesse esplicitare ancora meglio il compito del sacerdote attraverso un immagine biblica, si potrebbe prendere in prestito il concetto di vincastro: «Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza» dice il Sal 23,4b.
     Secondo alcuni esegeti, il bastone è lo strumento che il pastore porta con sé per difendere il gregge da eventuali predatori: è un bastone corto, si maneggia facilmente e rappresenta un'arma di dife­sa contro lupi, cani randagi, fiere...
Il vincastro è un bastone più lungo. È usato dal pastore-capo prevalentemente di notte, per battere il terreno in modo che gli ani­mali del gregge (pecore, cani da pastore), e anche altri pastori che l'aiutano, sentano e riconoscano quel suono familiare e possano avere il riferimento continuo di dove sia il pastore-capo; serve prevalentemente per indicare la strada da percorrere, per segnare sono­ramente il tragitto e ottenere, con il suo fruscio, ticchettio, la colla­borazione di tutti i pastori, realizzando così un buon clima di lavoro.
Il sacerdote non è responsabile della visione, né dell'organizza­zione del piano pastorale: non gli è richiesto di ideare i grandi per­corsi per tutta la Chiesa, né di vedere dove ci saranno pascoli verdi in futuro. Il sacerdote parroco, ad esempio, è pastore del gregge (pic­colo o grande che sia) che gli è affidato e del tragitto di sua compe­tenza: ha le orecchie tese nell'ascoltare il suono del vincastro e nel condurre il piccolo gregge in quella direzione.

4. Appendice

In appendice al capitolo proponiamo una matrice di analisi - valorizzabile anche come progettazione - di un modello di pastorale. La griglia di R. Tonelli è un po' modificata, per adattarla all'o­biettivo di una progettazione globale[24].

4.1. Presentazione del modello

Si tratta di una prima e globale presentazione del modello senza entrare nei particolari:
Ø  chi sono i destinatari: età, condizione sociale,' sesso, titolo di studio, occupazione, ecc.;
Ø  in quale contesto socio-culturale è nato il modello in esame: descrizione del contesto socio-culturale;
Ø  per quale contesto socio-culturale si propone;
Ø  quali risultati sono stati raggiunti: quante persone raggiunge; che rapporto ha con le istituzioni locali; che incidenza realizza nella realtà ecclesiale in cui opera e in che considerazione è tenuto o gode fuori dall'ambiente ecclesiale.

4.2. Orizzonte culturale

Partendo dall'ipotesi che ogni modello rappresenta un'incultu­razione della proposta di fede che intende realizzare, si tratta di rispondere alle seguenti domande, tenendo conto delle indicazioni date nella nota che segue:
Ø  quale uomo vuole realizzare?
Ø  quale visione della realtà induce?
Ø  quale concezione della verità propone?

Nota: tre sembrano gli orizzonti culturali in cui vivere e annun­ciare il vangelo: speculativo (attenzione all'essenza, alla verità e alla conoscenza; le categorie sono oggettive, il metodo è deduttivo); esi­stenziale (al centro la persona con cui essere in rapporto e che si rea­lizza vivendo la propria esperienza soggettiva, attraverso il dialogo, l'incontro, la comunicazione...); prassico (la realtà è storia, la verità è crescita della storia, vissuta come responsabilità e impegno di tra­sformazione in tre momenti: analisi, scoperta delle cause, progetto di cambiamento).

4.3. Obiettivo pastorale generale

In questo paragrafo si mira a configurare l'obiettivo globale generale, che è appunto il risultato delle risposte alle seguenti domande:
Ø quale cristiano si intende formare (quali contenuti lo configu­rano)?
Ø quale uomo, per quale società (un uomo in dimensione indi­vidualistica, in rapporto con gli altri e, se tale, quale rapporto fra rea­lizzazione personale o identità personale e realtà sociale o colletti­va...)?
Ø quale integrazione fra fede (contenuti e vita di fede) e auto­realizzazione di sé (in altri termini, quale funzione ha la fede
Ø nel quadro generale dei valori)?
Ø quale processo si privilegia per realizzare questa «integra­zione»?

4.4. Giudizio sull’oggi

Le domande che seguono mirano a scoprire la valutazione implicita o esplicita che il modello fornisce dell'attuale situazione sociale e culturale:
Ø quale valutazione del contesto socio-culturale in cui si agisce è indotta dal modello (presenza senza dialogo, assenza, mediazione culturale, rifiuto, sospetto...)?
Ø quale persona si pensa possa aderire alle proposte, in che modo ci si rivolge a lei?
Ø in che modo vengono o no utilizzate le scienze umane, nell'e­laborazione del giudizio sulla realtà dell'oggi e nel formulare orien­tamenti pastorali?

4.5. Orientamento metodologico e prassi educativa

In questa ulteriore serie di domande si mira a vedere in azione il modello, ossia a stabilire come concretamente esso si metta in moto. Di conseguenza si chiede di ricercare quale cammino concre­to è realizzato, individuando:
Ø  punto di partenza e delle tappe intermedie (cicli o singole tappe);
Ø  punto di arrivo previsto e/o realizzato;
Ø  canali attraverso ai quali si fanno circolare i valori (ossia le strade messe in atto per la formazione delle persone che vi aderi­scono);
Ø  quale relazione viene normalmente intrapresa con chi aderi­sce (autoritario, democratico, permissivo, lassista);
Ø  chi esercita la funzione pastorale formativa (preti, laici reli­giosi/e) e come concretamente viene esercitata tale funzione (ad esempio l'animazione...?);
Ø  quali processi diversi (uno per l'educazione ai valori profani e l'altro per l'educazione ai valori della fede) sono messi in atto e se c'è un rapporto di collaborazione reciproca? Tale collaborazio­ne come si realizza?

4.6. Immagine di Chiesa

Ogni modello pastorale veicola un'immagine di Chiesa. Le risposte alle domande che seguono si propongono di identificare tale immagine:
Ø  quale immagine di Chiesa è privilegiata globalmente dal modello in questione (Chiesa società perfetta, Chiesa comunione, Chiesa al servizio)?
Ø  quale rapporto Chiesa-mondo: per quale salvezza si opera (ad es. salva l'anima tua, cioè una salvezza individualista, dualista, ultra­terrenista... oppure di tutto l'uomo... da costruire insieme, nella sto­ria…)?
Ø  quale rapporto con il mondo si privilegia (dialettico, funzio­nale, presenza per servire)?
Ø  che rapporto induce il modello fra momenti tipici dell'esi­stenza cristiana (preghiera, celebrazione dei sacramenti, comunione, parola di Dio) e la presenza-impegno nella storia e nel mondo?
Ø  quale tipo di appartenenza ecclesiale è realizzata (adesione incondizionata; critica nei confronti dell'istituzione quali parroc­chia, diocesi...; adesione con riserve morali... non appartenenza)?
Ø  quale rilievo e connotazione assume la dimensione missiona­ria (centrale, a margine, saltuaria)?

4.7. Quale prassi aggregativa

Al termine, per completare il quadro, occorre individuare la prassi aggregativa messa in atto dal modello. Ecco alcune domande:
Ø  quale ruolo ha l'esperienza di gruppo o di piccole comunità in rapporto alla maturazione personale degli aderenti e all'integrazio­ne fra fede e realizzazione di sé (o identità personale)?
Ø  quale collegamento esiste fra gruppo e piccole comunità e altre presenze di movimenti e associazioni?
Ø  in che rapporto si colloca il gruppo con la vita quotidiana reale delle persone che vi aderiscono: (è realtà totalizzante; si pone a livello di volontariato; come momento di sensibilizzazione e inte­riorizzazione; come esperienza forte in rapporto alla vita quotidiana ossia come gruppo di riferimento; momento di progettazione di azioni e ripensamento)?
Ø  il modello di pastorale quale sbocco induce (stile di vita, comunità di riferimento, comunità stabili)?









[1] J.H.FICHTER, Sociologia fondamentale, Pompei 1963, 143
[2] Per una visione globale della situazione culturale odierna da una prospettiva sociologica e con riferimento al tema dell’identità personale culturale e sociale, si veda S.BAUMAN, Intervista sull’identità, Bari 2003; ID:, Una nuova condizione umana, Milano 2003; ID:, Vita liquida, Bari 2006. In particolare sulla secolarizzazione  e le sue conseguenze sui sistemi di significato cf. T.LUKMANN, La religione invisibile, Bologna 1969; P.BERGHER, Le piramidi del sacrificio. Etica, politica e trasformazione sociale, Torino 1884; C.TAYLOR, L’età secolare, Milano 2009.
[3] Ci siamo avvalsi dei seguenti riferimenti: G.AMBROSIO, Per una pastorale che si rinnova, Torino 1981; GRUPPO DI CATECHESI, Il giro di boa della pastorale, Torino 1976; ID:, La Chiesa è di tutti. Un contributo teologico-pastorale per presentare e vivere la Chiesa oggi, Torino 1978; A.ACERBI, Due ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella “Lumen gentium”, Bologna 1975; Y.CONGAR, Ministeri e comunione ecclesiale, Bologna 1973.
[4] Cf. A.DULLES, Modelli di Chiesa, Padova 2005.
[5] Per una panoramica di progetti pastorali orientati su questo modello cf.: J.B.CAPPELLARO, Pianificazione pastorale. Metodo prospettico. Metodo e spiritualità dei progetti operativi per la realizzazione dell’ecclesiologia di comunione, Roma 1988; ID., Edificare la Chiesa locale. Guida alle strutture diocesane e parrocchiali, Roma 1988; Comunione di comunità. Progetto parrocchia, Assisi 1985; N.DE MARTINI, Parrocchia nuova: comunità di amici. Cambiare la parrocchia – per cambiare la Chiesa – per cambiare la società, Torino 1982: ID., Parrocchia nuova per tempi nuovi, Torino 1985; A.FALLICO, Quando un gruppo diventa chiesa, Roma 19872; ID:, Le comunità ecclesiali di base, Catania 1990.
[6] CF. A.DULLES, Modelli di Chiesa, cit., 41-55
[7] Ibidem, 57-76
[8] Ibidem, 68
[9] Citato da DULLES, Modelli di Chiesa, 59.
[10] Ibidem, 73
[11] Ibidem, 75.
[12] Ibidem, 77-92
[13] Ibidem, 82-83.
[14] Ibidem, 90
[15] Ibidem, 91.
[16] Ibidem, 93-106
[17] Ibidem, 93.
[18] Ibidem, 94-100.
[19] Ibidem, 96-97.
[20] Ibidem, 105.
[21] Ibidem, 107-124
[22] Entrambe le citazioni sono estrapolate da DULLES, Modelli di Chiesa, 113.
[23] Dulles, Modelli di Chiesa, 123.
[24] R.TONELLI, Pastorale giovanile. Dire la fede in Gesù Cristo nella vita quotidiana, Roma 19874, 67-69.

Per una progettualità pastorale

Se una comunità ecclesiale intende inserirsi nel processo cultu­rale della postmodernità per annunciare il vangelo, sarà importante che essa maturi un fondamentale atteggiamento di dialogo critico, al proprio interno e in relazione con altre presenze pastorali e/o cultu­rali con le quali venga a rapportarsi.
La precondizione a tale dialogo critico consiste sia nel dichiarare, da parte di ogni interlocutore, la propria identità sia nell'inten­zionalità che sta alla base della decisione di collaborare in modo consapevole e motivato.
Questa è anche la condizione previa a ogni progettazione pastorale, vale a dire quel momento in cui insieme si decide di fare un progetto pastorale, lo si realizza e lo si traduce nella prassi.
Si tratta di una condizione che esige giusti tempi di maturazio­ne, che va continuamente rinnovata e rimotivata nella direzione di uno stile pastorale improntato alla sinodalità e alla comunionalità missionaria.
Non è dunque sufficiente decidere di mettere attorno a un tavo­lo diverse persone e/o istituzioni, dare loro il compito di progettare un intervento e poi... attendere la conseguente riuscita dell'opera­zione.
Né, tanto meno, si pensi di ottenere un buon risultato proget­tuale quando l'intera operazione è decisa dall'alto senza l'opportu­no coinvolgimento dei compagni di cammino nelle fasi del pensare, del fare e del realizzare un progetto.
Quando poi a tutto questo si aggiunge anche la pretesa di effi­cienza immediata e quindi l'eliminazione più o meno cosciente della precondizione di cui abbiamo appena detto, il risultato potrà anche essere considerevole a livello di efficienza, ma sarà, senza alcun dub­bio, minimo o nullo ai livelli di condivisione degli obiettivi e di clima di entusiasmo nei confronti del progetto stesso.
In questo capitolo proponiamo alcuni elementi che, giocati sulla precondizione della disponibilità a un buon dialogo critico tra i partecipanti al progetto, possono permettere di raggiungere l'o­biettivo primario del progettare. Tali elementi, diversamente da quanto si pensa comunemente, non sono primariamente né la cor­rettezza tecnica nell'elaborazione del progetto, né la sua efficace realizzazione, bensì l'aver lavorato insieme ossia l'aver reso visibile, in un determinato luogo e tempo, l'immagine di Chiesa comunio­ne e missionaria.
Sulla scia dei tre movimenti che configurano il metodo della teologia pastorale e pratica (elementi per un tentativo di diagnosi pastorale, riferimenti normativi o criteri, ipotesi di un iter operativo organico), proponiamo i fattori fondamentali che orientano a una buona progettualità pastorale.
La situazione di partenza ipotizzata, che fa da sfondo a questa ipotesi esemplificativa, è tratta dall'analisi del contenuto di alcuni documenti pastorali di diocesi italiane emanati in questi ultimi dieci anni.

1. Elementi per un tentativo di diagnosi

Da tali documenti emergono i seguenti tratti ricorrenti che, tenendo presenti le considerevoli diversità di impostazione pastora­le delle diocesi italiane, sono: la consapevolezza della fine dell'epo­ca di cristianità, l'invecchiamento e la diminuzione quantitativa del clero; l'eccessiva settorialità della pastorale; la mancanza di un cen­tro strutturale unificante la pastorale stessa.

1.1. La consapevolezza della fine dell’epoca di cristianità.

Nessuno dei documenti analizzati mette in dubbio il fatto che non viviamo più in una «societas cristiana», sia per la diminuzione del numero dei praticanti - fenomeno presente anche in Italia, ma in minor proporzione rispetto ad altri paesi d'Europa - sia, soprat­tutto, per l'invasiva presenza di una cultura dell'indifferenza al tra­scendente che invoglia a vivere come se Dio non ci fosse, accresce il relativismo etico e porta avanti una religione invisibile, cioè una reli­gione vissuta senza il dovuto riferimento all'istituzione.
Nel constatare questo fatto, si prende anche coscienza dell'impreparazione a livello di riflessione e di prassi pastorale ad acco­gliere, consapevolmente, le sfide che, da una situazione - sempre in movimento - come quella a cui si è appena accennato, sono mosse alla pastorale.
La consapevolezza di questo stato esige una costante e diffusa prassi di discernimento da parte della Chiesa nel suo complesso - non solamente dei singoli teologi studiosi o ricercatori - sui possibi­li esiti di questo cambiamento culturale in ordine all'evangelizza­zione, alla crescita nella fede e alla relativa prassi pastorale.

1.2. L'invecchiamento e la costante diminuzione del clero

È avvertita come una situazione in evoluzione, più o meno rapi­da, con connotazioni diverse a seconda delle diocesi ma diffusa non solo nel nostro paese[1]. L'Italia appare oggi, fra i paesi europei, come la nazione in cui la diminuzione e il conseguente invecchiamento del clero sono ancora contenuti.
Per il futuro si ipotizza che ci saranno meno preti, ma preti più giovani.
Vescovi e preti sanno bene che non sarà più possibile pensare e agire nei termini di un prete per ogni parrocchia, ma occorrerà opta­re per un prete come parroco di più parrocchie e, di conseguenza, dare vita a una pastorale ecclesiale rinnovata.
In un terzo delle diocesi italiane, già da dieci anni circa, vengo­no perseguiti nuovi soggetti pastorali, quali ad esempio le Unità o le comunità pastorali.
Nel tentativo, più o meno esplicito, di risalire alle cause, vengo­no a galla dai documenti citati, sostanzialmente, tre dati - interdi­pendenti - che sono: le difficoltà oggettive in cui si viene a trovare la pastorale giovanile; la diminuzione del numero dei preti imputa­ta, soprattutto, alla scarsa propositività, in senso vocazionale, dei sacerdoti in attività; il ripensamento globale delle modalità di incul­turazione della fede, giudicate inadeguate e insufficienti.

1.3. L'eccessiva settorialità della pastorale

Questa parte dell'analisi, da un lato, fa emergere una diffusa pratica pastorale, dall'altro, auspica un suo possibile superamento.
Ragazzi, adolescenti, giovani, adulti, famiglie ma anche catechi­sti, animatori di gruppi, impegnati nella liturgia, nel servizio della carità, vengono formati e operano ciascuno all'interno del proprio particolare settore staccato dagli altri.
Tale prassi fa nascere un'ulteriore difficoltà a individuare un riferimento strutturale unitario, attorno al quale fare in modo che le giuste attenzioni alla formazione e all'azione sul particolare non allarghino la frammentazione già notevole.
La possibile via di soluzione per superare questa contingenza viene ipotizzata, nei documenti, nella centralità pastorale della fami­glia come basilare punto di riferimento strutturale.

La pastorale familiare rappresenta oggi una delle frontiere più diffi­cili, ma anche più necessarie e più feconde della missione della Chie­sa, sia al proprio interno sia verso tutta la città. Va dunque sostenu­ta da tutti, sacerdoti, religiosi e religiose, laici, con grande impegno e attiva partecipazione (card. Ruini).

Appare urgente mettere al centro della progettazione pastora­le di diocesi e parrocchie la pastorale della famiglia, intesa come unificante strutturalmente l'intera pastorale.
E’ convinzione che la pastorale, nel complesso, tanto più possa curare la crescita nella fede quanto più riesca a coinvolgere la fami­glia e a renderla responsabile dell'educazione dei figli, coadiuvata e integrata, logicamente, dall'azione comunitaria.
Nello stesso tempo, però, si constata che la pastorale familiare, di fatto, è ancora considerata «una» fra le pastorali alla stregua, in alcuni casi meno ancora di fatto, della pastorale giovanile o di altre pastorali specifiche. Esiste dunque una forbice, a quanto ci risulta, difficile da chiudere - non in teoria, ma nella prassi pastorale quoti­diana.

1.4. La consapevolezza crescente della soggettività pastorale di tutta la comunità

È una delle affermazioni maggiormente ricorrenti soprattutto nelle lettere pastorali dei vescovi.
Nei documenti presi in esame si ribadisce che nessuna opera­zione pastorale è efficace se le varie componenti ecclesiali - sia le istituzioni (diocesi e parrocchie), sia le diverse espressioni dell'asso­ciazionismo ecclesiale, sia tutti i christifideles - non vengono stimo­late a fare ciascuna la propria parte: nella diversità dei compiti e dei ruoli, e senza sovrapposizioni e invasioni di campo.
Non solo, ma l'insieme dei credenti comunica la verità della fede in proporzione a quanto essa si esprime come comunità bella per la vita che suscita. Ed è una comunità bella se le persone che la compongono vivono valori forti quali il perdono, la reciprocità, la riconciliazione, e sono capaci di suscitare condotte ispirate a una pratica cordiale di relazioni umane percorse da amicizia, solidarietà, amore, tenerezza.
Le affermazioni forti dei documenti si scontrano però, ancora, con residui di clericalismo e di individualismo persistenti nel clero e con la tentazione, non sempre superata da parte di un certo sentire laicale, di sostituirsi al clero o di percepirsi come sua riserva[2].

1.5. La domanda che emerge

Che cosa lasciano trasparire questi tratti di analisi? Crediamo si possa dire che da questi indizi emerge non solo la domanda di con­versione pastorale, ma di una conversione della pastorale nella direzione di cambi strutturali, e non solo di piccole o grandi corre­zioni di rotta.

2. Proposta di criteri in situazione

Anche questo secondo momento si configura, ovviamente, come un'ipotesi esemplificativa elaborata sulla scorta dei documen­ti indicati al paragrafo 1.
I criteri individuati sono: la priorità assoluta alla comunicazio­ne della fede e alla sua cura; l'esigenza intrinseca di incarnare forme di santità anche nella cultura odierna; uno stile pastorale sinodale che produca cambiamenti strutturali; l'integrazione dei ruoli; le comunità concepite come laboratori di pastorale.

2.1. La comunicazione della fede e la sua cura

Si tratta della priorità pastorale da riacquisire soprattutto qua­lora si fosse appannata o temporaneamente smarrita. Si ribadisce che diocesi e parrocchie hanno come compito fondativo quello di formare dei cristiani consapevoli della loro fede adulta e pensata, manifestata attraverso un vissuto incentrato sulla qualità della rela­zione con Dio, con le persone e con tutte le realtà terrene, valoriz­zando gli strumenti tradizionali che hanno sempre configurato a Cristo i suoi discepoli: la parola di Dio, la liturgia, i sacramenti, la carità.
La ricerca di vie di comunicazione della fede, più consone all'oggi, non deve sottostimare o ridurre ad acquisizioni e a scelte, possibili solo a fine percorso, questi fondamentali mezzi di salvezza. Pur nella valorizzazione di nuovi linguaggi e simboli, è percepita come decisiva la concentrazione di tutte le risorse - persone, strut­ture, proposte - verso l'unità del fine: l'incontro con Cristo - centro vivo della fede e della vita della Chiesa, speranza per l'uomo di que­sto tempo - e la crescita nelle virtù teologali della Chiesa.

2.2. Incarnare forme di santità nella cultura odierna

La cultura dominante spinge verso modelli egoistici, mentre la fede cristiana mira a una cultura radicalmente diversa, ha biso­gno di autotrascendenza e di dono di sé, di incarnarsi e di assu­mere la forma di un modo di vivere basato sul vangelo in seno alla comunità.
Per incarnare forme di santità cristiana nella cultura odierna, si auspica un tipo speciale di comunità che eviti la trappola della concentrazione su di sé, mediante un impegno di vita persona­lizzata, la preghiera, la dedizione, il sacrificio. Si escludano gli atteggiamenti sia di avversione curiosa e ansiogena sia di acco­glienza ingenua. Si persegua qualcosa di più vigoroso e creativo, insieme al discernimento dei valori e dei canali attraverso i quali realizzare luoghi di identificazione dove l'essenzialità e la sempli­cità del linguaggio possano fare autentiche esperienze di vita cri­stiana.
Non solo, ma la realizzazione di nuove forme di santità proprio attraverso l'impegno pastorale richiede la disponibilità ad aprirsi al nuovo e all'inedito.
S'impone quindi un tratto di santità pastorale che è la capacità di essere disponibili a «imparare», ancora e sempre.
Nella Chiesa, tutti sono invitati non solo ad acquisire nuovi con­tenuti, ad approfondirne i significati, ma a imparare quotidiana­mente a inculturare nel modo migliore possibile la fede e a pren­dersene cura. Il pastore, a qualsiasi livello di responsabilità sia posto, rimane sempre un apprendista al timone[3] di quella Chiesa che Cri­sto gli ha affidato.

2.3. Uno stile pastorale sinodale

Pastori, diaconi, religiose, religiosi, laici sono chiamati ad acqui­sire uno stile sinodale globale che permetta loro di discutere insie­me tutti i problemi, di approdare insieme alle decisioni più oppor­tune, nel rispetto della gerarchia delle responsabilità e sottoposti all'autorità del vescovo diocesano così com'è dichiarato nei canoni 375-376 del Codice di diritto canonico del 1983.
Nella Chiesa - organizzata gerarchicamente - c'è uno (il vesco­vo insieme ai presbiteri e ai diaconi) a cui spetta il compito - non cedibile né alienabile - di articolare le responsabilità di alcuni e di tutti. Senza una condivisione delle responsabilità fra alcuni e tutti sotto la presidenza di uno, ogni progettazione o pianificazione che dir si voglia è destinata, fatalmente, a rimanere insoddisfacente e inefficace.

2.4. Uno stile pastorale che produca cambiamenti strutturali

Il radicale cambiamento culturale in atto provoca la pastorale a decidere per mutamenti radicali. Proponiamo alcune riflessioni a sostegno di questa tesi.
La prima è il richiamo ad acquisire motivazioni - cristologiche ed ecclesiali - che informino, nel modo più coerente possibile, l'es­sere e l'agire pastorale. L'esercizio della dimensione pastorale è il luogo della maturazione dell'identità del pastore. Per acquisire tale identità, non sembra di alcun beneficio imboccare scorciatoie, vie di fuga o, all'opposto, identificarsi con luoghi e persone particolari. Il presbiterio diocesano e territoriale assume sempre più consistenza come luogo di comunione essenziale, non sostituibile da altre espe­rienze, pur giudicate in sé valide.
La seconda riflessione comporta il superamento della concezio­ne autarchica, autosufficiente, clericale della parrocchia, per attivare la visione del concilio Vaticano II non solo e principalmente per quanto concerne il punto di vista giuridico - positivo, ma nella sua identità teologica ed ecclesiale (SC 2: EV 1/2; LG 8: EV 1/304ss), che ha come riferimenti paradigmatici il rapporto fra vescovo e presbi­terio, l'eucaristia, la dimensione missionaria e apostolica come qualificativi della sua identità (AA 10: EV 1/94ss; PO 8: EV 1/1267ss). La parrocchia è e rimane luogo ordinario di evangelizzazione della comunità cristiana, prima cellula dell'annuncio per tutti i cristiani.
Una parrocchia vista come la «Chiesa che abita in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie» (CfL 26: EV 11/1709) e condivi­de la vita della gente, di tutti i credenti sparsi sul territorio e non solo dei suoi «membri attivi», cioè di coloro - sempre pochi in rap­porto alle presenze sul territorio - che prestano qualche servizio alla comunità. Una parrocchia che operi in comunione con la diocesi e nella sua vita quotidiana sviluppi condivisione, corresponsabilità, ministerialità diffusa, capacità di stabilire relazioni evangeliche ad extra e non solo ad intra, più che nuovi gruppi da seguire[4].
La terza riflessione esprime l'esigenza di attivare il dialogo per­manente fra generazioni di preti. Un sentire diffuso ma percepito, nello stesso tempo, come difficoltoso.
Come avviene tra gli adulti e i giovani di oggi, anche fra i preti esiste un certo gap generazionale che esprime concezioni di identità sacerdotali diverse, visioni pastorali diversificate. Tale distanza non sembra risolversi solo attraverso la partecipazione comune a iniziati­ve diocesane o locali. Si tratta di stabilizzare - da entrambe le parti - un dialogo interpersonale, paziente, fiducioso, rispettoso delle diver­se sensibilità e posizioni.
La quarta riflessione suggerisce la necessità di integrare il mutamento di stile pastorale dei singoli con la trasformazione strut­turale della Chiesa. E’ bene ricordare che, quando si parla di trasfor­mazione strutturale della Chiesa, non si vuole minimamente indicare il cambiamento della sua identità, ma piuttosto il rimodellamen­to di alcune strutture istituzionali centrali e/o periferiche, soprattut­to nei campi formativi, pastorali, giuridici, collaborativi, ecc. che facilitino, orientino e diano ai sacerdoti e ai laici la corretta sensa­zione di essere all'interno di un rinnovamento che coinvolge tutti, e in cui tutti fanno la propria parte come esige l'appartenenza alla Chiesa - comunione e missione trinitaria. Si accenna qui a una delle questioni più incandescenti dell'ecclesiologia recente. La maggior parte dei teologi sostiene l'esigenza di tale trasformazione, ma l'ac­cordo diventa problematico quando ci si interroga sui modi e sulle forme. Condividiamo, in proposito, l'opinione di chi sostiene che la trasformazione strutturale della Chiesa dovrebbe avvenire sulla base di una maggior preoccupazione per la vita concreta delle per­sone, in modo da far trasparire che il Dio di Gesù Cristo si prende cura di ciascuna.

2.5. La precisazione e l’integrazione dei ruoli

Chi - persona, o meglio gruppo - porti avanti una progettazio­ne pastorale, si trova un po' nella condizione dell'allenatore di una squadra. Cosa succederebbe, in tale squadra, se i giocatori volesse­ro, a loro discrezione, assumere tutti gli stessi ruoli, anche solo epi­sodicamente, o se qualcuno, insoddisfatto del ruolo attribuitogli dall'allenatore, sforasse in quello altrui? Come si potrebbe gestire una squadra se l'allenatore, insieme all'équipe con cui lavora, non si assumesse il compito suo proprio di definire i ruoli dei singoli gio­catori, chiedendo magari a qualcuno di giocare in un ruolo che non gli è del tutto congeniale, ma di farlo per il bene della squadra?
I pastori, come l'allenatore di una squadra, conoscono le qualità del popolo di Dio, sanno affidare a ciascuno - persone, gruppi, isti­tuzioni - il proprio ruolo. Al pastore - come all'allenatore - compe­te di avere adeguati criteri di decisione, maturati insieme ai suoi consiglieri, e muoversi di conseguenza in modo che ognuno sappia esattamente che cosa gli è chiesto di fare per il bene di tutti.
È chiaro che la medaglia ha anche un'altra faccia: la disponibi­lità del giocatore ad assumersi il ruolo che gli viene indicato, a sacri­ficarsi, per il bene di tutti, in un ruolo che non sente come suo. Per­ché ciò avvenga nel migliore dei modi, non servono né decreti né leggi, ma occorre migliorare lo stile di sinodalità di cui si è detto sopra. A chi è stata affidata la diaconia dell'autorità tocca spiegare e motivare quanto sta per chiedere, ascoltare l'altro come un inter­locutore, valutare le ragioni e poi decidere con lui se è possibile. Questo comportamento favorirà un' assunzione dei ruolo più consa­pevole, perché la persona si sente soggetto attivo e responsabile di una scelta maturata nella condivisione e non oggetto di pressione su cose da fare[5].

2.6. Le comunità come laboratori di pastorale

Da quanto abbiamo detto fino a ora, scaturisce l'ultimo criterio, che indica la necessità di superare una pastorale ridotta a mettere in pratica materialmente e passivamente gli orientamenti e le iniziati­ve che vengono dall'istituzione a livello centrale.
Non crediamo ci sia pastore oggi che chieda una tale obbe­dienza, nella quale si scansa la fatica di immaginare - in fedeltà a Dio e all'uomo (RdC 160) - concrete scelte operative che tradu­cono in situazione gli orientamenti vincolanti della Chiesa parti­colare.
A tale immaginazione, attivata in comunione con il vescovo e il presbiterio, e quindi non in modo selvaggio, è affidata la qualità del futuro pastorale delle comunità ecclesiali, colte nell'ottica più autentica di laboratori, ossia luoghi in cui gioia e croce dell'azione ecclesiale vanno di pari passo con il mettersi in continua ricerca senza considerare mai nulla come uno schema ripetibile, praticabile e risolutivo sempre e in ogni luogo.

3. Elementi per l'elaborazione progettuale

Siamo al terzo movimento del metodo, vale a dire alla realizza­zione di un progetto pastorale che risponda alla domanda individuata.
Qui indichiamo solo gli elementi che è opportuno mettere in gioco, e non proseguiamo nell'ipotesi di progetto che risponda alla domanda emersa dall'analisi, sia perché mancano elementi concreti sia perché l'obiettivo del capitolo non è di fare un progetto ma di indicare la strada da seguire.

3.1. Il punto di partenza

Abbiamo più volte sottolineato che è la Chiesa tutta a essere soggetto di pastorale.
Questa dichiarazione comporta la necessità di individuare il punto di partenza nel livello di consapevolezza che ogni comunità ha di se stessa, della sua storia e azione pastorale, delle risorse che mette in campo, delle strutture, ecc.: in una parola, nella coscienza che ha del suo essere comunità dei discepoli di Cristo, popolo di Dio radunato nell'unità trinitaria per annunciare, celebrare e testimo­niare il regno di Dio in quel determinato territorio.

3.2. Il punto di arrivo

Diversamente da quanto si pensa, il punto di arrivo di una pro­gettazione pastorale non è immediatamente fare cristiani, ma verifi­carsi sull'essere comunità eucaristiche radunate intorno al vescovo.
In altri termini: il riuscire o meno a progettare la pastorale è indice significativo della volontà di essere o meno capaci di non aumentare l'efficienza, ma di qualificarsi come comunità nella quale le persone sanno relazionarsi evangelicamente al loro interno e fuori dalla cerchia dei membri attivi; non perseguono gruppi elitari e chiu­si; favoriscono la pastorale d'insieme e non l'azione di battitori libe­ri e solitari; rendono più organica la pastorale della comunità, sot­traendola alla tentazione diffusa di soggettività e di individualismo.

3.3. Elementi per attivare il cammino

Tra il punto di partenza e il punto di arrivo si dispiegano gli ele­menti da mettere in gioco per tentare di raggiungere l'obiettivo fina­le del cammino, che sono: gli obiettivi intermedi, le risorse disponi­bili, con chi e come operare, che cosa fare e l'individuazione di nuovi luoghi di identificazione.
    In schema, il cammino di progettazione può essere così pre­sentato.



Punto di partenza                                                  Punto di arrivo

                         (Domanda)                                                         (Obiettivo finale)

 

Obiettivi intermedi
 

Risorse
(persone, ..., strumenti)
 

Luoghi di identificazione
 

Verific
a


Quello che si è proposto è uno fra gli schemi possibili. L'impor­tante è che, qualunque schema si adoperi, esso obbedisca ai criteri indicati al paragrafo 20 ad altri che si ritenga utile stabilire sul campo.

3.3.1. L'obiettivo finale e gli obiettivi intermedi

La determinazione dell'obiettivo (finale, intermedio...) è il punto qualificante la chiarezza, la concretezza, la praticabilità e la verificabilità dell'intero progetto pastorale. Per quale motivo si annette all'obiettivo tale importanza?         L'obiettivo è una meta, un punto buttato avanti - obiectum - che ci si propone di raggiungere mettendo in azione strumenti adeguati.
Se si guarda dentro al termine - nel nostro caso l'obiettivo è educativo e quindi mirato al cambio delle persone - ci si accorge che esso è la sintesi di tre elementi interdipendenti: le conoscenze o i contenuti che si intende comunicare; gli atteggiamenti o disponibi­lità interiori piuttosto stabili e permanenti che ci si induce ad acqui­sire, e che dovranno orientare e sostenere l'agire coerente in rap­porto alle conoscenze e agli atteggiamenti maturati.
Un esempio potrà chiarire meglio quanto richiamato. Poniamo che l'obiettivo finale di un cammino sia abilitare un certo gruppo di persone - ben identificato nella prassi - a maturare una vita cristiana, nella Chiesa locale, contrassegnata da una fede adulta e pensata, per riprendere un'espressione dei vescovi italiani (CMC 50).
Se si guarda dentro a tale formulazione, ci si accorge che sia coloro che propongono tale obiettivo sia le persone che sono chia­mate a raggiungerlo non riescono né a indicarlo né a perseguirlo, se contemporaneamente non si mettono d'accordo su che cosa signifi­ca vita, vita cristiana, fede, fede adulta, fede pensata.
Purtroppo, normalmente si dà per scontato che tutti diano lo stesso significato alle parole, e allora si procede sull'equivoco, senza accorgersi che ognuno non solo attribuisce, giustamente, ai termini sfumature diverse, ma che le stesse parole possono evocare conte­nuti diversi se non di significato opposto. E’ necessario, dunque, che i contenuti siano presentati nel significato loro attribuito e se ne verifichi la corrispondente comprensione.
Tali contenuti non sono destinati a rimanere idee, devono diventare vita cristiana. Ecco allora che nell'obiettivo s'intravedono gli altri due elementi: gli atteggiamenti e i comportamenti che configurano il cristiano. (Le considerazioni che seguono valgono anche per gli obiettivi intermedi, ossia quelli che permettono, passo dopo passo, almeno teoricamente di poter avvicinare l'obiettivo finale).
Acquisiti i contenuti, non è scontata l'immediata traduzione in pratica. Occorre attivare un movimento della volontà che spinga ad attuarli sia da parte di chi le propone sia da parte di chi è invitato ad accoglierle, e per questo serve fornire motivazioni adeguate e con­vincenti riguardo ai contenuti indicati, e non solo invocare decreti e leggi.
Se si hanno idee chiare e se si è convinti, si può giungere a com­portamenti, ossia azioni visibili - maturate responsabilmente e non per imposizione o per avere il plauso dell'educatore - che rivelano se e quanto le idee sono state fatte proprie e hanno cambiato l'agire.
Corre l'obbligo di ricordare che l'obiettivo portato ad esempio è una meta di fine percorso e quindi ha bisogno di ulteriori specifi­cazioni concrete e graduali, ossia è necessario indicare i passi pro­gressivi - obiettivi intermedi - per mettere in grado le persone, a poco a poco e ciascuna con il proprio passo, di raggiungerlo.
Per primo si definirà insieme in situazione l'obiettivo finale, obiettivo che è sempre nell'ottica di quello indicato in Rinnova­mento della catechesi con l'espressione «integrare tra fede e vita» (nn. 52-53).
Stabilito l'obiettivo finale per il quale attivare la progettazione, occorre poi scomporlo in mete od obiettivi intermedi, in modo tale che ognuno di essi raccolga, mediamente, il sentire dai compagni di cammino e li stimoli a fare un piccolo passo avanti, gradualmente, nella direzione del vivere da cristiano oggi.

3.3.2. Le risorse

Nello stesso tempo è opportuno guardarsi intorno e individua­re le risorse in termini di persone singole o aggregate - della loro motivazione e preparazione, non solo della loro buona volontà - e di iniziative già esistenti da valorizzare e rilanciare, prima di avventurarsi in nuove proposte anche immediatamente affascinanti ma che diventano impraticabili e quindi demotivanti. Con le persone e sulle iniziative è necessario maturare l'accordo, attraverso un accor­to discernimento comunitario. Diversamente si corre il rischio, se non del rifiuto esplicito, della resistenza passiva, ben più dannosa del rifiuto stesso. Occorre anche verificare i fondi economici dispo­nibili per dare vita all'impresa e, eventualmente, cercare strade per acquisirli.

3.3.3. Con chi e come operare

Individuate le risorse, si decide insieme come mettersi al lavo­ro, e cioè con chi e come operare. In coerenza ai principi normativi richiamati al paragrafo 2, è conveniente non assegnare a persone singole la responsabilità di iniziative, ma attivare sistematicamente équipe nelle quali si assuma collegialmente la responsabilità di deci­dere, di operare o di affidare ad altri l'operare. In questo modo colo­ro che guidano la programmazione non fanno fare, ma fanno, essi stessi in prima persona, l'esperienza di Chiesa che propongono ad altri. Sarà opportuno applicare questo stile a tutti i livelli. Tale modalità esige un impiego maggiore di tempo, ma conduce ad assu­mere decisioni che si rinforzano a vicenda e a vicenda si sostengo­no, assicurando maggior continuità di orientamenti anche quando cambiano le persone.

3.3.4. La scelta delle attività

Le attività, le quali comunque non devono mai aggiungere altra fatica a quella, già notevole, dei pastori e dei laici attivi, vanno indi­viduate e proposte in modo da poter comporre cammini locali adat­ti alla complessità e alla diversità della situazione. Per esemplificare: un vescovo e, con modalità giuridica diversa, un parroco, posso­no esigere che alcune attività si svolgano così come programmate centralmente in tutta la diocesi o in tutta la parrocchia, ma sono invitati a precisarle bene e a offrire anche strumenti perché tali atti­vità possano essere con meno difficoltà attuate.
Inoltre nel progetto si riveda l'attività di iniziazione cristiana dei fanciulli, per non basarla più solo o quasi esclusivamente sui sacramenti, operare non più per classi ma per gruppi, nei quali si fac­cia un cammino di fede, anche con esiti differenziati...
Ci sembra importante recepire la richiesta che viene dai sacer­doti in attività pastorale di avere, da chi di dovere in diocesi, soste­gni concreti - sussidi, luoghi in cui esporre i loro problemi, équipe per la formazione adeguata dei loro catechisti... - in modo che sia più facile agire in comunione e non suscitare nei fedeli l'impressio­ne che il «nuovo corso» sia legato a quel parroco o alla sensibilità di quel sacerdote a caccia sempre di novità.
Preti già superimpegnati e con qualche riserva pratica su nuove modalità troveranno in questo modo di procedere - non solo indi­cativo ma di sostegno, senza sostituzione - motivazioni che consen­tano alle parrocchie di attrezzarsi come «laboratori di ricerca pasto­rale» praticabili con le risorse che si hanno a disposizione, e non soli­tari e affaticati esecutori.
Nel progettare è quanto mai opportuno considerare adeguata­mente le nuove figure che bussano alle porte delle comunità, spe­cialmente cittadine: i catecumeni in senso stretto - persone non bat­tezzate che desiderano ricevere la fede -, i convertiti la cui fede addormentata ora si sveglia e chiede di poter diventare più decisa, e i ricomincianti ossia quei battezzati, e quindi propriamente non catecumeni, per i quali il battesimo è rimasto un documento, che hanno ricevuto la comunione e la cresima ma che si sono allontanati dalla Chiesa - sono forse la categoria più interessante - e che si fanno vivi per diversi motivi e in diverse occasioni, desiderosi di fare una verifica della propria fede[6], e anche i cristiani di ritorno[7].
In alcune situazioni si sta profilando una necessità destinata a espandersi in relazione ai flussi migratori. Oratori e luoghi di aggre­gazione ecclesiali sono sempre più frequentati da ragazzi e da gio­vani immigrati, provenienti da culture diverse e appartenenti a reli­gioni diverse dalla cattolica. Per essi sono luoghi di incontro e di scambio, gratuiti, diffusi capillarmente sul territorio, vicini alla loro quotidianità. In che modo accogliere questi nuovi ospiti? Come annunciare loro il vangelo, secondo l'invito del Signore ad ammae­strare tutte le genti (Mt 28,19)? Quale attenzione è riservata nella progettazione pastorale della diocesi e, conseguentemente, nella programmazione delle parrocchie, in particolare a coloro che pro­vengono dall'islam?


3.3.5. Gli strumenti

Li richiamiamo solo brevemente e nell'ordine di importanza. Per primo, la parola di Dio ascoltata e testimoniata avvalendosi, in particolare, «dell'antica e sempre valida tradizione della lectio divi­na, che fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta, plasma l'esistenza» (NMI 39: EV 20/77). Segue l'eucaristia, che «edifica la Chiesa» (EdE 26: EV 22/253) e plasma nel cristiano quegli atteggiamenti fondamentali - il ringraziamento a Dio per tutto e per tutti, l'offerta della propria vita in sacrificio, l'interces­sione per l'intera umanità - che formano la mentalità eucaristica necessaria per dare vita alla pastorale. Non si tratta di aumentare il numero delle celebrazioni eucaristiche, ma di migliorarle qualitati­vamente. La Parola, l'eucaristia e i sacramenti sono gli strumenti per eccellenza della formazione cristiana. Rimangono il discernimento comunitario, come tratto non rimpiazzabile della progettazione sia nell'analisi che nell'elaborazione dei criteri e delle strategie opera­tive, l'animazione in équipe come prassi normale, e la creazione di luoghi di identificazione nei quali si impara, vivendo in prima per­sona e con altri, che cosa significhi essere cristiano e progettare l'a­zione pastorale della Chiesa, e la formazione dei formatori ossia di coloro che, facendo parte dell'équipe di animazione, sono destinati ad assumere ruoli e compiti di corresponsabilità.
Per quanto riguarda gli strumenti, ci sembra siano due le atten­zioni da attivare. La prima ricorda la necessità di agire in sinergia fra organismi centrali formativi - uffici pastorali diocesani, facoltà, istituti - e realtà locali - animatori, educatori ecc., già operanti sul territorio, nel rispetto dei compiti di ognuno ma interagendo continuamente e concretamente. La seconda rilegge due modalità pastorali: la prima fa riferimento alla necessità di superare una formazione che avviene quasi esclusivamente attraverso l'ascolto di conferenze, di lezioni tenu­te da esperti, ma anche di attivare, maggiormente, momenti di tiroci­nio guidato da un'équipe di esperti; la seconda invita a non fare cam­mini formativi solo per preti o per laici o per religiose o per religiosi, ma ad alternare a questi, nelle giuste proporzioni, momenti in cui insie­me ci si forma e ci si abilita a lavorare in modo sinodale.

3.3.6. L'individuazione di nuovi luoghi di identificazione

La fede si acquisisce per connaturalità. È vivendo insieme ai cre­denti che si comprende che cosa significhi la fede, dono di Dio affi­dato alla responsabile maturazione personale. Dal punto di vista pastorale è opportuno verificare se e in quali proporzioni i luoghi di identificazione offerti oggi dalla comunità ecclesiale - gruppi, itine­rari, momenti forti... - siano ancora significativi, soprattutto per i ragazzi e i giovani. Il mondo degli adulti e dei giovani, in particolare, offre oggi stimoli quali il primato di relazioni positive, la ricerca del dialogo, il desiderio di autenticità, l'informalità preferita all'istituzio­nale, che permettono di caratterizzare nuovi - nel senso di diversi e diversificati - luoghi di identificazione, nei quali si accolgano le sog­gettività e si attivino esperienze di incontro con Cristo e con le per­sone significative, sia soggettivamente che oggettivamente.
L'opportunità di contatto con testimoni comprensibili e credi­bili, più che con maestri dotti e qualificati, metterà le persone nella condizione più opportuna per abilitarsi alla verità della fede in modo bello, perché il clima che si crea è desiderabile, simpatico, di condivisione evangelica.

3.3.7. La verifica

Dopo la formulazione degli obiettivi, la verifica è il secondo momento chiave della progettazione, perché stabilisce se e come si è, o meno, raggiunto gli obiettivi intermedi e, di verifica in verifica, l'obiettivo finale e quindi fa ripartire il processo in modo praticabi­le. Non c'è verifica se gli obiettivi intermedi, ossia le mete proposte di volta in volta, non sono stati individuati e formulati bene, ossia in termini di comportamenti concreti e visibili. Né si potrà dire qual­che cosa di vicino al reale sul modo di perseguire l'azione pastorale se prima non si sono additati i criteri, che ora vengono ripresi per valutare insieme ai soggetti e come comunità educante[8] se e come sono stati messi in pratica.

4. Il quadro operativo

Lo schema proposto per la progettazione pastorale è uno fra i disponibili. Se ne possono scegliere altri, purché rispettosi della per­sona nella sua globalità. Anche se solo strumenti, tali schemi, infat­ti, non sono mai neutri.
Può nascere allora la domanda: cos'è che permette di valorizza­re uno strumento perché possa mettere in moto un processo educa­tivo, in particolare alla fede?
Prima di proporre la risposta, sembra utile precisare il significa­to dei principali termini e concetti in questione.

4.1. Formazione, educazione e iniziazione

Cominciamo dal significato attribuito a formazione ed educa­zione, precisando, tra le diverse interpretazioni dibattute[9], quella che qui si condivide.
La formazione[10] indica un insieme di processi ed eventi che implicano nel soggetto la generazione o lo sviluppo di una data forma, ossia l'evolversi di un profilo dinamico, inclusivo di cono­scenze, competenze, abilità e di una strutturazione sempre aperta riguardo al rapportarsi con il mondo. La formazione tende a favori­re una continua risignificazione del soggetto rispetto all'intera realtà socio-culturale in cui egli si trova.
L'educazione rinvia, più propriamente, all'opera intersoggettiva e intenzionale volta a favorire nel soggetto capacità di accogliere ed esprimere in pienezza il dono della sua umanità, ponendo al centro l'esercizio responsabile della libertà. Rispetto all'altro termine, edu­cazione allude in modo maggiormente esplicito a un rapporto nel quale educatore ed educando sono coinvolti in prima persona, in un circolo relazionale intenso ed empatico.
La formazione differisce dall'educazione perché accentua il profilo o la forma (o essenza, sostanza) della persona. Tale forma permette di realizzare sia la differenziazione (ossia la specificità e nello stesso tempo l'appartenenza delle cose e delle persone a una categoria, a un gruppo, a comunità particolari e quindi non confon­dibili né contrapponibili) sia l'attivazione della prospettiva di senso, ossia quell'orientamento che dà il significato unitario a tutte le atti­vità della persona.
La sottolineatura che distingue educazione da formazione sta nella relazione interpersonale, seppur asimmetrica, che essa postula come elemento essenziale, coinvolgendo educando ed educatore.
Rimane l'iniziazione. Il termine deriva dal latino initium, inizio, e ha il significato di «entrare», ossia essere ammesso all'interno di un preciso gruppo. L'iniziazione (in senso stretto) è un rito che effet­tua e consacra il passaggio di un individuo o di un gruppo da una condizione di vita a un'altra, e specificamente dal mondo profano a quello sacro. In senso figurato indica l'avviamento a esperienze, attività, ricerche e dunque anche il primo ammaestramento o insegna­mento in una certa disciplina, arte o scienza.
Senza entrare nel merito, si ricorda solo che nella Chiesa catto­lica, a livello teologico-liturgico, l'iniziazione cristiana è costituita propriamente dai sacramenti che si ricevono al termine dei cammini di preparazione, e che sono tre: il battesimo, la cresima e l'eucaristia.
Dopo il Vaticano II, tutta la materia è stata disciplinata con la pubblicazione del Rito dell'iniziazione cristiana degli adulti (RICA), nel quale vengono indicati i cammini da perseguire con e per gli adulti e i bambini in età di catechesi.[11]

4.2. Maturazione umana e cristiana

Nella pastorale, ma soprattutto nei cammini educativi con e per i diversi soggetti, si ha a che fare continuamente con i concetti di maturazione umana e cristiana, e la loro reciproca interrelazione.
È necessario precisare il significato loro attribuito.
L'espressione «maturazione umana» esprime un concetto non assoluto e definitivo, ma relativo e dinamico. In altre parole, ogni stagione della vita ha una sua maturazione, pur aprendosi all'intero orizzonte della vita stessa che si evolve. Dunque c’è una maturazio­ne per l'infanzia, un'altra per la fanciullezza, l'adolescenza, l'età adulta.
Questo concetto dinamico di maturazione è appropriato anche per l'educazione alla fede, e cioè per quei processi educativi che inducono la singola persona o un gruppo di persone ad «accogliere consapevolmente» il dono della fede, cioè a integrare fede e vita o a unificare la vita attorno al senso per la vita offerto dalla fede[12].
Sia la maturazione umana che quella cristiana sono concetti relativi e dinamici. Tuttavia esistono parametri di riferimento che indicano in modo obiettivo se si cammina o meno sulla strada giu­sta di una corretta visione dell'uomo e del cristiano.
Lo schema che segue indica in modo essenziale le caratteristi­che dei due processi di maturazione umana e cristiana[13].
Pur in stretta relazione reciproca, le qualità dell'una non si identificano con quelle dell'altra, ma si distinguono senza contrap­porsi ed escludersi a vicenda.
Tra qualità umane e cristiane c'è dunque continuità ma anche distinzione, ossia una differenza profonda che scaturisce dal dinamismo della fede, e cioè dai contenuti del messaggio cristiano Non solo, ma anche e soprattutto dall'opera della grazia di Dio, «il fattore aggiunto» che permette l'interiorizzazione del messaggio ossia la vita in esso (o conversione) e quindi la risignificazione della propria vita in Cristo.
La realtà umana si presenta dunque come un sistema aperto su cui si «innesta» il dinamismo della fede, producendo, se ben accol­to (qui si colloca l'azione educativa), il salto di qualità del cammi­no di maturazione personale che apre alla maturazione umano-cri­stiana.

4.3. Alcuni elementi qualificanti

L'obiettivo dei processi di formazione cristiana e di educazio­ne alla fede può essere raggiunto non solo e primariamente met­tendo in campo una buona attrezzatura strumentale, ma perse­guendo una continua e costante attenzione ad alcuni elementi qua­lificanti.
In altre parole: non basta, come a volte avviene, definire pur con precisione obiettivi, contenuti, attività e strumenti, ma occorre anche tenere conto dei processi e cioè degli strumenti culturali, dei linguaggi, del contesto e della spiritualità.
Per quanto riguarda i processi, sembra opportuno che le propo­ste di vita cristiana e dei cammini di fede siano il frutto di un buon intreccio fra Scrittura, teologia e cultura. Si tratta, di conseguenza, di adoperarsi a promuovere modelli sicuramente fondati sul dato biblico e teologico ma, non di meno, aperti alle voci del tempo, degli uomini, della riflessione culturale.
Sui linguaggi o mediazioni comunicative, occorre vigilare conti­nuamente per scegliere di volta in volta quelli ritenuti più appro­priati (non è corretto valorizzare o solo i linguaggi verbali o solo quelli non verbali) alla più efficace comunicazione del messaggio e alla sua migliore percezione da parte dei soggetti.
Il contesto è la comunità cristiana, luogo per eccellenza in cui si impara la fede proprio per connaturalità, ossia vivendo con altri cre­denti nella logica del «venite e vedete»[14].
È opportuno, pertanto, dedicarsi non solo a presentare i con­tenuti della fede, ma anche a costruire un buon clima relazionale e, soprattutto, testimoniale[15]. Si sa che i contenuti sovente passano attraverso la relazione testimoniante che si viene a creare fra edu­catore ed educando, fra adulto e giovane, fra genitori e figli.
Le diverse espressioni dell'associazionismo ecclesiale cristiano, come anche i gruppi parrocchiali, farebbero certamente opera utile per la propria autorevolezza e per l'intera comunità cristiana, se sti­molassero maggiormente i propri aderenti ad aprirsi e a dialogare in modo stabile con altre presenze, e quindi a non identificare la pro­pria appartenenza alla Chiesa con quella all'associazione, al movi­mento o al gruppo che frequentano.
Da ultimo la spiritualità, ossia l'accoglienza dei doni dello Spi­rito e la risignificazione della vita su tale accoglienza. È il riferimen­to che sostiene e orienta i processi di educazione alla fede.
In coerenza con quanto affermato fino a ora, si pensa a propo­ste di vita nello Spirito che siano espressione di una spiritualità di comunione e missione incarnata, ossia proposte pienamente cristo­centriche, ma anche coniugabili la quotidianità della vita.
Si tratta di formare persone di oggi, capaci di vivere da «cristia­ni comuni» o «fedeli laici», e non individui fotocopia di spiritualità che appartengono ad altre scelte vocazionali.

4.4. Una pastorale per obiettivi

Lungo il testo e, in particolare, all'inizio di questo capitolo si sono indicati come grandi nodi della pastorale attuale la missiona­rietà, la cooperazione e la progettualità.
La pastorale, in genere, appare oggi sbilanciata sull'attenzione intraecclesiale, realizzata da persone e da gruppi piuttosto chiusi al loro interno, poco disponibili a «uscire» allo scoperto, scarsamente dedicati alla missione, individualisti e che operano, per lo più, in modo episodico e isolato.
È ormai evidente, soprattutto nella prassi, la necessità di contri­buire a sciogliere tali nodi immettendo dei processi educativi volti a un diverso stile.
Coerentemente con i principi pastorali richiamati finora, si intende proporre come contributo per un’azione ecclesiale sinergi­ca, missionaria e progettuale la pastorale per obiettivi.
Come corretta espressione della spiritualità di comunione mis­sionaria si ipotizza, dunque, una prassi che innesti processi educati­vi attorno a obiettivi comuni e condivisi, stabiliti insieme a vescovi, presbiteri, diaconi permanenti e laici, ciascuno secondo il proprio ministero o i propri doni. Passo dopo passo, all'interno di un pro­getto globale, in modo dinamico, sottoponendo a revisione di volta in volta il tratto di cammino percorso e facendo dialogare istituzio­ne e carisma nella prospettiva del porre segni significativi, decodifi­cabili sia dalle persone (più umani, più vicini alla vita quotidiana della gente) sia in rapporto al contenuto dell'evangelizzazione.
Non si prospetta una tecnica né si indica un espediente, ma si suggerisce una via per progettare e non solo organizzare, come per lo più avviene nella prassi attuale.
La pastorale per obiettivi può essere uno stru­mento per superare l'attuale modello di pastorale - diffuso anche in Italia e sempre più insostenibile a livello di risorse e di efficienza pastorale -, che vede i preti pressoché unici attori di «offerta» par­rocchiale e religiosa; i laici, soprattutto, fruitori dell'offerta e che spesso hanno un atteggiamento di delega; servizi non puramente religiosi (sociali, educativi e socioculturali) che cadono sulle spalle del prete e, infine, l'idea di un prete per ogni parrocchia. Non c'è all'orizzonte un modello nuovo e i preti sono mille miglia distanti dall'idea di «tagliare» qualche cosa. Riesce anche difficoltoso determinare quali risorse laicali, ad esempio, mettere in pista per «evita­re» di tagliare l'offerta.
In una situazione di impasse pastorale come l'attuale persistono celebrazioni liturgiche sbrigative e che comunicano poco o affatto; la paura grande di mettere mano decisamente all'iniziazione cristia­na e quindi rinnovare l'offerta dei percorsi formativi; il rapporto preti-laici rimane ulteriormente non chiarito; le offerte pastorali delle parrocchie appaiono poco innovative e incisive, soprattutto, per quanto riguarda i «lontani» e , infine, la collaborazione fra parrocchie stenta a decollare più di quanto fosse prevedibile.



[1] Cf. F.GARELLI (ed.), Sfide per la Chiesa del nuovo secolo. Indagine sul clero in Italia, Bologna 2003; L.DIOTALLEVI (ed.), La parabola del clero. Uno sguardo socio-demografico sui sacerdoti diocesani in Italia, Torino 2005.
[2] Cf. L.BRESSAN, «La “rivincita” della parrocchia», in F. GARELLI (ed.), Sfide per la Chiesa del nuovo secolo, cit., 101-145.
[3] L’espressione è mutuata dal titolo di un articolo di P.A.SEQUERI, «L’apprendista al timone. Il ministero ordinato per una nuova evangelizzazione», in La rivista del clero italiano 83 (2002), 642-654
[4] Sulle nuove prospettive per la parrocchia cf. F.G.BRAMBILLA, La parrocchia oggi e domani, Assisi 2003; A.BORRAS, La parrocchia. Diritto canonico e prospettive pastorali, Bologna 1997; S.LANZA, La parrocchia in un mondo che cambia. Situazioni e prospettive, Roma 2003; L.BRESSAN, La parrocchia oggi. Identità, trasformazioni e sfide, Bologna 2004.
[5] Per completezza di informazione, dobbiamo ricordare che il rapporto fra vescovi e preti, fra Chiesa particolare e locale, fa fatica ad assumere la dimensione ideale prospettata, sia a causa della fluidità della situazione pastorale in forte evoluzione sia a causa di una riflessione (teologica e magisteriale ) che, dopo il Vaticano II, ha qualche problema a dare contenuto reale all’immagine di Chiesa particolare e alla figura del vescovo che la presiede. Cf. G.LAFONT, Immaginare la Chiesa cattolica. Linee e approfondimenti per un nuovo dire e un nuovo fare della comunità cristiana, Cinisello Balsamo 1998; S.DIANICH, «La teologia del ministero episcopale e la forma della diocesi moderna», in La rivista del clero italiano 74 (1993), 373-383 (citato da Bressan, «La rivincita della parrocchia» cit. 139 nota). Lo stesso Bressan, esaminando i dati della ricerca sul rapporto tra parrocchia e Chiesa particolare, giunge alle conclusioni che sintetizziamo brevemente. Tra parrocchia e diocesi sta avvenendo un cambiamento di rapporti dovuto più alla necessità, ossia all’imporsi di forme sovraparrocchiali di azione pastorale, che «al cambio di mentalità» verso una maggior comunione. Tutto questo avviene non senza tensioni. I sacerdoti intervistati affermano, in modo chiaro, che la parrocchia loro affiata fa riferimento alla Chiesa diocesana e ne dipende, ma il contenuto di tale legame «rimane generico e sfumato». Poco più di un terzo degli intervistati (38%) dichiara di attendersi dai propri vescovi indicazioni pastorali guida e richiede piuttosto ai vescovi la capacità di ascoltarli e sviluppare con loro un dialogo franco e leale (78%). Solo il 69% dei sacerdoti – è la stessa proporzione della vicinanza tra preti – si sentono vicini al loro vescovo, anche se il 74% dichiara di leggere con regolarità il suo magistero. I sacerdoti, inoltre, affermano di sentirsi in eguale misura (86%) ai laici delle loro parrocchie e al papa. Solo un prete su tre si sente vicino alla CEI e al progetto culturale. I sacerdoti intervistati vorrebbero «che i vescovi non invadessero il campo di azione del clero, non istituissero rapporti diretti con la gente già affidata ai parroci; non potenziassero ulteriormente con loro iniziative personali una pastorale già invasa da tante iniziative pastorali locali». Hanno del vescovo «una forte immagine ideale» e chiedono che non invada la pastorale ordinaria, già abitata (affollata si potrebbe dire) dalle istituzioni pastorali esistenti e dalla loro azione (pp.137-138).
[6] H.BOURGEOIS, «Chi sono i nuovi venuti?», in La scuola cattolica 127 (1999), 246-291.
[7] Cf. La terza nota sull’iniziazione cristiana: CEI, L’iniziazione cristiana. Orientamenti per il risveglio della fede e il completamento dell’iniziazione cristiana in età adulta, Roma 2003, la quale si rivolge soprattutto ai giovani e agli adulti che chiedono di essere accompagnati  riscoprire la fede.
[8] Sulla comunità cristiana educante cf. V.ORLANDO-M.PACUCCI, La Chiesa come comunità educante. La qualità educatrice della comunità cristiana, Bologna 2008.
[9] Cf. G.CHIOSSO, Teorie dell’educazione e della formazione,Città di Castello 2004
[10] Le definizioni di formazione ed educazione sono tratte da L.CAIMI, «Maturità umana e maturità cristiana», in CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE (COP), La formazione nella comunità cristiana, Bologna 2002, 59.
[11] Si veda A. CAPRIOLI, «L’iniziazione cristiana: aspetti generali. Battesimo e confermazione», in Celebrare il mistero di Cristo, 2: La celebrazione dei sacramenti, Roma 1996, 53-124; P.P.CASPANI-P.SARTOR, L’iniziazione cristiana oggi. Linee teologiche e proposte pastorali, Milano 2005.
[12] Sull’argomento rimane sempre valido il tetso di F.COUDREU, Si può insegnare la fede? Riflessioni e orientamenti per una pedagogia della fede, Leumann (TO) 1978. Più recentemente G.ANGELINI, «Introduzione. Primato della formazione: ragioni e problemi di u assioma della pastorale recente. L’idea di formazione: forme della coscienza credente e forme storiche della Chiesa», in Il primato della formazione, Milano 1997, 7-22 e 175-209.
[13] Occorre ricordare che c’è una distinzione tra maturazione cristiana e maturazione nella fede: l’aggettivo cristiana fa pensare a una struttura di personalità unificata attorno ai valori che configurano la proposta cristiana, e non immediatamente una vita di fede e appartenenza alla Chiesa, come vuole la maturazione nella fede.
[14] Cf. H.DERROITTE, La catechesi liberata. Fondamenti per un nuovo progetto catechistico, Leumann (TO) 2002, 68
[15] Cf. P.A.SEQUERI, «Mediazione ecclesiale e attuazione della fede», in Progetto pastorale e cura della fede, Milano 1996, 159. Si presenta la mediazione della Chiesa non come intermediazione, ossia realtà che si introduce come un tertium (più o meno comodo) fra la rivelazione e la fede, ma come realtà «formalmente testimoniale» che non si limita a «confermare/confessare», ma che «rende a te credibile la forza della fede» e cioè «ti fa incontrare il Signore».