Teologia fondamentale
I libri:
1°
semestre: – Teologia fondamentale I (2a parte: 237-338),
IV
Il tema di teologia fondamentale: La Rivelazione di Dio Unitrino in Gesù Cristo, attestata nelle
Scritture dei due Testamenti, trasmessa nella tradizione della Chiesa
Cattolica, accolta nella fede e credibile oggi.
Ci sono tre
pilastri – Rivelazione, tradizione, fede. Ma questo tutto deve essere credibile
oggi. Dobbiamo guardare questo tempo con due occhi. Con primo lo guarderemo con
simpatia (empatia) e con secondo con vigilanza...
1. Momento epistemologico: Che cos’è la
teologia fondamentale?
Epistemologia e il tentativo di
rispondere le domande: Come si fa la teologia? Che stato ha teologia in
scienza? E’ infatti la scienza?
STORIA DELLA TEOLOGIA FONDAMENTALE
a) Apologia = difesa (dal greco) o anche il
discorso di difesa di sé o di altro.
Apologia
di Socrate - il dialogo scritto da Platone, dove Socrate difende se stesso (è
chiamato a esibire le ragioni del suo comportamento).
Ci interessa la difesa
(letteraria) fatta dai cristiani contro le accuse.
Contenuto: difesa contro
le calunnie da pagani o da ebrei, spiegazione di fede.
b) Apologetica = disciplina di teologia, la
letteratura sistematica di difesa mediante l’uso di ragione (universalmente
valida). Ha sostituito i compiti dell’apologia, fornendo complessivamente al
discorso di difesa della fede.
c) Teologia fondamentale = riflessione intorno alla
rivelazione (le teologia della rivelazione); dopo il CV2 ha sostituito il
termine apologetica.
Questi tre
termini sono in correlazione tra loro, anche se storicamente appartengono ad
epoche diverse. TF proviene da apologetica e questa da apologia. TF utilizza
esperienze dei precedenti.
L’epoca neotestamentaria
Il NT ha
il carattere prevalentemente pastorale, ma questo non significa che il NT non
presenti singoli passaggi con la tematica apologetica.
I primi cristiani fanno un dialogo di tipo
kerigmatico e anche apologetico con i giudei e con i pagani.
1 Pt 3, 15: “(Siate) pronti sempre a rispondere a chiunque vi domanda ragione della
speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto...”
esorta i cristiani a compiere la difesa ragionata di loro speranza (fede). Senza preghiera non si fa teologia.
Ci vuole un spirito di adorazione! Ognuno è chiamato a dire (a se stesso) i
ragioni della sua fede – speranza. Tutto quello si deve dicere “con
mansuetudine e rispetto”.
Ai Romani: Non è la Torah che salva, ma è la
fede!
-
Rom 12, 1-2: “Vi
esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri
corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto
spirituale (λατρειαν λογικην). Non conformatevi
a questo mondo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra
mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la
buona, gradita e perfetta volontà.”
Paolo dice “culto spirituale” – in
greco λατρεια λογικη. Perche? Il
culto dei pagani (e anche dei Ebrei) è consistito sopratutto di sacrifici di
sanque. Ma questo culto è illogico. L’unico culto logico è quello di cui parla
Paolo – sacrificio di se stesso, cio è il comportamento descritto nel verso 2.
Il contesto del tempo di Gesù era
medi giudaismo, che consisteva di culto di tempio e rabbinismo. Anche Gesù era
un rabbi. E da medio giudaismo sono nato
il cristianesimo e il rabibinismo. L’apologia di Bibbia cosiste del complemento
e superamento del medio giudaismo (AT) ma anche della cultura
dei pagani.
Atti degli Apostoli: offrono alcuni argomenti: Gesù è risorto, ha fatto
segni e miracoli, profezie si sono
compiute. Il dono dello Spirito dal Risorto – costitutivo della Chiesa.
Vangeli: le vicende della vita terrena di Gesù (interpretati profeticamente come
compimento dei testi di AT) e anche i segni e i prodigi che egli fa sono
ragioni per la fede in lui.
Lettera agli Ebrei: Gesù è presentato come sacerdote, che è molto più di sacerdoti antichi (e
anche di Mosè) questa lettera è apologetica perché vuole impedire ai convertiti
cristiani di ricadere nel giudaismo.
Dunque
l’apologetica non è solo una difesa ad extra della fede, ma si rivolge
anche ad intra, per sostenere i cristiani nella coerenza della vita
rispetto alla loro professione di fede.
NT dà ai cristiani l’assicurazione, che la loro
fede ha fondamenti solidi.
L’apologetica in età patristica
La nascita della letteratura apologetica è
all’inizio del II secolo.
Caratteri specifici di quest’epoca:
1. religiosità politeistica (poco incline ad
trascendenza e unità di Dio), nuovi culti – mitraismo e misteria
2.
sincretismo dottrinale in pensiero filosofico; secondo questo pensiero (attinto
da Platone), esiste una divinità unica, indicibile e trascendente; poi esiste
un mediatore tra il primo principio e il cosmo (demiurgo) che da forma alla
materia.
Il cristianesimo doveva confrontarsi a) con
l’ebraismo, b) con paganesimo c) con le eresie (dall’inizio del III secolo).
I temi
principali degli apologeti: monoteismo cristiano (difesa contro accusa di
ateismo, mostrare che monoteismo è migliore che politeismo), logos
(identificazione con Cristo), realizzazione delle profezie di AT.
Il
linguaggio: usano le categorie greche del pensiero (si forma primo vocabolario
cristiano) => si fa il ponte tra
cristianesimo e il mondo greco.
San Giustino (+165)
Filosofo, martire, è il primo scrittore cristiano
dopo Paolo che coglie le implicazioni universalistiche del cristianesimo.
Nacque in odierna
Palestina nella famiglia pagana. Incontrava le scuole filosofiche: stoica,
peripatetica, pitagorica e platonica. Ma si
è convertito al cristianesimo. A Roma aveva la propria scuola
filosofica.
Le sue opere più importanti:
I Apologia (148-150) è indirizzata all’imperatore Antonio Pio ed ai suoi figli
adottivi. Ha 68 capitoli ed il scopo è quello di protestare contro
l’ingiustizia della persecuzione verso i cristiani, ma anche di dare le
necessarie conoscenze sul cristianesimo.
Contenuto: analizza accuse contro cristiani;
mostra superiorità del cristianesimo rispetto a AT e a dottrine filosofiche;
spiega la dottrina sul Logos; il confronto tra platonismo e
cristianesimo; la descrizione della vita cristiana in un contesto liturgico sacramentale
(liturgia battesimale e eucaristica)
II Apologia è indirizzata al senato
romano ed all’imperatore e fu scritta per difendere i cristiani condannati a
morte.
Contenuto: difesa del
cristianesimo dal punto di vista legale; continuità e superiorità cristianesimo
in confronto di filosofia pagana; verità presenti nelle filosofie platonica e
stoica sono accolte nel cristianesimo
Qui è per la prima volta
la dottrina dei semi del Logos (logoi
sprematikoi) sparsi nel genere umano => Giustino stima la filosofia
(soprattutto il platonismo).
Dialogo con Trifone il confronto con la
religione ebraica.
Contenuto: racconto
della conversione di Giustino, AT non è rigettato ma viene inteso come
preparazione di NT; Trifone non si
converte al cristianesimo.
Pensiero:
Pioniere
dell'apologetica cristiana e primo filosofo cristiano.
La fonte
unica della verità è il Logos divino (che è innato), diffuso come un seme in tutto il
mondo. In ogni uomo c’è un seme del Logos che lo rende partecipe della
verità e razionalità del Logos, dunque anche i pagani partecipano al
Verbo.
Confronto
tra Socrate e Cristo - Socrate ha esposto delle verità nella sua filosofia ma
Gesù Cristo è la Verità. E di quello risulta che cristiani, ricevendo Cristo,
hanno una conoscenza chiara dell’unica Verità. Attribuisce al Logos
preesistente i frammenti di verità nelle filosofie e culture pagane.
I filosofi
greci e profeti biblici si sono influenzati.
In
cristianesimo la razionalità si è manifestata in forma perfetta nel Cristo Logos
incarnato (Logos pleroma), mentre gli altri insegnamenti ad esso
precedenti, hanno solo partecipato della razionalità del Logos (Logos
sperma).
Avvenimenti
di AT e NT formano unica economia divina.
Utilizza
categorie filosofiche e culturali per farsi comprendere, mostrare la
credibilità e la ragionevolezza del cristianesimo e anche la novità.
Giustino è
uomo di fede (alla quale sacrifica la propria vita).
Gli uomini
che prima di Cristo hanno vissuto secondo ragione (Logos) sono
considerati cristiani (anche loro erano perseguitati).
A Diogneto
Fu
scoperto in un manoscritto il 1436 a Costantinopoli. Autore ignoto, scritto
forse verso la fine del II. sec. (forse in un ambito alessandrino), si pensa
che non si tratti di una lettera bensì di un discorso apologetico, ha 4 parti.
Si tratta
di apologia contro i pagani e i giudei, volta a confutare (negare) le pratiche
idolatriche dei primi e il culto dei secondi. L’opera anche presenta il ruolo
che i cristiani hanno nel mondo e catechesi sulle principali verità della fede.
Pensiero:
L’autore
intende esplorare il mistero del cristianesimo in quanto tale. Il paradosso cristiano (V. cap.): il cristiano è
nel mondo ma nel contempo non è del mondo, ogni patria straniera è patria loro
e ogni patria è straniera ecc.
Cristiani
non dovrebbero disprezzare il mondo, ma a divenirne l’anima (antropologia
platonica).
In
quest’opera la fede non è più una filosofia, ma adesione di vita ad un dono di
Dio che è la Rivelazione – il nuovo rapporto tra la fede e la vita.
Interrogare
cristianesimo non più sotto il profilo della sua ragionevolezza ma la vita vissuta – la vita è apologetica.
Lo
gnosticismo
Si
sviluppa già nell’epoca NT ma lo sviluppo più alto è tra la seconda metà del II
secolo e il III secolo. Era grande eresia che non attacca una singola verità di
fede ma tutta la concezione di cristianesimo.
Lo
gnosticismo è un fenomeno vasto e pluriforme.
Scuola
torinese (Filoramo, noi): Lo gnosticismo è un fenomeno sincretistico - è una
miscela di fede cristiana, filosofia greca, religioni misteriche e culti
orientali.
Scuola
romana (Simonetti): Lo gnosticismo è un fenomeno cristiano (alcuni cristiani
hanno accolto alcuni elementi di origine pagana in un contesto fondamentalmente
cristiano).
Igni
sistema gnostico è caratterizzato dalle tre dimensioni: teologica,
antropologica e cosmologica.
Dualistica
concezione del divino – Pleroma x il
mondo materiale, creato dal demiurgo cattivo (il Dio dell’AT).
L’uomo
spirituale puo raggiungere la salvezza se si liberi dall’influsso del mondo e
di tutto ciò che è materiale e cattivo. Questo avviene soltanto attraverso un
percorso progressivo di conoscenza di sé e allora di autocomprensione. Il
compito del rivelatore (Gesù Cristo) è quello di svegliare l’uomo e indicargli
la direzione da seguire per ricongiungersi con il pleroma.
Lo
gnosticismo non è solo una filosofia né una religione ma piuttosto una
teosofia, in cui sono congiunti tra di loro i due elementi: rivelazione e
razionalità.
Lo
gnosticismo rifiuta alterità tra Dio e le sua creazione e nega ogni verità
biblica e cristiana (si salva solo attraverso sforzo personale).
Caratteristiche
principali:
a) componente
iniziatica, dimensione elitaria: occorre superare ostacoli per salvarsi
(autosalvezza) X gratuità della salvezza di Gesù
b)
esoterismo = la salvezza (segreta) per eletti X essoterismo del cristianesimo –
salvezza è universale, per tutti.
Gli uomini si distinguono su tre livelli
(come ci sono tre dimensioni dell’uomo – carne, anima, spirito):
1. ilici - uomini carnali-materiali che
sono senza possibilità di salvezza,
2. psichici - dotati di libero arbitrio e quindi destinati a una certa
forma di salvezza (ma solo parziale),
3. pneumatici – spirituali; attraverso il processo di risveglio
possono congiungersi con il divino pleromatico,
c) sincretismo - una miscela di cristianesimo,
paganesimo, ebraismo, filosofia, misteri... X unicità dell’evento cristiano
d)
dualismo – disprezzo del mondo e della carne (spirito-corpo,
maschile-femminile, bene-male, luce-tenebre, Dio di NT- Dio di AT) X storicità,
incarnazione, ressurezione di carne.
Fonti di conoscenza dello gnosticismo:
Corpus Hermeticum - una raccolta di 18 trattati risalenti fino al II a.C.
(dunque prima di cristianesimo) ma la cui collezione principale si pone tra il
I e il III d.C. Manoscritti di Nag Hammadi (p. e. La Sophia di Gesù Cristo, Apokryphon di Giovanni, Vangelo
di Tommaso) – con carattere cristiano o anche non cristiano.
Scritti
antignostici di padri della Chiesa:
sant’Ireneo di Lione (Adversus haereses) e sant’Epifanio di Salamina
(Panarion).
Sistemi
gnostici: sistema valentiniano, quello di Basilide, simoniana, e quella della
setta degli ofiti.
Conflitto
con gnosticismo ha aiutato a sistemazione del canone delle Scritture,
istituzione di formule di fede che diventeranno i Simboli, emergenza di un
episcopato rappresentante la successione apostolica del ministero.
Sant’Ireneo di Lione (135/140 -202)
Precisa la
nozione di tradizione e ne mostra il ruolo nell’interpretazione della
Scrittura. (Leggerla secondo la regola di fede ricevuta dagli Apostoli). Svilupperà per primo una visione globale del
mistero cristiano - è il primo “teologo sistematico”.
Nato a
Smirne, discepolo di san Policarpo, vescovo di Lione in Francia,
(probabilmente) martirizzato.
Difende e
anche pacifica le Chiese dell’Asia Minore in conflitto con Roma per la
controversia sulla data della Pasqua.
Adversus haereses (5 libri): smaschera e
confuta l’eresia gnostica. Mostra la dottrina gnostica e quella di Chiesa
(compendio), confuta la dottrina gnostica attraverso la ragione, la dottrina
degli Apostoli, le parole del Signore e le lettere apostoliche.
La dimostrazione della predicazione apostolica (Epideixis): presenta la fede trasmessa dagli apostoli. Per provare
la verità dei Vangeli, si richiama ai testi (profezie) dell’AT.
Pensiero:
Parte dal
problema della salvezza dell’uomo. Per gli gnostici la salvezza è riferita alla
dimensione spirituale, ma per Ireneo alla dimensione carnale (sarx) dell’uomo. L’uomo è salvato in
pienezza: nello spirito, ma anche nel corpo (per gnostici salvezza consiste in
una liberazione dal mondo e dal corpo).
Mentre gli
gnostici parlavano di una redenzione per connaturalità con il divino da parte
dell’uomo, Ireneo insiste sul realismo dell’incarnazione di Cristo che si è
fatto l’uomo. Questo apre la via alla redenzione dell’uomo.
Mostra la
duplice infedeltà degli gnostici: a Scrittura e a Tradizione.
Ribadisce
l’unità dei due Testamenti, che sono frutto dell’unico Dio creatore e redentore
del genere umano.
Ha fissato
i criteri di una corretta interpretazione della Scrittura e ha esposto quella
regola della fede che diverrà fondamentale nelle epoche successive.
Ribadisce
gratuità, universalità, unicità e storicità della salvezza che può
salvaguardare solo la fedele adesione alla Scrittura e Tradizione della grande
Chiesa.
L’apologetica tra Oriente e Occidente dopo Ireneo (nel III-IV secolo)
La riflessione in Oriente e in Occidente si
differenzia: in Oriente - il carattere dimostrativo e razionale (t. speculativa),
in Occidente - il carattere pratico (la vita
e situazione concreta)
Scuola alessandrina: In Alessandria la teologia diventa una componente
fondamentale nella vita ecclesiale. Grazie al carattere cosmopolita è buon
posto per origine di gnosi.
Il suo metodo esegetico della Scrittura è
basato sull’allegoria. E usa strumenti filosofici.
Clemente Alessandrino (+215): il primo che introduce nella teologia la
dimensione della speculazione. In lui si incontrano il cristianesimo e
l’ellenismo: pensiero grecocristiano – un pensiero che è speculativo, ma è
incentrato sul mistero di Cristo.
Opere: il Protrettico (esortazione a convertirsi), il Pedagogo e gli Stromati
(una raccolta di note).
Mediante il progresso
nella conoscenza religiosa e nella vita di fede (etica) si può giungere alla
vera gnosi.
La fede è superiore di
filosofia. (Ma la filosofia ha origine divina.)
Origene (3. s.): il cammino di conoscenza da una fede semplice ad una fede
perfetta.
Distingue tra la fede
terrena e la contemplazione eterna.
La ricerca delle verità
di fede trasmesse dagli apostoli. Come strumenti gli servono la Scrittura
(esegesi allegorica) e la filosofia (medio platonismo e stoicismo). Teologia è
per lui ricerca razionale nei confronti della fede e dei suoi contenuti.
Opera: Contro Celso - confuta il Discorso vero del filosofo Celso il quale presenta Cristo come un
impostore.
Tertulliano (+ 220): di Occidente, giurista
Opere: l’Ad Nationes (difende l’unicità di Dio criticando il politeismo pagano), l’Apologeticum (difende cristianesimo contro
le calunnie, il discorso sulla libertà religiosa), l’Adversos Judaeos (nei confronti dell’ebraismo).
Agostino d’Ippona (354 - 430)
Uno dei
più grandi apologeti di tutti i tempi. Nacque in odierna Algeria (padre pagano,
madre Monica pia).
Studi
letterari e di retorica a Cartagine. Diventa filosofo. Manicheista. Dopo la
conversione (386) è battezzato da Ambrogio.
Vescovo di
Iponna – attenzione pastorale. La domanda principale: Come vivere l’ideale
cristiano?
Opere:113
lavori, più di 500 sermoni e 218 lettere
De utilitate credendi (sul problema della credibilità della fede cattolica), De doctrina christiana (i principi
ermeneutici in ordine alla Scrittura e teologia)...
Pensiero:
La metà
della ricerca umana è nell’aspirazione alla beatitudine della visione di Dio
che si può raggiungere solo mediante cammino di ascesa progressiva fino a
unirsi con Dio.
La fede e
ragione sono due realtà che corrono su vie parallele, ma che concorrono ad un
unico fine - la contemplazione del Regno di Cristo. La fede è punto di partenza
attraverso il quale si accolgono le verità rivelate; segue l’esercizio della
ragione all’interno della fede; si giunge all’intellectus
fidei che è la comprensione intellettuale e contemplativa delle
verità di fede.
Mediante F
e R l’uomo può realizzare la ricerca intellettuale e raggiungere l’unione con
Dio. L’intellectus fidei è a metà
strada tra la fede terrena e la visione di Dio eterna.
L’apologetica
guarda all’interno della fede e chiarifica il rapporto tra F e R. Teologia è scientia
e sapientia.
De vera religione: gli antichi arrivarono a conclusioni errate perché da
loro non vi era armonia tra F e R.
Un’armonia che solo la rivelazione cristiana ha saputo illustrare
nell’unità che solo Cristo può realizzare. Tra F e R è reciproca
interdipendenza in vista dell’unico fine del uomo che è la salvezza e la
contemplazione del volto di Dio.
De civitate Dei: risponde alle accuse per cui il cristianesimo sarebbe
stato responsabile della caduta dell’impero romano. Getta le fondamenta di una
teologia globale della storia: ci sono due città – la città di Dio e la città
terrena. Solo il giudizio finale rivelerà veramente i confini della città
terrena e della città celeste. Qui proclama la sua speranza nell’esito sicuro
di questa storia.
L’apologetica in età medievale
Medioevo =
il periodo storico che è dopo antica, dura dal 476 (caduta dell’Impero romano)
alla fine del XV s., quando cade Costantinopoli (1453) o scoperta America
(1492). Questo termine era spregiativo e si usava per indicare l’oscuro
millennio.
In
medioevo matura l’idea di Europa moderna. È il tempo di sviluppo della cultura
fondamentale per Europa ed è l’epoca della nascita del concetto di Christianitas
= la compenetrazione reale tra la fede e la cultura medievale; la fede alimenta
la cultura e guida l’uomo nel processo di trasformazione del reale che lo
circonda.
La
divisione di questo periodo:
1. L’epoca
della teologia monastica (dal VII all’XI secolo): la teologia viene concepita
nell’ambito del monastero. Benedetto. Lectio cursiva della S (sacra pagina) e la lettura delle antologie e raccolte sistematiche
di testi patristici a commento della S. Non si sviluppa l’apologetica ma è
ricostruzione del pensiero cristiano dopo il crollo dell’Impero.
Fenomeni: l’armonia tra
la ragione e la fede, il confronto con l’islam (introduzione di Aristotele nel
pensiero europeo)
2. L’epoca della prima e della grande Scolastica
(dall’XI al XIII secolo): Anselmo, Abelardo, Tommaso, Bonaventura.
Caratteristiche nuove: la prevalenza del
metodo della dialettica razionale; lo sviluppo del modello della quaestio
accanto a quello della lectio; interesse per sistematizzazione – le Summae;
lo sviluppo delle le scuole teologiche; l’introduzione della filosofia di
Aristotele.
Temi
principali: a) la questione del metodo teologico - quaestio, b) teologia
come scienza, c) il rapporto tra fede a regione
Il
definirsi della dottrina dei preambula fidei = esistenza di Dio e immortalità dell’anima
Ciò che si
cerca è il dimostrare razionalmente quello che si già crede nella fede
(circolarità di fede e ragione).
3. L’epoca di tarda Scolastica o decadenza (secoli
XIV e XV): Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Ockham.
La rottura delle grandi
sintesi filosofico-teologiche => una definitiva separazione tra F e R.
Sant’Anselmo d’Aosta (1033 - 1109) (il Dottore Magnifico)
Nasce in
una famiglia di origini nobili. Abate di un monastero e poi arcivescovo di
Canterbury.
Monologion (1076): lezioni tenute
ai monaci, non si richiama né alla S né T, ma solo alla riflessione per mezzo
della ragione dell’uomo. Ribadisce le possibilità, i limiti e le certezze che
ha la ragione umana di fronte a Verità.
Espone sia il metodo
filosofico, sia i temi principali.
Proslogion (1077-78): cerca unica
prova dell’esistenza di Dio – unicum argumentum. Sviluppa la sua opera
come preghiera dunque deve essere letta nell’orizzonte della fede. (Comincia
con preghiera.)
Suscita i
notevoli discussioni: Gaunilone e la sua
Difesa dell’insipiente. Reazione di
Anselmo: Risposta a Gaunilone.
Altre: Epistola de Incarnazione Verbi (rapporto tra F e R), Cur Deus homo, De processione
Spiritus Sancti (la difesa di filioque).
Pensiero:
Aspetti
distinti del suo pensiero:
a)
stabilire una ben precisa modalità entro cui intendere il rapporto F-R,
possiamo definirla rationes necessariae.
b)
l’evidenziazione dei due postulati che consentono questo modo metodologico: la
fermezza della fede (creduta, vissuta e contemplata) e la fiducia nella
capacità della ragione dell’uomo.
Nel
rapporto F-R segue Agostino e perciò intende la teologia come fides quaerens
intellectum.
I misteri
cristiani possono essere intelligibili mediante il solo uso della ragione (il
rischio di posizione eccessiva della speculazione razionale). Il discorso
razionale su Dio e sulla creazione è possibile e può affiancare la SaS e i
Padri perché la pura evidenza razionale non solo non costituisce un pericolo
per la verità rivelata ma anzi la conferma nel modo più perfetto.
Ma questo
è possibile perché Anselmo ha fiducia nelle capacità razionali dell’uomo e si
muove nell’ambito di fermezza di fede vissuta (e di carattere mistico e
contemplativo).
Il metodo
delle rationes necessariae non intende solo dimostrare che la ragione è
in accordo con la fede o che la fede può essere difesa dalla ragione, ma crede
che tutti i fondamentali contenuti della fede cristiana si possono anche
ottenere per analisi puramente razionale (partendo dalla semplice
autoriflessione della ragione e procedendo per coerenti deduzioni).
La fede
chiede che il suo oggetto è compresso con l’aiuto della ragione e la ragione
ammette come necessario ciò che la fede presenta. (L’intero circuito di
teologia va dalla fede alla fede tramite l’intelligenza.)
Potrebbe
sembrare che il Proslogion sia l’opera teologica mentre il Monologion
è prevalentemente filosofico ma sono frutti dello stesso pensiero che si è
sviluppato progressivamente. Il Proslogion è mosso dalla convinzione che
l’esercizio di intelligenza in questioni di fede è una passione religiosa.
Testi: Proslogion –
l’argomento ontologico, “Id quo maius cogitari neguit”
Una nozione di Dio fornita dalla fede:
“Concedimi di capire che tu esisti come crediamo, e sei quello che crediamo.”
L’esistenza
dell’idea di Dio nel pensiero esige logicamente l’esistenza di Dio nella
realtà.
Ciò che possiede tutte le perfezioni non può essere privo di una perfezione
come è quella dell’esistenza “Noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si
possa pensare nulla di più grande. ... Anche l’insipiente deve convenire che,
almeno nell’intelletto vi sia qualcosa di cui non si può pensare nulla di più
grande. Ma ciò di cui si può pensare qualcosa di più grande non può essere nel
solo intelletto.”
Non si può neppure pensare che Dio non esista.
La critica di Gaunillone: 1. Anselmo presuppone quello che cerca (Dio),
2. l’esempio dell’Isola Perduta: l’isola perfetta deve esistere in realtà,
perché esiste nel mio intelletto.
San Tommaso d’Aquino (1225 -1274) (il Dottore Angelico)
Domenicano,
studiava a Parigi (da Alberto Magno) e a
Colonia.
Ha scritto
36 opere e 25 opuscoli, e i commentari alla Scrittura.
Summa contra Gentiles: contro musulmani,
giudei ed eretici. Sviluppa soprattutto gli argomenti di tipo filosofico e
mostra così il carattere ragionevole degli insegnamenti della dottrina
cristiana.
4 libri:
(I) unità dell’essenza divina, (II) derivazione del creato da Dio, (III)
ritorno delle creature a Dio, (IV) la Trinità delle persone divine,
Incarnazione, Sacramenti e la resurrezione dei corpi.
Summa teologiae: tratta del contenuto
della Rivelazione, questioni filosofico-propedeutiche per la teologia.
3 parti (4
libri): (I) creazione del mondo, (I/II) il ritorno a Dio dell’uomo mediante gli
atti umani in generale e (II/II) in particolare, (III) il ritorno a Dio
(attraverso la via delineata da Cristo) mediante la Chiesa, la Grazia e i
Sacramenti.
É
suddivisa in questioni e questi in articoli che hanno struttura fissa:
1. videtur quod - le obiezioni
alla tesi,
2. sed contra - la dialettica
rispetto alle obiezioni mediante gli argomenti che negano le obiezioni,
3. respondeo - la lezione
magisteriale che espone l’argomentazione della tesi principale,
4. ad primum - si risolvono le
difficoltà poste in 1. videtur quod.
Altre opere: Secondo Commentario alle Sentenze di
Pier Lombardo, Quaestiones disputatae, Quastiones
quodlibetales.
Pensiero:
1. Nuova definizione di teologia come scienza (secondo concetto di Aristotele):
Concezione aristotelica
di scienza: conoscenza certa a partire dalle cause che la determinano. Ma la
fede esclude di per sé l’evidenza => la teologia non può essere la scienza.
La soluzione di Tommaso: La teologia è scienza
subalternata e la scienza subalternante è la scienza di Dio (e dei
Beati) da quale prende i suoi principi. La teologia e la filosofia sono
autonome ma hanno un terreno comune di ricerca – cosiddetti preambula
fidei: le verità che riguardano l’esistenza di Dio, i suoi attributi
e l’immortalità dell’anima umana (che sono oggetto di rivelazione e altresì
dimostrazione filosofica). La loro dimostrabilità filosofica garantisce
l’intrinseca conciliabilità della rivelazione e della fede con la ragione.
2. Dimostrazione dell’esistenza di Dio – il carattere ragionevole di adesione ad una
rivelazione soprannaturale:
Le verità di fede
possono essere conosciute dall’uomo come vere solo in virtù di una rivelazione
da Dio. Ma si deve dapprima provare l’esistenza di Dio. Rifiuta la prova ontologica (di Anselmo) e l’evidenza
mistica (di Bonaventura) e parte dai fenomeni esterni - le “cinque vie”: 1. un primo motore, 2. una prima
causa efficiente, 3. un essere che esiste necessariamente, 4. un essere
perfettissimo, 5. un governante di tutte le cose. L’esistenza di Dio è
piuttosto mostrata che dimostrata perché parte dalla fede. Queste vie sono di
carattere teologico (e non filosofico). Di Dio sappiamo che esiste ma non
sappiamo chi è.
3. I motivi
di credibilità della rivelazione soprannaturale di Dio:
La rivelazione era
necessaria perché la ragione umana è debole e per farci conoscere il contenuto
del fine dell’uomo.
Perché le verità di
fede, inaccessibili all’intelletto umano, siano credibili, è necessario che
siano supportate da prove sensibili che le sostengano – i miracoli e le
profezie (non devono convincere gli increduli, ma sostenere i credenti).
Testi: L’esistenza di Dio: non è per
sé nota (perché non conosciamo l’essenza di Dio, e anche perché esistono atei).
Ma la esistenza di Dio può essere dimostrata dagli effetti (ma non sono prove
ma vie).
Le cinque vie - presupposti: a)
la fonte della conoscenza sono i sensi, b) non si può procedere all’infinito.
I. Sembra che Dio non esiste,
perché:
a) Posizione dell’ateismo tragico: La presenza
del male nel mondo è in contrarietà con Dio come un bene infinito.
b) Pos. razionalista o scientista:
Ciò che può essere spiegato attraverso pochi principi non deve essere spiegato
con molti => non c’è bisogno di Dio, perché tutto e spiegabile attraverso la
scienza.
II. Ma Dio dice in Es 3, 14: “Io
sono colui che è”.
III. Vie: 1. dall’esistenza del moto, 2. dalla esistenza di causa efficiente,
3. dall’ordine del possibile e del necessario, 4. dai gradi di perfezione, 5.
dal governo (dal fine) delle cose.
IV. Ad primum: a) Agostino dice: Dio permette che vi siano i mali
per trarre da essi dei beni.
b) Con
esistenza di Dio si le cose non complicano ma semplificano.
San Bonaventura da Bagnoregio (1217
- 1274) (il Dottore Serafico)
Studia e
poi insegna a Parigi, eletto Ministro generale dell’ordine francescano. Il suo
maestro era Alessandro di Hales. Vescovo e cardinale. Ha preparato il concilio
di Lione, dove muore. Non inspirò alcuna scuola teologica. Cristocentrismo
francescano – nesso profondo tra la spiritualità a teologia. Pensiero
complementare alla scuola domenicana (TA).
Le opere:
il Breviloquio
(un compendio teologico per l’insegnamento della teologia sistematica),
redazione delle Costituzioni e la Legenda Maior (la biografia di san
Francesco), la Legenda Minor.
L’Itinerario della mente in Dio (scritto per
motivi della propagazione della spiritualità francescana) è un cammino
progressivo dell’uomo, compreso nella sua totalità di mente e cuore, verso
l’unione mistica con Dio. Il carattere dell’opera è mistico e evidenzia il
legame con tutta la spiritualità francescana. La mente dell’uomo è caratterizzata
da tre facoltà:
1. quella
rivolta alle cose sensibili (sensibilità), 2. quella rivolta a se stessa
(spirito), 3. quella rivolta verso l’alto (mente).
Tali
facoltà possono cogliere Dio attraverso l’immagine di Dio che riflette nelle
cose create (per speculum) o nella traccia che l’essere e la bontà di
Dio danno alle cose stesse (in speculum). Sono 3 livelli in due modi –
attraverso (per) e in - il mondo (le tracce di Dio), l’uomo (l’immagine di
Dio), grazia (la somiglianza con Dio):
L’animo
umano si determina in sei potenze che permettono il cammino di ascesa: senso,
immaginazione, ragione, intelletto, intelligenza e apice della mente = sinderesi. Ma ha bisogno della
preghiera, riflessione e grazia e deve andare dall’esterno all’interno, dal
basso al alto, dal temporale all’eterno
L’uomo può percorrere i 6 gradi dell’ascesa
mistica:
1. coglie con la
sensibilità le cose e la loro bellezza per risalire alla loro origine divina
(mediante sensi),
2. si fa
presente la totalità del creato (mediante immaginazione),
3.
passaggio all’interiorità dell’uomo, coglie la presenza di Dio nell’animo
umano: la memoria, l’intelletto e la volontà (mediante ragione),
4. coglie
Dio nell’uomo, inteso nella sua totalità illuminata (mediante intelletto),
5. conosce Dio nel suo
primo attributo – l’essere (mediante intelligenza),
6. rende
possibile la definitiva conoscenza di Dio nella sua massima potenza che è il
bene e che si articola nella Trinità. (mediante sinderesi).
Poi all’uomo non resta che l’abbandono definitivo
del mondo e di se stesso per approdare all’estasi in cui Dio si dona.
Pensiero:
1. La
questione della teologia come sapienza e la sua intima connessione con la fede:
La teologia gode della certezza della
scienza (perché si fonda sulla Parola di Dio) ma è soprattutto sapienza – la
teologia nasce all’interno della Rivelazione e della storia di salvezza, e prima
che essere riflessione è esperienza di vita.
2. La
dimostrazione dell’esistenza di Dio a partire dall’esperienza dell’uomo:
L’uomo possiede in sé la conoscenza
innata di un bene per lui assoluto. Questo primum cognitum che è Dio, ha
bisogno di essere pure cercato a posteriori a partire dal cose del mondo.
Possiamo trovare l’esistenza di Dio in: natura, vita dell’uomo e Scrittura. La
riflessione su di essi consente di trovare Dio che nelle preghiera iniziale già
è presente.
3. La
fondazione della fede dal centro della storia della salvezza:
Tutto l’itinerario è possibile se Cristo
è il punto cardine di tutto. Egli ha superato una precedente discesa e presenza
di Dio tra gli uomini, e allora solo mediante di Lui è possibile ogni ulteriore
l’itinerario nel senso di una ascesa verso il Dio. La fede non si caratterizza
come frutto di un atto razionale dell’uomo, ma diviene un'esperienza vitale.
A partire
dalla seconda metà del XIII secolo è l’equilibrio armonico tra la fede e la
ragione messo in crisi => crolla la fiducia nella ragione naturale e la fede
domina quasi esclusivamente il campo.
Giovanni Duns Scoto (1265-1308)
Francescano,
l’equilibrio tra fede e ragione non è ancora messo in discussione e reso
problematico. Ma propone la prospettiva nuova dello statuto epistemologico
della teologia.
Ordinatio o Opus Oxoniense: la teologia
è più propriamente sapienza che scienza => teologia è la scienza pratica
(perché offre all’uomo le regole di
agire verso l’amore di Dio e la salvezza eterna.
Separa filosofia e teologia (delimitando i rispettivi
ambiti di validità). La teologia è indipendente da ogni altra scienza.
Guglielmo di Ockham (1290-1348)
L’onnipotenza e la
libertà di Dio sono assolute e Dio è Deus
absconditus. Non ha nessun senso la distinzione tra conoscenza naturale e
conoscenza rivelata in Dio. (La prima può giungere alla conoscenza del
principio primo del mondo, la seconda può affermare l’identità di questo con
l’idea di Dio.) Questo porterà la separazione tra fede e ragione, tra
rivelazione e possibilità di una sua investigazione razionale.
L’apologetica in età moderna (14. -19. s.)
Il
rinascimento ha posto la questione apologetica in ordine alla risposta da dare
alle religioni non cristiane e al mutato assetto del rapporto tra l’uomo e il
cosmo.
La Riforma
ha sviluppato soprattutto il dibattito e la relativa difesa della vera fede
all’interno del cristianesimo.
Con la
critica dell’illuminismo alla rivelazione a alla fede cambiò lo stile
apologetico
L’inizio
della modernità: l’aspetto esterno - scoperta delle Americhe, l’umanismo
rinascimentale e la Riforma protestante,
l’aspetto
interno – la presa di coscienza dell’autonomia dell’umano alle forze cosmiche e
alle istanze religiose precedenti.
Rinascimento: movimento culturale
che mette al centro della sua riflessione la dignità e la grandezza dell’uomo
rispetto all’intero cosmo. Si passa da una prospettiva di pensiero di tipo
cosmocentrico (l’uomo è parte di un tutto che lo sovrasta e lo comprende) ad
una prospettiva di tipo antropocentrico (l’uomo come la misura e il riferimento
unico di ogni realtà).
Riforma: la fine di Christianitas
(la perfetta integrazione tra società, religione e cultura), la fede non
unisce più gli stati europei e i suoi cittadini, ma piuttosto divide (cattolici
x protestanti).
Le
conseguenze: la fede è respinta nella sfera dell’a-razionale (non
dell’irrazionale) e la ragione cerca di prevalere sulla fede. La ragione si
separa dalla fede. E anche la religione si comincia a separare dalla fede –
contro la “religione dogmatica” postula la
“religione naturale”.
Già
durante il rinascimento l’apologetica moderna difende la fede cristiana contro
l’ebraismo o la religione islamica. Lo scopo è dimostrare che il cristianesimo
è le vera religione (attraverso una dimostrazione delle singole verità di
fede).
Nicolò Cusano (1401-1464): De pace fidei è un dialogo tra i rappresentanti della diverse
nazioni. La conclusione: il mutuo rispetto e la tolleranza sono i soli mezzi
per mettere fine alle guerre di religione. Ripropone l’idea del Verbo di Dio
come colui che è la Verità di tutte le cose, donata alla libertà dell’uomo
perché possa giungere e riconoscere l’unicità di Dio.
La ricerca
rinascimentale della vera religione ha mostrato l’esigenza di fondare la
credibilità del cristianesimo sulla base del suo essere religione rivelata.
Lutero: accentua la dimensione della credibilità
della rivelazione solo mediante la fede.
Protestanti: la tendenza a dare grande importanza
alla ragione e al giudizio personale riguardo alla verità della rivelazione.
Filippo Melantone: la ragione come preparazione
alla fede.
Alla fine del 16. s. compare lo schema tripartito
della apologetica - triplice
dimostrazione (Pierre Charron):
1. la demonstratio religiosa (De religione):
preambula fidei - l’esistenza di Dio
e l’immortalità dell’anima – contro deismo; è affidato alla filosofia,
2. la demonstratio christiana (De
revelatione): il tentativo di articolare che il cristianesimo è le vera
religione,
3. la demonstratio catholica (De ecclesia):
quale è il vero cristianesimo?
Viene ribadita la necessità della rivelazione di
Dio per la salvezza e la sua garanzia di verità.
L’illuminismo
(17. s.) il trionfo della ragione - la ragione ha preteso di estendere il suo
dominio a tutti gli aspetti della realtà.
Conseguenze:
l’affermazione della soggettività o dell’individuo. La critica radicale di ogni
affermazione di fede e di fede stessa. La separazione definitiva tra la
religione e la fede – la ragione diventa fondamento obiettivo della verità
religiosa – si impone il definitivo concetto di religione naturale. La critica
radicale della rivelazione. L’abbandono di ogni legame istituzionale e
l'emancipazione del fatto religioso da ogni controllo delle chiese e dei
teologi (deismo, pietismo).
L’apologetica
cerca di dimostrare il carattere rivelato del cristianesimo (con il metodo
razionale dell’illuminismo).
René Descartes – Cartesio
(1596-1650)
Educato dai gesuiti: critica della cultura
scolastica e l’avvicinarsi alle scienze sperimentali. (Vive poi in tollerante
Olanda.)
Il Discorso sul metodo (1637) le regole di un
metodo nuovo che assicura fondamento filosofico alla conoscenza del mondo. È
scritto in francese (non in latino) per ché potesse diffondersi il più
possibile. Anche l’esposizione filosofica viene curata affinché la semplicità
delle premesse, la linearità delle argomentazioni e la sicurezza dei risultati
fossero evidenti.
Le Meditazioni metafisiche (1641) in latino, indirizzate
ai dotti. È composta di sei meditazioni: 1. il dubbio in vista della
ricostruzione del sapere, 2. l’anima umana e la conoscenza che si può avere di
essa, 3. il problema dell’esistenza di Dio e della sua dimostrazione, 4.
questione dell’errore umano nell’esprimere un giudizio attraverso l’uso della
ragione, 5. le cose materiali e la loro essenza, 6. la distinzione reale di
anima e corpo nell’uomo e l’esistenza delle cose materiali.
Pensiero:
Vuole dimostrare l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima umana. La
questione di Dio è per lui decisiva - theocentrismo.
Il cogito
è inseparabile dal problema di Dio: se è vero che il soggetto è il punto di
partenza in vista della conoscenza vera, è altrettanto vero che Dio resta il
fondamento e la garanzia della conoscenza e della verità.
Cerca un
sicuro criterio per distinguere il vero dal falso. Lo trova in cogito che è un punto di partenza per
mostrare la possibilità di una conoscenza certa e anche per dimostrare
l’esistenza di Dio e in lui garanzia della verità della conoscenza..
La terza meditazione delle Meditazioni metafisiche
parla del problema dell’esistenza di Dio a partire dal principio del cogito.
Il cogito
apre l’uomo alla comprensione di sé: la mia esistenza è quella di un essere
pensante, di un essere che ha idee.
Distingue
le idee in base alla loro origine in
tre categorie: 1. le idee innate: sembrano di avere origine dalla natura
dell’io (p.e.: l’idea di verità, di pensiero), 2. le idee fattizie (umělý): sono formate da ma stesso
(l’idea di sirena), 3. le idee avventizie (nahodilý);
sembrano di avere origine al di fuori del pensiero umano.
Le idee si
distinguono dal punto di vista della realtà che rappresentano => tutte le
idee potrebbero essere prodotte da chi le concepisce, ma questo non è possibile
per l’idea di Dio. Tale idea postula una perfezione infinita che può avere
origine solo da Dio (che la causa) – la semplice presenza in me dell’idea di
Dio dimostra la sua esistenza.
Una volta
riconosciuta l’esistenza di Dio è la garanzia della verità della mia
conoscenza. (Dio non può ingannare). La fondamentale funzione di Dio è di
essere il principio e garante di ogni
verità. (Il concetto di Dio no ha carattere religioso.)
In quinta
meditazione offre un’altra prova – ontologica.
L’intento
apologetico: si rivolge a non credenti con un insegnamento basato alla pura
ragione naturale – comune a tutti.
Da Descartes si può andare sia al Nietzsche
(distrugge la metafisica, nichilismo) sia a Rosmini (sviluppa la metafisica).
Blaise Pascal (1623-1662)
Usa il
razionalismo nel dominio della scienza (riconoscendo i suoi limiti) ma non
ritiene che possa usarsi nella sfera della morale e della religione (dove è
fondamentale una comprensione dell’uomo come tale che è per la ragione
impossibile).
Nasce in Francia; matematico e fisico eccellente.
All’età di
31 anni ha l’esperienza mistica, lascia lo studio e entra in una comunità
religiosa dove fu influito dal giansenismo
(il rigorismo morale e religioso senza compromessi). Questo movimento era
condannato dal Papa e Pascal difendeva le sue idee nelle sue lettere,
pubblicate più tardi con il titolo Lettere
provinciali (la questione della grazia di Dio e della sua azione nei
confronti dell’uomo). Ma poi abbandonò questo gruppo di Port-Royal e si dedicò
alla pietà e al soccorso dei poveri.
I Pensieri –
l’opera apologetica (incompiuta e frammentaria) raccolta dopo la sua morte.
Altre opere: Scritti sulla grazia, Discorso sulla religione.
Pensiero:
Cristocentrismo dell’apologia. (Dio conosciamo
solo attraverso Cristo. Conoscenza di Dio senza Cristo possa essere falsa.)
Punto di
partenza è l’uomo compreso nella sua grandezza rispetto al cosmo e nella sua
miseria per la situazione che spesso vive. L’incomprensibilità dell’uomo fuori
della fede e la possibilità di raggiungere il bene più alto solo nel
cristianesimo.
Ha fiducia
nella ragione però indica i suoi limiti: il limite dell’esperienza e il limite
dei principi primi che sono indimostrabili e inconfutabili dalla ragione. Ma il vero limite: la ragione umana è
incapace comprendere l’uomo.
Tuttavia
l’uomo ha aspirazioni di grandezza. (E anzi la sua miseria è tale
proprio perché vi è questa aspirazione.)
Dall’analisi
della situazione dell’uomo nasce apologetica: il cristianesimo dà risposta alla
domanda di felicità e (attraverso il dogma di peccato originale) al mistero del
suo squilibrio interiore.
Solo il
cristianesimo spiega tutto l’uomo: il male e la miseria dell’esistenza umana
(con il dogma del peccato originale) e la grandezza dell’uomo (con il suo
essere creato a immagine e somiglianza di Dio e redento da Cristo).
Questo non
è una vera prova razionale, ma evidenzia come solo il cristianesimo non
trascura nessun fattore della realtà.
Non
contesta il valore intrinseco delle prove tradizionali dell’esistenza di Dio,
ma le considera inadeguate (perché Dio che salva è il Dio dei cristiani).
L’unica
dimostrazione dell’esistenza di Dio che offre è la scommessa ragionevole:
nell’incertezza che Dio esista o no è necessario scommettere sul fatto che Dio
esista in quanto se tale ipotesi è vera, noi avremmo vinto tutto, se invece
fosse falsa, non avremmo perso nulla.
Questo non è prova ma evidenzia la necessità della
ricerca non intellettuale ma esistenziale di Dio.
Il Dio di Pascal è Dio di Abramo, di Isacco e di
Giacobbe, Dio di Gesù Cristo che è lontano dalla verità dei filosofi.
Dio è Deus absconditus perché con il nostro
peccato siamo incapaci di avvicinarlo. Il nascondimento di Dio è necessario per
salvaguardare la libertà di adesione dell’uomo alla verità.
Tra 18. e 19. secolo: l’imporsi di una nuova coscienza apologetica
Critica della religione diventa mentalità comune e
non solo delle cerchie della aristocrazia culturale.
Tra la
fine del ‘600 e gli inizi del ‘700 possiamo parlare di una vera cristi
dell’apologetica cattolica (la rinuncia della metafisica, la critica radicale
della fede).
Deismo (nasce in Inghilterra):
la ragione è ritenuta competente a provare ogni verità religiosa. (Cherbury,
Locke)
Ateismo: decisamente nega ogni
forma di divinità (P. Bayle).
L’apologetica si concepisce e si struttura come la
disciplina in grado di fornire delle ragioni universali e razionalmente validi.
L’apologetica ha quasi sempre una forma di difesa, polemica, capace di
convincere solo coloro che sono già cristiani.
18. s.: apologetica cattolica è la reazione al fenomeno
della fuoriuscita della religione dalla fede e l’imporsi alla ragione.
L’apologetica dimostra in maniera razionale il carattere rivelato del
cristianesimo.
Triplice demonstratio. Con una importante
variazione (come difesa al pensiero deista – una religione naturale):
1. demonstratio religiosa: la riduttiva trattazione sulla natura, la
possibilità e necessità della rivelazione cristiana,
2. demonstratio christiana:
la dimostrazione mediante la prova storica dei miracoli di Gesù e delle
profezie,
3. demonstratio catholica: il
tema dell’istituzione della Chiesa e la sua intrinseca natura.
In questo
schema domina l’ermeneutica della analysis
fidei: si intende dimostrare che la fede è razionale. La ragione ha il
compito di cercare i segni della credibilità della rivelazione (per fondare
razionalmente la fede).[1]
19. s.: si sottolinea un’idea nuova di cristianesimo –
l’accento sul carattere storico e sociale della rivelazione si coniuga con la
coscienza del singolo individuo. (La rivelazione è la mediazione necessaria
della sua coscienza e libertà rispetto a Dio).
J.S. Drey: fondatore della “Scuola di Tubinga”.
L’apologetica intesa come una scienza che ha due compiti:
1. determina la
collocazione della teologia all’interno delle altre scienze,
2. offre una funzione di
fondamento (la visione unitaria della storia come realizzazione del Regno di
Dio).
La rivelazione parte
dalla sfera interiore dell’uomo e non più dal solo fatto oggettivo e esteriore.
J.A. Möhler: la Chiesa è
prolungamento dell’incarnazione del Verbo attraverso il tempo.
L'insegnamento
della Scuola di Tubinga ha consentito di superare la concezione illuministica e
sterile di un’apologetica unicamente fondata sul fondamento della ragione o
nella contrapposizione ad essa.
Antonio Rosmini Serbati (1797-1855)
A Padova si laurea in teologia e diritto,
sacerdote, filosofo e teologo, fondatore degli istituti maschili e femminili.
Opere: Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, Teodicea, Principi della scienza morale, Il
Rinnovamento della filosofia in Italia, Trattato
sulla coscienza morale (scoppia le controversie tra lui e gesuiti sul tema del
peccato), ecc.
Nel 1848 per
motivi delle invidie personali e il fallimento della mediazione sono condannate
le sue due ultime opere da parte della Congregazione dell’Indice, la quale però
nel 1854 le dichiara conformi alla dottrina cattolica.
(Ma dopo
la sua morte nel 1887 sono condannate 40 sue proposizioni ritenute erronee;
fino al CV2.)
Pensiero:
Nell’opera
Introduzione alla Filosofia descrive tre
tappe del suo percorso: 1. combattere gli errori, 2. costruire un sistema
coerente di idee che manifestino il vero, 3. elaborare una filosofia che possa
essere solida base per le scienze e teologia.
Vuole
combattere il soggettivismo nelle due forme: 1. il sensismo che sottovaluta il ruolo delle idee (riconducendole alla
mera esperienza sensibile) e 2. il criticismo kantiano che sopravvaluta il
ruolo di queste idee.
Elabora la
sua teoria della conoscenza: la conoscenza certa del vero è possibile in quanto
tutte le idee traggono origine da un’idea prima, l’”idea dell’essere”, la quale
è semplice, unica, indeterminata, oggettiva… e quindi immutabile ed eterna.
Tale idea non deriva né dall’esperienza sensibile né dall’idea dell’io ma è
innata (frutto di un’intuizione immediata).
La verità
che l’intelligenza cerca è la stessa verità che il Vangelo ha portato nel
mondo. Così il cammino di ricerca di questa verità è anche cammino di
comprensione della verità portata dal Vangelo.
L’essere
ideale non è una realtà puramente psicologica, ma è una delle forme
fondamentali attraverso le quali l’essere manifesta la sua “unitotalità” in
ogni ente.
Distingue tre forme
dell’essere:
1. l’essere ideale:
l’essere in quanto oggetto dell’intuizione della mente, indeterminato e
puramente possibile,
2. l’essere reale: si
attua concretamente nella molteplicità degli enti e di cui abbiamo esperienza,
3.
l’essere morale: l’essere in quanto oggetto della volontà, cioè il bene; nasce
dal rapporto tra l’essere ideale e reale e le armonizza tra di loro (si
caratterizza per la notevole originalità e consente di stabilire un legame tra
la scienza dell’essere e la carità così si può parlare di una vera e propria
“metafisica della carità”).
Con questo
risolve anche il problema del rapporto tra l’unità e la molteplicità. La
molteplicità non è fuori dell’essere, si configura come compiuta totalità.
Compone
anche in unità il conflitto tra ragione e fede poiché la verità principio della
filosofia è anche il principio della religione. L’essere è la verità comune
alla ragione e alla fede, ma ideale per la ragione e reale per la fede.
(La
dottrina metafisica delle tre forme dell’essere si rivolge all’uomo, che porta
in sé la domanda metafisica e trova in sé una risposta sia pure inadeguata e
parziale.)
L’Antropologia soprannaturale: nell’essere
triadico si esprime il modo trinitario di agire di Dio ad extra.
La Teosofia: l’intreccio tra il sapere della
ragione (filosofia) e quello della fede (teologia) chiama “sapere teosofico”. Il dogma trinitario non solo
può, ma deve essere ricevuto o ri-conosciuto e accolto dalla filosofia.
John Henry Newman (1801-1890)
Nasce a Londra da una famiglia dell’alta
borghesia, ha studiato a Oxford, era sacerdote nella Chiesa anglicana.
Con amici
ha fondato il “movimento di Oxford” per combattere il liberalismo teologico.
Progressivamente
venne a distaccarsi dalla Chiesa anglicana e a manifestare le sue simpatie per
quella cattolica.
Tracts for the Times: l’interpretazione in
chiave cattolica dei 39 articoli della confessione anglicana.
Ha ricevuto ordinazione presbiteriale nella chiesa
cattolica (1847). Era rettore dell’università a Dublino.
Dopo la
conversione ha vissuto anni di ostilità (dagli anglicani). Sul declino della
vita le ostilità nei suoi confronti vennero meno e Leone XIII lo creò cardinale
nel 1879.
Opere: L’Apologia pro vita sua, The Idea of a University, The Grammar of
Assent (La grammatica
dell’assenso).
Pensiero:
Lotta
contro il liberalismo teologico, mostrando che la fede ha i suoi diritti nei
confronti della ragione.
Grammatica dell’assenso: una riflessione sull’atto di fede del credente. Espone
i principi della razionalità dell’assenso della fede.
Il
rapporto tra fede e ragione: mette in luce la dinamica tra queste due dimensioni
e riconosce nella realtà dello spirito umano il luogo della verità della fede e
della sua ragione.
Mediante
l’esperienza l’uomo giunge a comprendere il senso della realtà, ma ciò avviene
attraverso un procedimento che non è argomentativo, ma fondato sulla base delle
probabilità (di tipo “istintivo”).
Ma
emergono due problemi:
1. La
questione della possibilità dell’istituirsi di un legame tra questo modo di
procedere dell’uomo nella concretezza della realtà e la dimensione della sua
fede (e della religione). La soluzione: esiste un’analogia strutturale tra
religione e la costituzione della natura; la realtà è profondamente unitaria e
quindi non sono separazioni tra l’esperienza della realtà e la fede dell’uomo,
2. La
giustificazione razionale della fede che Newman risolve attraverso la nozione
di “senso illativo” (vedoucí k určitému závěru), con il quale si può da diversi
dati probabili stabilire la razionalità di un modo di procedere sulla base di
questi dati. Il senso illativo consiste nella capacità di cogliere il punto di
convergenza di una serie di dati, che, se isolati, sono puramente probabili e
verosimili. Pertanto, mediante esso, è possibile giungere ad una certezza, la
quale non è meno vera di quanto si raggiunge con la dimostrazione stessa.
Alcune
importanti osservazioni:
a) Il suo
tentativo si capovolge in una dimostrazione della struttura profonda
dell’esistenza concreta dell’uomo.
b) La sua
posizione rispetto alla razionalità della fede, basata sull’esperienza e sul
giudizio di prudenza è tale per cui l’uomo può solo parlare di sé e della
propria fede senza attribuirsi alcun diritto di parlare della fede in generale.
c) Anche
se si parte dalla propria esperienza, il discorso così prodotto vale anche per
altri: perché la verità è una.
La
scuola romana
Con questo
termine si intende la teologia che fu insegnata al Collegio Romano (odierna
PUG) negli anni 1830-1879. Il suo fondatore fu padre G. Perrone (altri
esponenti Passaglia, Schrader, Franzelin). (Collaborarono con il Magistero: per
il dogma dell’Immacolata Concezione e per Dei
Filius).
Perrone - Praelectiones
theologicae: nel Tractus de locis theologicis presenta il
triplice compito del teologo:
a)
dogmatico – esposizione dei dogmi della fede cattolica,
b)
speculativo – mostrarne nessi,
c)
polemico – difendere i dogmi dagli avversari.
Gli strumenti intrinseci sono la scrittura e la
tradizione (che abbraccia anche la storia dei dogmi).
In apologetica egli distingue fra due tipi di
uomini che rifiutano la vera religione:
1) gli
eretici – contro i loro si deve difendere l’autorità della Chiesa costituita
per volontà di Dio,
2) gli
increduli – contro i loro si deve mostrare la necessità e l’esistenza della
rivelazione.
Per questo
occorre chiarire il concetto di Rivelazione (la possibilità, la necessità, le
note e l’esistenza). Rivelazione è sempre manifestazione di una qualche verità
o di più verità ed è soprannaturale se il soggetto è Dio.
Quanto
alla necessità della Rivelazione distingue fra necessità:
a) morale
– concerne le verità naturali o morali che l’uomo potrebbe conoscere veramente,
ma dinanzi alle quali sperimenta una sorta di impotenza morale (poiché la
ragione umana da sé non offre motivi sufficienti per sostenerli nei doveri),
b)
assoluta – riguarda quelle verità che superano del tutto le capacità naturale.
Le note
(le caratteristiche) a partire dalle quali la Rivelazione può essere colta in
modo sicuro e certo sono: i miracoli e le profezie.
Dopo aver
dimostrato (contro razionalismo) che la rivelazione soprannaturale è possibile
e necessaria, ora si tratta di verificare se Dio nella sua benignità abbia
provveduto all’uomo attraverso una certa rivelazione soprannaturale (Mosè, i
profeti e Cristo – inviati dal cielo).
Agli heterodoxes occorre dimostrare, che la
Chiesa è stata istituita da Cristo come l’unica depositaria della rivelazione
divina che essa custodisce e che questa Chiesa unica è la Chiesa cattolica.
L'apologetica della Scuola romana era ripresa e
approfondita in modello che si impose dopo il Vaticano I.
MODELLI DI TEOLOGIA FONDAMENTALE DEL XX SECOLO
Introduzione
La TF non
possiede ancora un’identità definita, né esiste un consenso generale sulla
natura, l’articolazione, il metodo e i contenuti della disciplina. Per la sua
stessa natura la TF è condannata all’insicurezza più che altre discipline,
perché essendo una disciplina di frontiera con finestre aperte sulle scienze
umane partecipa alla vita ed ai cambiamenti interni a queste discipline, mentre
come scienza teologica è coinvolta in tutti i rinnovamenti della teologia,
soprattutto in materia d’esegesi.
La
molteplicità dei modelli della TF nel XX sec. nasce dall’insufficienza del
modello neoscolastico che fino al CV2 rappresentava la forma unica ed ufficiale
della TF cattolica, insegnata nelle scuole come apologetica.
I
presentati modelli sono legati a teologi (e filosofi) concreti. “Modello”
indica quindi un certo modo di fare TF proposto da un autore. Ogni autore ha
sottolineato alcune dimensioni o aspetti , sui quali altri autori hanno poi
costruito delle TF.
La
costituzione Dei Filius
Viene
promulgata dal Concilio Vaticano I (1870) e rappresenta una tappa significativa
per la storia della TF nel sec. XX.
Il
contesto culturale era segnato dalla contestazione illuministica della pretesa
di verità della religione rivelata e dalla tendenza romantica e idealistica (a
ridurre il cristianesimo a forma esteriore dell’esperienza soggettiva).
Questo
contesto filosofico ha due tendenze teologiche opposte, che minacciano la vera
fede. Quelle sono:
1. il
razionalismo e semirazionalismo - ipervalorizzano la ragione, riducono la fede
(influenzati dall’illuminismo e l’hegelismo),
2.
fideismo – ipervalorizzano la fede a scapito della ragione.
Costituzione
dopo aver ribadito (contro i fideisti) che Dio può essere conosciuto con
certezza, afferma l’esistenza di un’altra rivelazione diversa nel modo e nei
contenuti – una rivelazione
soprannaturale di Dio che è indeducibile dalla ragione - poiché Dio intende
rendere l’uomo partecipe di beni divini che superano del tutto il potere
conoscitivo della mente umana e per questo scopo è la rivelazione assolutamente
necessaria. Rappresenta anche l’aiuto per la ragione (per conoscenza certa e
senza errore).
Il luogo
della rivelazione sta nei libri sacri (AT e NT) e nella tradizione non scritta.
La fede rimane una virtù soprannaturale,
“altra” dalla ragione (non è quindi soltanto il compimento della ragione) che
proviene dall’ispirazione divina. Mediante la fede crediamo come vere le cose
che Dio ha rivelato.
La ragione
è chiamata a riconoscere le verità della rivelazione ed è sostenuta dagli aiuti
interiori dello SpS e dalle prove esteriori, (i miracoli e le profezie) che
sono “segni certissimi” della divina rivelazione adatti ad ogni intelligenza.
Ma non è possibile la predicazione senza l’illuminazione e l’espirazione dello
SpS: la fede è e rimane un dono. L’altro aiuto è la Chiesa (che è essa stessa
un grande e perenne motivo di credibilità).
La fede
non è mai l’esito di un ragionamento o il compimento di un itinerario solo
umano di ricerca di Dio. Ma deve essere conforme alla ragione - la ragione deve
poter trovare dei motivi che rendono credibile la fede stessa.
Non può
essere la libertà o la ragione a determinare il dono, ma non si può riconoscere
e accogliere la rivelazione senza la libertà.
La
tematizzazione del “duplex ordo
cognitionis” alimenta l’interpretazione “separatista” fra ragione naturale
e rivelazione soprannaturale. Dalla coppia rivelazione-conoscenza l'accento si
sposta su fede e ragione.
Da un lato
si difende la ragione (mediante il riconoscimento dell’argomentabilità della
rivelazione) e dall’altro lato si riafferma il carattere soprannaturale delle
verità rivelate e della fede stessa.
L’ordine
della conoscenza è duplice e la differenza è sostanziale: riguarda il principio
formale (conoscenza con la ragione naturale X divina) e anche l’oggetto
materiale (ci sono i misteri che non possono essere conosciuti se non
rivelati).
La
ragione, illuminata dalla fede, può giungere ad una conoscenza sia mediante
l’analogia (con ciò che conosce naturalmente), sia mediante il nesso dei
misteri fra loro e con il fine ultimo dell’uomo.
Tuttavia
permane sempre l’ulteriorità della fede che è come il velo che avvolge e rende
opaca la visione della ragione.
La ragione
retta dimostra i fondamenti della fede e coltiva la scienza delle cose divine.
La fede da un lato libera e tutela la ragione, dall’altro, essendo sopra la
ragione, la invera.
CV1 utilizzala categoria moderne di rivelazione.
Parla di due forme della rivelazione:
a) naturale – nella
creazione; può essere conosciuta con certezza mediante l’intelligenza,
b) soprannaturale –
assolutamente necessaria; il contenuto è Dio stesso e la sua volontà.
Il
modello neoscolastico
R. Garrigou-Lagrange (1877-1964) – De revelatione
L’apologetica si divide in due parti:
1.
teoretica (contro il razionalismo filosofico) - difende la possibilità,
convenienza, necessità e conoscibilità della rivelazione,
2.
positiva (contro il razionalismo biblico) - difende l’esistenza della rivelazione
divina tramandata da Cristo e proposta dalla Chiesa; seguendo la testimonianza
storica di Cristo e l’istituzione della Chiesa con il riferimento alle
aspirazioni umane e ai miracoli e alle profezie.
La rivelazione = l’azione divina
libera ed essenzialmente soprannaturale con la quale Dio, per condurre il
genere umano al fine soprannaturale che consiste nella visione dell’essenza
divina, parlandoci tramite i profeti e in maniera ultima e definitiva tramite
Cristo, ha manifestato sotto una certa oscurità i misteri soprannaturali e le
verità della religione.
Contro i
razionalisti occorre difendere l’esistenza dell’ordine soprannaturale
dimostrando la necessità della rivelazione sopran-naturale. Solo la corretta
difesa sul piano teoretico apre la via alla difesa sul piano storico.
Nell’apologetica
non rientra il “tractatus de locis
theologicis” perché l’apologetica non argomenta a partire dalla fede ma
mostra razionalmente la credibilità delle verità rivelate da Dio mediante
Cristo e proposte dalla Chiesa.
TF = la teologia che riguarda i fondamenti della fede
divina, cioè riguarda la rivelazione che è il motivo formale della fede e
riguarda la riproposizione infallibile di questa rivelazione ad opera della
Chiesa istituita da Dio.
Tutto il
procedere dimostrativo è previo e subordinato a garantire l’autorità di chi da
Dio ha ricevuto il compito di trasmettere nella storia questo deposito. Di qui
la forte insistenza sul magistero.
Gardeil: l’apologetica deve occuparsi della necessità e dell’esistenza del
magistero dal quale proviene immediatamente la credibilità dell’insegnamento
cattolico.
Il fine
dell’apologetica: dimostrare che i misteri della fede sono credibili
razionalmente e che sono da credere con fede certissima.
Il metodo
dell’apologetica: è soprattutto esterno, cioè parte dai segni esterni – miracoli, profezie, vita mirabile della
Chiesa.
La difesa
della fede assume lo stesso principio gnoseologico dei razionalisti, dei quali
si contestava il rifiuto del soprannaturale.
L’apologetica
classica accetta come qualcosa che va da sé la distinzione tra il fatto che Dio
rivela e ciò che Dio rivela.
Scopo
dell’apologetica è di stabilire il fatto della rivelazione senza troppo curarsi
del senso del suo contenuto, poiché si ritiene che, una volta dimostrato che il
fatto della rivelazione è certo, il suo contenuto diventa per sé credibile.
Vi è così
da un lato giudizio di credibilità, al quale spetta di constatare razionalmente
il fatto della rivelazione e dall’altro lato l’assenso di fede, al quale spetta
aderire al contenuto della rivelazione.
Quanto
alla conoscibilità della rivelazione, determinati non sono né i criteri
soggettivi (aspirazione religiosa) né i criteri oggettivi interni (qualità
della dottrina rivelata), ma piuttosto i
criteri oggettivi esterni perché solo essi garantiscono in maniera
razionale e universalmente valida l’origine divina.
I limiti di questo modello sono:
1. il
formalismo - il riferimento alla rivelazione a prescindere dall’evento della
rivelazione (ma solo la rivelazione ci può dire che cosa sia la rivelazione),
2. la
totale trascuratezza del senso e dei motivi interiori di credibilità – la
rivelazione è credibile non solo a causa dei segni esterni, ma anche perché
rivela l’uomo a se stesso,
3. la
trattazione del mistero di Gesù solo quanto alla sua messianicità con tutto
l’impatto negativo quanto alla comprensione del segno unico della sua
risurrezione gloriosa,
4.
l’assenza di attenzione alle condizioni per cui la rivelazione e i segni
possono essere accolti dall’uomo al quale sono rivolti,
5.
un’argomentazione polemica che vede solo avversari e nemici.
Il metodo/modello
dell’immanenza
Maurice Blondel (1861-1949)
Lettera sull’apologetica (Lettre) analizza i vari modi di fare apologetica
(per esempio):
a)
l’apologetica tradizionale (o tomismo) - pare una descrizione statica di
elementi senza un legame necessario fra loro e senza alcun riferimento al
dinamismo; la dimostrazione non può limitarsi ad offrire un “oggetto”, ma deve
interagire con il “soggetto”; questo modello non è più in grado di dialogare
con la modernità,
b) metodo
di Laprune (altro che di Blondel) – l’apologetica deve fare leva sulla
conformità del cristianesimo alle più profonde aspirazioni della natura umana –
solo esso soddisfa adeguatamente i bisogni artistici, intellettuali, morali e
sociali dell’uomo; Blondel rifiuta che il cristianesimo è solo il completamento
della natura senz’alcuna radicale novità, sostenendo che la rivelazione suscita
e soddisfa nuovi bisogni; annota che tale metodo non permette di definire
esattamente la relazione dell’ordine naturale con quello soprannaturale.
L’Azione (1893): riassume la sua prospettiva di
un’”apologetica integrale”. Il metodo d’immanenza non deve essere confuso con
“immanentismo” (che taglia i legami con la trascendenza). Parte dall’esigenza
di superare l’estrinsecismo. Offre una fenomenologia dell’azione, perché
nell’azione si trova il centro della vita.
La volontà
dell’uomo si scopre “volente non voluta”:
vuole ma non ha voluto volere; cerca e agisce ma non è libera nel decidere se
cercare o no. In questo senso l’uomo non
appartiene a se stesso perché non trova in sé né l’origine né il fine della sua
azione. La volontà dell’uomo è obbligata a volere se stessa, ma il principio del
volere è un’incognita.
C’è una
essenziale sproporzione fra la volontà volente (aspirazione infinita verso la
realizzazione della domanda) e la volontà voluta (quanto l’uomo realizza
agendo).
L’uomo
aveva la pretesa di arrangiarsi da solo e di trovare nell’ordine naturale
l’autosufficienza e il suo tutto. Ma non vi riesce. È il paradosso di un uomo
che aspira ad essere integralmente ciò che vuole, ma non può diventarlo
Occorre
ammettere una duplice
insufficienza-impossibilità: 1. riconosciamo che l’ordine naturale non
esaurisce il fine della volontà, 2. percepiamo la nostra impotenza a
raggiungere con le nostre forze il fine necessario – la soddisfazione.
L’uomo
desidera il compimento, ma non può autoprodurlo.
Quanto
l’uomo da sé non è in grado di raggiungere, non gli è offerto da qualcosa o
qualcuno fuori di lui?
L’azione
dell’uomo trascende l’uomo. È un’attesa sincera del messia ignoto.
La
filosofia ha il compito di stabilire la “necessità”, ma non deve indagare se il
soprannaturale è reale o possibile. L’analisi dell’azione approda non a una
realtà né a una possibilità, ma a una necessità.
La necessità del soprannaturale risuona
come l’umile confessione della ragione filosofica. Concludere alla necessità
assoluta del soprannaturale comporta coerentemente l’affermazione
dell’impossibilità di negarne filosoficamente la possibile realizzazione nel
dono gratuito di una rivelazione e nella pratica effettiva della vita.
Il
problema del soprannaturale è la condizione stessa della filosofia. La necessità
del soprannaturale ricorda che è legittimo mostrare come il progresso della
nostra volontà ci costringa al riconoscimento della nostra insufficienza, ci
conduca al bisogno avvertito di qualcosa di più, ci dia la capacità di
riconoscerlo e riceverlo.
Si tratta
soltanto di rinvenire le “porte aperte” dentro l’umano che la grazia può
varcare. Il modello di Blondel accentua l’unione tra la natura e grazia. Esso
intende porsi in continuità con la sua domanda radicale sul senso ultimo della
vita.
Recezione
dell’apologetica di Blondel: non fu immediatamente recepita e capita. (era
considerato come una riduzione psicologica). È vero che l’attenzione al
carattere oggettivo della rivelazione è pochissima (ma questo è autolimitazione
metodologica della sua filosofia).
Modello
antropologico-trascendentale
Karl Rahner (1904-1984)
- Uditori della parola e Corso fondamentale sulla fede.
La sua
teologia è spesso chiamata “teologia trascendentale” (trascendentale è usato
nel senso kantiano – dice il riferimento alle condizioni di possibilità,
formali, aprioriche della conoscenza umana).
Trascendentale (secondo Kant) - ogni conoscenza che si occupi
non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa
deve essere possibile a priori.
Tuttavia
il trascendentale rahneriano è differente rispetto a quello kantiano - mentre
Kant nega la conoscenza dell’essere (noumeno),
Rahner ammette l’apertura all’essere che fonda l’esperienza.
TF deve
rinvenire nell’uomo quelle forme-strutture che lo rendono capace di accogliere
e comprendere un’eventuale rivelazione.
“Uditori della parola” – designa
l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla rivelazione. L’uomo è concepito come
l’ente che si realizza solo nella storia, mentre la storia attua la sua essenza
solo attraverso l’uomo. Perciò egli durante il corso della storia deve stare in
ascolto per incontrare quella “parola” che illumina la sua esistenza.
Il compito
della TF è fondare razionalmente la fede sia pure in maniera molto
indeterminata.
L’aspetto
problematico del modello tradizionale di TF è la mancata tematizzazione delle
condizioni, di come l’uomo possa accogliere il soprannaturale (non chiarisce
sufficientemente il rapporto tra conoscenza naturale e soprannaturale).
Occorre
partire dall’uomo ed esaminare la sua struttura ontologica costitutiva dalla
quale giustificare il dovere di stare in ascolto.
Si tratta
di ricercare la capacità apriorica dell’uomo di ascoltare la rivelazione divina
- rinvenire se e in che senso l’uomo possa scoprire in sé la capacità di ricevere
un’eventuale rivelazione di Dio prima che abbia di fatto ascoltato la sua
parola.
Rahner
definisce la sua giustificazione razionale della fede come una ontologia della potentia
oboedientialis.
Potentia indica l’aspirazione ad ascoltare una possibile
rivelazione di Dio e oboedientia
ricorda che il compimento può venire solo da Dio, cui si risponde con
l’obbedienza della fede.
Si tratta
di mostrare che la rivelazione non contraddice l’uomo, ma al contrario
“incastra” perfettamente la sua costituzione ontologico-trascendentale
(metafisica).
Le
determinazioni della soggettività (le proposizioni fondamentali di un’antropologia
metafisica):
1. Conoscenza
- l’unità suprema di essere e conoscere:
L’uomo
deve essere aperto a ricevere la comunicazione che l’essere assoluto fa di se
stesso. L’uomo è l’unico ente capace di uscire da sé verso le cose e di
ritornare completamente in sé prendendo coscienza di sé come soggetto
conoscente, distinto dalle cose conosciute. Mediante il giudizio il soggetto
riconosce l’illimitatezza dell’essere.
“Percezione
previa dell’essere” = la capacità che ha per sua natura lo spirito umano di
protendersi dinamicamente verso l’illimitata vastità di tutti gli oggetti
possibili. Questo rende possibile il passaggio dal concreto dell’ente
all’universalità dell’essenza.
L’essere
spirito è l’essere finito totalmente aperto
a Dio. Solo un’apertura infinita consente che l’uomo possa accogliere
l’eventuale rivelazione di Dio senza porre limite al suo possibile contenuto.
Rahner non
nasconde una difficoltà: se l’essere dell’uomo consiste nella totale apertura
all’essere, come evitare che la rivelazione non si riduca ad una conoscenza
derivabile dalla struttura essenziale dell’uomo, tale da rendere impossibile la
rivelazione come atto libero di Dio?
Solo se
sappiamo che Dio non solo trascende il contenuto della nostra conoscenza umana,
ma anche può parlare o tacere, possiamo comprendere il valore della parola
rivelatrice di Dio (che è l’atto imprevedibile del suo amore personale).
2. La
libertà connessa alla volontà:
L’esistenza
concreta è assunta dall’uomo con un atto di libertà che accetta la finitezza
del proprio essere.
L’uomo si
pone in ascolto del parlare o tacere di Dio. E questo accade solo nella
condizione della libertà. L’uomo (per la sua costituzione ontologica) non può
mai restare indifferente di fronte ad un’eventuale rivelazione.
In senso
metafisico la rivelazione è semplicemente l’azione libera di Dio, con cui Egli
svela la sua essenza in una maniera sempre e necessariamente superiore a quella
con cui lo spirito finito questa include.
In senso
teologico la rivelazione non è la decisione libera di Dio di rivelarsi o
chiudersi in se stesso, ma l’effettiva manifestazione della sua intima essenza.
Tale rivelazione non si può dire dovuta all’uomo in forza della sua natura - è
libera.
3. Storicità - la trascendenza dell’uomo si
declini in termini di storicità:
L’uomo è storico in
quanto agisce liberamente nella determinazione del suo rapporto con l’assoluto.
L’uomo
conosce l’essere in genere solo in modo sensibile, mediante fenomeni. Dio deve
rispettare questa condizione e deve rivelarsi come parola umana per rispettare
la struttura della conoscenza umana.
L’uomo è
l’ente, che è dotato di una spiritualità ricettiva aperta sempre alla storia.
L’uomo è colui che ascolta nella storia la parola del Dio libero.
Una
rivelazione che non rispettasse la struttura antropologica fondamentale,
potrebbe mai essere credibile o rispettare fino in fondo la libertà dell’uomo?
Limiti di
questo modello: non riesce ad andare oltre la plausibilità di un ascolto
nell’eventualità del parlare di Dio, né offre indicazioni sufficienti per
discernere fra una rivelazione autentica e una impropria.
Juan Alfaro (1914-1993)
Dal problema dell’uomo al problema
di Dio.
È
impossibile pensare alla rivelazione di Dio senza pensare allo stesso tempo al
suo destinatario, l’uomo. Che cosa è nell’uomo che lo renda capace di ricevere
la rivelazione di Dio? Occorre interrogare la struttura ontologica dell’uomo,
individuare le dimensioni costitutive dell’esistenza umana (e solo a partire da
queste verificare l’eventuale emergenza della questione di Dio).
La
teologia cristiana dovrebbe partire dall’uomo nella domanda “perché credo?”.
La domanda
investe il problema del senso come
questione ultima; non solo il senso delle cose, ma il senso dell’uomo e
della sua esistenza. Il questionante e il questionato sono identici – chi
domanda e il contenuto di ciò che si domanda sono la stessa cosa. L’uomo non
rimane indifferente come oggetto spettatore.
“Dare
senso” alla vita diventa la questione dell’esistenza.
L’uomo
constata l’evidenza di due verità che lo definiscono: “non esisto da sempre e
non esisterò per sempre”.
Cerca la
risposta alle domande: “che cosa sono io, donde vengo, dove vado?” L’uomo non
porta in se stesso il fondamento ultimo del suo essere, ma si dimostra fondato
oltre e fuori da se stesso: aperto a qualcosa che lo trascende.
La
questione del senso pare rivestire un carattere trascendentale.
Sono
obbligato a cercare il senso, ma non sceglierne uno piuttosto che un altro.
Nella
ricerca del senso occorre partire dall’esperienza che l’uomo vive di se stesso.
La ricerca è sostenuta dalla convinzione che la vita umana abbia un senso.
L’uomo non cercherebbe ciò che saprebbe non esistere.
Solo
dall’esperienza del problema dell’uomo (del senso) può nascere la questione di
Dio.
Se la
risposta ultima al problema del senso si trovasse dentro il reale intramondano,
non sarebbe necessario cercarla ulteriormente – non si porrebbe il problema di
Dio.
Tutte le
domande su Dio o non-Dio, teismo o ateismo, sono fondamentalmente una sola
domanda: il fondamento ultimo è solo intramondano oppure è trascendente
rispetto alla totalità del reale intramondano?
Il punto
di partenza è l’analisi delle dimensioni fondamentali dell’esistenza: relazione
uomo-mondo, relazione io-altri, relazione con la morte, relazione con la
storia.
Dio emerge
dalla domanda radicale e costitutiva circa il senso ultimo ed è l’esperienza
umana a implicare anche le caratteristiche essenziali di Dio: trascendenza,
libertà assoluta, essere personale.
La
soggettività dell’uomo (libertà) e la sua storia (attuata nella storia)
costituiscono le dimensioni umane in cui si può compiere l’evento assolutamente
gratuito dell’autorivelazione di Dio.
Modello
fondativo
Karl Barth (1886-1968) - La lettera ai romani
Contro la
teologia liberale (= una lettura prevalentemente etica del cristianesimo)
sconfessa ogni cammino dell’uomo verso Dio.
Il Dio è
il deus absconditus. L’uomo non può arrivare a Dio né
mediante l’esperienza religiosa, né per via storica, né per via metafisica.
Il
cristianesimo è l’esatto contrario della religione: non dall’uomo verso Dio, ma
da Dio verso l’uomo attraverso Gesù Cristo. L’evento della rivelazione di Dio in
Gesù Cristo è il fondamento che irrompe nella storia e decide da se stesso
della sua verità.
La
credibilità è tutta interna alla rivelazione e non può essere l’uomo a decidere
della credibilità della parola.
Dio è
colui che liberamente si rivela e la sua libertà è assolutamente priva di
condizioni.
Il
cristianesimo non è una religione, ma una fede. La religione è ciò che risponde
al puro bisogno umano del rapporto con il divino mentre la fede è dono assoluto
e gratuito.
Hans Urs von Balthasar (1905-1988)
Le opere:
trilogia Gloria, Teodrammatica, Teologica.
La domanda di Dio dell’uomo di oggi: un’analisi della situazione religiosa dell’uomo
moderno per mostrare la credibilità della rivelazione cristiana. L’universo non
può più essere compreso come riflesso del divino, ma come il mistero
insondabile della decisione divina di creare, secondo un atto di Libertà
assolutamente gratuito – religione della libertà.
Il
cristianesimo dovrà mostrare la bellezza dell’esistenza cristiana a partire
dalla risposta alle domande dell’uomo che Dio ha dato in Gesù Cristo.
Un’adeguata
presentazione del centro cristologico-trinitario della fede contiene la
risposta alle domande dell’uomo di ogni tempo.
Solo l’amore è credibile: analizza i tentativi (della storia del pensiero
occidentale) di mostrare la credibilità del cristianesimo:
a) Padri della Chiesa: la fede si difendeva cosmologicamente –
cristianesimo è la religione naturale, è il principio riunificatore di tutti i
frammenti. (La correttezza di questo metodo era garantita da una concezione
unitaria dell’ordine naturale e soprannaturale – il mondo è qualcosa di sacro).
b) Dopo
la Riforma: la fede si difendeva antropologicamente - l’uomo con la sua
autonomia naturale diviene colui che stabilisce i criteri di credibilità anche
della religione rivelata, introducendo la funesta distinzione fra religione
naturale della pura ragione e religione positiva o rivelata.
Questo
segnò il superamento dell’antitesi natura-soprannatura: la rivelazione diventa
l’estrinsecazione della dimensione religiosa interna all’umanità e non aggiunge
nulla che l’uomo non possa conoscere; in questo senso è rappresentazione della
verità.
L’asse
della credibilità si spostava verso l’uomo. Il cristianesimo deve essere
misurato con il parametro della natura umana.
La
credibilità della fede cristiana non può essere fatta derivata né dalla
considerazione dell’universo (riduzione cosmologica) né dalla ricerca di
strutture antropologiche trascendentali (riduzione antropologica)!
Il
criterio di credibilità proviene dall’evento
stesso della rivelazione nella quale il Logos
si manifesta come agape e come
gloria, splendore. Rivelandosi come amore, Dio manifesta essere quell’alterità
assoluta da cui l’uomo si sente attratto.
La
Rivelazione è colta come amore assoluto.
Il punto
di partenza è la forma della rivelazione e la sua propria oggettiva evidenza.
Il putno di
partenza è bellezza: senza la
bellezza (che è espulsa dalla filosofia e dalla religione) anche il bene perde
la sua forza di attrazione.
Dio viene
primariamente non come maestro per noi (“vero”), non come “redentore” con tanti
scopi per noi (“buono”) ma per mostrare Se stesso, la gloria del suo amore, in
quella “assenza di interesse” che il vero amore ha in comune con la vera
bellezza.
Non solo
la bellezza precede il bene e la verità, ma senza la bellezza la testimonianza
dell’essere diventa incredibile.
La nozione
di bello porta con sé due aspetti: lo splendor
(o lumen) e la species (o meglio forma).
La forma (Gestalt) è ciò attraverso cui
avviene la percezione della bellezza
Ogni
essere è una forma.
In quanto
forma il bello può essere afferrato materialmente e può essere calcolato come
rapporto, armonia, legge dell’essere.
Solo
mediante forma siamo incantati e rapiti dalla gloria dell’essere e mai
l’immersione nella profondità può avvenire senza mediazione della forma.
Il Dio
vivente non è né l’ente né l’essere che si annuncia in tutto ciò che appare e
ha forma; tuttavia lo schema fondamento-manifestativo vale per Dio
analogicamente. Attraverso la creazione e la redenzione egli si rivela in e al
mondo. Solo in virtù dell’apparizione di Dio è possibile accedere alla bellezza
di Dio.
Dunque il
bello sta all’essere come la gloria sta a Dio; nella rivelazione biblica alla
bellezza corrisponde la gloria di Dio (lo splendore della sua divinità che ha
la sua divinità che ha la sua forma in Gesù).
L’apparizione
di Dio crea anche le condizioni della sua percezione.
L’accento
è messo su un vedere, guardare.
Il
compimento di tale percezione è la fede come habitus del credente.
La
dottrina dell’estasi (o rapimento) si riferisce alla fides quae creditur ed è la dottrina dell’autointerpretazione
oggettiva della gloria di Dio. L’estasi è duplice:
a) l’uscita da sé di Dio
(la sua esteriorizzazione che è il suo rivelarsi) attraverso Figlio,
b)
l’estasi dell’uomo – la possibilità della sua divinizzazione attraverso il
totale abbandono alla forma del Figlio.
Ogni
percezione di Dio suppone un rapimento della creatura che oltre le sua facoltà
naturali è resa capace dalla grazia di partecipare alla realtà stessa di Dio.
La
dottrina della percezione della forma del Dio che si rivela è la TF; mentre la
dottrina del rapimento costituisce la teologia dogmatica. Si tratta di due
momenti inseparabili.
TF non è
un’introduzione della teologia.
Avvicinare
l’immagine della rivelazione divina a chi non crede, non può avvenire senza la
fede.
La
risposta dell’uomo trova il suo archetipo nella parola di Cristo: le radici per
seguire la forma riconoscendola bella (e quindi buona e vera) sono all’interno
dell’evidenza oggettiva.
Quindi i
segni di credibilità fanno parte della rivelazione e sono legati
inseparabilmente al suo contenuto. La credibilità non può mai essere
antecedente all’atto di fede e al contenuto della rivelazione.
Cristo è
una forma e non un segno o un cumulo di segni, è la forma centrale salvifica.
La
differenza rispetto ad un metodo trascendentale: La forma della rivelazione è
indipendente dalle attese o bisogni dell’uomo. La forma della rivelazione non
può essere dedotta dall’attesa e dall’aspirazione degli uomini. Ma l’attesa e
l’aspirazione sono integrate in tale forma.
[1] Lessing
(1729-1781): Casuali verità storiche non possono diventare la prova di
necessarie verità razionali. Tra fatti storici (contingenti, casuali) e verità
assolute c’è “orrendo fossato“.
Kierkegaard (1813-1855): da risposta al “dilemma di Lessing” – il cristianesimo
sono atti storici ma non contingenti. Sono storici e metastorici insieme. In
rapporto all’assoluto non c’è che un solo tempo: il presente. La vita di Cristo
sulla terra non è un passato.
Modello
fondativo-trascendentale (la rivelazione come evento presente del senso
definitivamente valido)
H. Verweyen (1936) - La Parola definitiva di Dio.
Tenta di
coniugare simmetricamente l’evento della rivelazione come punto iniziale della
TF e la sua capacità di rispondere e “corrispondere” ad una struttura
trascendentale costituita sul problema di un senso definitivamente valido.
1Pt 3,15 –
“rendere ragione della speranza” - la speranza poggia su un fondamento
razionalmente legittimabile di cui è possibile rendere ragione.
a) La
rivelazione richiede la previa chiarificazione del problema del senso come
della questione decisiva dell’esistenza umana.
b) TF deve legittimare la rivelazione davanti alla
ragione storica.
Il trattato ha tre parti (una sorta di
riproposizione della triplice demonstratio classica):
1.
l’accesso dell’uomo alla rivelazione di Dio a partire dal problema del senso,
assumendo la rivelazione come il senso definitivamente valido; il problema del
senso come “la” questione dell’esistenza (demonstratio
religiosa),
2. l’effettiva realizzazione del senso
nella storia (demonstratio christiana),
3. il carattere permanente dell’interpellanza
al senso (demonstratio catholica).
Il
carattere definitivo della rivelazione cristiana pone l’esigenza di un senso
definitivamente valido. La prospettiva trascendentale si definisce come ricerca
del concetto previo di senso in quanto costitutivo per l’esistenza.
Una
rivelazione può essere credibile solo se si pone come offerta insuperabile di
senso; si può introdurre la categoria della definitività solo se si accetta,
che il problema del senso è id quo nihil
maius cogitari nequit per l’esistenza dell’uomo.
Occorre
sul piano storico mostrare che è razionale credere che quella rivelazione sia
accaduta e continui ad essere presente.
Il punto di partenza della TF è la rivelazione
stessa (non un consenso filosofico o storico preesistente).
Il
fondamento ultimo (il messaggio centrale) è la traditio nel suo
significato neotestamentario; indica questi atti:
1. la consegna di un
uomo alla violenza da parte di un uomo,
2. la consegna del
proprio Figlio in favore di tutti noi da parte di Dio,
3. il dono di sé fatto
da Cristo per noi,
4. la tradizione nel
senso di tramandare, trasmettere.
La traditio si presenta come risposta alla
domanda dell’interlocutore qualunque sia il suo contesto di comprensione. Le
domande dell’altro possono essere risposte solo se esse diventano le mie (se io
mi spoglio di ogni idea di Dio a cui potevo appoggiarmi).
La traditio
esige l’intervento dell’ermeneutica (perché si legittima davanti alla ragione
storica) ma anche di una filosofia prima (il cui compito è la chiarificazione
del concetto di senso ultimo).
Verweyen
cerca di acquisire un concetto di senso definitivamente valido, di determinare
la possibilità di principio della realizzazione storica del concetto e delle
condizioni di validità del senso ultimo nonostante rifiuto dell’uomo verso ciò
che solo può dare senso.
Concetto
di senso
Fa ricorso
alla categoria dell’uno (Fichte): ogni cosa ci appare e la comprendiamo in
quanto dotata di una forma, cioè di unità. L’unità distingue una realtà da
un’altra, implica la differenza e non può essere affermata come pura
semplicità.
Malgrado
il bisogno elementare della ragione umana di porre una unità, essa non lo può
fare senza porre nello stesso tempo una controparte e, quindi senza una dualità
e una divisione.
A
differenza di altri esseri viventi, l’uomo non si limita a percepire
qualcos’altro, ma lo percepisce come altro. Questa percezione presuppone che
l’io si conosca come unità non condizionata da nient’altro.
L’”altro”
di cui ha bisogno e mediante il quale l’io nella sua attività indeducibile
diventa un io in atto, appare come qualcosa di estraneo all’io perché gli è del
tutto indifferente.
Il
concetto di immagine: Anselmo
utilizza il termine “immagine” per spiegare il rapporto fra il Padre e il
Figlio nella Trinità, rapporto di “unità nella differenza”; immagine che dice
da un lato la relazione ad altro (immagine di qualcosa o di qualcun altro) e
dall’altro la riproduzione imperfetta della sua controparte.
La
creazione è come immagine o come vera apparizione dell’essere assoluto la cui
connotazione essenziale è la libertà.
Anche
l’uomo deve liberamente attuare l’essere immagine.
Solo
attraverso un invito rivolto all’uomo a diventare immagine dell’assoluto si
potrebbe comprendere il vero concetto di dovere
morale incondizionato, cioè attraverso un invito proveniente dallo stesso
essere incondizionato.
La
minaccia dell’impossibilità di ciò che costituisce la realizzazione dell’uomo
verrebbe superata solo se fosse lo stesso assoluto ad incarnarsi di modo che la
libertà si troverebbe ad avere a che fare non solo con altre libertà in
cammino, ma con una libertà divenuta compiutamente immagine.
Solo se
nell’esperienza morale sarà possibile sperimentare qualcosa che interpella in
maniera incondizionata allora si potrà legittimare una rivelazione effettuata
una volta per tutte.
(Fichte:)
L’autocoscienza accade solo quando un altro soggetto, libero come me, mi
riconosce come un essere libero. Nel momento in cui pervengo all’autocoscienza
ho di fatto voluto rispondere all’invito dell’altro. Qui si trova il dovere
morale.
Una
rivelazione (anche se è storicamente lontana) deve essere percepita come una
realtà presente che mi interpella mediante il nesso interpersonale, che
rappresenta il luogo dell’esperienza morale, forma del senso definitivamente
valido.
La libertà
porta in sé anche la possibilità di porsi contro il diventare immagine.
La vera onnipotenza di Dio è la sua capacità di
attendere infinitamente il sì della libertà creata senza paura di perdere se
stesso.
I momenti
della traditio si manifestano nella
loro unità: (1) la violenza (2) compiuta nei confronti dell’inviato (3)
provoca, a motivo della sua accettazione senza riserve di questo doppio evento,
(4) la confessione dello strumento dell’odio, secondo la quale qui si è fatto
incontro il Figlio di Dio.
La
realizzazione del senso
Si tratta
ora di mostrare l’effettivo essere accaduto della rivelazione nella storia e il
suo continuare ad accadere nel presente mediante l’individuazione dei “segni”
che rendono riconoscibile l’intervento di Dio nella contingenza della storia.
Prima
ancora occorre affrontare il dilemma di Lessing: come una realtà storica può
realmente mediare e rendere presente Dio?
Nella nascita
dell’atto di fede sono implicati tre aspetti:
1. la
conoscenza della credibilità razionalmente fondata, 2. l’azione della grazia e
dello Spirito Santo, 3. l’atto libero di assenso.
Se la
certezza mediata alla ragione attraverso la percezione storica della
rivelazione non potrebbe mai essere una certezza incondizionata, ci troveremmo
di fronte a un mascherato fideismo => la fede non può restare nell’ambito
della probabilità.
Ma la
ricerca storica appare in questo inadeguata, perché i suoi criteri oggettivanti
non intendono il significato dell’atto.
L’amore
come abbandono senza riserve ad un altro può essere riconosciuto solo in un
atto in cui l’altro si lascia strappare in maniera altrettanto completa a se
stesso.
Senza la
disponibilità senza riserve, l’evento storico dell’appello alla libertà non può
più essere riconosciuto e giudicato.
La traditio come consegna incondizionata è
perciò la forma della rivelazione definitiva e della sua mediazione.
Anche NT è
un momento della traditio, perché
l’autore è raggiunto dall’esperienza della rivelazione. Perciò la pretesa della
ricerca storica di andare oltre la teologia dei testimoni neotestamentari non
ha senso in relazione all’evidenza incondizionata.
Verweyen
denuncia che la risurrezione è il principale atto rivelativo con questi
argomenti:
a) se Dio
ha posto solo dopo la morte di Gesù l’atto rivelatore decisivo per la fede
nella sua autocomunicazione definitivamente valida, allora il dono della vita
di Gesù è imperfetto perché subordinato a tale ulteriore azione di Dio,
b) la fede
nell’incarnazione del Verbo divino è messa in dubbio: se prima
l’autoidentificazione di Dio con Gesù non era ancora in linea di principio
pienamente conoscibile, allora tutta la storia della libertà di Gesù riveste
solo un valore posizionale provvisorio in ordine a quell’evento,
c) se le
apparizioni del Risorto costituiscono il fondamento decisivo della fede
pasquale, allora il problema della differenza fra discepoli di prima e di
seconda posto da Lessing rimane insolubile.
=> i discepoli
già nel momento della morte di Gesù possedevano un’evidenza sufficiente per
credere nella validità definitiva della sua rivelazione. La storia della sua
libertà come dedizione incondizionata che si compie sulla croce è il luogo
decisivo dell’automanifestazione divina.
La
proposta di Verweyen è speculativamente considerevole, ma soprattutto è da
rivelare il tentativo di unire evidenza oggettiva e percezione soggettiva
mostrando come al luce stessa dell’evento illumini di significato la struttura
trascendentale dell’uomo.
Modello
ermeneutico
Ermeneutica = interpretazione di un testo (la ricerca delle condizioni storiche in cui
il testo è sorto e che lo rendono intelligibile).
Nel
cristianesimo l’ermeneutica era considerata una scienza ausiliaria per una
corretta interpretazione dei testi biblici.
La “svolta
ermeneutica” avviene nella modernità soprattutto con la crisi della metafisica
e la scoperta della coscienza storica.
La crisi
della metafisica costituisce anche la crisi del pensiero che concepisce la
verità come corrispondenza fra il giudizio dell’intelligenza e la realtà.
Fides et ratio: l’ermeneutica è “scienza ausiliaria” utile per l’intelligenza della fede.
Denuncia la “cattiva infinità” – infinita interpretazione, senza approdo che
rinuncia a pensare stabilmente l’essere. Una filosofia ermeneutica, che è
aperta all’istanza metafisica, sarà di grande aiuto per la teologia.
Occorre
ribadire l’insostenibilità di una concezione solo ermeneutica della ragione
teologica.
C. Geffré: considera la cosa più importante la fine dell’identificazione della
ragione teologica con la ragione metafisica (la rottura epistemologica tra il
Dio biblico e il Dio dei filosofi).
Voleva una
teologia non-metafisica. Ma la rinuncia alla metafisica non significa la
rinuncia alla portata ontologica degli enunciati teologici. La teologia rimane
metafisica nel senso di “trasgressiva”, cioè capace di andare oltre i dati
immediati dell’esperienza per raggiungere la realtà dell’essere che si svela
nel linguaggio.
L’ermeneutica
valorizza anzitutto la dimensione storica del comprendere umano, per sua natura
mai definito e sempre ulteriore. Essa concepisce la conoscenza non più come
rappresentazione, ma come interpretazione.
La
teologia diventa un discorso che riflette sul linguaggio su Dio, sui testi che
parlano umanamente di Dio.
La
comprensione del mistero di Dio non è mai diretta. In teologia la
manifestazione della verità è una manifestazione in divenire.
La
rivelazione è sempre un’ermeneutica e dunque una tradizione.
La
rivelazione in quanto avvenimento della storia, non può essere separata dalla
sua ricezione da parte dell’uomo.
L’interpretazione
è un’esigenza della rivelazione stessa, perché non è comunicazione di verità
morte ma di una verità viva che deve essere continuamente riattulizzata.
La
teologia ermeneutica cerca di esporre il contenuto oggettivo della parola di
Dio, ma ha altrettanta cura nell’attualizzarne il senso per l’uomo di oggi.
Non c’è
trasmissione della fede senza reinterpretazione dell’evento Gesù Cristo. La
Rivelazione è un evento sempre attuale.
E. Biser: i limiti dei modelli tradizionali: 1. il carattere estrinseco della
giustificazione della fede, 2. la separazione fra ordine della salvezza e
ordine naturale, 3. impostazione fondamentalmente individualistica.
Il punto
di partenza per la giustificazione dell’atto di fede deve essere cercato nella
fede stessa; la fede deve essere giustificata ermeneuticamente come un “atto di
comprensione che si autosostiene”
La fede è definita come la conoscenza fondata sul
sapere altrui, assunta dai testimoni e raggiunta in dialogo con loro; dalla
conoscenza viene anche la certezza per il credente.
Si tratta
di una fede testimoniale che si dà in un contesto dialogico-personale. Essa
scaturisce dal tu interpellante di Dio attraverso la testimonianza.
La
certezza di fede proviene dalla connessione con il tu interpellante
nell’orizzonte della testimonianza accettata.
Esito:
progetto di Biser è interessante per la sottolineatura della fede come punto di
partenza, una fede compresa nell’orizzonte di una rivelazione concepita come un
dialogo che interpella.
Il
modello contestuale
Hans Waldenfels (1931) - Kontextuelle
Fundamentaltheologie
TF è chiamata
ad ascoltare i contesti (a interpretarli rispettandone la complessità).
Il punto
di partenza non sono contesti, ma la rivelazione come autocomunicazione
definitiva di Dio in Gesù per salvare l’umanità.
Al centro
della riflessione teologico-fondamentale si trova la fede in un unico Dio che
ha parlato. Ma TF non può prescindere dal suo contesto sociostorico sempre
mutevole.
TF deve
giustificare la fede di fronte a quelli che la rifiutano, non la condividono o
la contestano, e nello stesso tempo porre le fondamenta della teologia
cristiana (ovvero aiutare a dare forma alla fede sul piano del pensiero).
L’affermazione
pacifica della “rivendicazione cristiana” esige la sua giustificazione ed essa
non può avvenire se non in maniera razionale secondo una modalità al tempo
stesso apologetica e dialogica:
L’aspetto apologetico:
assumere le categorie nelle quali le contestazioni sono espresse.
L’aspetto dialogico:
rinnovare la capacità di comunicazione del cristianesimo nei confronti di tutti
i possibili gruppi umani.
Il
necessario riferimento al contesto rende di TF una disciplina sempre
provvisoria e mutevole. Non esiste TF perenne.
La
sottolineatura iniziale concerne il riferimento alla dialettica testo –
contesto. Ogni testo espresso e scritto si muove in un contesto dal quale non
si può prescindere se si vuole tradurre il testo.
“Testo” è
dal “tessuto”: in un testo sono molti elementi – colui che parla, l’intenzione,
il suo atteggiamento verso l’uditore, il suo pensiero... ogni testo è frutto di una molteplicità di
momenti degni di attenzione.
Ogni testo
si deriva da un contesto ed entra in un nuovo contesto.
Il punto
importante per TF contestuale è la comunicazione, perché deve stabilire il
ponte tra la fede cristiana e i contesti
umani.
TF come
apologetica si rivolge alle contestazioni non tanto per difendersi
bellicosamente. La vera apologetica non lavora in primo luogo con gli strumenti
della polemica, ma cerca di spiegare, di stabilire un clima di reciproca
comprensione.
Il
riferimento al contesto non implica mai
una sua assunzione acritica (occorre discernimento).
I contesti
da cui provengono le contestazioni della fede cristiana:
a) il pluralismo religioso, b)
l’ateismo, c) la divisione fra le chiese cristiane.
TF ha
bisogno di: 1. la filosofia (poiché contribuisce a porre la domanda circa il
senso della vita e ad abbozzare la risposta),
2. la scienza storica (poiché il cristianesimo
è legato alla storia),
3. le scienze sociali (poiché il cristianesimo
si costituisce come organo sociale).
Il teologo
fondamentale può essere paragonato a uno che sta sulla soglia di una casa – è
insieme dentro e fuori.
TF è una
scienza teologica che viene coltivata allo scopo di dimostrare che il
fondamento della fede cristiana e della sua teologia è un fondamento e un
principio salvifico e vivificante, allo scopo di renderlo plausibile e di farlo
diventare rilevante per i contemporanei. (TF non è un’introduzione alla
dogmatica ma è una dimensione di ogni disciplina teologica.)
Waldenfels
delinea tre parti centrali: Dio – Cristo - Chiesa.
Critiche:
Si deve partire da Cristo e non dal problema di Dio che appare successivo.
La sproporzione tra il
progetto enunciato e la concreta realizzazione dell’intenzione.
IL PROGETTO: VERSO UN MODELLO
FONDATIVO-CONTESTUALE IN PROSPETTIVA SACRAMENTALE
Premesse
contestuali
Dal modello ermeneutico al modello fondativo
contestuale
Durante il
Novecento il modello ermeneutico (che dominava la scena) ha mostrato anche i
suoi limiti e poi entra in sua crisi.
Tra i
guadagni dell’ermeneutica è il recupero
della tradizione e dell’autorità.
Tuttavia
l’ermeneutica contemporanea si è rivelata incapace di arginare l’invadenza
strutturalistica sia a causa del consistente influsso del pensiero analitico,
sia nei confronti dei modelli antropologici indotti dalle nuove forme di
razionalità scientifica.
Rompere
con la struttura infinitamente circolare dell’interpretazione è possibile solo
a condizione che si elabori un’ontologia dell’essere storico. E ciò è possibile
solo a condizione che si dia almeno un momento nella storia in cui rompe il
metastorico.
Nasce così
l’esigenza di ripensare la Rivelazione del Dio Unitrino in Cristo
nell’orizzonte “sacramentale” e inscrivere in questo orizzonte il momento
fondativo e quello contestuale. Il modello che si propone nasce da quello
ermeneutico, ma al tempo stesso lo supera, senza perderlo, ritenendo ormai
maturi i tempi per tentare di declinare la Rivelazione e la sua credibilità
(momento fondativo) in rapporto al contesto contemporaneo e alla cultura che in
esso si esprime (momento contestuale).
All’interno della “scuola lateranense”
La scuola tedesca: sottolinea la caratteristica di
scienza delle fondamenta che la disciplina certamente possiede.
La scuola gregoriana: impostata sulla tematica
della Rivelazione e della sua credibilità (R. Latourelle, R. Fisichella)
La scuola
lateranense: prospettiva dialogica della TF (con particolare riguardo verso il
fatto religioso e le sue manifestazioni) in rapporto alla rivelazione cristiana
e alla sua credibilità (V. Boublik, K. Skalicky)
La scuola milanese: il modello
fondativo-fenomenologico (Sequeri).
Lo
statuto scientifico della TF
TF può pensare il proprio statuto epistemologico a
partire da due punti che segnalano anche due convergenze:
1.
riguarda il carattere propriamente teologico di questo settore del sapere della
fede,
2.
riguarda il carattere non estensivo o pantologico dei contenuti della TF (tale
acquisizione ci consente di distinguere fra la fondamentale come dimensione di
tutta la teologia e TF come settore o regione del sapere teologico).
Su queste basi, possiamo allora tentare di
disegnare lo statuto epistemologico della teologia fondamentale, a partire da
tre istanze:
L’istanza
epistemologica
Alla TF
appartiene la riflessione intorno al sapere che dalla fede si sprigiona e al
suo strutturarsi in forma scientifica.
Tale
compito epistemico deve essere adeguatamente distinto in modo che vengano
trattate l’epistemologia generale (della teologia) e l’epistemologia speciale
(della TF).
All’ambedue
appartiene una trattazione del rapporto fede-ragione.
L’epistemologia
generale mette in luce la razionalità intrinseca della fede stessa.
L’epistemologia
speciale indaga il rapporto fra Rivelazione e ragione, alla luce della
dimensione storico-escatologica della Rivelazione stessa e della sua dimensione
cosmico-antropologica.
Quale
filosofia per la teologia?
1. La
teologia avrà a che fare con le filosofie chiamate ad esprimere lo spirito del
tempo e a porre e indagare le domande fondamentali che l’uomo porge a se
stesso, agli altri e a Dio.
2.
Risulterà utile l’elaborazione di una filosofia cristiana, la quale può usare
la teologia.
L’istanza
fondativa
È tipica
per TF quella forma del sapere teologico che ricerca le fondamenta o radici del
credere.
L’elemento
fondativo è dato dalla rivelazione del Dio Unitrino nella storia in rapporto
all’esperienza religiosa dei cristiani, degli ebrei, degli islamici, dei
buddisti ... e perfino degli agnostici e dei non credenti.
1) La
Rivelazione cristiana è una realtà viva e dinamica (non un concetto né una
categoria – non si lascia facilmente racchiudere in un sistema totalizzante).
Stimola lo sforzo speculativo.
2) TF
incrocia le altre discipline teologiche, in particolare l’antropologia, la
teologia trinitaria, la cristologia e l’ecclesiologia. Queste discipline si
usano nella TF nella misura in cui in essi si mostra la dimensione rivelativa
della salvezza e la credibilità della Rivelazione cristiana.
Importante
è una prospettiva agapico-trinitara, ma l’oggetto materiale centrale della
nostra riflessione resta la dinamica della Rivelazione, in rapporto alla fede,
alla ragione e alla/e religione/i.
a)
dell’antropologia in TF si tratta di:
- l’apertura dell’uomo
alla Rivelazione,
- la Rivelazione come
grazia e redenzione, e il rapporto verità/libertà,
- la fede in rapporto
alla dimensione conoscitiva, volitiva e affettiva dell’esistenza,
b) della
cristologia fondamentale:
- Gesù storico e il
duplice inizio della cristologia,
- l’evento fondatore e i
suoi segni,
- le modalità rivelative
del Regno (parabole, miracoli) proprie del NT,
- l’unicità e
universalità dell’evento Cristo (in rapporto alla teologia delle religioni e al
dialogo interreligioso),
c)
dell’ecclesiologia fondamentale:
- le radici
cristologiche ed apostoliche della Chiesa,
- la sacramentalità
della Chiesa e le sue funzioni,
- la Tradizione vivente
e il Magistero ecclesiale
- i diversi livelli e
forme di appartenenza,
- il suo rapporto con il
mondo.
3) Sul
piano epistemologico costruiamo una sorta di prisma attraverso una molteplicità
di approcci e di tematiche.
Questa
“integrazione dei saperi” non è stabilita attraverso una sorta di ancillarità
delle altre discipline rispetto alla teologia, bensì in un rapporto rispettoso
delle autonomie e al tempo stesso attento agli apporti specifici.
4) La
teologia della Rivelazione offre la chiave interpretativa in relazione al
fatto-fenomeno religioso e alle diverse religioni e al tempo stesso pone la
basi per un autentico dialogo interreligioso e interculturale.
5) La
riflessione sulla Rivelazione del Dio Unitrino consente di rilevare l’eccedenza
della stessa sulla Scrittura, in modo da recuperare e riesprimere la tematica
della tradizione vivente e della fede.
6)
L’orizzonte veritativo è quello della valenza culturale e filosofica della
Rivelazione cristiana.
7)
Nell’attuale contesto di disperazione epistemologica e di dispersione
antropologica un messaggio importante è: “La Rivelazione cristiana è la vera
stella di orientamento per l’uomo”. È l’ultima possibilità che è offerta da Dio
per ritrovare in pienezza il progetto originario di amore, iniziato con la
creazione.
8)
L’ontologia e la metafisica sono intese e sviluppate nel senso di un’ontologia
della dedizione, di un’ontologia trinitaria e di una metafisica della carità.
Questo
consente darle corpo anche in rapporto alle diverse esperienze religiose. La
parola di Dio non si indirizza ad un solo popolo o a una sola epoca. Gli
enunciati dogmatici (pur risentendo a volte della cultura del periodo in cui
sono definiti) formulano una verità stabile e definitiva. La verità non può mai
essere limitata al tempo e alla cultura.
9) La
ricerca si fonda su una concezione della verità tale da integrare
nell’orizzonte aletheiologico e rivelativo la dimensione adeguativa, attraverso
l’adozione di un sano realismo critico in rapporto ai risultati che i diversi
approcci scientifici e filosofici al fatto-fenomeno religioso offrono.
Si sviluppa la complessa
struttura evento (gesto)-parola in tutta la complessa pregnanza che questa
polarità esprime.
Coscienza storica e
istanza veritativa non potranno risultare contrapposte.
Fides et
ratio:
TF dovrà farsi carico di giustificare ed esplicitare la relazione tra fede e la
riflessione filosofica. Già il Concilio Vaticano I aveva richiamato
l’attenzione sul fatto che esistono verità conoscibili naturalmente
(filosoficamente). La loro conoscenza costituisce un presupposto necessario per
accogliere la Rivelazione di Dio.
TF dovrà
mostrare come, alla luce della conoscenza per fede, emergano alcune verità che
la ragione già coglie nel suo autonomo cammino di ricerca. A queste la Rivelazione
conferisce pienezza del senso. La mente è così condotta a riconoscere
l’esistenza di una via realmente propedeutica alla fede, che può sfociare
nell’accoglienza della Rivelazione.
TF dovrà
anche mostrare l’intima compatibilità tra la fede e la sua esigenza essenziale
di esplicitarsi mediante una ragione in grado di dare in piena libertà il
proprio assenso. La fede, pur non fondandosi sulla ragione, non può fare a meno
di essa.
L’istanza
contestuale
TF nel
momento in cui accoglie l’istanza contestuale è impegnata a mediare (in maniera
scientifica) il logos cristiano in
seno ad altri ambienti dotati di verità e di valori, e questo al fine di
affermare la singolarità e insieme l’universalità del cristianesimo.
TF media
la verità cristiana verso l’esterno, cioè verso i diversi contesti culturali
della storia. Per questo è disciplina di frontiera.
La
filosofia è l’interlocutore privilegiato della TF perché in essa si manifesta
quanto un tempo storico considera come razionale.
TF
istruisce “auditus temporis” poiché è
chiamata a riflettere sui rapporti della teologia con le altre forme del sapere
e a porsi in ascolto delle risultanze provenienti dagli altri mondi epistemici.
L’auditus temporis e il dialogo con i
contesti escludono l’idea di una neutralità del teologo e della teologia di
fronte ai contesti stessi.
Importante
è un’attenta lettura-interpretazione della postmodernità.
Secondo
alcune correnti, richiamatesi alla postmodernità, il tempo delle certezze
sarebbe irreparabilmente passato, l’uomo dovrebbe imparare a vivere in un
orizzonte di totale assenza di senso.
In
rapporto al postmoderno, la cultura cattolica sembra coltivare un
atteggiamento, che si manifesta: 1. come differenza nei confronti della
rassegnazione alla debolezza del pensiero, 2. come difesa dalla tentazione
gnostica, 3. come tendenza all’oltrepassamento del nichilismo, 4. come custodia
gelosa dei misteri speculativi e della metafisica.
Se nella
contrapposizione agli esiti razionalistici della modernità la Chiesa e la
teologia dovevano difendere il senso del mistero e del soprannaturale, ora
nella postmodernità devono difendere la ragione e le sue possibilità in ordine
alla conoscenza del Vero.
Il
metodo della teologia fondamentale
L’auditus
fidei in TF
Il momento positivo dell’auditus fidei è per la TF necessario.
Si tratta
innanzitutto del rapporto dei contenuti propri del momento fondativo e in
particolare della tematica della Rivelazione, con le attestazioni della
Scrittura e della Tradizione.
TF deve
raccogliere le indicazioni bibliche, patristiche, tradizionali, magisteriali
intorno alle tematiche del rapporto Rivelazione/Scrittura e
Rivelazione/Tradizione.
1. La
Scrittura: fra l’automanifestazione di Dio e le Sacre Scritture non si dà una
relazione di totale equivalenza e corrispondenza, perché Rivelazione designa
l’insieme degli eventi e delle parole attraverso cui Dio si manifesta, che
vengono come a cristallizzarsi in quel luogo privilegiato - nelle SaS.
Le
Scritture non sono la Rivelazione bensì attestano i realizzarsi dell’autocomunicazione
di Dio.
I libri
della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che
Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Scritture (DV11).
La
consapevolezza della eccedenza della Rivelazione in rapporto al testo ispirato
è espressa anche nella stessa Scrittura (Gv: “..molti altri segni fece
Gesù...”).
2. La
Tradizione: l’eccedenza della Rivelazione rispetto alla SaS rimanda alla
necessità di pensare il fecondo rapporto fra Rivelazione e Tradizione, poiché
prima che in un testo scritto, la manifestazione di Dio in Gesù è consegnata in
una tradizione.
Il circolo
che si instaura tra Rivelazione, Scrittura e Tradizione consente a distinguere
una fase costitutiva e una fase interpretativa della Rivelazione (senza
separare questi momenti).
La fase
costitutiva della Rivelazione culmina nell’evento fondatore (Pentecoste
compresa), con la centrale e definitiva manifestazione di Dio in Gesù.
In TF sarà
opportuno riservare il termine Rivelazione appunto alla fase costitutiva della
stessa.
La
Rivelazione cristologica stabilisce il criterio di autenticità di ulteriori
eventuali manifestazioni del divino, i quali non possono aggiungere nulla
all’essenza del messaggio e alla fede che esso richiede.
Non è da
aspettarsi alcun’altra Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa
del Signore nostro Gesù Cristo (DV4).
3. Il
Magistero: l’ufficio d’interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o
trasmessa, è affidato al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è
esercitata nel nome di Gesù Cristo. Magistero non è superiore alla parola di
Dio, ma la serve (DV10).
La
Tradizione, la Scrittura e il Magistero della Chiesa sono tra loro talmente
connessi e congiunti che nessuna sussiste senza le altre, e tutte insieme
contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime.
L’auditus
temporis in TF
L’auditus
temporis - la capacità di leggere e interpretare il proprio tempo in
modo da mostrare in relazione ad esso la credibilità della Rivelazione.
In questo
può usare l’ausilio di altre discipline (le scienze umane, ma in particolare la
filosofia).
La
filosofia, così come è esercitata da un teologo, diventa profezia sulla
Rivelazione, diventa l’“antico testamento” della teologia.
L’istanza
filosofica privilegiamo perché alla filosofia è riconosciuto il compito di
comprendere il proprio tempo col pensiero e quindi di aiutarci a leggere
(decifrare) la nostra epoca e le sue contraddizioni ad un livello diverso dalle
scienze umane.
TF si pone
dinanzi ai contesti con una specifica intenzionalità teologica e dialogica
secondo un duplice atteggiamento di:
a)
vicinanza simpatetica (capacità di leggere i segni dei tempi, di riconoscere la
presenza e l’azione dello Spirito nella storia),
b)
distanza critico-profetica (non compiere un’analisi fenomenologica rinunciando
alla propria identità, ma operare una lettura ermeneuticamente situata, dove la
precompressione teologica consente una feconda lettura e interpretazione del
dato umano).
L’intellectus
Revelationis in TF
L’intellectus fidei - si tratta
del momento speculativo della riflessione.
La Rivelazione non è soltanto una tematica, ma è una vera e propria
prospettiva capace di informare il pensiero e orientarlo.
Il nesso inseparabile tra la persona e verità è stato tematizzato dal
pensiero contemporaneo:
L. Pareyson: Quando la libertà cessa di reggere il vincolo
originario di libertà e persona, la verità dilegua (lasciando il pensiero
vuoto), e scompare anche la persona, ridotta a mera situazione storica.
L’armonia fra dire, rivelare ed esprimere si rompe.
Senza verità, l’aspetto rivelativo della parola è puramente apparente e si
riduce a una razionalità vuota e priva di contenuto. Non più riferita alla
persona nella sua apertura rivelativa, ma alla situazione nella sua mera
temporalità, l’espressione diventa inconsapevole e occulta.
La conquista di un nuovo concetto di verità come manifestazione richiede il
riconoscimento della vera dipendenza dell’uomo che non è sinonimo di
eteronomia.
Interessante è anche il tema del rapporto linguaggio/parola/evento, che si
lasci profondamente interpellare dalla teologia biblica di dabar e logos. Il primo
scopo del linguaggio fu di rendere a pieno intelligibile l’universo sensibile;
il secondo fu, che egli fosse un mezzo per il quale l’uomo trapassasse oltre i
confini del sensibile universo.
Con ruolo di cerniera tra il momento dell’auditus e quello dell’intellectus
fidei si pone la figura della ragione storica, come determinante per il
sapere teologico (nella misura in cui assume il carattere di un’ermeneutica
della testimonianza).
Un’ermeneutica senza testimonianza è condannata alla regressione, in una
prospettiva senza inizio, né fine.
Appartiene al momento speculativo della TF il tentativo di declinare la
credibilità della Rivelazione in rapporto al contesto culturale, sociale, religioso,
filosofico, in modo che si rispecchi nel sapere della fede quella
“contemporaneità” di Cristo con l’uomo e dell’uomo con cristo che genera l’atto
di fede salvifica.
La Chiesa nelle parole del “Mysterium
fidei” rivela anche il suo proprio mistero: Ecclesia de Eucharistia. Un momento decisivo della formazione di
Chiesa è certamente l’istituzione dell’Eucaristia nel Cenacolo.
TEOLOGIA DELLA RIVELAZIONE ED
ELEMENTI DI CRISTOLOGIA FONDAMENTALE
La
teologia cristiana nasce perché Dio ha parlato e si è manifestato nella storia.
La
rivelazione è l’oggetto formale (la prospettiva di fondo) di ogni pensare e
dire propriamente teologico.
Nella TF
la rivelazione diviene anche oggetto materiale (il contenuto e argomento
principale).
La traditio e la fides trovano il loro senso teologico più profondo proprio nella revelatio.
Una questione preliminare
C’è
davvero bisogno di una trattazione sistematica e formalizzata del nostro
tema? Non è più opportuno che la
teologia ritorni alla sua fase premoderna e quindi rinunci a un trattato
dedicato alla divina rivelazione?
Abbiamo
proprio bisogno di un “concetto fondamentale”?
Nella Dei Filius (del CV1) si realizza un
cambiamento semantico significativo: il termine tridentino Evangelium è sostituito con quello appunto moderno di Rivelatio supernaturalis.
Nell’antichità
patristica e nel medioevo il termine revelatio
indica l‘ispirazione o l’illuminazione interiore e non l’oggetto
linguisticamente formulato della fede.
Riguardo all’assunzione di tale concetto in primo
luogo si tratta di prendere atto:
a) del
fatto che la questione sembra nascere nella genesi e appropriazione
controversista del termine nella suddetta accezione,
b)
dell’uso di una connotazione concettuale e categoriale del termine stesso,
c) nella
legittima convinzione che il parlare e l’agire di Dio nella storia non siano
circoscrivibili attraverso un concetto o una categoria, ma esprimibili in una
pluralità di metafore, simboli, anche concetti.
In secondo
luogo va notato che lo sviluppo successivo della teologia della rivelazione ha
ampiamente superato un’accezione meramente concettuale o categoriale del
termine rivelazione, sottolineandone appunto la dimensione dinamica, dialogica
e storica.
Si tratta
di accertare se l’ampliamento semantico del termine rivelazione non costituisca
un punto di non ritorno per il cammino della teologia nella storia e se sia
lecito cancellare alcuni secoli di storia del pensiero teologico.
La
teologia se vuole conservare il proprio statuto scientifico non può prescindere
da una certa formalizzazione concettuale.
Si tratta
allora di pensare il fondamento con la piena consapevolezza che esso consiste
nell’amore trinitario di Dio rivelato in Cristo e accolto nello Spirito, senza
nulla perdere di tutto il dinamismo storico salvifico di tale donazione.
Ma anche
si tratta di mostrare la valenza speculativa del fondamento stesso e quindi di
rifiutarne l’intera ragionevolezza in rapporto alla sua valenza metafisica
(cioè fondativo-ontologica, gnoseologico-epistemologica e etico-antropologica).
Alla
domanda iniziale (se abbiamo bisogno di un “concetto fondamentale”) possiamo
rispondere che abbiamo bisogno di pensare il fondamento in termini rivelativi.
(E speriamo che a nessuno venga in mente di confondere i nostri tentativi col
mistero di Dio.)
Le tappe del nostro cammino:
1.
cercheremo di evidenziare alcuni luoghi paradigmatici in cui si esprime una
sorta di praeparatio Revelationis,
assumendo come orizzonte il pensiero, la cultura e la religiosità dei greci,
2.
esporremo la tematica della rivelazione in rapporto e nella
Scrittura/Tradizione; in questo momento sarà dato ampio spazio all’auditus fidei (ad esso tuttavia non sarà estraneo l’intellectus fidei),
3. la
dimensione speculativa nel rapporto alle fonti del teologare e nel riferimento
ai maestri del pensiero teologico e filosofico.
Praeparatio Revelationis?
L’avvento
della Parola di Dio nella storia si presenti con la caratteristica fondamentale
dell’irrompere imprevisto e gratuito di qualcosa di radicalmente nuovo.
Tuttavia essa cade in un terreno del cammino dell’uomo di ricerca del Bene,
Vero, Bello e Uno.
Il ruolo
paradigmatico ha il rapporto che il messaggio cristiano ha con il logos greco e con la “cultura
occidentale”.
Ma dal
nesso fra rivelazione cristiana e sue espressioni privilegiate nei termini del
pensiero greco e delle categorie culturali dell’Occidente non si può derivare
l’identificazione fra questi.
La fede
resta sempre qualcosa d’altro rispetto alla cultura e anche rispetto alle
proprie espressioni culturali.
Ma la
Parola di Dio non si dà mai allo stato puro e senza alcuna inculturazione.
Presentiamo
adesso tre forme di preparazione della rivelazione presenti nella cultura,
nella religiosità e nella filosofia greca:
Conosci
te stesso!
Fides et ratio: Sia in Oriente che in
Occidente è possibile ravvisare un cammino che ha portato l’umanità a
incontrarsi progressivamente con la verità e a confrontarsi con essa. È un
cammino che s’è svolto entro l’orizzonte dell’autocoscienza personale: più
l’uomo conosce se stesso, diventa sempre più impellente la domanda sul senso
delle cose e della sua esistenza.
Il monito
“Conosci te stesso” era scolpito sull’architrave dell’ingresso del tempio di
Delfi a testimonianza di una verità basilare che deve essere assunta come
regola minima da ogni uomo desideroso di qualificandosi come uomo.
In tutte
le culture troviamo le domande di fondo che caratterizzano il percorso
dell’esistenza umana: chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza
del male? cosa ci sarà dopo questa vita?
Queste
domande sono presenti negli scritti di Israele, in Veda, Avesta, Confucio,
Euripide, Platone e Aristotele, Omero…
La Chiesa
deve partecipare allo sforzo comune che l’umanità compie per raggiungere la
verità.
Ogni
verità raggiunta è sempre solo una tappa verso quella piena verità che si
manifesterà nella rivelazione ultima di Dio.
Alcune
sottolineature:
1. al
testo delfico si potrebbe affiancarsi la formula cristiana dell’homo capax Dei; il nostro richiamo alla
formula delfica ha il senso di mostrare i segni di una sorta di praeparatio Rivelationis nella cultura,
nella filosofia e nella religiosità extra e precristiane; ma tali forme non
determinano né l’avvento della Parola, nei suoi contenuti (si tratta di
argomenti di convenienza),
2. il
motto delfico si coniuga con l’interrogativo concernente anche il tema del male
(teodicea)
3. il
motto delfico ha il suo senso prima che filosofico, profondamente religioso:
Apollo invitava l’uomo a riconoscere la propria limitatezza e finitezza e
quindi esortava a mettersi in rapporto col dio; il motto quindi significava
soprattutto: “uomo, ricordati che sei un mortale e che, come tale, tu avvicini
al dio immortale!”
Platone per preparare il
Cristianesimo?
Alcuni
ritenevano che già Platone avesse la fede nella risurrezione, perché c’è
allusione dell’immortalità dell’anima.
Uno di
luoghi, in cui si può intravedere una sorta di carattere di avvento rispetto
alla Parole di Dio, è il Fedone:
“Avere in questa nostra
vita un’idea sicura, sia o impossibile o molto difficile ... il più sicuro è
affidarsi a una divina rivelazione (logos
Theiou).”
L’auspicio
della rivelazione non predetermina in alcun modo quello che sarà il contenuto
centrale (di questa rivelazione).
Nel Timeo si
parla del tema del Padre (creatore) dell’universo:
“È difficile trovare il
fattore e padre di quest’universo, e , trovatolo, è impossibile indicarlo a
tutti.”
Qui il
tema è quello dell’origine dell’universo: dove si intravede una figura paterna,
chiamata fattore (non creatore).
Altri luoghi significativi di Platone (riguardanti
paternità divina):
“L’uomo è
una pianta non terrena, ma celeste, che l’anima solleva verso la sua parentela
verso il cielo.” (Timeo)
“Una
certa parentela spinge l’uomo verso il suo connaturale (cioè Dio) e lo porta ad
onorarlo e a credere il lui.” (Leggi)
Ulteriori testimonianze che esprimono una certa
attesa della rivelazione:
“Zeus padre degli uomini
e degli dei.” (Iliade)
“Dal tuo sangue siamo
nati.” (Eschilo: I sette contro
Tebe)
“... tutti noi abbiamo
bisogno di Zeus. Di lui infatti siamo progenie.” (Arato: Fenomeni)
Sia la
poesia che il pensiero platonico intravedono quindi qualcosa del destino
dell’uomo dopo la morte e delle origini del mondo e dell’uomo; da tutti si
auspica l’avvento della Parola di Dio.
Né
possiamo dimenticare che sarà il pensiero platonico (anche tramite il medioplatonismo
e il neoplatonismo) a conferire alla fede cristiana la possibilità di
configurarsi come sapere riflesso nelle grandi figure dei Padri.
Metafisica
e rivelazione
La speculazione metafisica (di Platone e Aristotele) costituirò punti di
riferimento necessari per l’itinerario successivo della ragione nella sua
ricerca del Vero.
Uno di vertici speculativi può essere individuato nella metafisica
aristotelica e nella sua concezione dell’Assoluto e di Dio:
Questa riflessione si cristallizza nel libro Metafisica dove si parla del primo motore o
motore immoto.
“Da un
tale Principio dunque dipendono il cielo e la natura. Ed il suo modo di vivere
è il più eccellente, quale noi abbiamo solo per breve tempo. Egli è sempre. ...
Il pensiero che è pensiero di per sé. L’intelligenza pensa se stessa. ...
L’attività contemplativa è ciò che c’è di più piacevole e di più eccellente. In
questa felice condizione nella quale noi ci troviamo talvolta, Dio si trova
perennemente ... Ed Egli è anche vita, perché l’attività dell’intelligenza è
vita, ed Egli è appunto quell’attività. E la sua attività, che sussiste di per
sé, è vita ottima ed eterna. Diciamo che Dio è vivente, eterno e ottimo.”[1]
La metafisica aristotelica risulta
pluridimensionale e consente l’individuazione di quattro dimensioni costitutive
di tale sapere:
1.
aitiologica (la causa): metafisica come scienza o conoscenza delle cause e dei
principi primi e supremi.
2.
ontologica (l’essere): metafisica come scienza dell’essere in quanto essere e
di ciò che all’essere in quanto tale compete.
3.
ousiologica (la sostanza): è una teoria della sostanza, dove il concetto di
sostanza starebbe a fondamento di tutti gli altri sensi attraverso cui l’essere
si esprime.
4.
teologica (Dio): essa è la scienza più divina e la più degna di onore; una
scienza può essere divina solo in questi due sensi:
a) perché è scienza che
Dio possiede in grado supremo,
b) perché ha come
oggetto le cose divine.
Ma solo la
sapienza (cioè la metafisica) possiede ambedue questi caratteri. (Tutte le
scienze saranno più necessarie di questa, ma nessuna sarà superiore.)
L’essere
si nomina in diversi modi, ma sempre in riferimento all’unità e così il pensiero
metafisico risulta strutturalmente unitario.
Il senso
più profondo della metafisica aristotelica
resta consegnato alla componente teologica.
Il Dio
aristotelico è oggetto d’amore, egli è amato ma non amante, poiché l’amante è
solo il cosmo. Dunque, il Dio non ama (o ama solo se medesimo). Gli individui
non sono oggetto dell’amore divino.
È perché
l’Assoluto di Aristotele non ha creato il mondo, l’uomo e le singole anime.
Areopago
culturale e filosofico
Fides et ratio: “Secondo la
testimonianza degli Atti degli Apostoli, l’annuncio cristiano venne a confronto
sin dagli inizi con le correnti filosofiche del tempo. ... I primi cristiani
non potevano nei discorsi con “certi filosofi epicurei e stoici” rinviare
soltanto a Mosè a ai profeti; dovevano anche far leva sulla conoscenza naturale
di Dio e sulla voce della coscienza morale di ogni uomo. Poiché però tale
conoscenza naturale, nella religione pagana, era scaduta in idolatria, Paolo
ritenne più saggio collegare il suo discorso al pensiero dei filosofi.”
Att 17, 15-34 – il discorso di Paolo
all’Areopago:
Paolo pone
la sinagoga al centro della sua attività missionaria. Frequenta anche l’agorà, mentre l’areopago era fuori dalle
sue intenzioni (in quanto rivestiva un ruolo di particolare importanza).
Nel testo
vediamo chiari sintomi della crisi del paganesimo greco come religione
istituzionale: presenza di pagani “timorati di Dio” nella sinagoga; curiosità e
interesse degli ateniesi verso le religioni misterico-orientalizzanti e verso
nuove divinità.
Paolo inizia il discorso con un’apostrofe da
retore (captatio benevolentiae),
parla degli ateniesi come “timorati degli dèi”.
Offre tre affermazioni fondamentali:
1. l’inopportunità delle
immagini e la condanna dell’idolatria con l’esigenza di salvaguardare la trascendenza
di Dio (v. 29),
2. Dio non abita in
templi fatti dall’uomo né ha bisogno di un particolare culto o sacrificio (vv.
24-25),
3. l’uomo come unica e
vera immagine di Dio (vv. 26-28).
La valenza teologico fondamentale della pericope
può essere colta a partire dalle seguenti considerazioni:
a) la praeparatio Revelationis incrocia qui la
praeparatio Evangelii; prima
dell’annuncio, si proclama la fede nell’esistenza dell’Unico Dio che ha fatto
il mondo (v. 24),
b) la
conoscenza di questo Dio è possibile all’uomo, se questi sa guardare dentro di
sé (v. 27),
c)
l’elemento discriminante è l’annuncio della risurrezione di Cristo e dei morti,
d) Paolo
enuncia la speranza cristiana mostrandone la continuità con la domanda di senso
se di verità propria dell’uomo,
e)
esplicita la speranza con particolare attenzione alle istanze che il contesto
della città offre.
Modalità del rapporto fra la rivelazione e la
cultura pagana:
1. Giustino e la sua dottrina dello spermatikos
logos (seme del Verbo): “tutto ciò che di buono i filosofi e i
legislatori hanno sempre scoperto e formulato, è dovuto all’esercizio di una
parte del Logos che è in loro tramite
la ricerca e la riflessione. Però, dato che non hanno conosciuto la pienezza
del Logos, che è Cristo, spesso hanno
sostenuto teorie che si contraddicevano.”
2. Ratzinger - metafora del sicomoro usata nel Amos 7: i (moltissimi) frutti di questa pianta
non hanno alcun sapore, se non li si incide accuratamente prima del raccolto.
Noi riteniamo il sicomoro un simbolo per pagani: esso forma una gran quantità,
ma è allo stesso tempo insipido. Quando si riesce a inciderla con il Logos,
si trasforma, diventa gustosa e utilizzabile. Il rapporto
cristianesimo-paganesimo risulta paradigmatico per quanto concerne
l’inculturazione della fede e l’evangelizzazione della cultura come compito di
ogni generazione cristiana.
3. Filone, Origene,
Agostino - metafora delle “spoglie degli
egiziani”: gli Egiziani avevano non solo gli idoli, ma anche vasi e ornamenti
d’oro che quel popolo, uscendo dall’Egitto, rivendicò per sé, per farne uso
migliore; e questo ha fatto per volere di Dio. L’utilizzo di questo patrimonio
(di filosofi) richiede tuttavia un adeguato discernimento per potersi
correttamente situare a servizio del Vangelo.
Conclusione:
L’uomo non può staccarsi da Dio, perché Dio non glielo consente. Anche i pagani
possono essere ridotti ad alcuni motivi religiosi principali.
La teologia della Rivelazione come momento fondativo del sapere della fede
Il fondamento dei dogmi si presenta come una
realtà viva e dinamica, che non si lascia facilmente racchiudere in una
formula.
Questo ha due conseguenze:
a)
l’approfondimento a livello intellettuale della rivelazione appartiene al
sapere teologico di TF,
b) gli
altri settori della teologia (e in particolare la teologia dogmatica) non
potranno esimersi dal coltivare una dimensione fondamentale (i singoli momenti
della riflessione non potranno prescindere dall’orizzonte rivelativo).
Tommaso: Il nostro credere riguarda la realtà di
ciò che le formule esprimono, non gli enunciati stessi.
La
riflessione teologica intorno alla rivelazione non è originaria, bensì risale
all’epoca moderna (sebbene riguardi qualcosa di originario e di
imprescindibile).
Tale
riflessione ha il carattere profondamente “apologetico” (assumendo un
atteggiamento necessariamente dialogico).
1Pt 3, 15-16: “Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza
che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto...”
Un’apologetica
trova le proprie radici nell’apologia, vissuta spesso nella forma della martyria del cristianesimo delle
origini.
La
tematica moderna e contemporanea della rivelazione rimanda a quella della
Parola di Dio nelle sue tre accezioni fondamentali:
a) Parola
di Dio come le sacre Scritture,
b) Parola
di Dio come comunicarsi di Dio all’uomo cristianamente intesa,
c) Parola
di Dio come la realtà della rivelazione stessa in tutta la sua pregnanza
(l’esperienza di fede ebraico-cristiana).
Rivelazione e Scrittura – rivelazione nella Scrittura
Fra
l’agire e il parlare di Dio nella storia e nelle sacre Scritture non si dà
originariamente una relazione di totale equivalenza e corrispondenza, in quanto
il termine rivelazione designa l’insieme degli eventi e delle parole attraverso
cui Dio si manifesta.
Le sacre
Scritture non sono la rivelazione, né si può ragionevolmente ritenere che
contengano in tutta la sua ricchezza l’agire-parlare di Dio, bensì attestano il
realizzarsi di tale comunicazione e ce ne offrono testimonianza per la nostra salvezza.
DV11: “I
libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità
che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle Sacre Scritture. “
Si parla
di “ispirazione” che è il termine, che si
esplicitamente riferisce allo Spirito, indica un particolare intervento divino
che spinge l’uomo a parlare (profezia), agire (storia), scrivere (scrittura) in
favore della comunità.
Il testo
ispirato è la parola dell’uomo e parola di Dio; non è consentito attribuirlo
solo all'autore umano o a quello divino.
Non si può
considerare l’autore umano meramente come strumento nelle mani dell’Autore
divino, in quanto questi ne rispetta profondamente la cultura, la mentalità, la
libertà, il linguaggio.
L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993): dobbiamo distinguere fra approccio e
metodo:
metodo (esegetico) = un
insieme di procedimenti scientifici messi in opera per spiegare i testi,
approccio = una ricerca
orientata secondo un punto di vista particolare.
Il metodo storico-critico è il metodo
necessario per lo studio scientifico del significato della SaS. Poiché è
composta da autori umani in tutte le sue parti, la sua giusta comprensione
richiede l’utilizzazione di questo metodo.
I principi fondamentali del metodo
storico-critico:
a) come
metodo storico cerca di chiarire i processi storici di produzione dei testi
biblici; i testi della Bibbia si rivolgevano a diverse categorie di ascoltatori
o di lettori, che si trovano in situazioni spazio-temporali differenti,
b) come
metodo critico opera con l’aiuto di criteri scientifici il più possibile
obiettivi in ciascuna delle sue tappe,
c) come
metodo analitico studia il testo biblico allo stesso modo di qualsiasi altro
testo dell’antichità e lo commenta in quanto linguaggio umano per meglio
comprendere il contenuto della rivelazione divina.
Non si escludono gli altri metodi né i diversi approcci ai testi, però
fondamentale resta metodo critico-storico.
A. Rosmini – Delle cinque piaghe della santa Chiesa:
parla di necessità di riprendere la Bibbia. “Nella Scrittura l’uomo trova una
risposta precisa, sicura e evidente a tutte le grandi interrogazioni che ha
sempre a fare a se stesso ... Parla in
tutti modi: ora narra, ora ammaestra, ora sentenzia, ora canta ... la dottrina
vi è così semplice, che l’idiota la crede fatta a posta per sé. “
L’eccedere della dinamica della rivelazione in rapporto al testo ispirato e
espressa e attestata all’interno della stessa Scrittura.
Eb 1,1-2: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte
volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi
giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio ... per mezzo del quale ha fatto
anche il mondo.”
Qui troviamo attestate le due dimensioni
fondamentali dell’automanifestazione di Dio in Cristo (la prima include
seconda):
1) la dimensione
storico-escatologica (“in questi tempi che sono gli ultimi”),
2) la dimensione
cosmico-antropologica (“per mezzo del quale ha fatto anche il mondo”).
Tale disposizione inclusiva risulta propria sia
dell’AT che del NT;
a) AT: Israele sperimenta innanzitutto la presenza salvifica e liberatrice
di JHWH e solo in un secondo momento attribuisce al Dio che l’ha salvato la
creazione del cosmo,
b) NT: la comunità credente incontra e attesta il mistero della passione-morte-risurrezione
del Cristo, per riconoscerlo in un secondo momento come elemento costitutivo
dell’attività creatrice di Dio.
A ciascuno
di noi Dio si è fatto incontro e solo in un secondo momento ci si apre alla
riflessione intorno alla sua esistenza e al suo carattere fondativo rispetto al
cosmo e all’uomo.
La
storia della salvezza
Il
dinamismo dell’agire-parlare di Dio risulta orientato e centrato sul Verbo
fatto carne, centro e fine della storia. In questa prospettiva cristocentrica
la storia della salvezza è quindi interpretata come un cammino di precisa
direzione.
Usualmente
si contrappone la concezione ebraico-cristiana del tempo (lineare) a quella
antico-pagana (ciclico).
Una più
giusta rappresentazione della historia
salutis sarebbe la figura della spirale,
dove si dà una direzione, ma non si esclude anche una sorta di circolarità e
dove ogni momento successivo include e supera quelli precedenti (p.e. l’esodo è
una nuova creazione, la pasqua di Cristo è un nuovo esodo, la fine dei tempi è
una nuova creazione...).
O.
Cullmann: Per il cristianesimo primitivo, come pure per il giudaismo biblico e
per la religione iraniana, l’espressione simbolica del tempo è la linea mentre
per l’ellenismo è il circolo.
La
rappresentazione della spirale costituisce un ulteriore approfondimento di
quella lineare. Nel caso di linea ci sono la creazione ed escatologia due
termini estremi. Nel caso di una spirale si rivela in modo migliore la
concatenazione degli archetipi salvifici. Ogni atto salvifico di Dio nella
storia è attratto da un centro di gravità, da una zona d’influenza costante che
è la creazione. L’esodo è una ri-creazione ed è, successivamente, un nuovo
esodo.
Quanto al
dato cristocentrico, l’itinerario si può pensare come una clessidra posta in orizzontale (p. 37), laddove nel periodo che
precede l’incarnazione del Verbo vige la legge della concentrazione dai molti
all’unico, dall’umanità a Israele (elezione), mentre il tempo che segue la
venuta di Cristo risulta orientato dalla legge della universalizzazione: da
Cristo agli apostoli, alla comunità credente a tutti gli uomini (missione).[2]
La
rivelazione ha la struttura dell’evento-parola nel suo accadere nello
spazio-tempo mondano. Quindi la storia è l’orrizzonte costitutivo fondamentale
della rivelazione.
L’irruzione
di Dio nella storia include una particolare concezione del tempo.
Le
espressioni bibliche del tempo (in rapporto al linguaggio e all’analoga
terminologia greca):
1) aiòn,
aiònes:
questo termine serve a designare sia uno spazio di tempo esattamente
circoscritto che una durata illimitata e incalcolabile, che noi traduciamo con
eternità; capita così che la stessa espressione che si riferisce all’aiòn presente considerato “cattivo”, è
poi usata come attributo di Dio “Re degli aiònes”;
questi termini non dicono tanto eternità, quanto piuttosto una dimensione
temporale, connessa con l’esistenza umana, ma che lo trascende,
2) chronos:
nella filosofia greca serve questo termine a indicare il tempo in sé; nel NT si
trova in concreto rapporto con la storia della salvezza ed ha un significato
quasi analogo a kairos o ad aiòn; altrove esso significa tempo
determinato,
3) kairos: usato nel NT come il tempo pregnante
e occasione propizia di essere raggiunti da Dio che salva.
Gal 4, 4 Paolo parla della
“pienezza del tempo”: “... Quando venne
la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio...”
Questa
frase occorre di interpretare in senso inverso: “Quando Dio mandò Figlio suo,
venne la pienezza del tempo.” Non il
tempo fece sì che il Figlio venisse inviato, ma al contrario è l’invio del
Figlio che fece la pienezza del tempo.
Paradossalità
del realizzarsi dell’eschaton nella
storia: Paolo afferma la realizzazione dell’eschaton
nel tempo. Questo contrasta sia con la mentalità greca (che non conosce un
vero eschaton temporale), sia con la
fede giudaica (per la quale l’eschaton pone necessariamente
fine alla storia).
Interpretazioni
teologiche della rivelazione come storia
W. Pannenberg: “La rivelazione non ha luogo all’inizio, ma alla fine della storia
rivelatrice.”
“La rivelazione
universale della divinità di Dio non è ancora realizzata nella storia
d’Israele, ma soltanto nella sorte di Gesù.”
K. Rahner: la dimensione antropologica della storicità - il carattere divino (e
quindi metastorico) della Parola di Dio non deve far pensare a una sua
espressione in termini avulsi dalla storia umana.
La
rivelazione dev’essere attesa come un evento fissato nello spazio e nel tempo
di tutto complesso della storia umana.
L’uomo è
l’ente che nella sua storia deve tendere l’orecchio a un’eventuale rivelazione
storica di Dio attraverso la parola umana.
La
determinazione storica della rivelazione viene a trovare la sua ragione più
profonda nella storicità costitutiva dell’essere umano. La figura dell’”esistenziale
soprannaturale” costituirà la modalità rahneriana di esprimere il paradosso del
nesso eschaton-storia.
H.U. von Balthasar: insiste sulla storia stessa che dopo la rivelazione cristiana proviene da
Dio e va verso Dio e ciò sia se si pensa la storia come totalità, sia se si
riferisce alla singola persona.
La
concezione lineare del tempo viene qui radicalmente discussa e relegata alla
prospettiva veterotestamentaria, mentre l’insistenza sul kairos suggerisce la proposta di una concezione verticale della
storia stessa.
La
modalità balthasariana di proporre la paradossalità dell’irruzione dell’eschaton nella storia, si esprimerà nei
termini dell’”universale concreto”, dove prevale e insiste la prospettiva
discendente dell’irruzione del totalmente Altro nell’al di qua delle umane
vicende.
Una
riflessione sulla rivelazione a partire dall’AT
Alcune premesse:
a) la
prospettiva delle riflessioni: la fede cristiana e la teologia che la riflette,
secondo l’indicazione di Eb 1,1-2,
b) il
luogo: gli scritti canonici dell’AT,
c) il
metodo: non prettamente esegetico, ma teologico-fondamentale, in quanto tiene
conto dell’importanza del metodo storico-critico; tiene conto anche
dell’esegesi contemporanea.
Il popolo ebraico e le sue
Scritture nella Bibbia cristiana ci offre alcuni spunti teologico-fondamentali
riguardanti il problema:
1. L’unità
dei due Testamenti nella prospettiva cristiana.
L’interpretazione
manichea e marcionita che contrapponeva i due testamenti non appartiene alla
tradizione cattolica.
Nella
teologia dei Padri della Chiesa la questione dell’unità interiore dell’unica
Bibbia della Chiesa era un tema centrale.
2. L’interpretazione
in chiave cristologica degli scritti veterotestamentari.
I Padri
della Chiesa con la loro interpretazione non hanno creato nulla di nuovo, ma
solo hanno sviluppato e sistematizzato ciò che già trovavano nel NT stesso.
Questa sintesi doveva però diventare problematica nel momento in cui la
coscienza storica sviluppò criteri di interpretazione (e così l’esegesi dei
Padri appariva senza fondamento storico).
Lutero
ha sviluppato una nuova formulazione del rapporto AT e NT, che non si fonda più
sull’armonia interiore di AT e NT, ma sulla sua antitesi sostanzialmente
dialettica dal punto di vista storico-salvifico ed esistenziale di legge e
Vangelo.
Con la
vittoria dell’esegesi storico-critica l’interpretazione cristiana dell’AT
iniziata dal NT appariva finita (perché appare inverosimile che gli autori dei
secoli prima di Cristo, che hanno scritto AT, intendessero alludere a Cristo e
alla fede di NT).
Una
teologia propriamente sintetica non può estremizzare nessun approccio
settoriale. La problematicità intrinseca al tema richiede una profonda
coscienza della complessità delle questioni.
Il
costituirsi dell’identità cristiana comporta che essa vada colta certamente in
maniera fondale nelle sue radici bibliche, ma anche in senso storicamente più
ampio nell’orizzonte della storia delle interpretazioni, sempre tenendo conto
della distinzione fra la fase costitutiva della rivelazione e la fase
interpretativa della rivelazione stessa.
3. La
conformità e differenza fra i due Testamenti.
La lettera
agli Ebrei mostra di riconoscere l’autorità dell’AT, perché cita i loro testi
per fondare il suo insegnamento. Contiene molte affermazioni di conformità
(compimento delle profezie) ma anche non conformità.
Rm 3, 21: la giustizia di Dio nella giustificazione offerta dalla fede in Cristo è
avvenuta indipendentemente dalla Legge, ma è tuttavia conforme alla
testimonianza della Legge e dei profeti.
Gli
scritti del NT riconoscono che le Scritture del popolo ebraico hanno un valore
permanente di rivelazione divina.
Il
carattere rivelativo di ciò che l’AT in maniera pluriforme attesta ci consente
il passaggio dalla praeparatio
Revelationis alla praeparatio
Evangelii.
In scritti
del NT si trovano anche numerose citazioni esplicite dell’AT, mostrando così di
riconoscere l’autorità dell’AT.
La
sottolineatura delle conformità e differenza fra i due Testamenti trova la
propria espressione teologica nella categoria del “compimento” del primo nel
secondo. Questo è espressa p.e. nel verbo dein, che indica non una necessità meccanica
o fatalistica, ma provvidenziale e storica (“Bisogna - dei - che si compiano tutte le cose scritte su di me.”).
Questa
insistenza dei Vangeli sullo scopo attribuito agli eventi “affinché si compiano
le Scritture” conferisce un’importanza alle Scritture del popolo ebraico.
Fondamentali
indicazioni concernenti il rapporto rivelazione/storia:
a)
l’interpretazione del compimento porta ad escludere il carattere fatalistico
dello sviluppo della storia come historia
salutis (il cristiano è libero dal potere del fato; ciò che lo ha salvato
non era un evento del destino),
b) la
necessità di richiamare la tematica della singolarità e unicità dell’evento.
4. Il tema della rivelazione appartiene fra
i contenuti fondamentali attraverso cui si esprime l’unità dell’AT e NT.
Il Dio
della Bibbia è un Dio che entra in comunicazione con gli uomini e parla ad essi.
Dio fa un’alleanza con il suo popolo. I profeti si mostrano consapevoli di
trasmettere la parola di Dio.
Nel
racconto della creazione del mondo si scopre che per Dio dire è fare.
NT
prolunga questa prospettiva e l’approfondisce. Gesù si fa il predicatore della
parola di Dio.
Nell’AT
rinveniamo tre luoghi o modalità caratterizzanti la rivelazione: la storia, la
sapienza e la profezia:
La
dimensione storica della rivelazione veterotestamentaria
Nell’AT
Dio si presenta innanzitutto come il Dio della storia. Sia in quanto è Signore
delle vicende che nella storia accadono, sia in quanto la storia è il luogo nel
quale si manifesta.
1. La
rivelazione in questa prospettiva è compresa all’interno di una categoria
veterotestamentaria fondamentale - della categoria di alleanza (berit) – rileva
il carattere asimmetrico del rapporto Dio/popolo.
Lo schema
dell’alleanza è quello di patti di vassallaggio, nei quali non si dà rapporto
paritario fra i contraenti.
Il termine
ebraico berit riassume nel
vocabolario tre concetti: 1. rapporto tra potenze che determinano le relazioni
in modo paritetico, 2. imposizione della volontà del sovrano al vassallo, 3.
riconoscersi suddito attraverso il pagamento del tributo.
La LXX
traduce quella parola non con il termine spondé,
ma con un insolito diatheke (mettere
insieme, mediare) che sottolinea un significato teologico particolare:
comunione tra Dio ed Israele, obbedienza di Israele al suo Sposo e Signore.
Lo schema
dell’alleanza del Sinai (Es 19-20) corrisponde con i trattati hittiti di
vassallaggio (presentazione – prologo storico – clausole – sacrificio –
aspersione dei contraenti – benedizione/maledizione). Questo indica
l'asimmetria della relazione con Dio e mostra il profondo rapporto fra la Sua
automanifestazione e la storia e la cultura del popolo cui è destinata, in
quanto né adotta la lingua, i costumi, la mentalità, secondo una legge
fondamentale della rivelazione biblica.
Nell’AT
sono due elementi che mostrano il carattere asimmetrico della relazione tra Dio
e l’uomo e l’orizzonte di trascendenza, in cui viene sperimentato e pensato il
soprannaturale:
a) L’indicibilità
del nome
Nella cultura semitica chiamare qualcosa
significa penetrarne l’essenza, le parole esprimono la realtà al massimo grado.
La
pluralità dei nomi, attraverso cui si indica la divinità, segnala difficoltà
che la parola sperimenta rispetto alla realtà di Dio.
Nell’AT si
usano due nomi: El/Elohim (designa il
Dio dei patriarchi) e JHWH (il nome
proprio del Dio dell’Esodo).
Per il
significato del tetragramma JHWH ci
sono due possibilità:
1)
significato apofatico, come una sorta di rifiuto a rivelare il nome,
2)
significato storico-salvifico: il Dio come Colui che fa esistere e viene a
liberare, è un Dio che partecipa alle angosce del suo popolo e si preoccupa
della sua liberazione (questa possibilità è più probabile).
Il nome
dovrà restare impronunciato, secondo la dabar
dell’alleanza (Es 20,7).
b) L’invisibilità
del volto di Dio
Es 33,18-23: Dio mostra a Mosè solo le sue spalle - “Tu non potrai vedere il mio
volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. ... Quando passerà la mia Gloria ... vedrai le
mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere.”
Le
interpretazioni dei posteriora Dei (spalle
di Dio):
1) la Torah - le clausole dell’alleanza; la
legge è l’unico modo attraverso il quale l’uomo può incontrare l’Assoluto,
2) la
creazione - ciò che possiamo vedere di Lui sono le sue opere.
Connesso
al tema della non visibilità del volto è il comando che proibisce le rappresentazioni.
2. Un’altra
categoria significativa per la rivelazione è la gloria (kabod) di JHWH. Si tratta della potenza di
Dio, che si manifesta nella storia e nella creazione, e che splende sul volto
dell’eletto.
La
presenza della gloria del Signore si accompagna alla nube, che sottolinea
l’oscurità della rivelazione e la distanza.
Il tema
della dimora (shekinah) costituisce un correttivo rispetto alla radicale
trascendenza e alterità del Dio, perché in tale modo Egli si rende vicino a
prossimo al popolo, manifestandosi come emmanuEl
(Dio-con).
La
dimensione sapienziale della rivelazione veterotestamentaria
Uno dei
modi attraverso cui Dio manifesta la sua gloria è la sapienza (”emanazione
della potenza di Dio”).
La
dimensione sapienziale della rivelazione indica il carattere universale e
conoscitivo della verità, che la rivelazione dona.
In questi
testi non c’è soltanto la fede di Israele, ma anche il tesoro di civiltà e di
culture ormai scomparse (Egitto, Mesopotamia).
Appartiene
in certo senso a questo itinerario sapienziale lo sforzo eziologico di Gn 1-11, dove troviamo attestate le narrazioni
concernenti le origini del cosmo e dell’uomo.
Dalla
cultura circostante si differenzino questi testi per l’affermazione del primato
e della libertà trascendente di Dio rispetto al cosmo, i cui elementi vengono
radicalmente demitizzati (perché dipendono dal Creatore).
Dunque
anche la creazione è rivelazione, in quanto manifesta la realtà di un Assoluto
personale da cui tutto ha origine. Il cosmo e l’uomo portano in sé la traccia
del loro Creatore.
Excursus:
La valenza cosmologica e antropologica della rivelazione biblica
Parola di
Dio (scritta) non intende offrirci una visione cosmologica e antropologica
organica e strutturata, adottando piuttosto le visioni cosmologiche e
antropologiche proprie del contesto culturale in cui nascono.
La
rivelazione ebraico-cristiana sul cosmo si può ricondurre a tre asserti
fondamentali:
L'ebraico
biblico non possedeva un termine corrispondente al nostro “cosmo” e usava il
termina “tutto”.
1) Il cosmo non mitico
I racconti
delle origini sono inquadrati nell’orizzonte, dove la dimensione storica della
rivelazione intreccia quella sapienziale.
Si
contrappongono alla mentalità sacrale di stampo pagano di interpretare elementi
cosmici come divinità da adorare.
La
concezione ebraica della rivelazione è caratterizzata di nascondimento che
accompagna il soggetto stesso della manifestazione, che è l’Assoluto
trascendente (nel paganesimo il Dio ha volto vivo, visibile, mentre per la fede
Dio in sé è un “Dio nascosto”).
2) Alterità non dualistica
La
rivelazione ebraico-cristiana è contro ogni dualismo gnostico (che dice che la
materia sia qualcosa di negativo).
La creazione non è frutto della defezione o opera
dell’errore.
3) Legame creaturale
La
concezione del cosmo propria della rivelazione ebraico-cristiana si distanzia
sia da una visione emanazionista del rapporto Dio-mondo sia dall’idea di una
possibile generazione del mondo dal soprannaturale.
Non
dobbiamo dimenticare la dimensione di continuità della creazione (creazione
continua), che esprime la creaturalità come legame costitutivo del cosmo con
Colui da cui trae origine. Possiamo osservare due modelli:
a)
modello farisaico: parla della CO dal nulla e della risurrezione dei morti
(quasi tutti i Padri della Chiesa),
b)
modello alessandrino: parla della CO da una materia informe preesistente e
dell’immortalità dell’anima (solo Giustino e lo Pseudo-Ippolito)
Eppure
solo pochissimi testi dogmatici (Laterano IV e Vaticano I) riportano la formula
“creazione dal nulla”. Il Vaticano II allude alla CC. (CO = creazione
originaria; CC = creazione continua).
Assunta la
differenza ontologica tra creatura e Creatore, non è l’esistenza della materia
per un tempo non finito a fare problema.
Gn 1 nei
suoi dettagli dei sei giorni corrisponde all’evoluzione e non all’origine.
Il testo
biblico di per sé non preclude nessuna delle due ipotesi scientifiche
(l’origine e l’evoluzione dell’universo).
L’uomo alla luce della
rivelazione
H. Cohen: “La rivelazione è la creazione della ragione”. Dio non si può
rivelare in qualche cosa, per esempio nel cosmo, bensì a qualcuno => la
ragione è una ragione creata (è immediatamente correlata al nulla originario e
originante). La ragione non inizia con la storia, bensì la storia deve iniziare
con la ragione.
La visione antropologica che la rivelazione suggerisce, ha anche tre
momenti: a) l’unità non unidimensionale dell’uomo (carne e spirito), b) il
rapporto fra interiorità relazionata e alterità accolta, c) l’orizzonte della
gratuità – il rapporto persona/libertà.
Rosenzweig: nella rivelazione si verifica l’irruzione del totalmente altro
nella storia: il circolo egoistico si chiude e viene superato il pensiero in
terza persona proprio della sistematica e idealistica. L’evento della
rivelazione non si propone come irruzione distruttiva, ma continuamente
costruttiva della creazione in rapporto alla redenzione.
L’idea centrale della rivelazione è che l’io di Dio si compie attraverso la
sua affermazione da parte dell’uomo. (Non sono in gioco categorie e concetto
spersonalizzati, bensì è chiamata in causa l’esistenza concreta.)
L’intreccio fra Dio, uomo e mondo, avviene nella prospettiva fondamentale
della rivelazione ebraico-cristiana, che è quella storico-salvifica ossia
soteriologica.
La creazione non riguarda semplicemente il cosmo e l’uomo, ma Dio stesso.
La creazione è la prima rivelazione che tuttavia esige l’irruzione di una
seconda rivelazione.
La teodicea e il dolore innocente
Le tappe della teodicea biblica (come riflessione
sulla rivelazione del senso del male e del dolore innocente):
a)
teodicea amartiologica (Gn 3) - il male e il peccato (il male è connesso con il
peccato),
b)
teodicea apofatica (Giobbe) - il dolore innocente e le imperscrutabili vie del
Signore,
c)
teodicea soteriologica (il servo sofferente) - il valore espiatorio (farsi
carico di peccato dall’innocente).
Kant:
la “teodicea autentica” (che oppone alla “teodicea dottrinale”); nella figura
di Giobbe vede il paradigma biblico della prospettiva apofatica ed etica nello
stesso tempo.
Giobbe
38: Dio pone a Giobbe di fronte agli occhi la saggezza della sua creazione,
soprattutto nell’aspetto per cui essa è insondabile. La sincerità di cuore e
non l’eccellenza del conoscere, l’onestà di confessare i propri dubbi
apertamente – questo sono le qualità che nel giudizio divino hanno deciso la
superiorità.
Rosmini: legge la figura e il libro di Giobbe in chiave fortemente cristocentrica.
Il Giobbe
cristiano è identificato con Cristo e con il suo fiducioso abbandono al Padre
(nel momento della morte).
L’equazione
Giobbe=Cristo poggia sulla constatazione che Giobbe è descritto come uomo
perfetto, “uomo integro e retto” che “teme Dio ed è alieno dal male”... Giobbe
è dunque “Cristo innocente”.
Le altre
identificazioni: il popolo ebraico sono i figli e le figlie di Giobbe, per cui
Giobbe prega e sacrifica, le piaghe sono la crocifissione, la moglie è la
sinagoga...
Niente
accade in terra senza ragione.
Descrive
la situazione dell’uomo e della natura dopo il peccato originale come
l’”abbandono di Dio”. L’assenza di Dio, determinata dal peccato originale, pone
la natura e la storia in uno stato di desolata irredenzione
Il
nascondimento di Dio è la minaccia tanto più terribile quanto più mite, che Dio
faceva agli Ebrei già per bocca di Mosè.
I giorni
della desolazione sono quelli in cui Dio tace, ritraendosi nella sua
trascendenza assoluta.
La
dimensione profetica della rivelazione veterotestamentaria
Qohelet ha la dimensione profetica, c’è spesso la formula “parola del Signore”
accanto a “oracolo del Signore”.
Qui emerge
con chiarezza la coscienza di chi è portatore di un messaggio proveniente da
Dio (quindi non risultante dal proprio sapere e dalle proprie convinzioni). Si
tratta di un messaggio che riguarda primariamente la storia con un duplice
riferimento: alla situazione attuale che e alla storia della salvezza.
Il
concetto di storia è una creazione del profetismo che è riuscito a creare ciò
che l’intellettualismo greco non poteva produrre.
Per i
greci la storia rimane volta solo al passato. Il profeta invece è il veggente -
la sua visione ha prodotto il concetto della storia in quanto essere del
futuro. Il tempo diviene il futuro e il futuro è il contenuto di questa
riflessione storica.
Nella
Bibbia è in primo piano Dio come soggetto del messaggio profetico.
Gli oracoli dei profeti biblici si possono
distinguere in:
1. oracoli
di giudizio (soprattutto negli oracoli preesilici che contengono elementi fortemente
critici),
2. oracoli
di salvezza (soprattutto nei profeti postesilici - Deutero-Isaia; Dio non
abbandona mai del tutto il suo popolo).
Le
considerazioni riguardanti la valenza rivelativa della dimensione profetica
della rivelazione veterotestamentaria:
a) il
rapporto profezia/storia e riprendimento della categoria di “compimento”: le
profezie offrono indicazioni circa il senso della storia, guardano al futuro,
vanno lette e interpretate come ciò che accadrà in prospettiva escatologica, ma
in senso messianico,
b)
l’esperienza del gesto profetico: non di rado la profezia si esprime attraverso
gesti tendenti a suscitare la domanda circa senso del gesto stesso (p.e. Osea,
che sposa una prostituta dai cui genera figli di prostituzione).
Caratteristiche
del messaggio profetico:
1) Monoteismo: sembra
utile il richiamo alla metafora sponsale (elaborata da Osea).
L’esperienza dell’unicità di Dio riguarda l’esperienza dell’unicità
dell’amore uomo/donna. (Come nell’innamoramento l’amato è un unicum per l’amata, così Dio è unico per
il credente.)
L’unicità di Dio si esprime attraverso antropomorfismo della gelosia: “Io,
il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso.” (Es 20,5)
La dinamica sponsale consente una vera e propria reinterpretazione
dell’altra metafora teologica, quella della paternità di Dio.
2) Messianismo:
Il messianismo dell’AT è pluridimensionale; ha dimensione: regale,
sacerdotale e profetica.
Il messianismo cristiano presenta notevoli differenze rispetto a quello
ebraico. La concezione cristiana è nata man mano, al termine dello sviluppo del
messianismo veterotestamentario, dopo aver universalizzato e spiritualizzato
l’attesa messianica di un re salvatore da parte d’Israele.
Nel cristianesimo sono presenti due livelli del messianismo: 1. il re ideale
futuro, 2. il servo di JHWH e del Figlio dell’uomo.
3) Moralità/moralismo
Centrale
nella prospettiva dell’AT è la modalità propria dell’automanifestazione di Dio
che è costituita dalla sua dabar (parola, evento), termine che indica
la realtà stessa e la sua espressione in senso dinamico e storico. Dio crea
attraverso la sua dabar.
Le dieci debarim sono le dieci parole, ma che
devono diventare fatti nella vita di chi ha accolto l’alleanza.
La
teologia della parola dell’AT suggerisce uno stretto legame fra parola e
storia, fra linguaggio e realtà, fra ciò che si esprime e il modo di
esprimerlo.
Sbagliato è di contrapporre radicalmente l’udito e
la vista. Interessante e richiamo a Es 20, 18: “tutta la gente vide la voce”.
La
complessità del manifestarsi di Dio nella storia va sempre riflessa e ripensata
in linguaggi e concetti che risultano sempre inadeguati rispetto alla res che intendono evocare e dire.
Struttura sacramentale espressa dal dabar dell’AT rimanda al carattere di
sacramento della stessa rivelazione attestata nell’AT.
Israele
era una parte già realizzata del mistero di Cristo. La Chiesa dell’AT era segno
e causa di grazia nella misura in cui il tempo del Cristo vi era realmente
inaugurato.
Una
riflessione sulla rivelazione del Dio di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento
Gesù
rappresenta nello stesso tempo il Deus
revelans e il Deus revelatus (il
Dio che rivela e il Dio che si rivela), soggetto e oggetto di rivelarsi.
Egli
rappresenta il compimento delle promesse messianiche contenute nell’AT e dall’altro
lo stravolgimento delle attese d’Israele, così Egli è e non è profeta, è e non
è messia, è e non è sacerdote – il compimento non avviene se non nel
superamento.
Ma questo
non toglie nulla alla tesi dell’unità dei due Testamenti e alla concezione della
historia salutis.
L’universalità
dell’evento stesso poggia infatti sulla sua unicità e il “compimento” chiede di
essere rappresentato anche secondo la categoria del “superamento”.
L’approccio
alla rivelazione cristologica neotestamentaria
L’approccio
a Gesù Cristo attraverso i testi NT è abbastanza complesso e richiede una serie
di rilievi preliminari.
La
cristologia non ha solo un fondamento biblico: al primo posto nell’origine
della fede cristologica c’è la storia, cioè la vita vissuta, per quanto riguarda
sia il credente sia soprattutto Gesù stesso.
La
rivelazione eccede le Scritture e anche la storia eccede i testi.
Le conseguenze in sede storico-critica riguardano:
a) la
necessità di riferirsi anche alle fonti extrabibliche,
b)
l’attenzione ai contesti in cui le vicende narrate e le parole riportate nei
testi si inseriscono,
c)
l’attenzione non solo alla raccolta e interpretazione dei dati, ma anche allo
sviluppo di una coscienza storica.
In sede teologico-fondamentale si tratterà di:
a) leggere
e interpretare i testi anche in relazione alla loro Wirkungsgeschichte e alla grande Tradizione ecclesiale,
b)
cogliere la differente valenza rivelativa dei testi stessi (la rilevanza dei
libri canonici rispetto all’ulteriore letteratura),
c)
interpretare il dato dogmatico in continuità e relazione con le attestazioni
canoniche riguardanti il mistero di Gesù Cristo.
Le tappe
di cristologia: 1. old quest (1778-1906)
– l’opposizione fra il Gesù storico e il Cristo del dogma,
2. no quest (1921-1953) – contrapposizione
fra il Gesù storico e la Chiesa,
3. new quest (1953-1985) – rinnovata
continuità tra il Gesù storico e il Cristo del kerygma,
4. third quest (1985-2000) – rinnovata
continuità tra Gesù di Nazareth e i
Vangeli.
La cristologia attuale si interessa alla terza
ricerca sul Gesù storico.
I guadagni storico-teologici della third quest:
a)
l’interesse al contesto storico-sociale da cui emergerebbe la possibilità di
scorgere la continuità fra il circolo prepasquale dei discepoli e il
cristianesimo postpasquale,
b)
l’insistenza sull’ebraicità di Gesù; un movimento di rinnovamento giudaico,
c) il
rilievo storico riattribuito sia alle fonti canoniche che a quelle
extrabibliche,
d) la
tendenza a sfumare la discontinuità fra Gesù e il contesto ebraico (studia con
serietà l’ebraicità di Gesù).
Considerazioni:
1) tale
tematica è tutt’altro che pacificamente acquisita e risulta al centro di una
forte controversia (tra alcuni autori l’attenzione all’ebraicità di Gesù
raramente costituisce un interesse centrale),
2) la
necessità di integrare l’attenzione all’ambito culturale ellenistico-pagano,
per una corretta impostazione della cristologia (la Chiesa delle origini poteva
servirsi di categorie ermeneutiche tipicamente ellenistiche dell’ambiente
culturale del Mediterraneo orientale).
Particolarmente
significativa è l’impostazione esegetica che richiama la necessità di far
riferimento al duplice inizio della cristologia: 1. nell’azione e nella
predicazione di Gesù in Galilea, 2. nasce dall’evento pasquale.
Si tratta
di superare la dicotomia tra gesuologia (studio del Gesù terreno) e la
cristologia (riflessione su Cristo della fede) e di sottolineare il nesso fra i
due approcci.
Alla
fondamentale distinzione fra il Gesù della storia e il Cristo della fede vanno
accostate altre due distinzioni: 1. fra il Cristo reale (l’insieme di aspetti
in un quadro cristologico sintetico) e il Gesù storico, 2. il Gesù storico (ciò
che lo studio delle fonti dice di Lui) e il Gesù terreno (le vicende terrene di
Gesù).
L’approccio
al livello gesuano degli ipsissima facta
e ipsissima verba di Gesù passa
attraverso l’applicazione di alcuni criteri metodologici. I classici criteri
sono:
1)
discontinuità o duplice dissomiglianza – fatti o detti di Gesù originali (si
differiscono dall’ambiente giudaico e cristiano),
2)
coerenza – esterna (con il contesto
giudaico del tempo) e interna (conforme all’insegnamento di Gesù già altrimenti
stabilito),
3)
molteplice attestazione – un fatto o un detto che è presente in fonti diverse e
indipendenti (Q, sinottici, Paolo, Gv...).
Gli scritti canonici ci offrono dell’unico Signore Gesù Cristo una
pluralità di ritratti, attraverso i quali ci viene trasmessa l’unicità
singolare e insieme l’universalità della mediazione cristologica della
rivelazione.
La necessità di innestare la cristologia sulla gesuologia comporta anche in
confronto con le fonti extrabibliche, che parlano da diverse prospettive di
Gesù.
La conclusione riguardante fonti extrabibliche:
a)
l’ampiezza della documentazione relativa all’esistenza storica di Gesù,
b)
l’impossibilità di una definizione univoca della complessità della sua figura.
Parole
e gesti di Gesù
Cristo
rivela il mistero di Dio in modo che caratterizza ogni processo comunicativo
interpersonale - attraverso le parole e i gesti.
Se la
rivelazione fosse solo verbale, avrebbe valenza unicamente dottrinale e
intellettualistica (e Cristo sarebbe come un qualsiasi filosofo o dotto
comunicante il proprio sapere). Ma i gesti non illuminati dalle parole
risulterebbero ambigui e incapaci di trasmettere il mistero nella sua interna
logica agapica e nella sua carica di senso.
1) Le “parole” di Gesù
a) I loghia personali (i detti di Gesù) -
lasciano emergere con particolare enfasi la personalità di colui che li
pronuncia.
Tra i loghia sono importanti quelli che
iniziano con le parole “amén legò hymin”
- sono tipici del linguaggio di Gesù, anche perché la posizione di un amen usato per introdurre e sottolineare
parole proprie non viene mai attestata nelle fonti antiche.
Questo
dice che il parlante rivendica per sé un’autorità di rivelatore. Gesù si
presenta come quello che assicura la verità delle proprie parole, poiché le
pronuncia come inviato di Dio.
Mt 11,25-27 (cosiddetto loghion giovanneo):
“... Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il
Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo
voglia rivelare.”
Il testo
pone l’accento sulla prospettiva intratrinitaria (descrive il rapporto fra P e
F attraverso il verbo epiginoskò – conosco)
e parla della rivelazione cristologica (non possiamo conoscere Dio senza
Cristo) che è caratterizzata da un’originaria gratuità (espressa dal verbo
“voglio”, sicché gli sforzi degli intelligenti e dei sapienti risultano vani).
b) Le parabole
Mc 4,11-12 - spiega perché Gesù usa le parabole: “A voi è stato affidato il mistero
del regno di Dio, a quelli di fuori invece tutto viene esposto in parabole,
perché guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano, perché non si
convertano...”
Attraverso
la parabola si propone il mistero del regno di Dio – la parabola rivela e
nasconde.
È evidente
il carattere insieme immanente e trascendente, storico e metastorico della
rivelazione cristologica nella sua paradossalità costitutiva (l’espressione
greca “viene esposto in parabole” si potrebbe tradurre “tutto accade in
parabole”).
La
parabola ha valenza non solo informativa ma anche performativa (non lascia
indifferente).
Nelle
parabole si può scorgere una cristologia sia implicita (parabola della
pecorella smarrita) che quasi “esplicita” (parabola dei vignaioli omicidi).
Gesù non
si rivela massivamente (col fulgore di una teofania) ma si propone
discretamente all’intelligenza di chi lo incontra, perché l’adesione a lui sia
più riflessa, personale, convinta.
2) I
“gesti” di Gesù e la tematica del “miracolo” in prospettiva
teologico-fondamentale.
Gesù
rivela nel suo comportamento “un atteggiamento di grande libertà” nei confronti
del contesto socioculturale-religioso (i gesti di misericordia con le genti
povere, soprattutto con i pubblicani e i peccatori).
L’attribuirsi
della prerogativa di “perdonare i peccati” mostra la coscienza che Gesù aveva
di sé.
Non
sapiamo molto di primi 30 anni della vita di Gesù. Quale è il senso di questo
nascondimento?
Importante
è gesto compiuto nel Tempio di Gerusalemme che è accompagnato da loghion relativo alla distruzione del
Tempio e alla sua ricostruzione. Gesto e loghion insieme dimostrano che
Gesù si riconnette alla speranza giudaica del rinnovamento escatologico. Qui,
Gesù si rivela come un profeta: non tanto nel senso di chi prevede il futuro
quanto piuttosto in quello di chi parla e agisce autoritativamente in nome di
Dio.
a) Definizione del
miracolo e prospettiva epistemologica generale:
Il miracolo: un’irruzione dell’Assoluto
trascendente nella natura e nella storia, tale da sovvertirne le leggi e
sconvolgerne l’ordine.
Il
miracolo deve essere pensato nella sua valenza fondamentale, superando il
livello dei miracoli come gesti mirabili.
Cristo
stesso è il Miracolo.
La
teologia non è soltanto, ma necessariamente anche la logica del miracolo.
Dobbiamo
ripensare radicalmente il nostro linguaggio, per troppo tempo abituato a
distinguere la rivelazione naturale e soprannaturale. Si tratta invece di due
dimensioni fondanti e decisive dell’unica rivelazione del Dio Unitrino in
Cristo.
Blondel: offre un’interpretazione stimolante del rapporto Miracolo/miracoli e
della relazione fra naturale e soprannaturale:
Miracolo
è signum contradictionis = quello che
illumina gli uni è anche quello che indurisce e acceca gli altri.
Nessuna
scienza può dire che i miracoli sono impossibili (perché la scienza si
pronuncia solo sul reale e non sul possibile).
L’idea di
leggi fisse della natura non è altro che un idolo. Ogni fenomeno è un caso
singolo e una soluzione unica.
Miracoli
rivelano che il divino non sta solo in ciò che evidentemente trascende le
possibilità ordinarie dell’uomo e della natura ma ovunque.
I
miracoli sono miracolosi soltanto allo sguardo di coloro che sono già disposti
a riconoscere l’azione divina negli avvenimenti e negli atti più consueti.
b) Il
miracolo nella prospettiva della dimensione storico-salvifica (escatologica)
della rivelazione:
La valenza
teologica dei miracoli è diversa nel caso in cui appartengono alla fase
costitutiva della rivelazione o alla sua fase interpretativa.
Mt 11, 2-6: “Giovanni ... mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo
attendere un altro? » Gesù rispose: «Andate e riferite ciò che udite e vedete:
I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, ... ai poveri è predicata
la buona novella.»”
L’attestazione
marciana mostra come questi gesti prodigiosi diminuiscono che ci si avvicina
alla croce. I miracoli muoiono sulla croce ed è qui che vanno compresi. I gesti
di potenza confermano che Dio è con lui.
L’ambiguità
di questi segni fa sì non solo che non servano a convincere i capi del popolo,
ma provoca delle relazioni contrarie.
C’è la
doppia dimensione della sua coscienza: di operare a compimento delle Scritture
e di agire come strumento dell’irruzione escatologica del regno di Dio. (“Se io
scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio.”)
Si tratta
di un tratto di originalità gesuana - queste “componenti” infatti mancano tanto
negli antichi profeti Elia ed Eliseo quanto nei taumaturghi esorcisti del tempo
operanti in Israele.
I miracoli
non sono tanto delle prove della venuta del regno quanto piuttosto uno dei modi
con cui il regno stesso già viene!
Il
miracolo trova la sua espressione propria nel mistero pasquale e nei segni che
l’accompagnano (il sepolcro vuoto e le apparizioni). Senza riferimento a questo
non è possibile pensare per chi crede nel Dio di Gesù in maniera sensata.
Il
fallimento di ogni teodicea razionalmente elaborata rimanda alla necessità di rapportare il
dolore del mondo non a una teoria, ma a un evento nel quale la sofferenza
innocente risulta penultima rispetto al trionfo della vita.
c) Il
miracolo nella prospettiva della dimensione cosmico-antropologica della
rivelazione:
La
creazione possiamo pensare sotto un duplice punto di vista: 1. come atto
intelligente e libero di un Dio, 2. come “legame” creaturale che tale atto stabilisce.
In
entrambe le prospettive la creazione è pensata come rivelazione.
I miracoli
rivelano la signoria del Dio sul cosmo ed esprimono la sua radicale libertà nei
confronti delle “leggi della natura”.
Il cosmo è
autonomo e altro rispetto a Dio. Così la creazione non può essere intesa né nel
senso della generazione né nel senso dell’emanazione.
(Il
miracolo è un segno inspiegabile che non dipende da nessuna legge, né
conosciuta, né sconosciuta. Credere al miracolo è accettare in anticipo che
l’ordine della natura non è sottomesso a una necessità matematica e che Dio è
libero di intervenire nel cosmo per realizzare fini più alti.)
d) Risultanze
“epistemologiche”:
1. Il miracolo-segno
Il
miracolo è essenzialmente segno (segno della provvidenza di Dio). Miracolo e
profezia sono strettamente connessi.
Nella
prospettiva teologico-fondamentale adottata, il miracolo è il “sacramento”.
Lc 5, 20-26 – nella guarigione di paralitico vediamo il senso sacramentale del
miracolo: “Perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di
rimettere i peccati: io ti dico prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua. ...
Tutti rimasero stupiti e glorificavano Dio; pieni di timore dicevano: Oggi
abbiamo visto cose prodigiose (paradoxa)”
2. Quale assenso?
Se
dimentichiamo la dimensione reale dell’assenso, si produrrebbe la convinzione
circa il carattere meramente funzionalistico e convenzionalistico del nostro
sapere (dove il simbolo non avrebbe altro riferimento reale che il nulla) e
comporterebbe l’impossibilità di un autentico dialogo interdisciplinare
(condannando i nostri approcci all’autoreferenzialità).
Rispetto
al miracolo-sacramento l’assenso reale del teologo è costituito dalla fede
nella rivelazione che in esso si esprime.
Religione
è sempre stato un sinonimo di rivelazione. La religione non è mai stata una
deduzione del noto, ma un’asserzione di qualcosa che era da credere. (Non si è
mai espressa in una conclusione, ma in un messaggio, in una narrazione,
visione.)
3. Quale ermeneutica?
Il
teologo è chiamato a interpretare una realtà che si costituisce nei termini di
un’eccezione fisica e storica; ciò che esige il dialogo con pensiero filosofico
e le scienze. Così non può valere un pretesa esclusivista del sapere della fede
(secondo la quale la realtà di cui teologia si occupa appartiene ad un altro
orizzonte epistemologico).
Nel
settore del discernimento del miracolo è l’apporto delle scienze considerato
fondamentale (p.e. in un giudizio di
autenticità in ordine alle manifestazioni del soprannaturale nella natura e
nella storia).
Il lavoro
del scienziato prepara la strada e fornisce elementi indispensabili perché il
giudizio dell’autorità ecclesiastica componente possa essere espresso.
Il
modello ermeneutico, affondando le sue radici nella contrapposizione radicale
fra scienze della natura e scienze dello spirito, rischia di precludere al
sapere della fede il dialogo con le altre forme di sapere (delle scienze della
natura).
Prima di
attestarsi intorno a un nuovo modello teologico, il sapere della fede dovrà
compiere un lungo cammino e avvalersi di molteplici competenze. La struttura
sacramentale del reale che è chiamato a interpretare e pensare impone il
dialogo con le altre scienze nel tentativo di inventare nuove modalità di
rapporto fra “ragione creata” e “ragione redenta”.
Tommaso:
La sapienza elencata tra i doni dello SpS è distinta da quella che è posta tra
le virtù intellettuali. Quest’ultima si acquista con lo studio, quella invece
viene dall’alto.
L’identità
di Gesù e il suo rapporto con il Padre[3]
Il motivo
fondamentale della singolarità-universalità di Gesù va ricercato nella sua
pretesa anticipatoria del Regno di Dio nella prassi di Gesù e nella sua
predicazione.
La
“religione di Gesù” si deve giudaicamente comprendere nella linea suggerita dal
termine ebraico aramaico che sta a designare “il timore del Signore”,
soprattutto nel senso non con connotazione di paura ma coniugandosi ai concetti
forti di servire Dio, amarlo e aderire a Lui, sicché esso diventa principio di
sapienza.
La
religione di Gesù non può essere intesa come la religione dell’umanità, né
dialetticamente contrapposta alla religione cristiana.
Gesù non
pone dei riti propri, ma compie dei gesti e dice delle parole (p.e. eucaristia
situata nella cena ebraica).
La valenza
rivelativa della cristologia NT si rispecchia nella paternità di Dio e nella
fede di Cristo:
La
paternità divina: nel NT ci sono tre luoghi in cui alla parola greca patér si affianca il termine aramaico abbà (Mc 14, 36; Rm 8, 15; Gal 4,6).
Il
rapporto con il padre dice insieme confidenza e tenerezza, ma anche la
necessità di compiere il suo volere (che si esprime spesso nell’asprezza e
nella fatica della croce).
Abbà - in origine era una forma espressiva infantile,
all’epoca di Gesù è usata già come allocuzione sia per lo status emphaticus (il Padre), come per la formula “mio e nostro
padre”, ma solo in rapporto al padre terreno.
Potrebbe
indicare insieme confidenza e difficoltà nel prepararsi a compiere la volontà
del Padre.
La
metafora di Dio-padre:
Quanto al
senso del linguaggio metaforico (nelle Scritture):
1) si
tratta di esprimere il sovrasensibile attraverso il sensibile (l’uso del
linguaggio metaforico conferisce una coloritura affettiva alla verità che
esprime; Così non è la stessa cosa dire “il cielo sta piangendo” e “piove”),
2) il
linguaggio metaforico risulta particolarmente significativo in ordine
all’espressione della realtà divina, in quanto lascia il mistero nella sua
alterità e nella sua trascendenza, senza violarlo e pretendere di possederlo.
Il
carattere metaforico delle affermazioni bibliche e teologiche non tende a
escludere, bensì a includere quello analogico.
Analogia -
nel lingua greca significa “proporzione”.
Si può
dire che la metafora è un'analogia di attribuzione (analogia attributionis)
estrinseca.
Ma nel
caso della metafora del padre pur restando in primo luogo definibile come analogia attributionis, essa non manca
di suggerire e di evocare la proporzione, che verrebbe graficamente indicata
nella formula:
Dio : universo = padre :
figlio
Ma non può non essere inteso che nel senso di una
proporzione decisamente sproporzionata, sicché resta anche vero che
Dio : universo ≠ padre :
figlio
Il
Concilio Lateranense IV: tra il creatore e la creatura, per quanto grande sia
la somiglianza, maggiore è la differenza.
La
metafora del padre, interpretata allora sia nella prospettiva dell’analogia di
attribuzione che in quella di proporzione, indica semplicemente l’origine
divina di tutte le cose; la figura paterna sta nell’essere origine, principio
del tutto.
La
metafora del padre suggerisce allora un rapporto di partecipazione fra l’Ipsum esse subsistens e gli enti creati,
sicché l’essere dell’Uno e degli altri va predicato appunto in maniera
analogica.
La
metafora del padre sta ad indicare la realtà di Dio come assoluto trascendente,
da cui tutto trae origine, al di là delle distinzioni intratrinitarie, ma non
oltre esse.
Il
radicale superamento che la rivelazione cristiana intorno alla creazione opera
rispetto alle espressioni metaforiche e alle suggestioni speculative espresse
in ambito pagano è che la creazione è opera del P, come del F e dello SpS.
La
metafora del padre suggerisce un discernimento ulteriore nella direzione dell’analogia
proportionalitatis, dove in primo piano è posto il rapporto fra i
termini rispetto ai contenuti cui rimandano. Si esprime nella formula:
Padre : Figlio = padre :
figlio
Questi rapporti, se contenessero un’incognita,
consentono di risolverla soltanto se tre dei termini dati sono conosciuti:
X : Figlio = padre :
figlio
perché
l’analogia ci dica qualcosa della realtà di Dio-Padre bisogna che si abbia
conoscenza/esperienza della relazione filiale intraumana e della persona del
Figlio.
La
tematica della paternità divina è connessa con la questione della identità di
Gesù che la cristologia esprime utilizzando i titoli cristologici. Importanti
sono quelli che indicano la filiazione: “Figlio di Dio” e “Figlio dell’uomo”.
Il titolo
di “Figlio di Dio”: Ha Gesù riconosciuto questo titolo o l’avrebbe respinto?
Dalla parabola dei vignaioli omicidi e dal loghion
cosiddetto giovanneo possiamo dire che è chiaramente suggerita un’eguaglianza
tra il Padre e il Figlio.
Gesù ha
pensato se stesso in termini di figliolanza nei confronti di Dio, e di una
figliolanza tale che in pratica è priva di paralleli dello stesso tipo e perciò
unica nel suo genere.
Il titolo di “Figlio dell’uomo”: si tratta di tre
ordini di significati: Gesù avrebbe usato questa espressione:
1) per
delineare la propria funzione giudiziale escatologica,
2) per
esprimere un inevitabile destino di sofferenza,
3) per
sottolineare la sua peculiare attività carismatica.
Con questa
espressione Gesù corregge le concezioni messianiche correnti combinando insieme
paradossalmente sofferenza e gloria. In riferimento a Dn 7, esprime la propria
autocomprensione di “santo dell’Altissimo”, destinato alla sofferenza, ma anche
al riscatto.
Possiamo concludere che l’identità di Gesù viene
espressa nel NT secondo tre dimensioni costitutive:
a)
interiorità – fa riferimento alla sua autocoscienza (p.e. nella riflessione sui
miracoli, dai titoli di origine gesuana),
b)
alterità – a livello “verticale” nel peculiare rapporto col Padre,
a livello
“orizzontale” nell’attenzione agli ultimi (ai peccatori e a coloro che sono
considerati “altri”),
c)
gratuità – espressa nell’annuncio del regno di Dio e del perdono.
L’espressione “fede di Cristo” può essere
rilevata in tre ambiti semantici (in relazione al termine fede):
1. La fede
come abbandono fiduciale (come affidamento ad un altro, sulla sua parola e
sulla sua testimonianza):
Ci sono
tre aspetti fondamentali costitutivi di tale atteggiamento nel NT:
a) la fede
sorge dalla parola e quindi dall’ascolto (non è atteggiamento passivo e
recettivo, ma si tratta di un l’atteggiamento attivo della persona e del popolo
dinanzi a Dio); Cristo “insegnava loro come uno che ha autorità e non come i
loro scribi”,
b) la fede
come obbedienza: obbedire è permettere al vangelo liberamente accettato di
esprimere la sua forza trasformante nell’uomo, è un lasciarsi condurre in tutta
la vita,
c) il
rapporto della fede con il miracolo: sia in quanto il miracolo è generato dalla
fede, sia in quanto esso genera la fede; il carattere di “segno” proprio del
miracolo venga in luce appunto in relazione alla fede, da cui nasce e alla fede
che si produce a partire dal segno stesso.
2. La fede
come atto e come contenuto (fides qua
e fides quae creditur):
Qui la
fede è pensata in particolare rispetto ai contenuti (in rapporto a depositum fidei).
Nel NT il
testimone e il messaggio coincidono nell’evento di Cristo: Deus revelans et Deus
revelatus.
1 Cor
15,1-11 - il nucleo originario del deposito: che Cristo morì, che fu sepolto e
che è risorto e che apparve.
3. La fede
cristiana in maniera più ampia e in relazione all’evento cristiano e al suo
dispiegarsi nella storia:
Si tratta
di un complesso esperienziale, individuale e comunitario, con particolare
riferimento alla comunità ecclesiale: in particolare ciò che la Chiesa
annuncia, celebra e opera (aspetti dottrinali, morali, giuridici e
strutturali).
Per quanto riguarda interpretazione correlate al genitivo (di Cristo) che
accompagna il sostantivo (fede): fede di Cristo è intesa in primo luogo come
fede nel Dio che si è definitivamente manifestato in Gesù, o che ha perdonato
in Gesù Cristo.
Gal
2,16-20: l’uomo non è giustificato in virtù di opere di Legge, ma soltanto per
mezzo della pistis di Gesù Cristo. (Pistis Christou vuol dire fede del cristiano suscitata e
sostenuta dall’affidabilità di Cristo.)
Il termine
“fede di Cristo” è da alcuni inteso nel senso biblico di “fedeltà di Cristo”,
dove è evidente il riferimento all’alleanza.
La “fede
di Gesù”: la contrapposizione fra l’ipotesi della fede e quella della
visione beatifica del Gesù storico indichi due approcci diversi al tema. Si
tratta di due modalità speculative di interpretare l’umanità del Cristo in
rapporto alla conoscenza del Padre e della sua volontà.
L’esasperazione
delle due tendenze comporterebbe per l’una (fede di Gesù) un Gesù troppo umano,
e per l’altra un Gesù metastorico e disincarnato, quasi angelico.
Nell’AT è
dominante l’aspetto fiduciale, mentre nel NT è accentuata la dimensione di conoscenza
e di confessione.
Si può
superare il dilemma fede/visione, considerando il primo in rapporto alla
conoscenza (mediazione tra fede e visione).
Resta la
domanda circa non parlare del NT di “fede di Gesù”. Per l’atteggiamento del
Figlio dell’uomo di fronte a Dio, il NT non ha vocabolo globale e preciso.
In Gesù si compiono gli elementi della fede
espressa nell’AT:
a) fedeltà
totale del Figlio dell’uomo al Padre, data una volta per sempre e tuttavia
sempre di nuovo attuata ad ogni istante,
b)
preferenza assoluta data al Padre (alla sua persona, al suo amore, alla sua
volontà),
c)
perseveranza irremovibile in questo proposito,
d)
rimettere ogni iniziativa al Padre, senza voler saper niente prima, senza
anticipare l’ora.
Rosmini: come potesse l’umanità di Cristo godere della visione beatifica e patire
nello stesso tempo? La risposta riguarda l’”abbandono del Padre”:
L’ineffabile
grandezza della morte di Cristo sta nel fatto che Egli avrebbe potuto impedirsi
questo dolore, ma non volle.
Il Padre
mette all’ultima prova l’umanità del Cristo, la sua fede e il suo abbandono. Il
Padre lo lasciò morire senza confortarlo. Abbandonato Cristo dal Padre non
abbandonò per questo il Padre, ma sperò ancora in Lui.
Sul
Golgota, allora, accade qualcosa di infinitamente tremendo: il ritrarsi di Dio
dalla storia di Gesù di Nazareth, il nascondersi del Padre dinanzi alle
sofferenze del Figlio.
L’evento
del ritrarsi di Dio dalla natura e dalla storia nel momento culminante della
passione, può ricevere ulteriori approfondimenti dal confronto con l’originario
nascondimento divino conseguente al peccato di Adamo.
Come il
ritrarsi di Dio da Gesù produce la morte, così l’assenza di Dio, determinata
dal peccato originale, ha posto la natura e la storia in uno stato di desolata
irredenzione.
Il fatto
che Gesù non sia una semplice persona umana, ma una persona divina, “il Figlio
di Dio”, ha come risultato che la sua relazione personale con Dio non possa
essere una semplice relazione di fede. Ma questo riguarda il livello più alto
della fede.
Ad altri
livelli Gesù (a causa della sua natura umana) condivideva la nostra situazione
ed è stato un “pioniere della fede”.
La morte
della croce di Gesù possiede una forte valenza rivelativa in rapporto al
mistero di Dio e al mistero dell’uomo.
La croce
rivela un volto di Dio che si pone sempre al di là di ogni possibilità
ideologica di rappresentazione umana.
Solo un
Dio che assume su di sé il dolore può offrire la risposta di senso alla
lacerante esperienza della vittima innocente.
Ma la
valenza redentiva della croce sta nell’affidarsi di Gesù al Padre, in questo
atto della sua libera volontà.
Il mistero
pasquale (che ha al suo centro la croce) è sempre creduto e pensato nella sua
integralità, come mistero di passione-morte-risurrezione-pentecoste-ascensione
del Cristo, che rivela così il volto trinitario di Dio.
Il
carattere redentivo dell’affidarsi del Crocifisso al Padre e l’accento
sull’affidabilità mette in campo la necessità di pensare la fede cristiana in
relazione alla “testimonianza” (al rapporto tra il testimone e la sua
credibilità).
Nell’orizzonte
della dialettica tra le opere della legge e la fede, il testo di Abacuc (“il
giusto vivrà per la sua fede”) sia letto da Paolo con l’apporto di tre nuove
variazioni rispetto all’originale:
a) l’uomo
in questione non è più il pio giudeo, ma è ogni essere umano (la prospettiva è
assolutamente universalistica),
b) la
giustizia in questione non dipende assolutamente dall’osservanza della Legge,
anzi è legata a un suo superamento mediante un’incondizionata adesione alla
persona di Gesù Cristo (così la traduzione migliore è: “il giusto per fede
vivrà”),
c) la vita
non è legata a un benessere di tipo mondano e materiale, ma si apre su
orizzonti escatologici.
Il compimento della fede nell’amore corrisponde
alla costituzione della fede come regalo ricevuto dall’esterno.
La
risurrezione di Gesù: formule, metafore, segni
L’evento
fondatore è la morte e risurrezione di Gesù, la cui attestazione più antica non
si ritrova in:
1 Cor 15, 1-11: “...A voi ho trasmesso, quello che anch’io ho ricevuto: Cristo morì per i
nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risorto il terzo giorno
secondo le Scritture e apparve e Cefa e quindi ai dodici. In seguito apparve a
più di 500 fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora.”
Il
contesto è dato da una comunità che ha già ricevuto il primo annuncio, per cui
il verbo gnòridzò richiama una
“conoscenza” (nel senso biblico, non intellettualistico) che è anche un
richiamare alla memoria. (In questa comunità cominciava il dubbio circa la
risurrezione dei morti.)
Il
messaggio non è un invenzione dell’Apostolo, ma lui stesso l’ha ricevuto
all’interno di un dinamismo di trasmissione che si esprime secondo lo schema
della paradòsis (traditio): consegna – ricezione – trasmissione.
I
contenuti sono espressi attraverso quattro verbi: “morì”, “fu sepolto”, “è
risorto”, “apparve”, di cui tre sono all’aoristo (eventi accaduti che restano
consegnati al passato), mentre il risorgere è espresso con il perfetto,
trattandosi di un evento che continua (Cristo è morto/sepolto, ma non rimane
morto/sepolto, è apparso, ma non continua ad apparire, mentre è e rimane
risorto.)
“Morì hyper tòn hamartiòn hémòn” indica da un
lato il fatto che la morte di Gesù è causata dal peccato (si tratta di una
ingiustizia), dall’altro Gesù morì in favore dei nostri peccati (per liberarci
dalla schiavitù del peccato).
“Kata tas grafas” (secondo le Scritture)
indica la conformità dell’evento al piano salvifico di Dio realizzato nella storia
della salvezza e attestato nelle Scritture (la continuità fra l’evento pasquale
e l’antica alleanza).
Ricordare
che Gesù fu sepolto, sembrerebbe del tutto inutile, se non costituisse un
implicito richiamo al sepolcro vuoto.
In questa
attestazione NT dell’evento pasquale, kerygma (annuncio) e storia
(evento) risultano profondamente intrecciati. La valenza storica della
risurrezione è presente nel richiamo alla morte e alla sepoltura del Signore,
mentre il kerygma riguarda la dimensione salvifica della morte, la
risurrezione e le apparizioni.
L’evento
fondatore è pensato e assunto come un evento metastorico con valenza storica (eschaton che si dà nella storia) - si
tratta di una vera e propria irruzione del soprannaturale nella storia, la cui
portata può essere colta solo nell’orizzonte della fede.
Tale
evento può dirsi un evento “escatologico” in cui gli ultimi tempi e le ultime
realtà non sono solo annunciati, ma già realizzati.
Questo
evento e l’esperienza di fede costituiscono l’orizzonte in cui va letto il NT.
Ogni
pretesa di attingere all’evento Cristo prescindendo dal mistero pasquale è
fallace.
Il Cristo
della fede, senza il necessario riferimento al Gesù della storia, ridurrebbe la
narrazione dell’evento fondatore e delle vicende di Gesù di Nazareth a mera
mitologia, mentre, prescindere dal Cristo della fede, significa precludersi la
possibilità di cogliere il senso stesso della persona e della vicenda di Gesù.
Il Verbo
preesistente e la sua funzione nella creazione del mondo e dell’uomo:
Col 1,15-17: “generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state
create tutte le cose ... quelle visibili e quelle invisibili .... Tutte le cose
sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le
cose e tutte sussistono in lui.”
Questo
ruolo del Verbo preesistente e del Verbo incarnato suggerisce la necessità di
sottolineare la dimensione trinitaria della creazione.
Sulla base
dell’idemità (intesa nel senso dell’idem esse, come p.e.: “Io e Padre siamo
una cosa sola”) è possibile pensare la tematica della creazione nei termini
della concreatività trinitaria, intravedendo in essa la partecipazione di
ciascuna delle persone divine sia all’atto creativo originario sia a quella che
precedentemente abbiamo chiamato la creazione continua.
La
sinergia divina ha comunque una struttura agapica fondamentale, che da un lato
conferisce unità all’agire delle persone, in questo caso ad extra, e dall’altro consente di leggere e interpretare ogni loro
agire come atto d’amore.
Nessun linguaggio
è pienamente adeguato a definire compiutamente la pienezza dell’evento
fondatore. Perciò ci occuperemo di:
a) le
formule (attraverso cui il mistero è detto),
b) le metafore (con le quali si cerca di esprimerlo), c) i segni (che ci
sono dati perché possiamo attingere ciò su cui la nostra fede è fondata).
I primi
due elementi appartengono alla tradizione formulare della risurrezione, più
antica e distinta dalla tradizione narrativa, in cui ci vengono consegnati i
racconti delle apparizioni e i resoconti sul sepolcro vuoto.
Le formule
possiamo schematicamente distinguere (p. 126) secondo la dimensione che si
sottolinea:
1. dimensione teologica (dell’evento
fondatore) - Dio è colui che ha risuscitato Gesù dai morti:
Rm 10,9: “Poiché se con la tua bocca proclamerai che Gesù è il Signore e con il
tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.”
Rm 4, 23-25: “... crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro
Signore...”
2. dimensione cristologica (della
risurrezione) - Cristo stesso “soggetto-oggetto” della risurrezione:
1 Ts 4,14: “Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per
mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti.”
3. dimensione soteriologica (del mistero
pasquale):
Rm 4, 25: “... è stato risuscitato per la nostra salvezza”
Tra le
formule di fede che si riferiscono è importante l’espressione: “Signore [è]
Gesù” (cf. Rm 10,9).
Si tratta di una homo-logia (confessione), che vuole
esprimere il nucleo essenziale della fede cristiana.
1 Cor 12,3 sottolinea la dimensione pneumatologica: “Nessuno può dire Gesù è Signore
se non sotto l’azione dello SpS”.
Paolo vuol sottolineare
che neanche il più iniziale atto di fede può essere compiuto solo con le forze
umane, senza lo Spirito.
Le metafore
della risurrezione:
1. il
“risveglio” e quindi il rapporto morte:sonno = risurrezione : risveglio (egeirò),
2. alzarsi
(anistémi/anastasis, hyperypsò –
innalzare oltre misura).
I segni
della risurrezione: Non possiamo parlare di “prove” ma di segni che ce lo
indicano, svelandone al tempo stesso le dimensioni di evento e di messaggio
(evento-parola), ossia la struttura sacramentale.
La
maggiore rilevanza ha il secondo rispetto al primo (in quanto la tomba vuota
non ci dice nulla di quanto è accaduto).
1. Il
sepolcro vuoto - è un segno ambiguo, nella sua pura fatticità. Ma la
risurrezione (secondo giudaismo) doveva comportare l’idea di una sottrazione
del cadavere al suo sepolcro.
La storicità della
scoperta (in base alle fonti) è difficilmente eliminabile. Oltre al fatto delle
donne, ricordiamo questi fattori:
- l’uso
quadruplice dell’espressione “il primo giorno della settimana” invece di quella
più teologica “il terzo giorno”,
- il tipo di narrazione disadorna, non
apologetica (cf. la reazione negativa delle donne e dei discepoli),
- l’impossibilità di proclamare la
risurrezione a Gerusalemme, se la tomba non fosse stata vuota,
- la stessa polemica giudaica circa il
furto del cadavere suppone la tomba vuota.
Il significato
teologico del sepolcro vuoto è rinvenuto nella necessaria continuità fra il
Gesù della storia e il Cristo delle apparizioni, sebbene resti acquisito il
fatto che la fede pasquale non dipenda dalla tomba vuota ma dalle apparizioni.
Il
sepolcro vuoto non può essere considerato un prodotto della fede di Pasqua,
bensì come fatto accaduto indipendentemente dalle apparizioni.
2. Le
apparizioni - le apparizioni del Risorto non sono sinottiche (la sinossi
termina con la scoperta del sepolcro vuoto).
Siamo di
fronte non solo al racconto di un fatto, ma a quello di esperienze (che si
vivono da parte dei protagonisti).
L’iniziativa
di queste esperienze rimane quella del Signore risorto e non degli
interlocutori-destinatari. Le apparizioni di Gesù non possono essere in alcun
modo prodotto dai suoi discepoli.
I
destinatari non sono spettatori passivi delle apparizioni, ma partecipano a
queste esperienze rapportandosi al Risorto e interloquendo con lui. Le
apparizioni del Risorto attestate nel NT non possono omologarsi a quelle che
saranno successive.
L’esperienza
dei primi testimoni resta unica e incommensurabile, perché:
a) i
primi testimoni hanno conosciuto il Gesù terreno e poterono perciò
identificarlo come il Risorto,
b) la
loro esperienza pasquale rappresenta l’esperienza inaugurale dell’inizio, cioè
storicamente unica e non più ripetibile.
Il
presentarsi del Cristo con il suo corpo, per certi aspetti in continuità con il
suo corpo terreno (le stigmate), per altri in discontinuità con esso (carattere
glorioso del corpo risorto), fa sì che non si può pensar alla risurrezione di
Cristo come ad un semplice prodigio di chi ritorna alla vita terrena (come
Lazzaro): si tratta invece di un evento escatologico straordinario.
Lc 24,13-35 (l’apparizione ai discepoli di Emmaus) ha la valenza
rivelativa-sacramentale. Alcune tematiche teologico-fondamentali di questo
testo:
1) la
perplessità che nasce dalla delusione per la morte del giusto innocente e per
non compiersi delle attese messianiche,
2)
l’incapacità di “vedere” – riconoscere nel Risorto il Gesù della storia,
3) il
vago (scettico) riferimento alla tomba vuota e all’apparizione degli angeli,
4) la
memoria del Gesù storico e della passione, alla luce delle Scritture,
5) il
riconoscimento al momento della fractio
panis,
6) il
recupero dell’esperienza alla luce della fides
oculata (vedere credente),
7)
l’annuncio e la corrispondenza di questa esperienza con quella degli apostoli.
L’origine
liturgica del testo suggerisce la profonda dimensione sacramentale dell’evento
fondatore e il carattere totale della redenzione che Dio offre all’uomo in
Cristo. Ma tutto ciò va posto in relazione all’eucaristia.
La
dimensione trinitaria dell’evento pasquale: è l’atto distinto del F: il suo
amore traspone la sua generazione nella forma espressiva della libertà creata,
ma il P vi è implicato come colui che invia F a lo abbandona sulla croce, lo
SpS come colui che non unifica più le due persone che sotto la forma della
separazione.
Il mistero
pasquale costituisce il momento culmine del manifestarsi del Dio Unitrino come
Amore infinito.
Solo nel
nesso tra cristologia e pneumatologia è possibile illustrare teologicamente il
paradosso cristiano della singolarità-universalità di Gesù, per cui non c’è
vera singolarità senza SpS e neppure c’è presenza dello SpS (come persona
trinitaria) nell’universalità della storia senza evento singolare cristologico.
La
rivelazione del “mistero del Regno”
La
modalità asimmetrica dell’alleanza-rivelazione dell’AT è rovesciata nel NT:
“Non vi chiamo più servi ... ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho
udito dal padre l’ho fatto conoscere a voi.” (Gv 15, 15)
Gesù non
presenta un proprio pensiero, ma appunto rende testimonianza al Padre, e
viceversa, il Padre gli rende testimonianza, cui va aggiunta la testimonianza
delle Scritture. (Gv 5,39: “Le Scritture ... sono proprio esse che mi rendono
testimonianza.”)
Il
capovolgimento della struttura asimmetrica dell’antica alleanza risulta
evidente se si riflette intorno a due elementi caratterizzanti la dinamica
rivelativa NT:
1.
All’indicibilità veterotestamentaria del nome di Dio fa riscontro la valenza
salvifica della professione di fede neotestamentaria che avviene proprio nel
nome del Signore.
Fil
2,9-11:
“gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome ... e ogni lingua
proclami che Gesù Cristo è il Signore. ”
Può essere
interessante la portata dell’eventuale trasgressione di Gesù, qualora fosse
verificata l’ipotesi secondo cui egli nel Sinedrio avrebbe pronunziato il
tetragramma e per questo sarebbe stato accusato di bestemmia.
2. Il NT
infrange il tabù relativo all’invisibilità di Dio.
Gv 1,18: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno
del Padre, lui lo ha rivelato.”
Il Cristo
è chiamato icona del Dio invisibile (Col 1,15). In riferimento al giudaismo
ellenistico il termine eikòn non
esprime qui la visibilità dell’immagine stessa: il Signore risorto non è
visibile. L’immagine non connota la visibilità, anche se manifesta e riflette
Dio. La manifestazione operata dal Figlio è diversa da quella, perché viene
dalla sua partecipazione, come mediatore, all’opera di creazione.
L’espressione
“mistero del Regno di Dio” (che è in sinottici solo in Mc 4, 11).
Ef 1,3-10: “... egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà ... il
disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose...”
In questo
inno è stato colto il nesso fra la nozione paolina di mistero e la rivelazione:
è lo schema di rivelazione nascosto-manifesto, Deus absconditus – Deus
revelatus.
Alcuni
propongono di interpretare il termine greco mysterion
in corrispondenza con l’aramaico raz
(segreto), che in Daniele significa un evento escatologico, “stabilito da Dio,
la cui rivelazione è riservata a Lui solo”.
Si tratta
di una struttura dinamica, dove si possono distinguere i momenti o le tappe
della “traiettoria del mistero” (fase del nascondimento) e quella della
“rivelazione”, cui succede la fase “missionaria”.
Il fine
della dinamica storico-salvifica consiste nella ricapitolazione di tutte le
cose in Cristo.
Il mistero
rivelato nella lettera agli Efesini è all’opposto dei misteri pagani.
Nel NT non
c’è mai l’espressione “misteri di Cristo”. Così è evidente la distanza tra i
culti misterici ellenistici e la rivelazione.
Gesù non è
un dio cultuale. Ma il mistero ha comunque a che fare con il culto e con la
celebrazione liturgica.
Mysterion significa
originariamente non una dottrina ma un’esperienza mistico-cultuale del divino,
che non si riusciva ad esprimere razionalmente.
Per san
Paolo e per la Chiesa delle origini il “mistero” non è una dottrina, ma
l’azione salvifica di Dio mediante Cristo, nella quale il progetto d’amore,
nascosto da sempre in Dio, è entrato nella storia e si è rivelato a tutta l’ecclesia.
Mancano le pagine 142-167 (Excursus: la
dimensione escatologica dell’evento fondatore - la risurrezione della
carne; la dimensione pneumatologica
della rivelazione e la personalità dello SpS).
[1] Dio è la
vita al massimo livello. Lo sperimentiamo solo se pensiamo (contempliamo). Lui
è sempre – è eterno. La sua attività è piacere. Dio è meraviglioso in sé.
[3] L’identità
di Cristo è connessa strettamente con il tema del regno di Dio e con il
rapporto filiale con il Padre.
La tesi centrale: La teologia cattolica che pensa la rivelazione del Dio
Unitrino in Gesù Cristo in sintonia con l’insegnamento del Magistero della
Chiesa rileva e riflette l’eccedenza della rivelazione sulla sua attestazione
scritturistica e sulla sua mediazione tradizionale, ponendo sempre in rapporto
dinamico le tre componenti fondamentali del sapere teologico:
Rivelazione – Scrittura – Tradizione.
Rivelazione
e Tradizione – rivelazione nella Tradizione
Prima che
in un testo scritto, la manifestazione di Dio in Gesù Cristo è consegnata in
una tradizione vivente chiamata a custodirla e interpretarla. Distinguiamo una
fase costitutiva e una fase interpretativa della rivelazione, senza separare i
due momenti.
La fase
costitutiva della rivelazione culmina nell’evento fondatore (pentecoste
compresa).
Sarà
opportuno riservare il termine “rivelazione” alla fase costitutiva.
(L’espressione “rivelazione/i privata/e” è per ulteriori manifestazioni del
soprannaturale nella storia della Chiesa e del mondo successive rispetto
all’evento fondatore).
Scrittura
e Tradizione fonti della rivelazione?
L’epoca
patristica, la teologia medievale e della Riforma non hanno avuto un concetto
di rivelazione pienamente esplicitato sul piano riflessivo. Il problema della
natura, della possibilità e dell’esistenza della rivelazione è legato all’età
moderna.
Per la
modernità nascente, punto di riferimento è il contenuto del Concilio tridentino
e per la modernità compiuta Dei Filius
del Vaticano I e naturalmente alla Dei
Verbum del Vaticano II.
Il Concilio di Trento (1546)
La “fonte
di ogni verità salvifica e di ogni norma morale” è il vangelo “annunciato” da
Cristo e “predicato” dagli Apostoli. Si tratta dunque di un’unica fonte della
rivelazione (la manifestazione di Dio in Cristo e il suo annuncio).
Nel testo conciliare si individuano i tre principi
e fondamenti della fede cattolica:
1. i Libri
santi – scritti per ispirazione dello SpS,
2. il
Vangelo – impiantato da Cristo “nei cuori” dei credenti e di cui gli
evangelisti hanno messo per iscritto alcuni elementi,
3.
l’azione dello SpS - che nel cuore dei fedeli rivela i misteri.
Si tratta
così di una concezione viva e dinamica della rivelazione con un’attenzione
pneumatologica, in prospettiva tutt’altro che oggettivante del rapporto
rivelazione-S-T che verrà espressa nella “teoria dei due canali” della scuola
di Tubinga (Möhler).
Per il
Concilio questo vangelo vivo nella Chiesa è l’unica fonte di ogni verità
salvifica e di ogni disciplina della prassi.
“Il Sinodo sa che questa
verità e normativa è contenuta nei libri scritti e nelle tradizioni non scritte
… sotto l’ispirazione dello SpS trasmesse ... con uguale pietà e venerazione
accoglie e venera tutti i libri, sia dell’AT che NT, essendo Dio autore di
entrambi, e così pure la tradizione stessa, inerenti alla fede e ai costumi … e
conservate nella Chiesa cattolica in forza di una trasmissione ininterrotta”.
Era
esclusa l’espressione “partim in libris
scriptis, partim in sine scripto traditionibus”, sebbene probabilmente la
teologia della maggior parte dei Padri tridentini intendesse il testo proprio
in tal senso (che fortunatamente non è nel testo conciliare).
Tale
concezione avrebbe introdotto un inaccettabile dualismo (quasi che la
tradizione contenesse un maggior numero di verità).
Il
Tridentino non elenca una lista di tradizioni.
Concilio
parla anche sulla tematica della giustificazione: “... la fede è il principio
dell’umana salvezza, il fondamento e la radice di ogni giustificazione, senza
la quale è impossibile piacere a Dio. ... Si dice che siamo giustificati
gratuitamente, perché nulla di ciò che precede la giustificazione (sia la fede
che le opere) merita la grazia della giustificazione, è per grazia, non per le
opere.”
“Questa
fede è attiva nell’amore e per questo motivo il cristiano non può e non deve
restare inoperoso. Tuttavia la giustificazione non si fonda né si guadagna con
tutto ciò che precede e segue nell’uomo il libero dono della fede.”
Il
Vaticano I
Di fronte
alle sfide del razionalismo e fideismo la teologia cattolica finisce su
posizioni difensive dei suoi contenuti in modo da proporla come un corpo
dottrinale organico e ben determinato.
Dei Filius: la costituzione dogmatica affronta la tematica della
rivelazione assumendola sostanzialmente come punto centrale.
Capitoli:
1. la creazione, 2. la rivelazione, 3. la fede, 4. il rapporto tra fede e
ragione:
1. La
creazione: si richiama la dottrina della creatio
ex nihilo del Lateranense IV.[1]
2. La rivelazione: inizia ricordando la possibilità di conoscere Dio
attraverso “la luce naturale della ragione umana a partire dalle cose create”,
con rimando a Rm 1,20: “dalla creazione
del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con
l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e
divinità”.
È comunque
a partire dalla dimensione cosmico-antropologica della rivelazione (attingibile
per il tramite della ragione creata) che si imposta il discorso sulla
dimensione storico-escatologica della manifestazione di Dio.
“Essendo
piaciuto alla sua sapienza e bontà rivelare se stesso al genere umano[2],
nonché gli eterni decreti[3]
della sua volontà per altra via, questa volta soprannaturale.”
“È grazie
a questa divina rivelazione che tutti gli uomini possono, nella presente
condizione del genere umano, conoscere facilmente, con assoluta certezza e
senza alcun errore, ciò che nelle cose divine non è di per sé inaccessibile
alla ragione.”
La
rivelazione è necessaria perché Dio, nella sua infinita bontà, ha ordinato
l’uomo a un fine soprannaturale, perché partecipi ai beni divini.[4]
3. La fede: “Poiché l’uomo dipende totalmente da Dio ... quando Dio si
rivela, dobbiamo prestargli, con la fede, la piena soggezione dell’intelletto e
della volontà”.
“La fede è
una virtù soprannaturale, per cui ... crediamo vere le cose da lui rivelate,
non per intrinseca verità delle cose, ..., ma per l’autorità dello stesso Dio,
che li rivela (che non può né ingannarsi né ingannare).”
“Iddio
volle che agli interiori aiuti dello SpS si aggiungessero anche gli argomenti
esterni della sua rivelazione: fatti divini, cioè in primo luogo i miracoli e
le profezie che ... sono argomenti certissimi della divina rivelazione, adatti
ad ogni intelligenza.”
La fede è
intesa come relazione di obbedienza all’autorità di Dio; mentre l’esercizio
della ragione si basa sull’evidenza intrinseca di ciò che essa percepisce, la
fede si fonda sull’autorità di Dio che non può sbagliare. [5]
4. Il
rapporto fede/ragione: si precisa la distinzione fra conoscenza naturale e
conoscenza di fede, il ruolo della ragione nell’intellectus fidei, l’impossibilità della contraddizione fra fede e
ragione, la distinzione fra progresso delle scienze e progresso della dottrina.[6]
Si afferma
la duplice differenza fra ragione e fede: la differenza di principio (strumenti
di conoscenza) e di oggetto.
Questa
distinzione si evidenzia nel fatto che la ragione può pervenire a una mysteriorum intelligentiam eamque
fructuosissimam, ma non può penetrare le verità di fede che oltrepassano omnino l’intelletto creato.
La
distinzione non potrà mai significare una vera divergenza tra entrambi per la
comunanza dell’origine (Dio che rivela i misteri e crea la ragione). La
distinzione piuttosto implica reciproco aiuto.[7]
L’attualità
di Dei Filius è nel convincimento che la fede cristiana è caratterizzata
dal logos e la pretesa di verità del
cristianesimo può porsi con piena fiducia in questo logos e nella sua conservazione, di fronte a qualsiasi richiesta
della ragione.
Il
Vaticano II
Il Novecento si apre per la teologia cattolica con la grande crisi
modernista - la dottrina autentica della rivelazione è sottoposta agli attacchi
in nome di categorie elaborate dalla modernità (p.e. coscienza e esperienza),
con radicalizzazioni che finiscono con il consegnare la realtà dinamica della rivelazione
ad un’irreversibile deriva soggettivistica e relativistica.
La costituzione dogmatica Dei Verbum
raccoglie istanze positive del pensiero moderno e contemporaneo.
Da una concezione oggettivante e statica si è approdati a un modo dinamico
e personologico di intendere l’automanifestazione di Dio in Gesù Cristo.
Sarebbe sbagliato interpretarla in un orizzonte di contrapposizione
dialettica rispetto a quelli del Tridentino e del Vaticano I.
Dei Verbum:[8]
Prologo e 6 capitoli: Rivelazione, Tradizione, Ispirazione, AT, NT,
Interpretazione della SaS nella vita della Chiesa.
Prologo:
assume l’atteggiamento dell’auditus
(religioso ascolto) - la Chiesa si fa serva della Parola stessa e dei suoi
intenti.
I. La rivelazione:
Art. 2: “Piacque a Dio
nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero (sacramentum) della sua volontà.”
La
rivelazione è grazia (dono), è Dio che fa il primo passo.
Capovolge
i termini del CVI (bontà e sapienza) - è elevata la dimensione agapica (contro il pericolo del razionalismo).
L’oggetto
della rivelazione è Dio, che comunica se stesso.
Il
termine sacramentum è sinonimo di
“mistero” e sostituisce l’espressione “gli eterni decreti della sua volontà” di
CVI. È svolta da una concezione giuridico-moralistica a una concezione
biblico-teologica e storico-salvifica della rivelazione.
“Mediante
il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello SpS, hanno
accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura. ... Parla agli
uomini come ad amici.”
Si vede la
dimensione cristologica, pneumatologica, trinitaria della rivelazione e anche
la dimensione dialogica (amici).
“Questa economia della
rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi...”
Qui
confluiscono due grandi prospettive teologiche del Novecento: rivelazione come
parola e rivelazione come storia.
È
sbagliato separare o contrapporre l’aspetto storico-eventuale della manifestazione
di Dio dall’aspetto intelligibile-dicibile della stessa - l’evento di fatto già
parla e inversamente la parola accade.
La storia
non deve essere considerata solo come uno scenario della rivelazione ma come
luogo e struttura portante fondamentale della manifestazione di Dio in Cristo.
L’intelligibilità
espressa nella parola non deve essere interpretata soprattutto in senso
intellettualistico e dottrinale.
“Cristo è il mediatore e
la pienezza dell’intera rivelazione.”[9]
Art. 5:
“A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede, con la quale l’uomo gli si
abbandona tutt’intero e liberamente prestandogli il pieno ossequio
dell’intelletto e della volontà ...Perché si possa prestare questa fede, sono
necessari la grazia di Dio ... e gli aiuti interiori dello SpS.”
Tre
dimensioni dell’atto di fede: conoscitiva, volitiva e affettiva.
Art. 6: si ribadisce la
valenza veritativa della rivelazione e la possibilità della conoscenza naturale
di Dio.
II. La trasmissione della divina Rivelazione:[10]
Art. 9: si
può considerare definitivamente superato e abbandonato lo schema delle due
fonti della rivelazione.
Si parla
di un’unica fonte della rivelazione, riprendendo la formula tridentina del pari pietatis affectu.
“La sacra
Tradizione e la sacra Scrittura sono strettamente congiunti e comunicanti tra
loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in
certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine...”[11]
Sviluppi del pensiero rivelativo
Accenniamo alcuni possibili sviluppi del pensiero
che nasce dalla rivelazione e di essa si nutre.
La prospettiva di fondo resta sempre quella del credo ut intelligam.
Fides et ratio: Il rapporto fede/filosofia trova nella
predicazione di Cristo crocifisso e risorto lo scoglio contro il quale può
naufragare, ma oltre il quale può sfociare nel oceano sconfinato della verità.
La valenza speculativa della rivelazione cristologica
Indicazioni
di metodo
1. La necessità di storicizzare il discorso relativo alla valenza
speculativa (ontologica e metafisica) dell’evento Cristo, onde evitare il
rischio di una sincronizzazione fideistica.
L’ontologia
o la metafisica che l‘evento cristologico suggerisce e consente di sviluppare,
non si può ricavare attraverso un’operazione di riduzione immediatamente
esercitata a partire dal dato neotestamentario (che contiene solo possibili
spunti).
Tale
nucleo speculativo si dispiega piuttosto storicamente sia all’interno del
pensiero credente (filosofico e teologico), sia attraverso il contatto con le
filosofie estranee alla vicenda cristiana.
(Così
l’affinità con categorie platoniche e neoplatoniche è risultata determinante
nell’elaborazione di alcune forme originarie della teologia cristiana...)
2. La
necessità di porre attenzione alla polivalenza delle espressioni storicamente
date.
L’evento
non contiene e non produce un ontologia o una metafisica (se con questi termini
si intende una visione speculare e organica dell’essere e del reale), bensì
offre degli spunti che la storia del pensiero cristiano è chiamata a
raccogliere e organizzare in prospettive diverse.
La
riflessione filosofica è seconda rispetto all’esperienza credente e alla sua
attestazione biblica.
Germi speculativi
1)
L’evento pasquale.
Il mistero
pasquale produce un vero e proprio terremoto nelle categorie ontologiche
proprie di una metafisica faraonica, mentre la risurrezione ribalta i criteri
intorno a ciò che fenomenologicamente appare definitivo – la morte.
Se pure la
mitologia pagana ha parlato del mistero della morte-risurrezione del dio, la
filosofia non lo aveva mai metabolizzato.
Schelling:
l’inizio della filosofia è l’abbandono - anche di Dio. Chi vorrà conservarlo lo
perderà e chi lo abbandonerà lo ritroverà.
2) La
proesistenza che caratterizza l’esperienza e la vicenda di Gesù di Nazareth.
La
capacità di Gesù e il suo modo di relazionarsi al Padre nello Spirito e agli
altri uomini impone al pensiero dell’essere il non potersi declinare
prescindendo dalla relazionalità e dalle sue esigenze.
La
sussistenza della relazione non si possa pensare come se sussistenza =
sostanza.
L’evento
cristologico apporta stravolgimento delle categorie nel pensiero metafisico:
indipendente dal concetto di “sostanza” il pensiero cristiano ha trovato il
nucleo centrale di “persona”.
Principio e fondamento nella logica della fede che nasce dalla rivelazione
cristiana
Che la fede abbia una sua logica non è tesi pacificamente acquisita, sicché
il “rendere ragione della speranza” (1 Pt 3,15) resta un compito di attualità
di fronte alle tentazioni fondamentalistiche.
Metafora delle due ali propugna l’ideale di una collaborazione armonica fra
fede e ragione.
La fede è altra cosa rispetto al ragionare e la ragione e le diverse forme
di razionalità spesso si costituiscono come realtà altre rispetto al credere.
Per il cristiano l’atto di fede è costitutivo ed essenziale (sebbene il
credere non si ponga al termine di un percorso razionale).
D’altra parte il cammino della ragione filosofica esige una cesura rispetto
alle credenze e quindi il rischio di un abbandono.
La riflessione sul rapporto armonico tra fede e ragione induce la necessità
di impostare il nostro discorso sulla “logica della fede”.
La prospettiva dunque sarà teologica, nel senso che il principio e il
fondamento della logica della fede e la sua stessa possibilità verranno
indagati ed esposti nell’ottica del sapere credente.
La fede cristiana ha una sua logica (il suo logos) e così si tratta di estrarre la struttura logica e teologica
insieme, sottesa al credere cristiano e ai suoi contenuti centrali.
L’apologetica cristiana, fin dall’inizio (attribuendo al Logos i frammenti di verità presenti
nella cultura e nella filosofia pagana) ha affermato con chiarezza che una
piena logicità è possibile solo nell’accoglienza del Verbo incarnato, mentre
dall’altra parte il Verbo preesistente, ragione e fine del creato, agisce in
tutti gli uomini che cercano la verità, il bene e il bello con cuore sincero.
Rosmini: elaborava una teoria del cristianesimo nella quale l’istanza apologetica
assumeva un carattere insieme dialogico, ma anche di distanza critica nei
confronti del pensiero moderno. Ci troviamo due espressioni particolarmente
significative:
a) la necessità di
allontanare ogni possibile interpretazione fideistica in rapporto ai misteri
della fede cristiana,
b) il rischio del
razionalismo teologico (con gravissimo danno per la dottrina e per la fede).
Ha anche elaboroto una
dottrina della certezza della fede, basata sul dinamismo della testimonianza e
della sua trasmissione:
Ogni
mediazione della conoscenza di Dio si fonda su un’immediatezza di comunicazione
(ai profeti, apostoli...), sicché la fede fa riferimento a verità che si
percepiscono e non solo si conoscono.
Le verità
della fede sono attestate da moltissime testimonianze (le profezie, i miracoli,
la costanza dei martiri...). Tuttavia la verità di questa religione non si
fonda solo sulla dimostrazione, ma di più sull’evidenza del lume interno, che
Dio per grazia comunica. Se ella si fondasse puramente sopra una dimostrazione
razionale, sarebbe per pochi.
La tesi
centrale: la logica della fede cristiana riconosce il proprio principio nella kenosi
del Logos, ovvero nel logos sarx egeneto, dove il verbo dice
riferimento al carattere storico di tale principio e attraverso tale principio
scopre il proprio fondamento nel nome del Dio neotestamentario che è ho Theos agapé estin (1 Gv 4, 8).
Dunque la
logica della fede cristiana ha un
principio kenotico e un fondamento
agapico su cui poggia e attraverso i quali si costituisce e si esprime.
Il
principio kenotico fa riferimento all’economia della salvezza e quindi alla
Trinità economica, mentre il fondamento agapico si innesta nella riflessione
intorno alla Trinità immanente.
Fil 2,6-11: “Egli, pur essendo di condizione divina, non considerò suo bene esclusivo
l’essere uguale a Dio, ma annientò se stesso prendendo la condizione di schiavo
... umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte. Per questo Dio lo
esaltò...”
In questo
testo è interpretato il principio kenotico: alla kenosi fa riscontro la
sua esaltazione e glorificazione.
La logica della fede cristiana:
1. esige
un pensiero rivelativo, nel quale il riconoscimento del vero non può mai essere
disgiunto dall’esercizio della libertà e dal coinvolgimento dell’affettività,
2. è una logica del
paradosso,
3. è una logica
simbolico-sacramentale, o se si vuole “eucaristica”.
Il
fondamento agapico della logica cristiana esige a sua volta che l’ontologica e
la metafisica che debbano essere intese e sviluppate nel senso di un’ontologia
trinitaria e di una metafisica della carità.
Pensiero
rivelativo nel tempo del disorientamento: verità e libertà
Nella
logica della fedele istanza veritativa non può mai disgiungersi da quella
etica. Fra l’adesione della verità e l’esercizio della volontà libera è un
nesso profondo ed imprescindibile.
P. Florenskij: “La verità esige una vita spirituale. ... Se la verità non fosse
antinomica, il raziocinio non avrebbe un punto d'appoggio, non vedrebbe
l’oggetto extrarazionale, e quindi non avrebbe lo stimolo di abbracciare
l’eroismo di fede. Questo punto d’appoggio è il dogma. ... Infatti non si può
obbligare nessuno a credere o a non credere.”
Il tema
della libertà viene trattato in connessione con quello del peccato.
La volontà
libera è percepita nel quadro della stessa struttura metafisica dell’essere
umano e strettamente connessa all’immagine di Dio che l’uomo porta in sé come
“nucleo santo” del suo esistere. L’uomo non è in grado di esercitare la libertà
rispetto a questo nucleo, mentre può esercitarla nella possibilità di
accogliere o rifiutare la realizzazione della somiglianza divina.
La divinizzazione dell’uomo esige il suo assenso
libero:
“Se la
libertà dell’uomo è una vera libertà di decisione, il perdono della cattiva
volontà è impossibile, essendo essa il prodotto creativo della libertà ... Se
la libertà non è reale, nemmeno l’amore di Dio per la creatura è reale ... non
c’è kenosis e quindi non c’è
amore e non c’è perdono. Ma se esiste perdono di Dio, esiste l’amore, esiste kenosis,
esiste vera libertà della creatura… La possibilità della cattiva volontà e
quindi l’impossibilità del perdono.”
Solo un
pensiero che mantenga il nesso strutturale fra verità e libertà, può costituire
un vero baluardo nei confronti del fondamentalismo e della violenza che esso
impone.
Logica
del paradosso
La logica
della rivelazione è una logica del paradosso (è decisamente diverso rispetto a
quello della doxa - opinione).
Le precisazioni iniziali riguardanti paradosso:
a) si
oppone alle opinioni false ed errate (mentre rispetto alle opinioni vere,
assume la funzione di ulteriore inveramento),
b) deve
valere il principio di non contraddizione.
La ragione
umana è chiamata a sperimentare il senso del proprio limite creaturale e la sua
condizione di precarietà derivante dal peccato, che la ferisce, senza
distruggerla.
Il
paradosso diviene stimolo per la ragione a lasciarsi redimere da Cristo e ad
aprirsi al mistero. Il paradosso supremo del pensiero è di voler scoprire
qualcosa ch’esso non può pensare.
Il
paradosso possiamo definire come “passione del pensiero” dove con la passione
si pensa non solo pathos ma anche kenosi.
Kierkegaard:
“è un compito della conoscenza umana capire che ci sono le cose che essa non
può capire.”
Se il
paradosso e l’intelletto s’incontrano nella comune comprensione della loro
diversità, l’incontro sarà felice come l’intesa dell’amore. Se lo scontro non è
di comune intesa, il rapporto è infelice, e questo amore infelice.
La logica
del paradosso consente al pensiero della fede un guadagno teoretico, ma anche
testimoniale:
-
il carattere dirompente del paradosso non è disgiunto dal
suo carattere antinomico: l’antinomia del paradosso ne determina la dirompenza
(nell’ebraico il paradosso è espressione della doxa del totalmente Altro),
-
il paradosso dice la necessità di tenere aperta
l’anarchia della diacronia come spazio per la trascendenza di rivelarsi,
irrompendo nella storia,
-
difende la verità cristiana dalla deriva dossica
(opinionale),
-
difende da ogni deriva fondamentalistica, anzi fonda la
possibilità di un rapporto dialogico fra le culture, le filosofie...
Il
paradosso della conoscenza di Dio
Paolo in
Rm 1,19-21 afferma non solo la capacità metafisica dell’uomo di conoscere Dio,
ma anche il reale dato di fatto della sua conoscenza, mentre in 1 Cor 1,21 dice
che l’uomo di fatto non ha mai conosciuto Dio.
Questi due
testi danno corpo alla questione quale è lo specifico rapporto tra la ragione e
la fede.
L’esegesi
coglie in questi testi una particolare dialettica tra due poli.
1) Rm 1,19-21: tenta di escludere ogni deriva
fideistica nel rapporto fede/ragione e nella riflessione teologica.
Lo cita
anche Descartes per sostenere il proprio lavoro speculativo.
2) 1 Cor 1,21:
cita Pascal per affermare che senza la mediazione di Cristo non si dà alcuna
autentica conoscenza di Dio:
“Non
conosciamo Dio che per mezzo di Gesù Cristo. Senza questo Mediatore è
impossibile ogni comunicazione con Dio ... Non possiamo conoscere bene Dio se
non conoscendo le nostre iniquità.”
La
dialettica paolina fra possibilità/impossibilità di una conoscenza razionale di
Dio costituisce in un certo senso il punto di riferimento per le due anime
della modernità:
a)
cartesiana, attenta alla dimensione cosmico-antropologica della Rivelazione,
col rischio della deriva razionalistica del credere,
b)
pascaliana, attenta alla dimensione storico-escatologica della Rivelazione, col
rischio di una deriva fideistica del credere.
3) Gal 4,8-9: “Ma un tempo, non conoscendo Dio,
servivate quelli che per natura non sono dèi; ora invece conoscendo Dio, anzi
conosciuti da Dio...”
Questo è
la sintesi delle precedenti contrapposizioni dialettiche
La
dialettica paolina tra possibilità e impossibilità di conoscere Dio da parte
dell’uomo si risolve solo tenendo conto del duplice oggetto della conoscenza.
Possiamo
così distinguere due momenti diversi nel cammino dell’uomo verso Dio.
Tommaso d’Aquino: anche nel suo pensiero
c’è la paradossalità riguardante la conoscenza di Dio.
Summa Theologiae: c’è anche una teologia che fa parte della filosofia -
teologia filosofica, che si distingue dalla teologia propriamente detta sulla
base della diversa prospettiva adottata sullo stesso oggetto: Dio.
La
teologia propriamente detta ha come punto di partenza la Rivelazione divina (la
Parola di Dio), la teologia filosofica conosce con la luce della ragione (la
quale è limitata e non attinge direttamente Dio).
La
distanza tra Dio e la ragione dell’uomo è attribuita al limite stesso dell’uomo
e alla situazione di peccato.
L’esistenza
dell’ateo mostra che l’esistenza di Dio non è per sé nota.
Conosciamo
Dio implicitamente in ogni conoscenza, perché il nostro desiderio naturale
tende alla beatitudine che è Dio stesso, e suppone quindi la sua conoscenza. Ma
tale conoscenza implicita rimane confusa e possiamo anche non identificare con
Dio il Bene cui naturalmente intendiamo.
L’Infinito
conserva dunque un carattere enigmatico.
Se Egli
può non essere riconosciuto, non è a causa di mancanza di intelligibilità da
parte sua, bensì dal suo eccesso di intelligibilità, dalla sua trascendenza
infinita. (“Troppa luce abbaglia.”)
Tuttavia
il nostro intelletto porta in sé un’apertura radicale che lo orienta alla
conoscenza di Dio.
In noi c’è
il “desiderio naturale di conoscere e vedere Dio”.
La nostra
conoscenza, che prende la sua origine dal sensibile, si appoggerà su di esso
per risalire fino a Dio. Così non attingeremo l’essenza stessa divina, bensì
una certa conoscenza di Lui come causa dei propri effetti. Verremo così a
conoscere l’esistenza di Dio, il suo rapporto di Creatore con le creature e la
sua trascendenza nei loro confronti. L’itinerario verso Dio consisterà dunque
nel tentativo di comprendere il creato formalmente come effetto a partire dalla
nostra esperienza.
Non
proporre le cinque prove ma indica diversi cammini attraverso quali si può
scoprire la presenza e l’azione creatrice divina (cinque vie).
“Nessun filosofo prima della venuta di Cristo
poteva sapere tanto su Dio quanto dopo la venuta di Cristo sa una vecchietta
mediante la fede.”
“Di Dio
non possiamo sapere cosa sia, ma ciò che non sia, non possiamo considerare in
che modo sia, ma come non sia.”
Cristo
ovvero il “paradosso assoluto”: il Logos-sarx (contro ogni tendenza gnostica)
La visione
gnostica (che è dualistica) comporta il disprezzo per ciò che è mondano e
carnale, e quindi la negazione della storicità della rivelazione cristiana,
l’incarnazione del Verbo e la risurrezione della carne di Cristo e nostra.
Gv 1, 14:
“Il Verbo si è fatto carne”. Vediamo come la fede cristologica escluda ogni
forma di dualismo gnosticistico. Accosta il termine sarx a logos.
Il
paradosso che è la Chiesa
Rosmini:
“La Chiesa ha in sé del divino e dell’umano. Divino è il suo eterno disegno,
l’assistenza del Redentore. Umani sono altri mezzi: la Chiesa è una società
composta di uomini (soggetti alle imperfezioni e miserie dell’umanità).”
“L’unità
della divina natura, posta a fondamento ammirabile dell’unità che debbono
formare gli uomini”.
La Chiesa
è santa, ma fatta di peccatori.
Mancano le pagine 213-219 (Logica simbolico-sacramentale e pensiero
iconico)
Rivelazione cristiana e “metafisica della carità”
Quali
effetti la rivelazione produce sul pensiero metafisico? Essa ne promuove un
profondo ripensamento.
La
“metafisica dell’essere” è chiamata così a lasciarsi includere e riflettere
nella “metafisica della carità”.
La verità
senza la carità non è Dio. Dunque si tratta di pensare Dio secondo il suo nome
proprio: l’Agapé.
Blondel: “L’essere è amore; quindi se non si ama, non si conosce niente. E per
questo la carità è l’organo della conoscenza perfetta. ... Solo la carità
risolve completamente il problema della conoscenza dell’essere.”
Rosmini: Verità e Carità risultano inseparabili nella divina sapienza, che ci fa
discepoli di Dio stesso. “In due parole si compendia la scuola di Dio - VERITÀ
e CARITÀ. Queste parole significano cose diverse, ma ciascuna comprende
l’altra: in ciascuna è il tutto; ma nella verità è la carità come un’altra, e
nella carità è la verità come un’altra.”
L’alterità
reciproca di Verità e Carità dice l’alterità delle divine persone e il loro
relazionarsi.
È solo nel
Dio che si compone ogni tensione fra la solitudine originaria della persona e
la relazione con l’alterità dell’altro.
Le tre
forme dell’essere, che Rosmini denomina in un primo momento con i termini
subiettività, obiettività, santità e in seconda istanza realtà, idealità,
moralità, hanno “uguale dignità e pienezza”. Nella persona umana le tre forme
dell’essere creato convivono il loro incontro.
Il
fondamento di ogni realtà è il dogma trinitario (con tutta la sua pregnanza
teologica e filosofica).
La
rivelazione dell’essenza di Dio come uno e trino ha dunque una ricaduta
filosofica di enorme portata.
Rosmini ci
offre i dodici anelli della catena
ontologica che avvincola tutto l’ente infinito e finito, nell’ordine suo.
Da questa catena appare evidente come tutto l’essere risulta strutturato
trinitariamente:
Principio (1)
|
=>
|
Verbo (2)
|
=>
|
Spirito Santo (3)
|
Causa efficiente (6)
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<=
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Causa esemplare (5)
|
<=
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Causa finale (4)
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Reale finito (7)
|
=>
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Forma intelligibile
(8)
|
=>
|
Appetito finale (9)
|
Il Padre (12)
|
<=
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Il Verbo che rivela
(11)
|
<=
|
Operazione dello SpS, per la quale s’incarna
(10)
|
Prima serie di anelli
(1-3) = eterno costituirsi dell’Infinito.
Seconda serie di anelli
(4-6) = eterna costituzione della causa.
Terza serie di anelli
(7-9) = costituirsi del causato (ente finito).
Quarta serie di anelli
(10-12) = sublimazione del causato o ente finito nell’Infinito (l’ordine
soprannaturale inserito nel creato).
Non c’è
nulla nell’universo e nella storia che non porti in sé l’impronta trinitaria.
La
trattazione trinitaria della carità: considerata nel Padre come prima,
infinita, assoluta e universale beneficenza; nel Figlio come riconoscenza e
gratitudine, prima, assoluta, infinita; nello Spirito Santo, la carità infinita
assume la forma dell’unione, dove la stessa beneficenza e riconoscenza trova il
suo riposo e si consuma, e dove la catena si scioglie nella comunione mistica.
Rispetto
alla prospettiva aitiologica (ossia della causalità), l’orizzonte agapico consente non pensare la causa prima non in
termini deterministica, ma secondo la dimensione della gratuità. (La creazione
è un atto d’amore del Dio.)
Rispetto
alla prospettiva teologica, Dio è pensato come essere che ama, nel quale
l’amore trova la sua pienezza e perfezione.
La
metafisica della carità include:
a)
un’ontologia della dedizione – si tratta di pensare l’essere nella prospettiva
del dono (Dio è dedizione),
b)
un’ontologia trinitaria – la costituzione trinitaria propria dell’Assoluto
invoca di essere riflessa anche a livello della struttura stessa dell’essere
finito (uomo e cosmo).
Edith Stein: la ripresa dell’antropologia trinitaria, che considera l’essere umano
finito come immagine dell’Essere eterno trinitario. (Anima sensibile - abita
nel copro, anima spirituale – si eleva sopra di sé, anima nel senso proprio –
abita in sé.)
Un’ulteriore
articolazione di un’ontologia trinitaria possa esprimersi a partire da una
rigorizzazione teoretica di un approccio fenomenologico-esistenziale alle
figure dell’interiorità, dell’alterità e della gratuità:
Momenti dell’itinerario
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Fondamento ontologico
|
Richiamo alla teologia della rivelazione
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La via
dell’interiorità (la ricerca di Dio come scoperta del più profondo in noi).
|
Forma ideale dell’essere. Riferimento al Figlio
(dimensione cristologica)
|
Conosci te stesso.
Orizzonte pagano dell’immanenza.
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La via dell’alterità
(la ricerca di Dio come incontro con l’altro).
|
Forma reale dell’essere.
Padre (dimensione teo-logica)
|
Asimmetria.
Orizzonte ebraico della trascendenza.
|
La via della gratuità
(la ricerca di Dio nel legame agapico fra interiorità e alterità).
|
Forma morale
dell’essere.
Spirito Santo (d. pneumatologica)
|
Dirompenza del
paradosso.
Orizzonte cristiano dell’agape.
|
GLOBALIZZAZIONE E TRADIZIONE
Premessa
Poiché la
cosiddetta “globalizzazione” è un fenomeno prettamente e prevalentemente di
carattere socioeconomino, non si vede immediatamente come esso possa
interpellare la teologia.
Oggi che
il contesto sarebbe quello del villaggio globale, dal quale anche la teologia
sarebbe chiamata a superare le esasperate differenziazioni, resta il dubbio cha
una teologia che inseguisse il contesto socioculturale, possa trasformarsi in
scienza del mondo e delle sue espressioni, non senza la possibilità di una
pericolosa deriva ideologica.
Una
teologia fondamentale che ignorasse il contesto socio-culturale del proprio
tempo rischierebbe l’autoreferenzialità e l’isolamento. La speranza cristiana
chiede che le si renda ragione non in maniera disincarnata o in rapporto a
un’antropologia astratta, ma nei contesti umani, che le diverse epoche o
stagioni culturali esprimono. E’ necessario che la Rivelazione si declini in
rapporto ai suoi destinatari/interlocutori - agli uomini e alle culture cui
appartengono.
Ci sono
almeno tre motivazioni per quali il teologo fondamentale si occupa del villaggio globale e delle sue
caratteristiche:
1) I
cristiani sono chiamati a vivere la loro fede in questo contesto
socioculturale. Si devono penetrare non solo i misteri della Rivelazione, ma
anche il mondo e l’uomo, che il Cristo è venuto a redimere. Dobbiamo discernere
il presente, onde la fede cristiana possa incidere la cultura e in essa
innestarsi.
Tale necessità appartiene da sempre alla
fede. Questo possiamo vedere nella metafora biblico-patristica del sicomoro: i
(moltissimi) frutti di questa pianta non hanno alcun sapore, se non li si
incide accuratamente prima del raccolto. Noi riteniamo il sicomoro un simbolo
per pagani: esso forma una gran quantità, ma è allo stesso tempo insipido.
Quando si riesce a inciderla con il Logos, si trasforma, diventa gustosa
e utilizzabile. Il rapporto cristianesimo-paganesimo risulta paradigmatico per
quanto concerne l’inculturazione della fede e l’evangelizzazione della cultura
come compito di ogni generazione cristiana.
2) La
globalizzazione mette in crisi la stessa identità cristiana, chiamata a vivere
ed esprimersi nella forma di sempre, ma anche nei linguaggi e nelle modalità
dell’oggi. Il villaggio globale ha le enormi potenzialità tecniche e
comunicative, ma anche i suoi inquietanti rischi in ordine alla capacità di
saper essere se stessi fino in fondo, ma anche le capacità di instaurare un
dialogo autentico con appartenenze culturali diverse e differenziate.
Una cultura della rete-ragnatela rischia di
dimenticare il soggetto disperdendolo nella molteplicità delle relazioni
virtuali o più o meno reali che quotidianamente nascono e muoiono. E ciò vale
anche per le appartenenze sociali, etniche e religiose, che rischiano di
sciogliersi nel pluralismo, che relativizza e indebolisce i loro nuclei vitali.
3) La
globalizzazione mette in gioco il termine “tradizione”; non riguarda soltanto
la cosiddetta “tradizione dell’Occidente”, bensì chiama in causa sia il
trasmettersi della fede nella forma della paradosis
e anche l’appartenenza credente, dove assume un ruolo non secondario la forma
cattolica dell’essere cristiani oggi e in rapporto con il nostro passato e con
il nostro futuro.
Globalizzazione
e religione
Riduzionismo
interpretativo: possiamo vederlo nel processo di marginalizzazione del fattore religioso
e cristiano.
Oggi nella
letteratura si tende a evidenziare il carattere esteriore delle appartenenze
religiose e il loro impatto politico – a scapito dell’interiorità coltivata
dalle singole identità religiose. A spiegare tale riduzionismo sono addotte due
circostanze:
1. la
letteratura che legge e interpreta il villaggio globale sarebbe nella quasi
totalità opera di intellettuali occidentali e (adottando il punto di vista
dell’Occidente) non sarebbe affatto a sua volta globale,
2. il
carattere postmodernistico degli schemi interpretativi soggiacenti a
interpretazioni, che comporterebbe la sistematica elusione dei problemi connessi
col senso e con la valenza veritativa di cui le appartenenze religiose sono
portatrici.
Non
mancano interpretazioni, che enfatizzano l’aspetto soggettivo delle espressioni
religiose, accanto ad approcci di tipo strutturale, drammaturgico o
istituzionale.
Riduzionismo
etico:
alcuni (pur riconoscendo al fattore religioso un ruolo non marginale)
attribuiscono a tale fattore un ruolo meramente etico di pacificazione globale.
Il compito principale si vede nel creare un ethos
particolare per facilitare le interazioni tra le diverse culture, il commercio
internazionale e le soluzioni dei conflitti. Le tradizioni religiose hanno un
ruolo centrale in tale processo in quanto determinanti per la definizione delle
norme, i valori, i significati.
Tale
prospettiva finisce col ridurre la trasmissione della fede alla tematica della
fede a pura trasmissione di valori; e il dialogo interreligioso ed ecumenico al
semplice rinvenimento delle convergenze etiche.
In accordo con la tendenza
all’omogeneizzazione, le religioni subirebbero una metamorfosi che le
porterebbe a trasformarsi in una sola “religione” concepita idealmente insieme
a un’”etica globale” ben confezionata: beni spirituali e morali standard che
chiunque, in tutto in mondo potrebbe consumare. (Una forma emblematica della
religione globale possiamo vedere nel Breve racconto dell’Anticristo di V.
Solovjev.)
Che la
fede cristiana generi un’etica o un ethos,
è ovvio e auspicabile, ma che la tradizione cristiana possa ridursi a un quadro
valoriale rischia di compromettere l’identità più profonda. Quella identità che
ci impedisce (come cristiani) di accogliere il riduzionismo estetico della
“religione ornamento”, il riduzionismo culturale e religioso di una fede che è
anche, ma non solo, estetica, etica, cultura, religione.
Nulla
di nuovo sotto il sole
La sapienza biblica invita alla cautela nel
tentativo di decifrare, di leggere e interpretare i fenomeni umani.
C’è una
lunga storia della globalizzazione (Alessandro Magno, XVI sec. con i grandi
navigatori e i commerci marittimi). Da allora si sarebbe sviluppata in Europa
una forma economica tale da espandersi e incidere sul resto del pianeta.
Una storia relativamente breve della
globalizzazione ne identifica tre ondate principali:
1870-1914:
calo dei prezzi del trasporto marittimo (dalla vela alla forza a vapore),
sviluppo della rete ferroviaria,
1945-1980:
caduta dei nazionalismi, riduzione delle barriere doganali, sviluppo tecnico,
1980- : alcuni paesi in via di sviluppo che
fanno irruzione nel mercato globale, mentre altri vengono emarginati, flussi
migratori, utilizzo dell’e-commerce
ecc.
Dobbiamo
distinguere fra “globalizzazione” e “mondializzazione”. (“Globalizzazione” è un
termine che viene dall’ambito finanziario e si è esteso alla cultura, ai media;
“mondializzazione” è un concetto
geografico, rappresenta un concetto proprio della cibernetica e consiste nella
concezione del mondo come sistema, e rimanda a una gestione del mondo come
sistema informatico: è pertanto un’ideologia.)
Il legame
genetico e strutturale globalizzazione-modernità può anche essere colto
all’interno della tesi secondo cui la modernità sarebbe per se stessa
globalizzante a partire da tre fonti:
1. la
separazione del tempo dallo spazio,
2. lo
sviluppo di meccanismi di disaggregazione (nuova diaspora = le relazioni
sociali portate al di fuori del contesto locale e riarticolate intorno a tratti
tempo-spazio indistinti e indefiniti),
3.
appropriazione riflessiva della conoscenza.
Il
complesso di questi fattori ha come esito quello di far scivolare via la vita
sociale dai punti fissi della tradizione.
La
trasformazione del moderno sta avvenendo sotto la spinta di sfide congiunte: 1.
globalizzazione, 2. individualizzazione, 3. disoccupazione, 4. rivoluzione dei
generi, 5. crisi ecologica e turbolenza dei mercati,
Vediamo
anche il nesso globalizzazione-ideologia. La valenza ideologica del processo di
globalizzazione sta nel fatto che la forma
mentis che la globalizzazione veicola è l’ideologia dell’individualismo
liberal-capitalistico che si diffonde su tutta la pianeta.
Alcuni
attribuiscono alla globalizzazione il carattere illusorio: essa crea un mondo
di convinzioni artificiose (entro le quali persone abitano beatamente).
Sintesi:
la globalizzazione è 1) un processo di
espansione-estensione 2) verso il mondo intero 3) dell’economia capitalistica
4) attraverso le potenzialità delle nuove forme comunicative (rete
informatica).
La rete
informatico-telematica in rapporto al processo globalizzante non è né un mezzo
né un fine, piuttosto è un “luogo”, nel senso francese del “milieu”, capace di produrre nuovi
paradigmi culturali e sociali (se non addirittura antropologici).
Dio
gioca col Leviatano
La
metafora del Leviatano (accanto a quella del Golem) è stata recentemente
ripresa per esprimere il villaggio globale, soprattutto in riferimento alla
rete e in particolare ad internet.
La
tradizione ebraica insegna che JHWH vive la sua giornata in quattro momenti: 1.
per un quarto del tempo siede sul trono della giustizia, 2. per un quarto su
quello della misericordia, 3. per un altro procura il cibo ai viventi, 4.
l’ultimo quarto gioca col Leviatan.
Dobbiamo
tener aperto lo spazio della libertà, con il relativo appello alla responsabilità
che il nostro contesto impone. Sia i singoli soggetti, sia i gruppi (e in
particolare la Chiesa), non possano né debbano restare passivi osservatori e
fruitori di quanto accade nel mondo (la rassegnazione sarebbe tutt’altro che
cristiana).
Persino chi
dice di non potersi rassegnare e intende combattere l’ideologia sottesa alla
globalizzazione adotta un paradigma interpretativo. Perché anche quello dei no global è un fenomeno globale, quindi
incluso nel processo stesso che intende combattere. Fidel Castro: la
globalizzazione è come la legge di gravità, la si può solo utilizzare, non
eliminare.
Assistiamo
all’emergere di correttivi all’interno della stessa globalizzazione. Si pensi
al termine di “glocalizzazione” (sintesi
del globale e del locale). Questo conferma l’improbabilità di una visione
monolitica del villaggio globale.
E. Severino: avverte l’ineluttabilità della globalizzazione. Ritiene che lo strumento
(la tecnica) dell’espansione dell’economia capitalistica stia assumendo il
ruolo di fine. E in tale processo verrà la fine della cultura occidentale e del
cristianesimo (che con essa si identifica), perché verrebbe meno il fondamento
gnoseologico e ontologico dell’Occidente = cristianesimo: la persuasione che
l’uomo possa scorgere la verità assoluta, definitiva, innegabile. L’inevitabile
tramonto della tradizione occidentale sarebbe dunque determinato
dall’espandersi di Techne. (Le radici
religiose e filosofiche occidentali e dell’islam sono destinate a diventare
mezzi di cui la tecnica si serve per la realizzazione del proprio scopo
essenziale: l’incremento infinito della capacità di realizzare scopi.)
La
globalizzazione come prodotto della modernità sembra esigere dal soggetto
moderno un autotrascendimento di cui questo si rivela incapace. La soggettività
moderna non vuole assumere la responsibilità verso gli altri (lontani
spazialmente e temporalmente) sia quali ricadono le conseguenze del nostro
agire, del nostro stile di vita.
La
soggettività contemporanea ha dato la vita a un soggetto sazio, incapace di
suscitare conflitti politici legati al fronteggiarsi di posizioni eticamente
configgenti perché disinteressato a porre all’agire politico esigenze di senso.
La “sazietà” dell’individuo contemporaneo non rimanda all’esperienza di una
pienezza, ma segnala un vuoto che, tuttavia, non produce ricerca, tensione
verso una soddisfazione perché coincide con la rimozione del desiderio di
contenuti di senso.
La
metafora di “gabbia” e del senso di angoscia e di impotenza che essa suscita:
la globalizzazione esprime per molti soltanto il timore di essere
“intrappolati” in una gabbia mondiale dalla quale non si può sfuggire e nella
quale sembra che manchi l’aria, che si tratti di un mondo senz’anima, che si
muove rapidamente ma non si sa verso che cosa e in base a quali valori. Non si
sa bene neppure chi ne sia il soggetto: chi si globalizza? Ci sono molte cose
che si globalizzano, ma non i valori per i quali vale la pena di vivere, come
la solidarietà o i diritti umani, né le dimensioni etiche.
Ulteriori
considerazioni si devono svolgere intorno all’ineluttabilità dei percorsi
storici, che eventualmente si scontra con la concezione cristiana della storia,
nella quale non vi è assolutamente nulla di necessario, neppure la volontà di
Dio e il suo piano salvifico (perché l’uomo può sempre rifiutarsi di
accoglierlo). L’inferno come “reale possibilità” di destino ultimo dell’uomo
sta lì a lanciare un perenne appello alla nostra libertà responsabile.
Una
filosofia della storia che appella al carattere di destino del succedersi delle
epoche in termini deterministici, ripropone di fatto la concezione pagana della
vita e dell’esistenza, cui si oppone la teologia cristiana della storia con la
Provvidenza.
J. Sobrino: la globalizzazione richiede di essere redenta. Tale redenzione spetta
solo al Signore Gesù, il quale tuttavia redime il mondo non senza la nostra
cooperazione. La perdizione e la redenzione non sono un destino.
La fede
produce nell’uomo il germe della vita eterna, fa sì che il credente sia in una
situazione storica e nello stesso tempo metastorica, partecipi quindi della
vita e della libertà di Dio. Anche a lui è concesso (con cautela) di giocare
col Leviatano.
Occorre di
rinunciare a colpevolizzare il globo, assolvendo le persone, i gruppi sociali e
le stesse nazioni. Non possiamo scaricare la responsabilità dei nostri mali e
del nostro disagio morale sul globo.
Le forme
della ricomposizione dello spazio morale in relazione al villaggio globale e
alle sue sfide: 1. la riflessività del soggetto (deve prendere le distanze da
se stesso), 2. il riconoscimento, con il relativo riferimento all’alterità.
Non è
possibile riconoscere alcuna identità, se prima non si riconosce che fuori di
noi sta qualcosa che non sarà mai completamente intelligibile, prima ancora che
condivisibile.
H. Jonas: nell’elaborazione dell’etica della responsabilità si deve più
sottolineare 1. il carattere profondamente asimmetrico delle relazioni (che è
contro l’egalitarismo dei soggetti e dei nessi che la ragnatela impone), 2.
l’alterità della trascendenza.
Z. Bauman: nessuna azione può essere certa di non avere conseguenze sul resto
dell’umanità, né ogni segmento dell’umanità può limitarsi a se stesso e
dipendere solo dall’azione dei suoi membri. L’attuale sistema informatico non
ci consente di dichiararci ignoranti rispetto a quanto accade nel resto del
pianeta (così da spettatori possiamo diventare attori).
Non
esistono puri agenti e puri pazienti nella rete telematico-informatica che ci
avvolge.
Il
racconto su Davide e Golia (1 Sam 17) ci mostra quali sono i nostri compiti.
Elementi significativi:
1. il panico che il
gigante fa nell’esercito d’Israele,
2. il gesto di Davide di
spogliarsi della pesante armatura di Saul (che non gli consente libertà di
movimento),
3. Davide sceglie
accuratamente le pietre per affrontare e uccidere Golia.
Ai
cristiani è richiesto di: 1. non soccombere e non lasciarsi prendere dal
panico, 2. non lasciarsi ingannare da armamentari tecnologici, 3. operare un
accurato discernimento, onde potersi muovere con spirito profetico nel
villaggio globale.
L’etica
deve essere accompagnata e fondata dall’adesione di fede al Dio e poggiata
sull’evento fondatore della Pasqua.
Insegnaci
a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore
Internet
sembra offrire una connettività globale senza tempo.
Il
concetto di globalizzazione conferma la tesi interpretativa, secondo cui il
processo che così denominiamo produce una sorta di esautorazione del tempo
a favore dello spazio (adotta esclusivamente categorie spaziali). La “network society” è caratterizzata da una
temporalità circolare di flussi interattivi in una realtà di natura spaziale,
che dissolve la linearità ed irreversibilità del tempo in un “timeless time” (tempo eterno) neutro,
senza storicità, e pertanto svaluta in tempo soggettivo.
La
frammentazione e la formattazione del tempo producono la percezione
dell’equivalenza dei momenti che compongono il flusso temporale. (Questo
succede soprattutto nel momento in cui abitiamo la rete informatica o le reti
televisive.)
C. Geertz ha elaborato la categoria di “tempo tassonomico”: anziché susseguirsi
giorni vuoti e giorni pieni (dove la pienezza è data dal loro significato per
il singolo e la comunità), abbiamo soltanto la catena dei giorni vuoti riempiti
da ciò che immediatamente urge la coscienza degli individui. (Si parla di
“società detradizionalizzata”.)
Per
effetto della globalizzazione sono oggi in atto due mutamenti fondamentali:
a) nei paesi occidentali
la vita quotidiana si sta liberando dal peso della tradizione,
b) nelle altre società
nel mondo rimaste più tradizionali si rapidamente perde questa caratteristica.
Questo può
essere facilmente visto nello svuotarsi delle chiese, mentre contemporaneamente
si riempiono i musei.
Nonostante,
possiamo indicare alcuni elementi di interesse positivo:
1) la
ripresa del carattere dinamico della tradizione - finora l’immagine della
tradizione si delineava su di un piano di fermezza, di inalterabilità, ma ora
l’immagine ci può apparire sotto l’aspetto del movimento, non statica, ma
dinamica, quindi direttiva; tradizione non in senso passivo, ma attivo, di
iniziativa,
2)
possiamo dimenticare tutto ciò che abbiamo imparato (la matematica, le formule
chimiche...), perché questa dimenticanza non costituirà una grossa perdita; ma
se dimenticheremo a cosa apparteniamo, se dimenticheremo che Dio esiste,
perderemo qualcosa di molto profondamente umano.
3) il tema
della fiducia - la possibilità di un atteggiamento di umana fiducia in qualcuno
riposa sull’assenza di tempo e spazio, ossia su una sorta di metastoricità: non
vi sarebbe bisogno di dare fiducia a una persona le cui attività fossero sempre
visibili; la fiducia è un meccanismo per affrontare la libertà altrui, ma la
prima condizione della fiducia non è la mancanza di potere bensì la mancanza di
un’informazione completa.
L’orizzonte
antropologico sembra provocare la fede cristiana per il suo profondo
carattere strutturale-sincronico, perché la fede ha carattere profondamente
diacronico (il nesso fra passato-presente-futuro).
Oggi le
dimensioni dell’umano sono sempre e comunque individuate e descritte
all’interno di un eterno presente, in cui il kairos dell’attimo fuggente sottrae ogni rapporto autentico con il
passato e di conseguenza con il futuro. Oggi siamo di fronte al fatto che i
comportamenti indotti dalle nuove tecnologie risultano da una forma mentis sincronistica.
Quale è
capacità delle nuove tecnologie in rapporto alla dimensione spazio-temporale
dell’esistenza? Alcuni dicono che esse cambiano i concetti di spazio e tempo e
altri invece ritengono che modificano la stessa realtà spazio-temporale. Sembra
più plausibile ritenere che ciò che si modifica la nostra percezione dello
spazio-tempo, che non si dà se non in relazione all’uomo e alla sua corporeità.
Lo
strutturalismo del XX secolo, col suo radicale rifiuto della diacronia e della
tradizione, risulta l’erede di quella tendenza a detradizionalizzare che ha
caratterizzato il secolo dei Lumi. Tra i guadagni fondamentali connessi a
l’ingresso della ragione storica e l’imporsi dell’ermeneutica possiamo
senz’altro annoverare il recupero della tradizione e quindi correlativamente
dell’autorità in senso decisamente e dichiaratamente antiilluministico.
L’ermeneutica
contemporanea è incapace di arginare l’invadenza strutturalistica (sia a causa
del consistente influsso del pensiero cosiddetto analitico, sia nei confronti
dei modelli antropologici indotti dalle nuove forme di razionalità
scientifica). Anche i sostenitori del modello ermeneutico in teologia
sostengono che occorre radicale apertura alla dimensione ontologica e
metafisica. Rompere con la struttura infinitamente circolare
dell’interpretazione è possibile solo a condizione che si dia almeno un momento
nella storia in cui irrompe il metastorico.
La fede
cristiana è chiamata a operare un forte recupero della dimensione diacronica
dell’esistenza dei singoli e delle comunità. Questo recupero può comportare
alcuni fondamentali guadagni:
1.
L’appello alla libertà e alla responsabilità che la memoria offre, indicando un
ambito teologico all’etica della responsabilità. Una sana “anarchia della
diacronia” costituisce un antidoto ai totalitarismi della sincronia. I
cambiamenti che nel mondo si producono non vengano subiti, ma guidati da una
fede. Il tema dell’indebolimento del soggetto ecclesiale e della minoranza
cattolica crea le possibilità per esprimere nuove e rilevanti forme di presenza
lievitante la cultura e il mondo in cui siamo chiamati a vivere la fede.
2.
L’acquisizione di una forte dimensione sapienziale delle conoscenze, delle
azioni e della vita (che un sano rapporto diacronia-sincronia può offrire).
Occorre imparare a contare i giorni di noi come individui, ma anche a contare i
giorni della comunità civile ed ecclesiale. L’uomo rimane sempre
sostanzialmente lo stesso e le sue domande di senso attengono sempre e comunque
ai grandi temi della teodicea: dolore, vita, morte, amore, inizio, fine,
futuro. Incrociare queste domande è il grande compito della nuova
evangelizzazione, che è chiamata a rintracciarle e farle emergere.
3. La
tradizione cristiana: offre al tempo stesso un orizzonte di senso nel quale
appartenenza e identità sono chiamate a convivere con apertura e universalità,
essendo Cristo venuto a salvare tutto l’uomo e tutti gli uomini.
Disaggregazione
del tempo dallo spazio, con il conseguente processo di detradizionalizzazione,
pone in crisi e chiama in causa la tematica dell’identità sia nel senso
socio-antropologico sia nel senso dell’identità credente della fede cattolica.
La
Tradizione non è un semplice sostitutivo dell’insegnamento scritto. Essa sa
conservare del passato non tanto l’aspetto intellettuale quanto la realtà
vitale. Si può confermare, che la Tradizione anticipa il futuro e si dispone ad
illuminarlo con lo stesso sforzo che essa compie per rimanere fedele al
passato.
La
comprensione teologica della tradizione
cristiana: occorre tener conto del superamento prodotto dall’evento
Cristo rispetto alla nozione socioculturale di tradizione. Originariamente tradere
(il termine latino che significa trasmettere o dare qualcosa a qualcuno
affinché lo conservi) era impiegato nel contesto del diritto romano, e in
particolare si riferiva alle leggi che regolavano l’eredità: la proprietà che
passava da una generazione a un’altra si considerava affidata e l’erede aveva
l’obbligo di proteggerla e conservarla. Y.
Congar ha moltissimo contribuito al superamento di questo concezione.
In termini
teologici la tradizione significa coglierne tre aspetti costitutivi:
1. tradizione come
consegna - la dimensione cristologico-pasquale-sacramentale,
2. traditio come trasmissione - la dimensione diacronica e storica,
3. tradizione come
appartenenza (o cittadinanza) - la dimensione ecclesiologica.
Queste
dimensioni sono tra loro profondamente intrecciate e interconnesse.
1.
L’identità cristiana poggia su un tradere che originariamente dobbiamo
interpretare nel senso della consegna, dell’essere consegnato e del
consegnarsi. Il “tradimento” richiama il dramma del venerdì santo quando Gesù
consegnato alla passione e alla morte, si consegna al Padre in un supremo atto
di libertà, che cambia l’essere abbandonato-consegnato da Dio nell’abbandonarsi-consegnarsi
in Dio. Ci sono le radici cristologico-trinitarie della tradizione-consegna.
La vis e la res della traditio,
nell’evento pasquale, coincidono perché il messaggio non è altro a ciò che
avviene e si compie, compiendo appunto la Rivelazione.
H. Verweyen: descrive il carattere di “consegna” della paradòsis nella triplice accezione: a) la consegna di un uomo alla
violenza di un altro (il tradimento), b) la consegna da parte di Dio del
proprio Figlio per tutti noi, c) del dono di sé che Cristo compie per noi, per
la Chiesa, per ciascuno.
La
consegna di Cristo al Padre nel momento supremo è possibile e plausibile nella
continuità fra il Gesù storico e Risorto: Egli esercita la libertà suprema di
fronte alla propria morte, consegnandosi al Padre, in quanto in quel momento
culmina la sua esperienza terrena di uomo autenticamente e profondamente
libero.
L’evento
fondatore può costituirsi con valenza unica e al tempo stesso universale in
quanto atto metastorico e storico insieme. Questo evento trova il suo modo
privilegiato di trasmettersi nel tempo e nello spazio attraverso la
testimonianza-martyria dei discepoli
e può essere accolto soltanto attraverso un atto di fede, nel quale grazia e
libertà si incontrano e nel quale ancora una volta si realizza il legame fra
storia e metastoria.
Il tradere della fede cristiana fa anche
riferimento al sacramento e in particolare all’eucaristia: “hoc est enim corpus meum quod pro vobis
tradetur”. Sicché la realizzazione della redenzione in pienezza può
avvenire solo nella forma sacramentale, che non è disponibile ad alcuna cattura
virtuale o comunicativo-telematica (non è possibile confessare per
telefono...). Di fronte a questo trasmettersi sacramentale si pensi ad una
“misteriosa contemporaneità” dell’evento. Nel dono eucaristico c’è misteriosa
contemporaneità tra Triduum paschale
e lo scorrere di tutti i secoli.
Il
carattere dirompente e antinomico dell’evento fondatore tocca le dimensioni
spazio-temporali dell’esistenza: rompe il circolo del tempo-destino (proprio
del mondo pagano) e con la sua dimensione misterico-sacramentale, fa sì che
l’evento unico e irripetibile abbia la possibilità di rendersi contemporaneo
agli uomini di ogni epoca e di ogni latitudine.
2.
Accezione della tradizione nel senso del trasmettersi della fede
appartiene all’evento fondatore e al kerygma
originario, come mostra 1 Cor 15, 1-15,
dove Paolo si considera anello di una catena di trasmissione del messaggio, che
dovrà essere mantenuto nella sua integrità e integralità perché possa produrre
la salvezza in coloro che lo accolgono – la traditio
richiede la responsabilità della fedeltà.
In questo contesto è possibile richiamare un
quarto senso della tradizione-consegna: quello connesso con il dono dello
Spirito. Il verbo che il IV Vangelo utilizza nel momento in cui narra lo
“spirare” di Gesù è lo stesso (paradidòmi)
che sta ad indicare il tradere. La
fede cristologica poggia proprio sui due elementi: lo Spirito e la Tradizione.
3.
Tradizione, intesa come appartenenza (principio di identificazione del
cristiano nel mondo): proprio nel cattolicesimo il carattere comunitario della
fede cristologica esclude in partenza ogni identificazione culturale, ogni
valenza tribale o particolaristica, risultando radicalmente fondato sull’unicità
e insieme sulla universalità dell’evento Cristo.
L’orizzonte trinitario costituisce il
fondamento dell’unicità/universalità del Cristo e quindi la motivazione più
profonda del suo poter parlare ai abitanti del villaggio globale.
La
tematica della comunicazione-trasmissione della fede è la più indicata a
descrivere e farci comprendere il mistero della Chiesa. (Non è possibile alcuna
comunicazione della fede che non sia anche comunicazione della propria
esperienza).
La formula
“comunicazione della fede” non è priva di ambiguità né immune da
possibili fraintendimenti, e tuttavia, se adeguatamente chiarita può essere
utile e feconda, anche in relazione all’attuale contesto culturale,
caratterizzato sempre più da una mentalità comunicativa.
Se infatti
la persona è anche costitutivamente relazione, allora la dimensione
comunicativa appartiene di per sé al suo costituirsi e realizzarsi in rapporto
alle scelte fondamentali e quotidiane che è chiamata e compiere. Il tentativo
di esiliare il credere in un dorato guscio individualistico e soggettivo può
costituire una tentazione tutt’altro che ipotetica della stessa comunità
cristiana, chiamata quindi a superare tale tendenza evocando proprio la
dimensione comunitaria e comunicativa della fede professata.
a) La
nostra formula chiama in causa i contenuti del credere (fides quae creditur), nel loro oggettivo proporsi al soggetto
credente, superando ogni cattura individualistica e razionalistica. Non si può
ignorare il problema dell’effettiva e obiettiva conoscenza dei dati della fede.
Ci vuole la vera e propria alfabetizzazione
cristiana ad intra (perché la fede è
anche conoscenza, e la dimensione intellettuale le appartiene quanto quella
affettiva e volitiva) e ad extra
perché il cristianesimo chiede solo di essere conosciuto autenticamente e
profondamente prima di essere rifiutato o perseguitato. Non si può tralasciare
il problema della cosiddetta gerarchia delle verità che la fede cristiana
propone. Solo molto di rado si pone attenzione a ciò che è davvero fondamentale
nel credere, ma spesso e volentieri su elementi marginali.
b)
Problematico sembra anche l’ambito dell’atto stesso del credere (fides qua creditur) in rapporto alla
dimensione comunicativa della fede. Tale atto non è delegabile né facilmente
comunicabile, eppure la sua dinamica radicalmente comunicativa. Esiste l’intimo
e fecondo rapporto fra apologia e martyria (= testimonianza), in quanto
solo il tramite del testimone può rendere credibili e accettabili i contenuti
della fede che si intende comunicare (ma può rendere plausibile il rifiuto non
banale, ma pensato e davvero scelto di chi non crede).
La fede si
trasmette solo nel dialogo interpersonale, ossia nell’incontro da persona a
persona, attraverso lo sguardo e la parola, il gesto e l’atteggiamento di chi
ha di fronte un altro con un nome e un volto profondamente inalienabili. Nella
misura in cui il “virtuale”, che tende sempre più a caratterizzare l’orizzonte
comunicativo odierno, risulta espressione e aiuto al personale, esso costituisce
un elemento determinante e significativo (tra l’altro per il suo porsi fra il
meramente corporeo e lo spirituale). La fede cristiana (raccogliendo questa
sfida e denunciandone i rischi) è chiamata a svolgere un compito profetico nei
confronti di ogni deriva ideologica, da cui non sembra del tutto immune il
processo socioculturale della globalizzazione.
D’altro
canto ciò che è in gioco è lo stesso carattere veritativo della
tradizione-identità cristiana. La detradizionalizzazione potrebbe esprimere la
fuga dell’uomo dalla verità e dal suo centro. La valenza veritativa della traditio non solo risulta
imprescindibile e liberante per l’identità credente cristiana, ma oltremodo
significativa per ogni identità che voglia continuare a ritenersi
autenticamente umana, in quanto continua ad indicare agli uomini la loro meta.
Nascendo dalla libertà di Cristo, la tradizione è portatrice di una verità che
appella non solo l’intelligenza, ma anche la volontà libera dell’uomo, per cui
la fede si descrive nei termini dell’obsequium.
Le
tradizioni attraverso le quali la fede si esprime possono essere verificate
nella loro autenticità solo in rapporto alla capacità di rendere presente e
attuale storicamente la tradizione originaria - la rivelazione del Dio Unitrino
in Cristo: la Tradizione in tal senso è e ha in sé il criterio di discernimento
delle tradizioni.
Si può
concludere non solo all’impossibilità di pensare la storia in termini di
“destino” (dato che l’evento su cui la fede poggia è un atto di suprema libertà
redentiva), bensì anche alla necessità di interpretare l’identità cristiana
come profondamente e indissolubilmente legata alla cultura occidentale. Il
legame fra cristianesimo e Occidente è decisamente profondo, ma non tale da
imporre l’identificazione della fede con la nostra cultura.
Ultimo
Dio – Ultimo uomo
Dobbiamo
impegnarsi nel tentativo di superare prospettiva dell’”ultimo dio” (“il totalmente Altro contro quelli già stati,
soprattutto contro quello cristiano”). Ma ancora più importante è superare la
prospettiva dell’”ultimo uomo” - colui che
deve venire (il nostro destino) dopo la “fine della storia” - postumano. Siamo
così all’individuazione del terzo punto su cui il Logos cristiano è chiamato a
incidere il villaggio globale: il nodo
antropologico.
Non sembra
veritiera la tesi secondo cui da internet passerebbe informazione, ma
certamente non cultura e tanto meno formazione. Di fatto internet media una
cultura della rete, del nesso, della connettività, che interpella la valenza
ontologica dell’antropologico, dell’ontologia della relazione, ripensata a
partire dall’istanza della soggettività (non tanto come istanza moderna
dell’autocoscienza, quanto come recupero del “subjectum”, come ciò che sta sotto).
Ma il nodo
antropologico è messo in gioco anche nell’ambito delle biotecnologie, che
sembrano sempre più sottintendere l’idea del corpo-oggetto o macchina e
attraverso questa idea rivelano l’intenzionalità di oggettivare la persona. Si
tratta per l’antropologia di recuperare la nozione di corpo-soggetto, dove il
legame fondamentale con l’elemento psichico e spirituale diventa decisivo,
nella misura in cui questo legame si può esprimere nella forma del “sentimento
fondamentale”. Il che condurrebbe al superamento del “parallelismo dei bisogni”
(spirituali e corporali), che sta in qualche modo a designare una tendenza
dualisticamente perniciosa del nostro contesto culturale
(spiritualismo/materialismo).
L’emergere
del postumanesimo come prospettiva antropologica e socioculturale tendente a
leggere e interpretare il presente con lo sguardo rivolto al futuro, e il suo
rapporto con l’epoca e la forma di pensiero dell’umanesimo, descrive R. Maresini: le rivoluzioni informatica e
biotecnologica del XX secolo hanno introdotto elementi di riflessione che necessariamente
dovranno essere affrontati all’interno di una rinnovata cornice filosofica
perché i principi basilari su cui si fondava la vecchia distinzione tra umano e
non-umano sono decaduti. Le vecchie distinzioni umanistiche se da una parte si
dimostrano inefficaci nel dare risposta ai dilemmi aperti dalle
biotecnoscienze, dall’altra non si può certo dire che siano state superate da
una proposta coerente e solida da un punto di vista fondativo. Gravi danni allo
sviluppo di un pensiero organico riferito all’alterità e al rapporto dell’uomo
con essa sono fatti a causa dell’incapacità di fare i conti con:
1.
l’umanesimo – cioè con: a) l’idea autarchica e separativa dell’ontologia umana,
b) la pretesa di un modello paradigmatico di ontologia umana, c) la nozione
pervasiva o proiettiva dell’ontologia umana,
2.
l’antropocentrismo – cioè con: a) l’utilizzo dell’uomo come misura
dell’universo, b) la visione dell’uomo come fine dell’universo, c) l’idea che
proiettività ed espressività umane costituiscano degli universali.
Alcune
considerazioni intorno ai nodi nevralgici più significativi del problema:
1) Si chiama
in causa la stessa natura umana e la sua possibilità a partire
dall’affermazione secondo cui qualunque tentativo di sottomettere la natura
umana a una teoria esplicativa esaustiva e coerente ricorda in qualche modo il
progetto formalistico in matematica ed è pertanto destinato a fallire.
La critica
all’umanesimo nasce e si sviluppa intorno alla presupposta attribuzione di
un’idea necessariamente fissista al sintagma “natura umana”, senza in alcun
modo tener conto di una visione personologica della stessa. Altro presupposto è
quello secondo cui la critica all’umanesimo nasce dall’autarchica concezione
dell’uomo, di cui esso è portatore e da cui si sviluppa ogni antropocentrismo.
Di qui la
necessità di rompere questa autoreferenzialità in modo che il postumano venga a
costituirsi dalla compenetrazione di umano e non-umano. E tuttavia sembra
riduttivo sostenere che l’alterità per l’uomo sia data dalla macchina o
dall’animale o dal “cyberspazio”, mentre il vero problema è nella capacità di
pensare la trascendenza.
L’infosfera
porta a una spersonalizzazione del sapere e dell’esperienza stessa: le
conoscenze possono venire separate dalla fonte, corredati da particolari
euristiche. L’essere in rete va a scapito dell’identità e della particolarità.
De Kerckhove: il “virtuale” possiamo interpretare come una delle possibilità che ci è
offerta di ripensare il rapporto materia-spirito: “Uno degli eventi che
caratterizza la fine dell’umanesimo è sicuramente l’esplosione della
cybercultura.” L’immergersi nel virtuale introduce nuovi modi di interazione
con la realtà e soprattutto una totale metamorfosi nella percezione del tempo e
dello spazio. La tecnica informatica ci consentirebbe di palpare il contenuto
dei nostri pensieri. Ma questa apertura di possibilità non necessariamente
induce il postumano (né il transumano) bensì può leggersi e interpretarsi come
una modalità tutta contemporanea dell’uomo di non essere autarchico rispetto
all’unica trascendenza o alterità autentica. Come si può vedere, non è affatto
necessario ricorrere al postumano per offrire un’adeguata piattaforma
antropologica ai processi culturali in atto. La grande tradizione cristiana
chiede di essere rivisitata e ripensata in rapporto ai processi culturali.
2) F. Fukuyama: l’impossibilità di pensare la
natura umana e in essa la mente alla stregua di una “tabula rasa in qua nihil scriptum est” (che è
idea di Locke). Esistono reazioni emotive innate che presiedono alla formazione
di idee morali relativamente uniformi in tutta la specie – così possiamo affermare
la specificità dell’essere umano.
3) La
libertà e il suo esercizio nel villaggio globale: quand’anche si accettasse
l’idea che la libertà di scelta individuale equivale all’autonomia morale,
resterebbe da dimostrare che la possibilità di effettuare scelte senza
limitazioni sia il valore più importante per l’uomo. L’uomo è chiamato ad
appropriarsi di una “nuova libertà”, capace di orientare il cambiamento e di
arginare l’avvento del postuomo, prospettiva che non siamo affatto tenuti ad
accettare, anche perché potrebbe aprirsi davanti a noi una tirannia gentile in
cui tutti sono sani e felici ma nessuno ricorda il significato di parole come
speranza, paura, lotta.
Il grande
successo di Internet non è tecnico, ma nell’impatto umano. La posta elettronica
è un modo completamente nuovo che la gente usa per comunicare. Dobbiamo tener
conto del fatto che la globalizzazione non è strumento sufficiente a
interpretare la nostra storia: nel mondo non ci sono solo microchip e mercati,
ma anche uomini e donne con costumi, tradizioni, desideri e aspirazioni
imprevedibili.
Ci sembra
che la tradizione cristiana sia in grado di offrire una visione antropologica
capace.
a) di
integrare le dimensioni della conoscenza e della volontà libera, con quella
dell’affettività (spesso ignorata nelle interpretazioni correnti socioculturali
e antropologiche) attraverso la nozione di “corpo soggetto”,
b) di
volgere lo sguardo alla storia davvero a partire dalla sua fine, ma nel senso
della riserva escatologica, che è soprattutto messaggio di speranza sul mondo e
sull’uomo che lo abita.
Per
concludere
Probabilmente
dobbiamo semplicemente rassegnarci a ignorare se la globalizzazione costituisca
il nostro futuro o sia già nel nostro passato; in ogni caso la teologia
cristiana non sembra possa esimersi dal misurarsi con le questioni di fondo che
ha posto e pone, trattandosi in ogni caso di esercitare l’intelligenza della
fede su tematiche non marginali. D’altra parte una fede che si lascia
criticamente pensare e culturalmente mediare è un dono grande per la “polis” nell’età del fondamentalismo e di
presunti, ma non meno pericolosi, “conflitti di civiltà”.
L’Europa
non è in realtà un territorio chiuso o isolato; si è costruita andando
incontro, al di là dei mari, ad altri popoli, ad altre culture e civiltà.
Perciò deve:
a) Essere
continente aperto e accogliente - l’Europa non può ripiegarsi su se stessa.
Essa non deve disinteressarsi del resto del mondo, al contrario deve avere
piena coscienza del fatto che altri Paesi si aspettano da essa iniziative
audaci per offrire ai popoli più poveri i mezzi per il loro sviluppo, e per
edificare un mondo più giusto e più fraterno.
b)
Ripensare la cooperazione internazionale. La cooperazione non si può ridurre
all’aiuto e all’assistenza, addirittura mirando ai vantaggi di ritorno per le
risorse messe a disposizione. Essa deve esprimere un impegno concreto e
tangibile di solidarietà, tale da rendere i poveri protagonisti del loro
sviluppo.
c) Farsi
parte attiva nel promuovere e realizzare una globalizzazione “nella”
solidarietà che è accompagnata da globalizzazione “della” solidarietà e dei
connessi valori di equità, giustizia e libertà, nella ferma convinzione che il
mercato chiede di essere opportunamente controllato dalle esigenze fondamentali
di tutta la società.
d)
Impegnarsi a costruire la pace dentro i suoi confini e in tutto il mondo. Le
differenze nazionali devono essere mantenute e coltivate come fondamento della
solidarietà europea.
[1] Usa termini
teologici e non filosofici – non si tratta di preambula fidei;
prospettiva storica. Dio crea per rivelarsi
(non per realizzarsi). La creatura umana è vista come centrale. Dio si
interessa della creatura (contro deismo). Canone 4 – contro panteismo.
[2] Dio non rivela i dogmi, ma se stesso.
[4] Dio si
sarebbe rivelato anche se Adamo non avesse peccato. (A causa del peccato Cristo
è morto sulla croce.)
[5] Nell’atto di
fede è coinvolto tutto l’uomo. La fede è una virtù soprannaturale, è grazia. La
fede non è cieca. Nessun può credere senza illuminazione dallo SpS e nessun può
essere giustificato senza la fede. L’assenso di fede è libero.
[6] La dottrina
di duplex ordo cognitionis (duplice
ordine della conoscenza) – ragione e fede sono 2 modi di conoscere che
corrispondono alle due dimensioni della rivelazione – naturale e
soprannaturale. (Ma non c’è duplice verità). La fede è anche conoscenza.
[9] Art.3: preparatio revelationis – Dio crea e conserva tutto per mezzo del
Verbo. Nella creazione abbiamo testimonianza di Dio. Il peccato non è motivo
della rivelazione. Le tappe della salvezza hanno il senso preparatorio
all’evangelo.
Art. 4: Cristo completa la
rivelazione – Cristo manifesta il Padre con le parole, le opere e specialmente
con la sua morte e risurrezione. Si tratta di alleanza nuova e definitiva.
[10] Art. 7:
“Tutto quello che aveva rivelato ... Dio dispose che rimasse sempre integro e
trasmesso a tutte le generazioni.” Il luogo della trasmissione è la comunità
degli apostoli.
Art. 8: La sacra tradizione – la tradizione
progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello SpS. Cresce la comprensione
delle cose e delle parole trasmesse: tramite lo studio, l’esperienza della vita
spirituale e la predicazione dei vescovi. Dio non cessa di parlare con la
“sposa” del suo Figlio diletto (dialogo sponsale tra Dio e Chiesa). La
tradizione è vangelo eterno – viva vox
evangelii.
[11] Art. 10:
Relazione tra T, S e M – l’interpretazione autentica della parola di dio è
affidata al solo magistero vivo della Chiesa. T, S e M sono tra loro talmente
connessi da non poter sussistere l’uno senza l’altro.
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