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Tuesday, March 4, 2014

TEOLOGIA FONDAMENTALE

Teologia fondamentale


I libri:
1° semestre: – Teologia fondamentale I (2a parte: 237-338), IV


Il tema di teologia fondamentale: La Rivelazione di Dio Unitrino in Gesù Cristo, attestata nelle Scritture dei due Testamenti, trasmessa nella tradizione della Chiesa Cattolica, accolta nella fede e credibile oggi.

Ci sono tre pilastri – Rivelazione, tradizione, fede. Ma questo tutto deve essere credibile oggi. Dobbiamo guardare questo tempo con due occhi. Con primo lo guarderemo con simpatia (empatia) e con secondo con vigilanza...

1. Momento epistemologico: Che cos’è la teologia fondamentale?

Epistemologia e il tentativo di rispondere le domande: Come si fa la teologia? Che stato ha teologia in scienza? E’ infatti la scienza?

STORIA DELLA TEOLOGIA FONDAMENTALE

a) Apologia = difesa (dal greco) o anche il discorso di difesa di sé o di altro.
Apologia di Socrate - il dialogo scritto da Platone, dove Socrate difende se stesso (è chiamato a esibire le ragioni del suo comportamento).
Ci interessa la difesa (letteraria) fatta dai cristiani contro le accuse.
Contenuto: difesa contro le calunnie da pagani o da ebrei, spiegazione di fede.
b) Apologetica = disciplina di teologia, la letteratura sistematica di difesa mediante l’uso di ragione (universalmente valida). Ha sostituito i compiti dell’apologia, fornendo complessivamente al discorso di difesa della fede.
c) Teologia fondamentale = riflessione intorno alla rivelazione (le teologia della rivelazione); dopo il CV2 ha sostituito il termine apologetica.
Questi tre termini sono in correlazione tra loro, anche se storicamente appartengono ad epoche diverse. TF proviene da apologetica e questa da apologia. TF utilizza esperienze dei precedenti.

L’epoca neotestamentaria
Il NT ha il carattere prevalentemente pastorale, ma questo non significa che il NT non presenti singoli passaggi con la tematica apologetica.
I primi cristiani fanno un dialogo di tipo kerigmatico e anche apologetico con i giudei e con i pagani.
1 Pt 3, 15: “(Siate) pronti sempre a rispondere a chiunque vi domanda ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto...” esorta i cristiani a compiere la difesa ragionata di loro speranza (fede). Senza preghiera non si fa teologia. Ci vuole un spirito di adorazione! Ognuno è chiamato a dire (a se stesso) i ragioni della sua fede – speranza. Tutto quello si deve dicere “con mansuetudine e rispetto”.
Ai Romani: Non è la Torah che salva, ma è la fede!
-          Rom 12, 1-2: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale (λατρειαν λογικην). Non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà.”

Paolo dice “culto spirituale” – in greco λατρεια λογικη. Perche? Il culto dei pagani (e anche dei Ebrei) è consistito sopratutto di sacrifici di sanque. Ma questo culto è illogico. L’unico culto logico è quello di cui parla Paolo – sacrificio di se stesso, cio è il comportamento descritto nel verso 2.
Il contesto del tempo di Gesù era medi giudaismo, che consisteva di culto di tempio e rabbinismo. Anche Gesù era un rabbi. E da medio giudaismo sono nato  il cristianesimo e il rabibinismo. L’apologia di Bibbia cosiste del complemento e superamento del medio giudaismo (AT) ma anche della cultura dei pagani.

Atti degli Apostoli: offrono alcuni argomenti: Gesù è risorto, ha fatto segni e miracoli,  profezie si sono compiute. Il dono dello Spirito dal Risorto – costitutivo della Chiesa.
Vangeli: le vicende della vita terrena di Gesù (interpretati profeticamente come compimento dei testi di AT) e anche i segni e i prodigi che egli fa sono ragioni per la fede in lui.
Lettera agli Ebrei: Gesù è presentato come sacerdote, che è molto più di sacerdoti antichi (e anche di Mosè) questa lettera è apologetica perché vuole impedire ai convertiti cristiani di ricadere nel giudaismo.
Dunque l’apologetica non è solo una difesa ad extra della fede, ma si rivolge anche ad intra, per sostenere i cristiani nella coerenza della vita rispetto alla loro professione di fede.
NT dà ai cristiani l’assicurazione, che la loro fede ha fondamenti solidi.

L’apologetica in età patristica
La nascita della letteratura apologetica è all’inizio del II secolo.
Caratteri specifici di quest’epoca:
1.  religiosità politeistica (poco incline ad trascendenza e unità di Dio), nuovi culti – mitraismo e misteria
2. sincretismo dottrinale in pensiero filosofico; secondo questo pensiero (attinto da Platone), esiste una divinità unica, indicibile e trascendente; poi esiste un mediatore tra il primo principio e il cosmo (demiurgo) che da forma alla materia.
Il cristianesimo doveva confrontarsi a) con l’ebraismo, b) con paganesimo c) con le eresie (dall’inizio del III secolo).
I temi principali degli apologeti: monoteismo cristiano (difesa contro accusa di ateismo, mostrare che monoteismo è migliore che politeismo), logos (identificazione con Cristo), realizzazione delle profezie di AT.
Il linguaggio: usano le categorie greche del pensiero (si forma primo vocabolario cristiano) => si fa il ponte  tra cristianesimo e il mondo greco.

San Giustino (+165)
Filosofo, martire, è il primo scrittore cristiano dopo Paolo che coglie le implicazioni universalistiche del cristianesimo.
Nacque in odierna Palestina nella famiglia pagana. Incontrava le scuole filosofiche: stoica, peripatetica, pitagorica e platonica. Ma si  è convertito al cristianesimo. A Roma aveva la propria scuola filosofica.
Le sue opere più importanti:
I Apologia (148-150) è indirizzata all’imperatore Antonio Pio ed ai suoi figli adottivi. Ha 68 capitoli ed il scopo è quello di protestare contro l’ingiustizia della persecuzione verso i cristiani, ma anche di dare le necessarie conoscenze sul cristianesimo.
   Contenuto: analizza accuse contro cristiani; mostra superiorità del cristianesimo rispetto a AT e a dottrine filosofiche; spiega la dottrina sul Logos; il confronto tra platonismo e cristianesimo; la descrizione della vita cristiana in un contesto liturgico sacramentale (liturgia battesimale e eucaristica)
II Apologia è indirizzata al senato romano ed all’imperatore e fu scritta per difendere i cristiani condannati a morte.
Contenuto: difesa del cristianesimo dal punto di vista legale; continuità e superiorità cristianesimo in confronto di filosofia pagana; verità presenti nelle filosofie platonica e stoica sono accolte nel cristianesimo
Qui è per la prima volta la dottrina dei semi del Logos (logoi sprematikoi) sparsi nel genere umano => Giustino stima la filosofia (soprattutto il platonismo).
Dialogo con Trifone il confronto con la religione ebraica.
Contenuto: racconto della conversione di Giustino, AT non è rigettato ma viene inteso come preparazione di NT;  Trifone non si converte al cristianesimo.
Pensiero:
Pioniere dell'apologetica cristiana e primo filosofo cristiano.
La fonte unica della verità è il Logos divino (che è  innato), diffuso come un seme in tutto il mondo. In ogni uomo c’è un seme del Logos che lo rende partecipe della verità e razionalità del Logos, dunque anche i pagani partecipano al Verbo.
Confronto tra Socrate e Cristo - Socrate ha esposto delle verità nella sua filosofia ma Gesù Cristo è la Verità. E di quello risulta che cristiani, ricevendo Cristo, hanno una conoscenza chiara dell’unica Verità. Attribuisce al Logos preesistente i frammenti di verità nelle filosofie e culture pagane.
I filosofi greci e profeti biblici si sono influenzati.
In cristianesimo la razionalità si è manifestata in forma perfetta nel Cristo Logos incarnato (Logos pleroma), mentre gli altri insegnamenti ad esso precedenti, hanno solo partecipato della razionalità del Logos (Logos sperma).
Avvenimenti di AT e NT formano unica economia divina.
Utilizza categorie filosofiche e culturali per farsi comprendere, mostrare la credibilità e la ragionevolezza del cristianesimo e anche la novità.
Giustino è uomo di fede (alla quale sacrifica la propria vita).
Gli uomini che prima di Cristo hanno vissuto secondo ragione (Logos) sono considerati cristiani (anche loro erano perseguitati).

A Diogneto
Fu scoperto in un manoscritto il 1436 a Costantinopoli. Autore ignoto, scritto forse verso la fine del II. sec. (forse in un ambito alessandrino), si pensa che non si tratti di una lettera bensì di un discorso apologetico, ha 4 parti.
Si tratta di apologia contro i pagani e i giudei, volta a confutare (negare) le pratiche idolatriche dei primi e il culto dei secondi. L’opera anche presenta il ruolo che i cristiani hanno nel mondo e catechesi sulle principali verità della fede.
Pensiero:
L’autore intende esplorare il mistero del cristianesimo in quanto tale. Il paradosso cristiano (V. cap.): il cristiano è nel mondo ma nel contempo non è del mondo, ogni patria straniera è patria loro e ogni patria è straniera ecc.
Cristiani non dovrebbero disprezzare il mondo, ma a divenirne l’anima (antropologia platonica).
In quest’opera la fede non è più una filosofia, ma adesione di vita ad un dono di Dio che è la Rivelazione – il nuovo rapporto tra la fede e la vita.
Interrogare cristianesimo non più sotto il profilo della sua ragionevolezza  ma la vita vissuta – la vita è apologetica.

Lo gnosticismo
Si sviluppa già nell’epoca NT ma lo sviluppo più alto è tra la seconda metà del II secolo e il III secolo. Era grande eresia che non attacca una singola verità di fede ma tutta la concezione di cristianesimo.
Lo gnosticismo è un fenomeno vasto e pluriforme.
Scuola torinese (Filoramo, noi): Lo gnosticismo è un fenomeno sincretistico - è una miscela di fede cristiana, filosofia greca, religioni misteriche e culti orientali.
Scuola romana (Simonetti): Lo gnosticismo è un fenomeno cristiano (alcuni cristiani hanno accolto alcuni elementi di origine pagana in un contesto fondamentalmente cristiano).
Igni sistema gnostico è caratterizzato dalle tre dimensioni: teologica, antropologica e cosmologica.
Dualistica concezione del divino – Pleroma x il mondo materiale, creato dal demiurgo cattivo (il Dio dell’AT).
L’uomo spirituale puo raggiungere la salvezza se si liberi dall’influsso del mondo e di tutto ciò che è materiale e cattivo. Questo avviene soltanto attraverso un percorso progressivo di conoscenza di sé e allora di autocomprensione. Il compito del rivelatore (Gesù Cristo) è quello di svegliare l’uomo e indicargli la direzione da seguire per ricongiungersi con il pleroma.
Lo gnosticismo non è solo una filosofia né una religione ma piuttosto una teosofia, in cui sono congiunti tra di loro i due elementi: rivelazione e razionalità.
Lo gnosticismo rifiuta alterità tra Dio e le sua creazione e nega ogni verità biblica e cristiana (si salva solo attraverso sforzo personale).
Caratteristiche principali:
a) componente iniziatica, dimensione elitaria: occorre superare ostacoli per salvarsi (autosalvezza) X gratuità della salvezza di Gesù
b) esoterismo = la salvezza (segreta) per eletti X essoterismo del cristianesimo – salvezza è universale, per tutti.
       Gli uomini si distinguono su tre livelli (come ci sono tre dimensioni dell’uomo – carne, anima, spirito):
1. ilici - uomini carnali-materiali che sono senza possibilità di salvezza,
2. psichici - dotati di libero arbitrio e quindi destinati a una certa forma di salvezza (ma solo parziale),
3. pneumatici – spirituali; attraverso il processo di risveglio possono congiungersi con il divino pleromatico,
c)  sincretismo - una miscela di cristianesimo, paganesimo, ebraismo, filosofia, misteri... X unicità dell’evento cristiano
d) dualismo – disprezzo del mondo e della carne (spirito-corpo, maschile-femminile, bene-male, luce-tenebre, Dio di NT- Dio di AT) X storicità, incarnazione, ressurezione di carne.
Fonti di conoscenza dello gnosticismo:
Corpus Hermeticum - una raccolta di 18 trattati risalenti fino al II a.C. (dunque prima di cristianesimo) ma la cui collezione principale si pone tra il I e il III d.C. Manoscritti di Nag Hammadi (p. e. La Sophia di Gesù Cristo, Apokryphon di Giovanni, Vangelo di Tommaso) – con carattere cristiano o anche non cristiano.
Scritti antignostici di padri della Chiesa:  sant’Ireneo di Lione (Adversus haereses) e sant’Epifanio di Salamina (Panarion).
Sistemi gnostici: sistema valentiniano, quello di Basilide, simoniana, e quella della setta degli ofiti.
Conflitto con gnosticismo ha aiutato a sistemazione del canone delle Scritture, istituzione di formule di fede che diventeranno i Simboli, emergenza di un episcopato rappresentante la successione apostolica del ministero.

Sant’Ireneo di Lione (135/140 -202)
Precisa la nozione di tradizione e ne mostra il ruolo nell’interpretazione della Scrittura. (Leggerla secondo la regola di fede ricevuta dagli Apostoli).  Svilupperà per primo una visione globale del mistero cristiano - è il primo “teologo sistematico”.
Nato a Smirne, discepolo di san Policarpo, vescovo di Lione in Francia, (probabilmente) martirizzato.
Difende e anche pacifica le Chiese dell’Asia Minore in conflitto con Roma per la controversia sulla data della Pasqua.
Adversus haereses (5 libri): smaschera e confuta l’eresia gnostica. Mostra la dottrina gnostica e quella di Chiesa (compendio), confuta la dottrina gnostica attraverso la ragione, la dottrina degli Apostoli, le parole del Signore e le lettere apostoliche.
La dimostrazione della predicazione apostolica (Epideixis): presenta la fede trasmessa dagli apostoli. Per provare la verità dei Vangeli, si richiama ai testi (profezie) dell’AT.
Pensiero:
Parte dal problema della salvezza dell’uomo. Per gli gnostici la salvezza è riferita alla dimensione spirituale, ma per Ireneo alla dimensione carnale (sarx) dell’uomo. L’uomo è salvato in pienezza: nello spirito, ma anche nel corpo (per gnostici salvezza consiste in una liberazione dal mondo e dal corpo).
Mentre gli gnostici parlavano di una redenzione per connaturalità con il divino da parte dell’uomo, Ireneo insiste sul realismo dell’incarnazione di Cristo che si è fatto l’uomo. Questo apre la via alla redenzione dell’uomo.
Mostra la duplice infedeltà degli gnostici: a Scrittura e a Tradizione.
Ribadisce l’unità dei due Testamenti, che sono frutto dell’unico Dio creatore e redentore del genere umano.
Ha fissato i criteri di una corretta interpretazione della Scrittura e ha esposto quella regola della fede che diverrà fondamentale nelle epoche successive. 
Ribadisce gratuità, universalità, unicità e storicità della salvezza che può salvaguardare solo la fedele adesione alla Scrittura e Tradizione della grande Chiesa.

L’apologetica tra Oriente e Occidente dopo Ireneo (nel III-IV secolo)
La riflessione in Oriente e in Occidente si differenzia: in Oriente - il carattere dimostrativo e razionale  (t. speculativa),
  in Occidente - il carattere pratico (la vita e situazione concreta)
Scuola alessandrina: In Alessandria la teologia diventa una componente fondamentale nella vita ecclesiale. Grazie al carattere cosmopolita è buon posto per origine di gnosi.
   Il suo metodo esegetico della Scrittura è basato sull’allegoria. E usa strumenti filosofici.
Clemente Alessandrino (+215): il primo che introduce nella teologia la dimensione della speculazione. In lui si incontrano il cristianesimo e l’ellenismo: pensiero grecocristiano – un pensiero che è speculativo, ma è incentrato sul mistero di Cristo.
Opere: il Protrettico (esortazione a convertirsi), il Pedagogo e gli Stromati (una raccolta di note).
Mediante il progresso nella conoscenza religiosa e nella vita di fede (etica) si può giungere alla vera gnosi.
La fede è superiore di filosofia. (Ma la filosofia ha origine divina.)
Origene (3. s.): il cammino di conoscenza da una fede semplice ad una fede perfetta.
Distingue tra la fede terrena  e  la contemplazione eterna.
La ricerca delle verità di fede trasmesse dagli apostoli. Come strumenti gli servono la Scrittura (esegesi allegorica) e la filosofia (medio platonismo e stoicismo). Teologia è per lui ricerca razionale nei confronti della fede e dei suoi contenuti.
Opera: Contro Celso - confuta il Discorso vero del filosofo Celso il quale presenta Cristo come un impostore.
Tertulliano (+ 220): di Occidente, giurista
Opere: l’Ad Nationes (difende l’unicità di Dio criticando il politeismo pagano), l’Apologeticum (difende cristianesimo contro le calunnie, il discorso sulla libertà religiosa), l’Adversos Judaeos (nei confronti dell’ebraismo).

Agostino d’Ippona (354 - 430)
Uno dei più grandi apologeti di tutti i tempi. Nacque in odierna Algeria (padre pagano, madre Monica pia).
Studi letterari e di retorica a Cartagine. Diventa filosofo. Manicheista. Dopo la conversione (386) è battezzato da Ambrogio.
Vescovo di Iponna – attenzione pastorale. La domanda principale: Come vivere l’ideale cristiano?
Opere:113 lavori, più di 500 sermoni e 218 lettere
De utilitate credendi (sul problema della credibilità della fede cattolica), De doctrina christiana (i principi ermeneutici in ordine alla Scrittura e teologia)...
Pensiero:
La metà della ricerca umana è nell’aspirazione alla beatitudine della visione di Dio che si può raggiungere solo mediante cammino di ascesa progressiva fino a unirsi con Dio.
La fede e ragione sono due realtà che corrono su vie parallele, ma che concorrono ad un unico fine - la contemplazione del Regno di Cristo. La fede è punto di partenza attraverso il quale si accolgono le verità rivelate; segue l’esercizio della ragione all’interno della fede; si giunge all’intellectus fidei che è la comprensione intellettuale e contemplativa delle verità di fede.
Mediante F e R l’uomo può realizzare la ricerca intellettuale e raggiungere l’unione con Dio. L’intellectus fidei è a metà strada tra la fede terrena e la visione di Dio eterna.
L’apologetica guarda all’interno della fede e chiarifica il rapporto tra F e R. Teologia è scientia e sapientia.
De vera religione: gli antichi arrivarono a conclusioni errate perché da loro non vi era armonia tra F e R.  Un’armonia che solo la rivelazione cristiana ha saputo illustrare nell’unità che solo Cristo può realizzare. Tra F e R è reciproca interdipendenza in vista dell’unico fine del uomo che è la salvezza e la contemplazione del volto di Dio.
De civitate Dei: risponde alle accuse per cui il cristianesimo sarebbe stato responsabile della caduta dell’impero romano. Getta le fondamenta di una teologia globale della storia: ci sono due città – la città di Dio e la città terrena. Solo il giudizio finale rivelerà veramente i confini della città terrena e della città celeste. Qui proclama la sua speranza nell’esito sicuro di questa storia.

L’apologetica in età medievale
Medioevo = il periodo storico che è dopo antica, dura dal 476 (caduta dell’Impero romano) alla fine del XV s., quando cade Costantinopoli (1453) o scoperta America (1492). Questo termine era spregiativo e si usava per indicare l’oscuro millennio.
In medioevo matura l’idea di Europa moderna. È il tempo di sviluppo della cultura fondamentale per Europa ed è l’epoca della nascita del concetto di Christianitas = la compenetrazione reale tra la fede e la cultura medievale; la fede alimenta la cultura e guida l’uomo nel processo di trasformazione del reale che lo circonda.
La divisione di questo periodo:
1. L’epoca della teologia monastica (dal VII all’XI secolo): la teologia viene concepita nell’ambito del monastero. Benedetto. Lectio cursiva della S (sacra pagina) e la lettura delle antologie e raccolte sistematiche di testi patristici a commento della S. Non si sviluppa l’apologetica ma è ricostruzione del pensiero cristiano dopo il crollo dell’Impero.
Fenomeni: l’armonia tra la ragione e la fede, il confronto con l’islam (introduzione di Aristotele nel pensiero europeo)
2. L’epoca della prima e della grande Scolastica (dall’XI al XIII secolo): Anselmo, Abelardo, Tommaso, Bonaventura.
    Caratteristiche nuove: la prevalenza del metodo della dialettica razionale; lo sviluppo del modello della quaestio accanto a quello della lectio; interesse per sistematizzazione – le Summae; lo sviluppo delle le scuole teologiche; l’introduzione della filosofia di Aristotele.
Temi principali: a) la questione del metodo teologico - quaestio, b) teologia come scienza, c) il rapporto tra fede a regione
Il definirsi della dottrina dei preambula fidei = esistenza  di Dio e immortalità dell’anima
Ciò che si cerca è il dimostrare razionalmente quello che si già crede nella fede (circolarità di fede e ragione).
3. L’epoca di tarda Scolastica o decadenza (secoli XIV e XV): Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Ockham.
La rottura delle grandi sintesi filosofico-teologiche => una definitiva separazione tra F e R.

Sant’Anselmo d’Aosta  (1033 - 1109)  (il Dottore Magnifico)
Nasce in una famiglia di origini nobili. Abate di un monastero e poi arcivescovo di Canterbury.
Monologion (1076): lezioni tenute ai monaci, non si richiama né alla S né T, ma solo alla riflessione per mezzo della ragione dell’uomo. Ribadisce le possibilità, i limiti e le certezze che ha la ragione umana di fronte a Verità.
Espone sia il metodo filosofico, sia i temi principali.
Proslogion (1077-78): cerca unica prova dell’esistenza di Dio – unicum argumentum. Sviluppa la sua opera come preghiera dunque deve essere letta nell’orizzonte della fede. (Comincia con preghiera.)
Suscita i notevoli discussioni: Gaunilone e la sua Difesa dell’insipiente. Reazione di Anselmo: Risposta a Gaunilone.
Altre: Epistola de Incarnazione Verbi  (rapporto tra F e R), Cur Deus homo, De processione Spiritus Sancti (la difesa di filioque).
Pensiero:
Aspetti distinti del suo pensiero:
a) stabilire una ben precisa modalità entro cui intendere il rapporto F-R, possiamo definirla rationes necessariae.
b) l’evidenziazione dei due postulati che consentono questo modo metodologico: la fermezza della fede (creduta, vissuta e contemplata) e la fiducia nella capacità della ragione dell’uomo.
Nel rapporto F-R segue Agostino e perciò intende la teologia come fides quaerens intellectum
I misteri cristiani possono essere intelligibili mediante il solo uso della ragione (il rischio di posizione eccessiva della speculazione razionale). Il discorso razionale su Dio e sulla creazione è possibile e può affiancare la SaS e i Padri perché la pura evidenza razionale non solo non costituisce un pericolo per la verità rivelata ma anzi la conferma nel modo più perfetto.
Ma questo è possibile perché Anselmo ha fiducia nelle capacità razionali dell’uomo e si muove nell’ambito di fermezza di fede vissuta (e di carattere mistico e contemplativo).
Il metodo delle rationes necessariae non intende solo dimostrare che la ragione è in accordo con la fede o che la fede può essere difesa dalla ragione, ma crede che tutti i fondamentali contenuti della fede cristiana si possono anche ottenere per analisi puramente razionale (partendo dalla semplice autoriflessione della ragione e procedendo per coerenti deduzioni).
La fede chiede che il suo oggetto è compresso con l’aiuto della ragione e la ragione ammette come necessario ciò che la fede presenta. (L’intero circuito di teologia va dalla fede alla fede tramite l’intelligenza.)
Potrebbe sembrare che il Proslogion sia l’opera teologica mentre il Monologion è prevalentemente filosofico ma sono frutti dello stesso pensiero che si è sviluppato progressivamente. Il Proslogion è mosso dalla convinzione che l’esercizio di intelligenza in questioni di fede è una passione religiosa.

Testi: Proslogion – l’argomento ontologico, “Id quo maius cogitari neguit”    
   Una nozione di Dio fornita dalla fede: “Concedimi di capire che tu esisti come crediamo, e sei quello che crediamo.”
L’esistenza dell’idea di Dio nel pensiero esige logicamente l’esistenza di Dio nella realtà.
Ciò che possiede tutte le perfezioni non può essere privo di una perfezione come è quella dell’esistenza “Noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si possa pensare nulla di più grande. ... Anche l’insipiente deve convenire che, almeno nell’intelletto vi sia qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande. Ma ciò di cui si può pensare qualcosa di più grande non può essere nel solo intelletto.”   
Non si può neppure pensare che Dio non esista.
La critica di Gaunillone: 1. Anselmo presuppone quello che cerca (Dio),
2. l’esempio dell’Isola Perduta: l’isola perfetta deve esistere in realtà, perché esiste nel mio intelletto.

San Tommaso d’Aquino (1225 -1274)  (il Dottore Angelico)
Domenicano, studiava  a Parigi (da Alberto Magno) e a Colonia.
Ha scritto 36 opere e 25 opuscoli, e i commentari alla Scrittura.
Summa contra Gentiles: contro musulmani, giudei ed eretici. Sviluppa soprattutto gli argomenti di tipo filosofico e mostra così il carattere ragionevole degli insegnamenti della dottrina cristiana.
4 libri: (I) unità dell’essenza divina, (II) derivazione del creato da Dio, (III) ritorno delle creature a Dio, (IV) la Trinità delle persone divine, Incarnazione, Sacramenti e la resurrezione dei corpi.
Summa teologiae: tratta del contenuto della Rivelazione, questioni filosofico-propedeutiche per la teologia.
3 parti (4 libri): (I) creazione del mondo, (I/II) il ritorno a Dio dell’uomo mediante gli atti umani in generale e (II/II) in particolare, (III) il ritorno a Dio (attraverso la via delineata da Cristo) mediante la Chiesa, la Grazia e i Sacramenti.
É suddivisa in questioni e questi in articoli che hanno struttura fissa:
1. videtur quod - le obiezioni alla tesi,
2. sed contra - la dialettica rispetto alle obiezioni mediante gli argomenti che negano le obiezioni,
3. respondeo - la lezione magisteriale che espone l’argomentazione della tesi principale,
4. ad primum - si risolvono le difficoltà poste in 1. videtur quod.
Altre opere: Secondo Commentario alle Sentenze di Pier Lombardo, Quaestiones disputatae, Quastiones quodlibetales.
Pensiero:
1. Nuova definizione di teologia come scienza (secondo concetto di Aristotele):
Concezione aristotelica di scienza: conoscenza certa a partire dalle cause che la determinano. Ma la fede esclude di per sé l’evidenza => la teologia non può essere la scienza. La soluzione di Tommaso: La teologia è scienza subalternata e la scienza subalternante è la scienza di Dio (e dei Beati) da quale prende i suoi principi. La teologia e la filosofia sono autonome ma hanno un terreno comune di ricerca – cosiddetti preambula fidei: le verità che riguardano l’esistenza di Dio, i suoi attributi e l’immortalità dell’anima umana (che sono oggetto di rivelazione e altresì dimostrazione filosofica). La loro dimostrabilità filosofica garantisce l’intrinseca conciliabilità della rivelazione e della fede con la ragione.
2. Dimostrazione dell’esistenza di Dio – il carattere ragionevole di adesione ad una rivelazione soprannaturale:
Le verità di fede possono essere conosciute dall’uomo come vere solo in virtù di una rivelazione da Dio. Ma si deve dapprima provare l’esistenza di Dio. Rifiuta  la prova ontologica (di Anselmo) e l’evidenza mistica (di Bonaventura) e parte dai fenomeni esterni - le “cinque vie”: 1. un primo motore, 2. una prima causa efficiente, 3. un essere che esiste necessariamente, 4. un essere perfettissimo, 5. un governante di tutte le cose. L’esistenza di Dio è piuttosto mostrata che dimostrata perché parte dalla fede. Queste vie sono di carattere teologico (e non filosofico). Di Dio sappiamo che esiste ma non sappiamo chi è.
3. I motivi di credibilità della rivelazione soprannaturale di Dio:
La rivelazione era necessaria perché la ragione umana è debole e per farci conoscere il contenuto del fine dell’uomo.
Perché le verità di fede, inaccessibili all’intelletto umano, siano credibili, è necessario che siano supportate da prove sensibili che le sostengano – i miracoli e le profezie (non devono convincere gli increduli, ma sostenere i credenti).
Testi: L’esistenza di Dio: non è per sé nota (perché non conosciamo l’essenza di Dio, e anche perché esistono atei). Ma la esistenza di Dio può essere dimostrata dagli effetti (ma non sono prove ma vie).
Le cinque vie - presupposti: a) la fonte della conoscenza sono i sensi, b) non si può procedere all’infinito.
I. Sembra che Dio non esiste, perché:
 a) Posizione dell’ateismo tragico: La presenza del male nel mondo è in contrarietà con Dio come un bene infinito.
 b) Pos. razionalista o scientista: Ciò che può essere spiegato attraverso pochi principi non deve essere spiegato con molti => non c’è bisogno di Dio, perché tutto e spiegabile attraverso la scienza.
II. Ma Dio dice in Es 3, 14: “Io sono colui che è”.
III. Vie: 1. dall’esistenza del moto, 2. dalla esistenza di causa efficiente, 3. dall’ordine del possibile e del necessario, 4. dai gradi di perfezione, 5. dal governo (dal fine) delle cose.
IV. Ad primum: a) Agostino dice: Dio permette che vi siano i mali per trarre da essi dei beni.
                          b) Con esistenza di Dio si le cose non complicano ma semplificano.

San Bonaventura da Bagnoregio (1217 - 1274)  (il Dottore Serafico)
Studia e poi insegna a Parigi, eletto Ministro generale dell’ordine francescano. Il suo maestro era Alessandro di Hales. Vescovo e cardinale. Ha preparato il concilio di Lione, dove muore. Non inspirò alcuna scuola teologica. Cristocentrismo francescano – nesso profondo tra la spiritualità a teologia. Pensiero complementare alla scuola domenicana (TA).
Le opere: il Breviloquio (un compendio teologico per l’insegnamento della teologia sistematica), redazione delle Costituzioni e la Legenda Maior (la biografia di san Francesco), la Legenda Minor
L’Itinerario della mente in Dio (scritto per motivi della propagazione della spiritualità francescana) è un cammino progressivo dell’uomo, compreso nella sua totalità di mente e cuore, verso l’unione mistica con Dio. Il carattere dell’opera è mistico e evidenzia il legame con tutta la spiritualità francescana. La mente dell’uomo è caratterizzata da tre facoltà:
1. quella rivolta alle cose sensibili (sensibilità), 2. quella rivolta a se stessa (spirito), 3. quella rivolta verso l’alto (mente).
Tali facoltà possono cogliere Dio attraverso l’immagine di Dio che riflette nelle cose create (per speculum) o nella traccia che l’essere e la bontà di Dio danno alle cose stesse (in speculum). Sono 3 livelli in due modi – attraverso (per) e in - il mondo (le tracce di Dio), l’uomo (l’immagine di Dio), grazia (la somiglianza con Dio):
L’animo umano si determina in sei potenze che permettono il cammino di ascesa: senso, immaginazione, ragione, intelletto, intelligenza e apice della mente = sinderesi. Ma ha bisogno della preghiera, riflessione e grazia e deve andare dall’esterno all’interno, dal basso al alto, dal temporale all’eterno
L’uomo può percorrere i 6 gradi dell’ascesa mistica:
1. coglie con la sensibilità le cose e la loro bellezza per risalire alla loro origine divina (mediante sensi),
2. si fa presente la totalità del creato (mediante immaginazione),
3. passaggio all’interiorità dell’uomo, coglie la presenza di Dio nell’animo umano: la memoria, l’intelletto e la volontà (mediante ragione),
4. coglie Dio nell’uomo, inteso nella sua totalità illuminata (mediante intelletto),
5. conosce Dio nel suo primo attributo – l’essere (mediante intelligenza),
6. rende possibile la definitiva conoscenza di Dio nella sua massima potenza che è il bene e che si articola nella Trinità. (mediante sinderesi).
Poi all’uomo non resta che l’abbandono definitivo del mondo e di se stesso per approdare all’estasi in cui Dio si dona.
Pensiero:
1. La questione della teologia come sapienza e la sua intima connessione con la fede:
       La teologia gode della certezza della scienza (perché si fonda sulla Parola di Dio) ma è soprattutto sapienza – la teologia nasce all’interno della Rivelazione e della storia di salvezza, e prima che essere riflessione è esperienza di vita.
2. La dimostrazione dell’esistenza di Dio a partire dall’esperienza dell’uomo:
      L’uomo possiede in sé la conoscenza innata di un bene per lui assoluto. Questo primum cognitum che è Dio, ha bisogno di essere pure cercato a posteriori a partire dal cose del mondo. Possiamo trovare l’esistenza di Dio in: natura, vita dell’uomo e Scrittura. La riflessione su di essi consente di trovare Dio che nelle preghiera iniziale già è presente.
3. La fondazione della fede dal centro della storia della salvezza:
       Tutto l’itinerario è possibile se Cristo è il punto cardine di tutto. Egli ha superato una precedente discesa e presenza di Dio tra gli uomini, e allora solo mediante di Lui è possibile ogni ulteriore l’itinerario nel senso di una ascesa verso il Dio. La fede non si caratterizza come frutto di un atto razionale dell’uomo, ma diviene un'esperienza vitale.

A partire dalla seconda metà del XIII secolo è l’equilibrio armonico tra la fede e la ragione messo in crisi => crolla la fiducia nella ragione naturale e la fede domina quasi esclusivamente il campo.
Giovanni Duns Scoto (1265-1308)
Francescano, l’equilibrio tra fede e ragione non è ancora messo in discussione e reso problematico. Ma propone la prospettiva nuova dello statuto epistemologico della teologia.
Ordinatio o Opus Oxoniense: la teologia è più propriamente sapienza che scienza => teologia è la scienza pratica (perché offre  all’uomo le regole di agire verso l’amore di Dio e la salvezza eterna.
Separa filosofia e teologia (delimitando i rispettivi ambiti di validità). La teologia è indipendente da ogni altra scienza.
Guglielmo di Ockham (1290-1348)
L’onnipotenza e la libertà di Dio sono assolute e Dio è Deus absconditus. Non ha nessun senso la distinzione tra conoscenza naturale e conoscenza rivelata in Dio. (La prima può giungere alla conoscenza del principio primo del mondo, la seconda può affermare l’identità di questo con l’idea di Dio.) Questo porterà la separazione tra fede e ragione, tra rivelazione e possibilità di una sua investigazione razionale.
           
L’apologetica in età moderna (14. -19. s.)
Il rinascimento ha posto la questione apologetica in ordine alla risposta da dare alle religioni non cristiane e al mutato assetto del rapporto tra l’uomo e il cosmo.
La Riforma ha sviluppato soprattutto il dibattito e la relativa difesa della vera fede all’interno del cristianesimo.
Con la critica dell’illuminismo alla rivelazione a alla fede cambiò lo stile apologetico
L’inizio della modernità: l’aspetto esterno - scoperta delle Americhe, l’umanismo rinascimentale e la Riforma protestante,
l’aspetto interno – la presa di coscienza dell’autonomia dell’umano alle forze cosmiche e alle istanze religiose precedenti.
Rinascimento: movimento culturale che mette al centro della sua riflessione la dignità e la grandezza dell’uomo rispetto all’intero cosmo. Si passa da una prospettiva di pensiero di tipo cosmocentrico (l’uomo è parte di un tutto che lo sovrasta e lo comprende) ad una prospettiva di tipo antropocentrico (l’uomo come la misura e il riferimento unico di ogni realtà).
Riforma: la fine di Christianitas (la perfetta integrazione tra società, religione e cultura), la fede non unisce più gli stati europei e i suoi cittadini, ma piuttosto divide (cattolici x protestanti).
Le conseguenze: la fede è respinta nella sfera dell’a-razionale (non dell’irrazionale) e la ragione cerca di prevalere sulla fede. La ragione si separa dalla fede. E anche la religione si comincia a separare dalla fede – contro la “religione dogmatica” postula la  “religione naturale”.
Già durante il rinascimento l’apologetica moderna difende la fede cristiana contro l’ebraismo o la religione islamica. Lo scopo è dimostrare che il cristianesimo è le vera religione (attraverso una dimostrazione delle singole verità di fede).
Nicolò Cusano (1401-1464): De pace fidei è un dialogo tra i rappresentanti della diverse nazioni. La conclusione: il mutuo rispetto e la tolleranza sono i soli mezzi per mettere fine alle guerre di religione. Ripropone l’idea del Verbo di Dio come colui che è la Verità di tutte le cose, donata alla libertà dell’uomo perché possa giungere e riconoscere l’unicità di Dio.
La ricerca rinascimentale della vera religione ha mostrato l’esigenza di fondare la credibilità del cristianesimo sulla base del suo essere religione rivelata.
Lutero: accentua la dimensione della credibilità della rivelazione solo mediante la fede.
Protestanti: la tendenza a dare grande importanza alla ragione e al giudizio personale riguardo alla verità della rivelazione.
Filippo Melantone: la ragione come preparazione alla fede.
Alla fine del 16. s. compare lo schema tripartito della apologetica - triplice dimostrazione (Pierre Charron):
1. la demonstratio religiosa (De religione): preambula fidei - l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima – contro deismo; è affidato alla filosofia,
2. la demonstratio christiana (De revelatione): il tentativo di articolare che il cristianesimo è le vera religione,
3. la demonstratio catholica (De ecclesia): quale è il vero cristianesimo?
Viene ribadita la necessità della rivelazione di Dio per la salvezza e la sua garanzia di verità.
L’illuminismo (17. s.) il trionfo della ragione - la ragione ha preteso di estendere il suo dominio a tutti gli aspetti della realtà.
Conseguenze: l’affermazione della soggettività o dell’individuo. La critica radicale di ogni affermazione di fede e di fede stessa. La separazione definitiva tra la religione e la fede – la ragione diventa fondamento obiettivo della verità religiosa – si impone il definitivo concetto di religione naturale. La critica radicale della rivelazione. L’abbandono di ogni legame istituzionale e l'emancipazione del fatto religioso da ogni controllo delle chiese e dei teologi (deismo, pietismo).
L’apologetica cerca di dimostrare il carattere rivelato del cristianesimo (con il metodo razionale dell’illuminismo).

René Descartes – Cartesio (1596-1650)
Educato dai gesuiti: critica della cultura scolastica e l’avvicinarsi alle scienze sperimentali. (Vive poi in tollerante Olanda.)
Il Discorso sul metodo (1637) le regole di un metodo nuovo che assicura fondamento filosofico alla conoscenza del mondo. È scritto in francese (non in latino) per ché potesse diffondersi il più possibile. Anche l’esposizione filosofica viene curata affinché la semplicità delle premesse, la linearità delle argomentazioni e la sicurezza dei risultati fossero evidenti.
Le Meditazioni metafisiche (1641)  in latino, indirizzate ai dotti. È composta di sei meditazioni: 1. il dubbio in vista della ricostruzione del sapere, 2. l’anima umana e la conoscenza che si può avere di essa, 3. il problema dell’esistenza di Dio e della sua dimostrazione, 4. questione dell’errore umano nell’esprimere un giudizio attraverso l’uso della ragione, 5. le cose materiali e la loro essenza, 6. la distinzione reale di anima e corpo nell’uomo e l’esistenza delle cose materiali.
Pensiero:
Vuole dimostrare l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima umana. La questione di Dio è per lui decisiva - theocentrismo.
Il cogito è inseparabile dal problema di Dio: se è vero che il soggetto è il punto di partenza in vista della conoscenza vera, è altrettanto vero che Dio resta il fondamento e la garanzia della conoscenza e della verità.
Cerca un sicuro criterio per distinguere il vero dal falso. Lo trova in cogito che è un punto di partenza per mostrare la possibilità di una conoscenza certa e anche per dimostrare l’esistenza di Dio e in lui garanzia della verità della conoscenza..
La terza meditazione delle Meditazioni metafisiche parla del problema dell’esistenza di Dio a partire dal principio del cogito.
Il cogito apre l’uomo alla comprensione di sé: la mia esistenza è quella di un essere pensante, di un essere che ha idee.
Distingue le idee in base alla loro origine in tre categorie: 1. le idee innate: sembrano di avere origine dalla natura dell’io (p.e.: l’idea di verità, di pensiero), 2. le idee fattizie (umělý): sono formate da ma stesso (l’idea di sirena), 3. le idee avventizie (nahodilý); sembrano di avere origine al di fuori del pensiero umano.
Le idee si distinguono dal punto di vista della realtà che rappresentano => tutte le idee potrebbero essere prodotte da chi le concepisce, ma questo non è possibile per l’idea di Dio. Tale idea postula una perfezione infinita che può avere origine solo da Dio (che la causa) – la semplice presenza in me dell’idea di Dio dimostra la sua esistenza.
Una volta riconosciuta l’esistenza di Dio è la garanzia della verità della mia conoscenza. (Dio non può ingannare). La fondamentale funzione di Dio è di essere il  principio e garante di ogni verità. (Il concetto di Dio no ha carattere religioso.)
In quinta meditazione offre un’altra prova – ontologica.
L’intento apologetico: si rivolge a non credenti con un insegnamento basato alla pura ragione naturale – comune a tutti.
Da Descartes si può andare sia al Nietzsche (distrugge la metafisica, nichilismo) sia a Rosmini (sviluppa la metafisica).

Blaise Pascal (1623-1662)
Usa il razionalismo nel dominio della scienza (riconoscendo i suoi limiti) ma non ritiene che possa usarsi nella sfera della morale e della religione (dove è fondamentale una comprensione dell’uomo come tale che è per la ragione impossibile).
Nasce in Francia; matematico e fisico eccellente.
All’età di 31 anni ha l’esperienza mistica, lascia lo studio e entra in una comunità religiosa dove fu influito dal giansenismo (il rigorismo morale e religioso senza compromessi). Questo movimento era condannato dal Papa e Pascal difendeva le sue idee nelle sue lettere, pubblicate più tardi con il titolo Lettere provinciali (la questione della grazia di Dio e della sua azione nei confronti dell’uomo). Ma poi abbandonò questo gruppo di Port-Royal e si dedicò alla pietà e al soccorso dei poveri.
I Pensieri – l’opera apologetica (incompiuta e frammentaria) raccolta dopo la sua morte.
Altre opere: Scritti sulla grazia, Discorso sulla religione.
Pensiero:
Cristocentrismo dell’apologia. (Dio conosciamo solo attraverso Cristo. Conoscenza di Dio senza Cristo possa essere falsa.)
Punto di partenza è l’uomo compreso nella sua grandezza rispetto al cosmo e nella sua miseria per la situazione che spesso vive. L’incomprensibilità dell’uomo fuori della fede e la possibilità di raggiungere il bene più alto solo nel cristianesimo.
Ha fiducia nella ragione però indica i suoi limiti: il limite dell’esperienza e il limite dei principi primi che sono indimostrabili e inconfutabili dalla ragione.  Ma il vero limite: la ragione umana è incapace comprendere l’uomo.
Tuttavia  l’uomo ha aspirazioni di grandezza. (E anzi la sua miseria è tale proprio perché vi è questa aspirazione.)
Dall’analisi della situazione dell’uomo nasce apologetica: il cristianesimo dà risposta alla domanda di felicità e (attraverso il dogma di peccato originale) al mistero del suo squilibrio interiore.
Solo il cristianesimo spiega tutto l’uomo: il male e la miseria dell’esistenza umana (con il dogma del peccato originale) e la grandezza dell’uomo (con il suo essere creato a immagine e somiglianza di Dio e redento da Cristo).
Questo non è una vera prova razionale, ma evidenzia come solo il cristianesimo non trascura nessun fattore della realtà.
Non contesta il valore intrinseco delle prove tradizionali dell’esistenza di Dio, ma le considera inadeguate (perché Dio che salva è il Dio dei cristiani).
L’unica dimostrazione dell’esistenza di Dio che offre è la scommessa ragionevole: nell’incertezza che Dio esista o no è necessario scommettere sul fatto che Dio esista in quanto se tale ipotesi è vera, noi avremmo vinto tutto, se invece fosse falsa, non avremmo perso nulla.
Questo non è prova ma evidenzia la necessità della ricerca non intellettuale ma esistenziale di Dio.
Il Dio di Pascal è Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, Dio di Gesù Cristo che è lontano dalla verità dei filosofi.
Dio è Deus absconditus perché con il nostro peccato siamo incapaci di avvicinarlo. Il nascondimento di Dio è necessario per salvaguardare la libertà di adesione dell’uomo alla verità.

Tra 18. e 19. secolo: l’imporsi di una nuova coscienza apologetica  
Critica della religione diventa mentalità comune e non solo delle cerchie della aristocrazia culturale.
Tra la fine del ‘600 e gli inizi del ‘700 possiamo parlare di una vera cristi dell’apologetica cattolica (la rinuncia della metafisica, la critica radicale della fede).
Deismo (nasce in Inghilterra): la ragione è ritenuta competente a provare ogni verità religiosa. (Cherbury, Locke)
Ateismo: decisamente nega ogni forma di divinità (P. Bayle).
L’apologetica si concepisce e si struttura come la disciplina in grado di fornire delle ragioni universali e razionalmente validi. L’apologetica ha quasi sempre una forma di difesa, polemica, capace di convincere solo coloro che sono già cristiani.
18. s.: apologetica cattolica è la reazione al fenomeno della fuoriuscita della religione dalla fede e l’imporsi alla ragione. L’apologetica dimostra in maniera razionale il carattere rivelato del cristianesimo.
Triplice demonstratio. Con una importante variazione (come difesa al pensiero deista – una religione naturale):
1. demonstratio religiosa: la riduttiva trattazione sulla natura, la possibilità e necessità della rivelazione cristiana,
2. demonstratio christiana: la dimostrazione mediante la prova storica dei miracoli di Gesù e delle profezie,
3. demonstratio catholica:  il tema dell’istituzione della Chiesa e la sua intrinseca natura.
In questo schema domina l’ermeneutica della analysis fidei: si intende dimostrare che la fede è razionale. La ragione ha il compito di cercare i segni della credibilità della rivelazione (per fondare razionalmente la fede).[1]
19. s.: si sottolinea un’idea nuova di cristianesimo – l’accento sul carattere storico e sociale della rivelazione si coniuga con la coscienza del singolo individuo. (La rivelazione è la mediazione necessaria della sua coscienza e libertà rispetto a Dio).
J.S. Drey: fondatore della “Scuola di Tubinga”. L’apologetica intesa come una scienza che ha due compiti:
1. determina la collocazione della teologia all’interno delle altre scienze,
2. offre una funzione di fondamento (la visione unitaria della storia come realizzazione del Regno di Dio).
La rivelazione parte dalla sfera interiore dell’uomo e non più dal solo fatto oggettivo e esteriore.
J.A. Möhler: la Chiesa è prolungamento dell’incarnazione del Verbo attraverso il tempo.
L'insegnamento della Scuola di Tubinga ha consentito di superare la concezione illuministica e sterile di un’apologetica unicamente fondata sul fondamento della ragione o nella contrapposizione ad essa.

Antonio Rosmini Serbati (1797-1855)
A Padova si laurea in teologia e diritto, sacerdote, filosofo e teologo, fondatore degli istituti maschili e femminili.
Opere: Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, Teodicea, Principi della scienza morale, Il Rinnovamento della filosofia in Italia, Trattato sulla coscienza morale (scoppia le controversie tra lui e gesuiti sul tema del peccato), ecc.
Nel 1848 per motivi delle invidie personali e il fallimento della mediazione sono condannate le sue due ultime opere da parte della Congregazione dell’Indice, la quale però nel 1854 le dichiara conformi alla dottrina cattolica.
(Ma dopo la sua morte nel 1887 sono condannate 40 sue proposizioni ritenute erronee; fino al CV2.)
Pensiero:
Nell’opera Introduzione alla Filosofia descrive tre tappe del suo percorso: 1. combattere gli errori, 2. costruire un sistema coerente di idee che manifestino il vero, 3. elaborare una filosofia che possa essere solida base per le scienze e teologia.
Vuole combattere il soggettivismo nelle due forme: 1. il sensismo che sottovaluta il ruolo delle idee (riconducendole alla mera esperienza sensibile) e 2. il criticismo kantiano che sopravvaluta il ruolo di queste idee.
Elabora la sua teoria della conoscenza: la conoscenza certa del vero è possibile in quanto tutte le idee traggono origine da un’idea prima, l’”idea dell’essere”, la quale è semplice, unica, indeterminata, oggettiva… e quindi immutabile ed eterna. Tale idea non deriva né dall’esperienza sensibile né dall’idea dell’io ma è innata (frutto di un’intuizione immediata).
La verità che l’intelligenza cerca è la stessa verità che il Vangelo ha portato nel mondo. Così il cammino di ricerca di questa verità è anche cammino di comprensione della verità portata dal Vangelo.
L’essere ideale non è una realtà puramente psicologica, ma è una delle forme fondamentali attraverso le quali l’essere manifesta la sua “unitotalità” in ogni ente.
Distingue tre forme dell’essere:
1. l’essere ideale: l’essere in quanto oggetto dell’intuizione della mente, indeterminato e puramente possibile,
2. l’essere reale: si attua concretamente nella molteplicità degli enti e di cui abbiamo esperienza,
3. l’essere morale: l’essere in quanto oggetto della volontà, cioè il bene; nasce dal rapporto tra l’essere ideale e reale e le armonizza tra di loro (si caratterizza per la notevole originalità e consente di stabilire un legame tra la scienza dell’essere e la carità così si può parlare di una vera e propria “metafisica della carità”).
Con questo risolve anche il problema del rapporto tra l’unità e la molteplicità. La molteplicità non è fuori dell’essere, si configura come compiuta totalità.
Compone anche in unità il conflitto tra ragione e fede poiché la verità principio della filosofia è anche il principio della religione. L’essere è la verità comune alla ragione e alla fede, ma ideale per la ragione e reale per la fede.
(La dottrina metafisica delle tre forme dell’essere si rivolge all’uomo, che porta in sé la domanda metafisica e trova in sé una risposta sia pure inadeguata e parziale.)
L’Antropologia soprannaturale: nell’essere triadico si esprime il modo trinitario di agire di Dio ad extra.
La Teosofia: l’intreccio tra il sapere della ragione (filosofia) e quello della fede (teologia) chiama “sapere teosofico”. Il dogma trinitario non solo può, ma deve essere ricevuto o ri-conosciuto e accolto dalla filosofia.


John Henry Newman (1801-1890)
Nasce a Londra da una famiglia dell’alta borghesia, ha studiato a Oxford, era sacerdote nella Chiesa anglicana.
Con amici ha fondato il “movimento di Oxford” per combattere il liberalismo teologico.
Progressivamente venne a distaccarsi dalla Chiesa anglicana e a manifestare le sue simpatie per quella cattolica.
Tracts for the Times: l’interpretazione in chiave cattolica dei 39 articoli della confessione anglicana.
Ha ricevuto ordinazione presbiteriale nella chiesa cattolica (1847). Era rettore dell’università a Dublino.
Dopo la conversione ha vissuto anni di ostilità (dagli anglicani). Sul declino della vita le ostilità nei suoi confronti vennero meno e Leone XIII lo creò cardinale nel 1879.
Opere: L’Apologia pro vita sua, The Idea of a University, The Grammar of Assent (La grammatica dell’assenso).
Pensiero:
Lotta contro il liberalismo teologico, mostrando che la fede ha i suoi diritti nei confronti della ragione.
Grammatica dell’assenso: una riflessione sull’atto di fede del credente. Espone i principi della razionalità dell’assenso della fede.
Il rapporto tra fede e ragione: mette in luce la dinamica tra queste due dimensioni e riconosce nella realtà dello spirito umano il luogo della verità della fede e della sua ragione.
Mediante l’esperienza l’uomo giunge a comprendere il senso della realtà, ma ciò avviene attraverso un procedimento che non è argomentativo, ma fondato sulla base delle probabilità (di tipo “istintivo”).
Ma emergono due problemi:
1. La questione della possibilità dell’istituirsi di un legame tra questo modo di procedere dell’uomo nella concretezza della realtà e la dimensione della sua fede (e della religione). La soluzione: esiste un’analogia strutturale tra religione e la costituzione della natura; la realtà è profondamente unitaria e quindi non sono separazioni tra l’esperienza della realtà e la fede dell’uomo,
2. La giustificazione razionale della fede che Newman risolve attraverso la nozione di “senso illativo” (vedoucí k určitému závěru), con il quale si può da diversi dati probabili stabilire la razionalità di un modo di procedere sulla base di questi dati. Il senso illativo consiste nella capacità di cogliere il punto di convergenza di una serie di dati, che, se isolati, sono puramente probabili e verosimili. Pertanto, mediante esso, è possibile giungere ad una certezza, la quale non è meno vera di quanto si raggiunge con la dimostrazione stessa.
Alcune importanti osservazioni:
a) Il suo tentativo si capovolge in una dimostrazione della struttura profonda dell’esistenza concreta dell’uomo.
b) La sua posizione rispetto alla razionalità della fede, basata sull’esperienza e sul giudizio di prudenza è tale per cui l’uomo può solo parlare di sé e della propria fede senza attribuirsi alcun diritto di parlare della fede in generale.
c) Anche se si parte dalla propria esperienza, il discorso così prodotto vale anche per altri: perché la verità è una.
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La scuola romana
Con questo termine si intende la teologia che fu insegnata al Collegio Romano (odierna PUG) negli anni 1830-1879. Il suo fondatore fu padre G. Perrone (altri esponenti Passaglia, Schrader, Franzelin). (Collaborarono con il Magistero: per il dogma dell’Immacolata Concezione e per Dei Filius).
Perrone - Praelectiones theologicae: nel Tractus de locis theologicis presenta il triplice compito del teologo:
a) dogmatico – esposizione dei dogmi della fede cattolica,
b) speculativo – mostrarne nessi,
c) polemico – difendere i dogmi dagli avversari.
Gli strumenti intrinseci sono la scrittura e la tradizione (che abbraccia anche la storia dei dogmi).
In apologetica egli distingue fra due tipi di uomini che rifiutano la vera religione:
1) gli eretici – contro i loro si deve difendere l’autorità della Chiesa costituita per volontà di Dio,
2) gli increduli – contro i loro si deve mostrare la necessità e l’esistenza della rivelazione.
Per questo occorre chiarire il concetto di Rivelazione (la possibilità, la necessità, le note e l’esistenza). Rivelazione è sempre manifestazione di una qualche verità o di più verità ed è soprannaturale se il soggetto è Dio.
Quanto alla necessità della Rivelazione distingue fra necessità:
a) morale – concerne le verità naturali o morali che l’uomo potrebbe conoscere veramente, ma dinanzi alle quali sperimenta una sorta di impotenza morale (poiché la ragione umana da sé non offre motivi sufficienti per sostenerli nei doveri),
b) assoluta – riguarda quelle verità che superano del tutto le capacità naturale.
Le note (le caratteristiche) a partire dalle quali la Rivelazione può essere colta in modo sicuro e certo sono: i miracoli e le profezie.
Dopo aver dimostrato (contro razionalismo) che la rivelazione soprannaturale è possibile e necessaria, ora si tratta di verificare se Dio nella sua benignità abbia provveduto all’uomo attraverso una certa rivelazione soprannaturale (Mosè, i profeti e Cristo – inviati dal cielo).
Agli heterodoxes occorre dimostrare, che la Chiesa è stata istituita da Cristo come l’unica depositaria della rivelazione divina che essa custodisce e che questa Chiesa unica è la Chiesa cattolica.
L'apologetica della Scuola romana era ripresa e approfondita in modello che si impose dopo il Vaticano I.

MODELLI DI TEOLOGIA FONDAMENTALE DEL XX SECOLO

Introduzione
La TF non possiede ancora un’identità definita, né esiste un consenso generale sulla natura, l’articolazione, il metodo e i contenuti della disciplina. Per la sua stessa natura la TF è condannata all’insicurezza più che altre discipline, perché essendo una disciplina di frontiera con finestre aperte sulle scienze umane partecipa alla vita ed ai cambiamenti interni a queste discipline, mentre come scienza teologica è coinvolta in tutti i rinnovamenti della teologia, soprattutto in materia d’esegesi.
La molteplicità dei modelli della TF nel XX sec. nasce dall’insufficienza del modello neoscolastico che fino al CV2 rappresentava la forma unica ed ufficiale della TF cattolica, insegnata nelle scuole come apologetica.
I presentati modelli sono legati a teologi (e filosofi) concreti. “Modello” indica quindi un certo modo di fare TF proposto da un autore. Ogni autore ha sottolineato alcune dimensioni o aspetti , sui quali altri autori hanno poi costruito delle TF.

La costituzione Dei Filius
Viene promulgata dal Concilio Vaticano I (1870) e rappresenta una tappa significativa per la storia della TF nel sec. XX.
Il contesto culturale era segnato dalla contestazione illuministica della pretesa di verità della religione rivelata e dalla tendenza romantica e idealistica (a ridurre il cristianesimo a forma esteriore dell’esperienza soggettiva).
Questo contesto filosofico ha due tendenze teologiche opposte, che minacciano la vera fede. Quelle sono:
1. il razionalismo e semirazionalismo - ipervalorizzano la ragione, riducono la fede (influenzati dall’illuminismo e l’hegelismo),
2. fideismo – ipervalorizzano la fede a scapito della ragione.
Costituzione dopo aver ribadito (contro i fideisti) che Dio può essere conosciuto con certezza, afferma l’esistenza di un’altra rivelazione diversa nel modo e nei contenuti – una rivelazione soprannaturale di Dio che è indeducibile dalla ragione - poiché Dio intende rendere l’uomo partecipe di beni divini che superano del tutto il potere conoscitivo della mente umana e per questo scopo è la rivelazione assolutamente necessaria. Rappresenta anche l’aiuto per la ragione (per conoscenza certa e senza errore).
Il luogo della rivelazione sta nei libri sacri (AT e NT) e nella tradizione non scritta.
La fede rimane una virtù soprannaturale, “altra” dalla ragione (non è quindi soltanto il compimento della ragione) che proviene dall’ispirazione divina. Mediante la fede crediamo come vere le cose che Dio ha rivelato.
La ragione è chiamata a riconoscere le verità della rivelazione ed è sostenuta dagli aiuti interiori dello SpS e dalle prove esteriori, (i miracoli e le profezie) che sono “segni certissimi” della divina rivelazione adatti ad ogni intelligenza. Ma non è possibile la predicazione senza l’illuminazione e l’espirazione dello SpS: la fede è e rimane un dono. L’altro aiuto è la Chiesa (che è essa stessa un grande e perenne motivo di credibilità).
La fede non è mai l’esito di un ragionamento o il compimento di un itinerario solo umano di ricerca di Dio. Ma deve essere conforme alla ragione - la ragione deve poter trovare dei motivi che rendono credibile la fede stessa.
Non può essere la libertà o la ragione a determinare il dono, ma non si può riconoscere e accogliere la rivelazione senza la libertà.
La tematizzazione del “duplex ordo cognitionis” alimenta l’interpretazione “separatista” fra ragione naturale e rivelazione soprannaturale. Dalla coppia rivelazione-conoscenza l'accento si sposta su fede e ragione.
Da un lato si difende la ragione (mediante il riconoscimento dell’argomentabilità della rivelazione) e dall’altro lato si riafferma il carattere soprannaturale delle verità rivelate e della fede stessa.
L’ordine della conoscenza è duplice e la differenza è sostanziale: riguarda il principio formale (conoscenza con la ragione naturale X divina) e anche l’oggetto materiale (ci sono i misteri che non possono essere conosciuti se non rivelati).
La ragione, illuminata dalla fede, può giungere ad una conoscenza sia mediante l’analogia (con ciò che conosce naturalmente), sia mediante il nesso dei misteri fra loro e con il fine ultimo dell’uomo.
Tuttavia permane sempre l’ulteriorità della fede che è come il velo che avvolge e rende opaca la visione della ragione.
La ragione retta dimostra i fondamenti della fede e coltiva la scienza delle cose divine. La fede da un lato libera e tutela la ragione, dall’altro, essendo sopra la ragione, la invera.
CV1 utilizzala categoria moderne di rivelazione. Parla di due forme della rivelazione:
a) naturale – nella creazione; può essere conosciuta con certezza mediante l’intelligenza,
b) soprannaturale – assolutamente necessaria; il contenuto è Dio stesso e la sua volontà.

Il modello neoscolastico
R. Garrigou-Lagrange (1877-1964) – De revelatione
L’apologetica si divide in due parti:
1. teoretica (contro il razionalismo filosofico) - difende la possibilità, convenienza, necessità e conoscibilità della rivelazione,
2. positiva (contro il razionalismo biblico) - difende l’esistenza della rivelazione divina tramandata da Cristo e proposta dalla Chiesa; seguendo la testimonianza storica di Cristo e l’istituzione della Chiesa con il riferimento alle aspirazioni umane e ai miracoli e alle profezie.
La rivelazione = l’azione divina libera ed essenzialmente soprannaturale con la quale Dio, per condurre il genere umano al fine soprannaturale che consiste nella visione dell’essenza divina, parlandoci tramite i profeti e in maniera ultima e definitiva tramite Cristo, ha manifestato sotto una certa oscurità i misteri soprannaturali e le verità della religione.
Contro i razionalisti occorre difendere l’esistenza dell’ordine soprannaturale dimostrando la necessità della rivelazione sopran-naturale. Solo la corretta difesa sul piano teoretico apre la via alla difesa sul piano storico.
Nell’apologetica non rientra il “tractatus de locis theologicis” perché l’apologetica non argomenta a partire dalla fede ma mostra razionalmente la credibilità delle verità rivelate da Dio mediante Cristo e proposte dalla Chiesa.
TF = la teologia che riguarda i fondamenti della fede divina, cioè riguarda la rivelazione che è il motivo formale della fede e riguarda la riproposizione infallibile di questa rivelazione ad opera della Chiesa istituita da Dio.
Tutto il procedere dimostrativo è previo e subordinato a garantire l’autorità di chi da Dio ha ricevuto il compito di trasmettere nella storia questo deposito. Di qui la forte insistenza sul magistero. Gardeil: l’apologetica deve occuparsi della necessità e dell’esistenza del magistero dal quale proviene immediatamente la credibilità dell’insegnamento cattolico.
Il fine dell’apologetica: dimostrare che i misteri della fede sono credibili razionalmente e che sono da credere con fede certissima.
Il metodo dell’apologetica: è soprattutto esterno, cioè parte dai segni esterni – miracoli, profezie, vita mirabile della Chiesa.
La difesa della fede assume lo stesso principio gnoseologico dei razionalisti, dei quali si contestava il rifiuto del soprannaturale.
L’apologetica classica accetta come qualcosa che va da sé la distinzione tra il fatto che Dio rivela e ciò che Dio rivela.
Scopo dell’apologetica è di stabilire il fatto della rivelazione senza troppo curarsi del senso del suo contenuto, poiché si ritiene che, una volta dimostrato che il fatto della rivelazione è certo, il suo contenuto diventa per sé credibile.
Vi è così da un lato giudizio di credibilità, al quale spetta di constatare razionalmente il fatto della rivelazione e dall’altro lato l’assenso di fede, al quale spetta aderire al contenuto della rivelazione.
Quanto alla conoscibilità della rivelazione, determinati non sono né i criteri soggettivi (aspirazione religiosa) né i criteri oggettivi interni (qualità della dottrina rivelata), ma piuttosto i criteri oggettivi esterni perché solo essi garantiscono in maniera razionale e universalmente valida l’origine divina.
I limiti di questo modello sono:
1. il formalismo - il riferimento alla rivelazione a prescindere dall’evento della rivelazione (ma solo la rivelazione ci può dire che cosa sia la rivelazione),
2. la totale trascuratezza del senso e dei motivi interiori di credibilità – la rivelazione è credibile non solo a causa dei segni esterni, ma anche perché rivela l’uomo a se stesso,
3. la trattazione del mistero di Gesù solo quanto alla sua messianicità con tutto l’impatto negativo quanto alla comprensione del segno unico della sua risurrezione gloriosa,
4. l’assenza di attenzione alle condizioni per cui la rivelazione e i segni possono essere accolti dall’uomo al quale sono rivolti,
5. un’argomentazione polemica che vede solo avversari e nemici.

Il metodo/modello dell’immanenza
Maurice Blondel (1861-1949)
Lettera sull’apologetica (Lettre) analizza i vari modi di fare apologetica (per esempio):
a) l’apologetica tradizionale (o tomismo) - pare una descrizione statica di elementi senza un legame necessario fra loro e senza alcun riferimento al dinamismo; la dimostrazione non può limitarsi ad offrire un “oggetto”, ma deve interagire con il “soggetto”; questo modello non è più in grado di dialogare con la modernità,
b) metodo di Laprune (altro che di Blondel) – l’apologetica deve fare leva sulla conformità del cristianesimo alle più profonde aspirazioni della natura umana – solo esso soddisfa adeguatamente i bisogni artistici, intellettuali, morali e sociali dell’uomo; Blondel rifiuta che il cristianesimo è solo il completamento della natura senz’alcuna radicale novità, sostenendo che la rivelazione suscita e soddisfa nuovi bisogni; annota che tale metodo non permette di definire esattamente la relazione dell’ordine naturale con quello soprannaturale.
L’Azione (1893): riassume la sua prospettiva di un’”apologetica integrale”. Il metodo d’immanenza non deve essere confuso con “immanentismo” (che taglia i legami con la trascendenza). Parte dall’esigenza di superare l’estrinsecismo. Offre una fenomenologia dell’azione, perché nell’azione si trova il centro della vita.
La volontà dell’uomo si scopre “volente non voluta”: vuole ma non ha voluto volere; cerca e agisce ma non è libera nel decidere se cercare o no. In questo  senso l’uomo non appartiene a se stesso perché non trova in sé né l’origine né il fine della sua azione. La volontà dell’uomo è obbligata a volere se stessa, ma il principio del volere è un’incognita.
C’è una essenziale sproporzione fra la volontà volente (aspirazione infinita verso la realizzazione della domanda) e la volontà voluta (quanto l’uomo realizza agendo).
L’uomo aveva la pretesa di arrangiarsi da solo e di trovare nell’ordine naturale l’autosufficienza e il suo tutto. Ma non vi riesce. È il paradosso di un uomo che aspira ad essere integralmente ciò che vuole, ma non può diventarlo
Occorre ammettere una duplice insufficienza-impossibilità: 1. riconosciamo che l’ordine naturale non esaurisce il fine della volontà, 2. percepiamo la nostra impotenza a raggiungere con le nostre forze il fine necessario – la soddisfazione.
L’uomo desidera il compimento, ma non può autoprodurlo.
Quanto l’uomo da sé non è in grado di raggiungere, non gli è offerto da qualcosa o qualcuno fuori di lui?
L’azione dell’uomo trascende l’uomo. È un’attesa sincera del messia ignoto.
La filosofia ha il compito di stabilire la “necessità”, ma non deve indagare se il soprannaturale è reale o possibile. L’analisi dell’azione approda non a una realtà né a una possibilità, ma a una necessità.
La necessità del soprannaturale risuona come l’umile confessione della ragione filosofica. Concludere alla necessità assoluta del soprannaturale comporta coerentemente l’affermazione dell’impossibilità di negarne filosoficamente la possibile realizzazione nel dono gratuito di una rivelazione e nella pratica effettiva della vita.
Il problema del soprannaturale è la condizione stessa della filosofia. La necessità del soprannaturale ricorda che è legittimo mostrare come il progresso della nostra volontà ci costringa al riconoscimento della nostra insufficienza, ci conduca al bisogno avvertito di qualcosa di più, ci dia la capacità di riconoscerlo e riceverlo.
Si tratta soltanto di rinvenire le “porte aperte” dentro l’umano che la grazia può varcare. Il modello di Blondel accentua l’unione tra la natura e grazia. Esso intende porsi in continuità con la sua domanda radicale sul senso ultimo della vita.
Recezione dell’apologetica di Blondel: non fu immediatamente recepita e capita. (era considerato come una riduzione psicologica). È vero che l’attenzione al carattere oggettivo della rivelazione è pochissima (ma questo è autolimitazione metodologica della sua filosofia).

Modello antropologico-trascendentale
Karl Rahner  (1904-1984) - Uditori della parola e Corso fondamentale sulla fede.
La sua teologia è spesso chiamata “teologia trascendentale” (trascendentale è usato nel senso kantiano – dice il riferimento alle condizioni di possibilità, formali, aprioriche della conoscenza umana).
Trascendentale (secondo Kant) - ogni conoscenza che si occupi non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa deve essere possibile a priori.
Tuttavia il trascendentale rahneriano è differente rispetto a quello kantiano - mentre Kant nega la conoscenza dell’essere (noumeno), Rahner ammette l’apertura all’essere che fonda l’esperienza.
TF deve rinvenire nell’uomo quelle forme-strutture che lo rendono capace di accogliere e comprendere un’eventuale rivelazione.
Uditori della parola” – designa l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla rivelazione. L’uomo è concepito come l’ente che si realizza solo nella storia, mentre la storia attua la sua essenza solo attraverso l’uomo. Perciò egli durante il corso della storia deve stare in ascolto per incontrare quella “parola” che illumina la sua esistenza.
Il compito della TF è fondare razionalmente la fede sia pure in maniera molto indeterminata.
L’aspetto problematico del modello tradizionale di TF è la mancata tematizzazione delle condizioni, di come l’uomo possa accogliere il soprannaturale (non chiarisce sufficientemente il rapporto tra conoscenza naturale e soprannaturale).
Occorre partire dall’uomo ed esaminare la sua struttura ontologica costitutiva dalla quale giustificare il dovere di stare in ascolto.
Si tratta di ricercare la capacità apriorica dell’uomo di ascoltare la rivelazione divina - rinvenire se e in che senso l’uomo possa scoprire in sé la capacità di ricevere un’eventuale rivelazione di Dio prima che abbia di fatto ascoltato la sua parola.
Rahner definisce la sua giustificazione razionale della fede come una ontologia della potentia oboedientialis.
Potentia indica l’aspirazione ad ascoltare una possibile rivelazione di Dio e oboedientia ricorda che il compimento può venire solo da Dio, cui si risponde con l’obbedienza della fede.
Si tratta di mostrare che la rivelazione non contraddice l’uomo, ma al contrario “incastra” perfettamente la sua costituzione ontologico-trascendentale (metafisica).
Le determinazioni della soggettività (le proposizioni fondamentali di un’antropologia metafisica):
1. Conoscenza - l’unità suprema di essere e conoscere:
L’uomo deve essere aperto a ricevere la comunicazione che l’essere assoluto fa di se stesso. L’uomo è l’unico ente capace di uscire da sé verso le cose e di ritornare completamente in sé prendendo coscienza di sé come soggetto conoscente, distinto dalle cose conosciute. Mediante il giudizio il soggetto riconosce l’illimitatezza dell’essere.
“Percezione previa dell’essere” = la capacità che ha per sua natura lo spirito umano di protendersi dinamicamente verso l’illimitata vastità di tutti gli oggetti possibili. Questo rende possibile il passaggio dal concreto dell’ente all’universalità dell’essenza.
L’essere spirito è l’essere finito totalmente aperto a Dio. Solo un’apertura infinita consente che l’uomo possa accogliere l’eventuale rivelazione di Dio senza porre limite al suo possibile contenuto.
Rahner non nasconde una difficoltà: se l’essere dell’uomo consiste nella totale apertura all’essere, come evitare che la rivelazione non si riduca ad una conoscenza derivabile dalla struttura essenziale dell’uomo, tale da rendere impossibile la rivelazione come atto libero di Dio?
Solo se sappiamo che Dio non solo trascende il contenuto della nostra conoscenza umana, ma anche può parlare o tacere, possiamo comprendere il valore della parola rivelatrice di Dio (che è l’atto imprevedibile del suo amore personale).
2. La libertà connessa alla volontà:
L’esistenza concreta è assunta dall’uomo con un atto di libertà che accetta la finitezza del proprio essere.
L’uomo si pone in ascolto del parlare o tacere di Dio. E questo accade solo nella condizione della libertà. L’uomo (per la sua costituzione ontologica) non può mai restare indifferente di fronte ad un’eventuale rivelazione.
In senso metafisico la rivelazione è semplicemente l’azione libera di Dio, con cui Egli svela la sua essenza in una maniera sempre e necessariamente superiore a quella con cui lo spirito finito questa include.
In senso teologico la rivelazione non è la decisione libera di Dio di rivelarsi o chiudersi in se stesso, ma l’effettiva manifestazione della sua intima essenza. Tale rivelazione non si può dire dovuta all’uomo in forza della sua natura - è libera.
3. Storicità - la trascendenza dell’uomo si declini in termini di storicità:
L’uomo è storico in quanto agisce liberamente nella determinazione del suo rapporto con l’assoluto.
L’uomo conosce l’essere in genere solo in modo sensibile, mediante fenomeni. Dio deve rispettare questa condizione e deve rivelarsi come parola umana per rispettare la struttura della conoscenza umana.
L’uomo è l’ente, che è dotato di una spiritualità ricettiva aperta sempre alla storia. L’uomo è colui che ascolta nella storia la parola del Dio libero.
Una rivelazione che non rispettasse la struttura antropologica fondamentale, potrebbe mai essere credibile o rispettare fino in fondo la libertà dell’uomo?
Limiti di questo modello: non riesce ad andare oltre la plausibilità di un ascolto nell’eventualità del parlare di Dio, né offre indicazioni sufficienti per discernere fra una rivelazione autentica e una impropria.

Juan Alfaro ­(1914-1993)
Dal problema dell’uomo al problema di Dio.
È impossibile pensare alla rivelazione di Dio senza pensare allo stesso tempo al suo destinatario, l’uomo. Che cosa è nell’uomo che lo renda capace di ricevere la rivelazione di Dio? Occorre interrogare la struttura ontologica dell’uomo, individuare le dimensioni costitutive dell’esistenza umana (e solo a partire da queste verificare l’eventuale emergenza della questione di Dio).
La teologia cristiana dovrebbe partire dall’uomo nella domanda “perché credo?”.
La domanda investe il problema del senso come questione ultima; non solo il senso delle cose, ma il senso dell’uomo e della sua esistenza. Il questionante e il questionato sono identici – chi domanda e il contenuto di ciò che si domanda sono la stessa cosa. L’uomo non rimane indifferente come oggetto spettatore.
“Dare senso” alla vita diventa la questione dell’esistenza.
L’uomo constata l’evidenza di due verità che lo definiscono: “non esisto da sempre e non esisterò per sempre”.
Cerca la risposta alle domande: “che cosa sono io, donde vengo, dove vado?” L’uomo non porta in se stesso il fondamento ultimo del suo essere, ma si dimostra fondato oltre e fuori da se stesso: aperto a qualcosa che lo trascende.
La questione del senso pare rivestire un carattere trascendentale.
Sono obbligato a cercare il senso, ma non sceglierne uno piuttosto che un altro.
Nella ricerca del senso occorre partire dall’esperienza che l’uomo vive di se stesso. La ricerca è sostenuta dalla convinzione che la vita umana abbia un senso. L’uomo non cercherebbe ciò che saprebbe non esistere.
Solo dall’esperienza del problema dell’uomo (del senso) può nascere la questione di Dio.
Se la risposta ultima al problema del senso si trovasse dentro il reale intramondano, non sarebbe necessario cercarla ulteriormente – non si porrebbe il problema di Dio.
Tutte le domande su Dio o non-Dio, teismo o ateismo, sono fondamentalmente una sola domanda: il fondamento ultimo è solo intramondano oppure è trascendente rispetto alla totalità del reale intramondano?
Il punto di partenza è l’analisi delle dimensioni fondamentali dell’esistenza: relazione uomo-mondo, relazione io-altri, relazione con la morte, relazione con la storia.
Dio emerge dalla domanda radicale e costitutiva circa il senso ultimo ed è l’esperienza umana a implicare anche le caratteristiche essenziali di Dio: trascendenza, libertà assoluta, essere personale.
La soggettività dell’uomo (libertà) e la sua storia (attuata nella storia) costituiscono le dimensioni umane in cui si può compiere l’evento assolutamente gratuito dell’autorivelazione di Dio.

Modello fondativo
Karl Barth (1886-1968) - La lettera ai romani
Contro la teologia liberale (= una lettura prevalentemente etica del cristianesimo) sconfessa ogni cammino dell’uomo verso Dio.
Il Dio è il deus absconditus. L’uomo non può arrivare a Dio né mediante l’esperienza religiosa, né per via storica, né per via metafisica.
Il cristianesimo è l’esatto contrario della religione: non dall’uomo verso Dio, ma da Dio verso l’uomo attraverso Gesù Cristo. L’evento della rivelazione di Dio in Gesù Cristo è il fondamento che irrompe nella storia e decide da se stesso della sua verità.
La credibilità è tutta interna alla rivelazione e non può essere l’uomo a decidere della credibilità della parola.
Dio è colui che liberamente si rivela e la sua libertà è assolutamente priva di condizioni.
Il cristianesimo non è una religione, ma una fede. La religione è ciò che risponde al puro bisogno umano del rapporto con il divino mentre la fede è dono assoluto e gratuito.

Hans Urs von Balthasar  (1905-1988)
Le opere: trilogia Gloria, Teodrammatica, Teologica.
La domanda di Dio dell’uomo di oggi: un’analisi della situazione religiosa dell’uomo moderno per mostrare la credibilità della rivelazione cristiana. L’universo non può più essere compreso come riflesso del divino, ma come il mistero insondabile della decisione divina di creare, secondo un atto di Libertà assolutamente gratuito – religione della libertà.
Il cristianesimo dovrà mostrare la bellezza dell’esistenza cristiana a partire dalla risposta alle domande dell’uomo che Dio ha dato in Gesù Cristo.
Un’adeguata presentazione del centro cristologico-trinitario della fede contiene la risposta alle domande dell’uomo di ogni tempo.
Solo l’amore è credibile: analizza i tentativi (della storia del pensiero occidentale) di mostrare la credibilità del cristianesimo:
a) Padri della Chiesa: la fede si difendeva cosmologicamente – cristianesimo è la religione naturale, è il principio riunificatore di tutti i frammenti. (La correttezza di questo metodo era garantita da una concezione unitaria dell’ordine naturale e soprannaturale – il mondo è qualcosa di sacro).
b) Dopo la Riforma: la fede si difendeva antropologicamente - l’uomo con la sua autonomia naturale diviene colui che stabilisce i criteri di credibilità anche della religione rivelata, introducendo la funesta distinzione fra religione naturale della pura ragione e religione positiva o rivelata.
Questo segnò il superamento dell’antitesi natura-soprannatura: la rivelazione diventa l’estrinsecazione della dimensione religiosa interna all’umanità e non aggiunge nulla che l’uomo non possa conoscere; in questo senso è rappresentazione della verità.
L’asse della credibilità si spostava verso l’uomo. Il cristianesimo deve essere misurato con il parametro della natura umana.
La credibilità della fede cristiana non può essere fatta derivata né dalla considerazione dell’universo (riduzione cosmologica) né dalla ricerca di strutture antropologiche trascendentali (riduzione antropologica)!
Il criterio di credibilità proviene dall’evento stesso della rivelazione nella quale il Logos si manifesta come agape e come gloria, splendore. Rivelandosi come amore, Dio manifesta essere quell’alterità assoluta da cui l’uomo si sente attratto.
La Rivelazione è colta come amore assoluto.
Il punto di partenza è la forma della rivelazione e la sua propria oggettiva evidenza.
Il putno di partenza è bellezza: senza la bellezza (che è espulsa dalla filosofia e dalla religione) anche il bene perde la sua forza di attrazione.
Dio viene primariamente non come maestro per noi (“vero”), non come “redentore” con tanti scopi per noi (“buono”) ma per mostrare Se stesso, la gloria del suo amore, in quella “assenza di interesse” che il vero amore ha in comune con la vera bellezza.
Non solo la bellezza precede il bene e la verità, ma senza la bellezza la testimonianza dell’essere diventa incredibile.
La nozione di bello porta con sé due aspetti: lo splendor (o lumen) e la species (o meglio forma).
La forma (Gestalt) è ciò attraverso cui avviene la percezione della bellezza
Ogni essere è una forma.
In quanto forma il bello può essere afferrato materialmente e può essere calcolato come rapporto, armonia, legge dell’essere.
Solo mediante forma siamo incantati e rapiti dalla gloria dell’essere e mai l’immersione nella profondità può avvenire senza mediazione della forma.
Il Dio vivente non è né l’ente né l’essere che si annuncia in tutto ciò che appare e ha forma; tuttavia lo schema fondamento-manifestativo vale per Dio analogicamente. Attraverso la creazione e la redenzione egli si rivela in e al mondo. Solo in virtù dell’apparizione di Dio è possibile accedere alla bellezza di Dio.
Dunque il bello sta all’essere come la gloria sta a Dio; nella rivelazione biblica alla bellezza corrisponde la gloria di Dio (lo splendore della sua divinità che ha la sua divinità che ha la sua forma in Gesù).
L’apparizione di Dio crea anche le condizioni della sua percezione.
L’accento è messo su un vedere, guardare.
Il compimento di tale percezione è la fede come habitus del credente.
La dottrina dell’estasi (o rapimento) si riferisce alla fides quae creditur ed è la dottrina dell’autointerpretazione oggettiva della gloria di Dio. L’estasi è duplice:
a) l’uscita da sé di Dio (la sua esteriorizzazione che è il suo rivelarsi) attraverso Figlio,
b) l’estasi dell’uomo – la possibilità della sua divinizzazione attraverso il totale abbandono alla forma del Figlio.
Ogni percezione di Dio suppone un rapimento della creatura che oltre le sua facoltà naturali è resa capace dalla grazia di partecipare alla realtà stessa di Dio.
La dottrina della percezione della forma del Dio che si rivela è la TF; mentre la dottrina del rapimento costituisce la teologia dogmatica. Si tratta di due momenti inseparabili.
TF non è un’introduzione della teologia.
Avvicinare l’immagine della rivelazione divina a chi non crede, non può avvenire senza la fede.
La risposta dell’uomo trova il suo archetipo nella parola di Cristo: le radici per seguire la forma riconoscendola bella (e quindi buona e vera) sono all’interno dell’evidenza oggettiva.
Quindi i segni di credibilità fanno parte della rivelazione e sono legati inseparabilmente al suo contenuto. La credibilità non può mai essere antecedente all’atto di fede e al contenuto della rivelazione.
Cristo è una forma e non un segno o un cumulo di segni, è la forma centrale salvifica.
La differenza rispetto ad un metodo trascendentale: La forma della rivelazione è indipendente dalle attese o bisogni dell’uomo. La forma della rivelazione non può essere dedotta dall’attesa e dall’aspirazione degli uomini. Ma l’attesa e l’aspirazione sono integrate in tale forma.



[1] Lessing (1729-1781): Casuali verità storiche non possono diventare la prova di necessarie verità razionali. Tra fatti storici (contingenti, casuali) e verità assolute c’è orrendo fossato“.
Kierkegaard (1813-1855): da risposta al “dilemma di Lessing” – il cristianesimo sono atti storici ma non contingenti. Sono storici e metastorici insieme. In rapporto all’assoluto non c’è che un solo tempo: il presente. La vita di Cristo sulla terra non è un passato.
Modello fondativo-trascendentale (la rivelazione come evento presente del senso definitivamente valido)
H. Verweyen (1936) - La Parola definitiva di Dio.
Tenta di coniugare simmetricamente l’evento della rivelazione come punto iniziale della TF e la sua capacità di rispondere e “corrispondere” ad una struttura trascendentale costituita sul problema di un senso definitivamente valido.
1Pt 3,15 – “rendere ragione della speranza” - la speranza poggia su un fondamento razionalmente legittimabile di cui è possibile rendere ragione.
a) La rivelazione richiede la previa chiarificazione del problema del senso come della questione decisiva dell’esistenza umana.
b) TF deve legittimare la rivelazione davanti alla ragione storica.
Il trattato ha tre parti (una sorta di riproposizione della triplice demonstratio classica):
1. l’accesso dell’uomo alla rivelazione di Dio a partire dal problema del senso, assumendo la rivelazione come il senso definitivamente valido; il problema del senso come “la” questione dell’esistenza (demonstratio religiosa),
     2. l’effettiva realizzazione del senso nella storia (demonstratio christiana),
     3. il carattere permanente dell’interpellanza al senso (demonstratio catholica).
Il carattere definitivo della rivelazione cristiana pone l’esigenza di un senso definitivamente valido. La prospettiva trascendentale si definisce come ricerca del concetto previo di senso in quanto costitutivo per l’esistenza.
Una rivelazione può essere credibile solo se si pone come offerta insuperabile di senso; si può introdurre la categoria della definitività solo se si accetta, che il problema del senso è id quo nihil maius cogitari nequit per l’esistenza dell’uomo.
Occorre sul piano storico mostrare che è razionale credere che quella rivelazione sia accaduta e continui ad essere presente.
Il punto di partenza della TF è la rivelazione stessa (non un consenso filosofico o storico preesistente).
Il fondamento ultimo (il messaggio centrale) è la traditio nel suo significato neotestamentario; indica questi atti:
1. la consegna di un uomo alla violenza da parte di un uomo,
2. la consegna del proprio Figlio in favore di tutti noi da parte di Dio,
3. il dono di sé fatto da Cristo per noi,
4. la tradizione nel senso di tramandare, trasmettere.
La traditio si presenta come risposta alla domanda dell’interlocutore qualunque sia il suo contesto di comprensione. Le domande dell’altro possono essere risposte solo se esse diventano le mie (se io mi spoglio di ogni idea di Dio a cui potevo appoggiarmi).
La traditio esige l’intervento dell’ermeneutica (perché si legittima davanti alla ragione storica) ma anche di una filosofia prima (il cui compito è la chiarificazione del concetto di senso ultimo).
Verweyen cerca di acquisire un concetto di senso definitivamente valido, di determinare la possibilità di principio della realizzazione storica del concetto e delle condizioni di validità del senso ultimo nonostante rifiuto dell’uomo verso ciò che solo può dare senso.
Concetto di senso
Fa ricorso alla categoria dell’uno (Fichte): ogni cosa ci appare e la comprendiamo in quanto dotata di una forma, cioè di unità. L’unità distingue una realtà da un’altra, implica la differenza e non può essere affermata come pura semplicità.
Malgrado il bisogno elementare della ragione umana di porre una unità, essa non lo può fare senza porre nello stesso tempo una controparte e, quindi senza una dualità e una divisione.
A differenza di altri esseri viventi, l’uomo non si limita a percepire qualcos’altro, ma lo percepisce come altro. Questa percezione presuppone che l’io si conosca come unità non condizionata da nient’altro.
L’”altro” di cui ha bisogno e mediante il quale l’io nella sua attività indeducibile diventa un io in atto, appare come qualcosa di estraneo all’io perché gli è del tutto indifferente.
Il concetto di immagine: Anselmo utilizza il termine “immagine” per spiegare il rapporto fra il Padre e il Figlio nella Trinità, rapporto di “unità nella differenza”; immagine che dice da un lato la relazione ad altro (immagine di qualcosa o di qualcun altro) e dall’altro la riproduzione imperfetta della sua controparte.
La creazione è come immagine o come vera apparizione dell’essere assoluto la cui connotazione essenziale è la libertà.
Anche l’uomo deve liberamente attuare l’essere immagine.
Solo attraverso un invito rivolto all’uomo a diventare immagine dell’assoluto si potrebbe comprendere il vero concetto di dovere morale incondizionato, cioè attraverso un invito proveniente dallo stesso essere incondizionato.
La minaccia dell’impossibilità di ciò che costituisce la realizzazione dell’uomo verrebbe superata solo se fosse lo stesso assoluto ad incarnarsi di modo che la libertà si troverebbe ad avere a che fare non solo con altre libertà in cammino, ma con una libertà divenuta compiutamente immagine.
Solo se nell’esperienza morale sarà possibile sperimentare qualcosa che interpella in maniera incondizionata allora si potrà legittimare una rivelazione effettuata una volta per tutte.
(Fichte:) L’autocoscienza accade solo quando un altro soggetto, libero come me, mi riconosce come un essere libero. Nel momento in cui pervengo all’autocoscienza ho di fatto voluto rispondere all’invito dell’altro. Qui si trova il dovere morale.
Una rivelazione (anche se è storicamente lontana) deve essere percepita come una realtà presente che mi interpella mediante il nesso interpersonale, che rappresenta il luogo dell’esperienza morale, forma del senso definitivamente valido.
La libertà porta in sé anche la possibilità di porsi contro il diventare immagine.
La vera onnipotenza di Dio è la sua capacità di attendere infinitamente il sì della libertà creata senza paura di perdere se stesso.
I momenti della traditio si manifestano nella loro unità: (1) la violenza (2) compiuta nei confronti dell’inviato (3) provoca, a motivo della sua accettazione senza riserve di questo doppio evento, (4) la confessione dello strumento dell’odio, secondo la quale qui si è fatto incontro il Figlio di Dio.
La realizzazione del senso
Si tratta ora di mostrare l’effettivo essere accaduto della rivelazione nella storia e il suo continuare ad accadere nel presente mediante l’individuazione dei “segni” che rendono riconoscibile l’intervento di Dio nella contingenza della storia.
Prima ancora occorre affrontare il dilemma di Lessing: come una realtà storica può realmente mediare e rendere presente Dio?
Nella nascita dell’atto di fede sono implicati tre aspetti:
1. la conoscenza della credibilità razionalmente fondata, 2. l’azione della grazia e dello Spirito Santo, 3. l’atto libero di assenso.
Se la certezza mediata alla ragione attraverso la percezione storica della rivelazione non potrebbe mai essere una certezza incondizionata, ci troveremmo di fronte a un mascherato fideismo => la fede non può restare nell’ambito della probabilità.
Ma la ricerca storica appare in questo inadeguata, perché i suoi criteri oggettivanti non intendono il significato dell’atto.
L’amore come abbandono senza riserve ad un altro può essere riconosciuto solo in un atto in cui l’altro si lascia strappare in maniera altrettanto completa a se stesso.
Senza la disponibilità senza riserve, l’evento storico dell’appello alla libertà non può più essere riconosciuto e giudicato.
La traditio come consegna incondizionata è perciò la forma della rivelazione definitiva e della sua mediazione.
Anche NT è un momento della traditio, perché l’autore è raggiunto dall’esperienza della rivelazione. Perciò la pretesa della ricerca storica di andare oltre la teologia dei testimoni neotestamentari non ha senso in relazione all’evidenza incondizionata.
Verweyen denuncia che la risurrezione è il principale atto rivelativo con questi argomenti:
a) se Dio ha posto solo dopo la morte di Gesù l’atto rivelatore decisivo per la fede nella sua autocomunicazione definitivamente valida, allora il dono della vita di Gesù è imperfetto perché subordinato a tale ulteriore azione di Dio,
b) la fede nell’incarnazione del Verbo divino è messa in dubbio: se prima l’autoidentificazione di Dio con Gesù non era ancora in linea di principio pienamente conoscibile, allora tutta la storia della libertà di Gesù riveste solo un valore posizionale provvisorio in ordine a quell’evento,
c) se le apparizioni del Risorto costituiscono il fondamento decisivo della fede pasquale, allora il problema della differenza fra discepoli di prima e di seconda posto da Lessing rimane insolubile.
=> i discepoli già nel momento della morte di Gesù possedevano un’evidenza sufficiente per credere nella validità definitiva della sua rivelazione. La storia della sua libertà come dedizione incondizionata che si compie sulla croce è il luogo decisivo dell’automanifestazione divina.
La proposta di Verweyen è speculativamente considerevole, ma soprattutto è da rivelare il tentativo di unire evidenza oggettiva e percezione soggettiva mostrando come al luce stessa dell’evento illumini di significato la struttura trascendentale dell’uomo.

Modello ermeneutico
Ermeneutica = interpretazione di un testo (la ricerca delle condizioni storiche in cui il testo è sorto e che lo rendono intelligibile).
Nel cristianesimo l’ermeneutica era considerata una scienza ausiliaria per una corretta interpretazione dei testi biblici.
La “svolta ermeneutica” avviene nella modernità soprattutto con la crisi della metafisica e la scoperta della coscienza storica.
La crisi della metafisica costituisce anche la crisi del pensiero che concepisce la verità come corrispondenza fra il giudizio dell’intelligenza e la realtà.
Fides et ratio: l’ermeneutica è “scienza ausiliaria” utile per l’intelligenza della fede. Denuncia la “cattiva infinità” – infinita interpretazione, senza approdo che rinuncia a pensare stabilmente l’essere. Una filosofia ermeneutica, che è aperta all’istanza metafisica, sarà di grande aiuto per la teologia.
Occorre ribadire l’insostenibilità di una concezione solo ermeneutica della ragione teologica.
C. Geffré: considera la cosa più importante la fine dell’identificazione della ragione teologica con la ragione metafisica (la rottura epistemologica tra il Dio biblico e il Dio dei filosofi).
Voleva una teologia non-metafisica. Ma la rinuncia alla metafisica non significa la rinuncia alla portata ontologica degli enunciati teologici. La teologia rimane metafisica nel senso di “trasgressiva”, cioè capace di andare oltre i dati immediati dell’esperienza per raggiungere la realtà dell’essere che si svela nel linguaggio.
L’ermeneutica valorizza anzitutto la dimensione storica del comprendere umano, per sua natura mai definito e sempre ulteriore. Essa concepisce la conoscenza non più come rappresentazione, ma come interpretazione.
La teologia diventa un discorso che riflette sul linguaggio su Dio, sui testi che parlano umanamente di Dio.
La comprensione del mistero di Dio non è mai diretta. In teologia la manifestazione della verità è una manifestazione in divenire.
La rivelazione è sempre un’ermeneutica e dunque una tradizione.
La rivelazione in quanto avvenimento della storia, non può essere separata dalla sua ricezione da parte dell’uomo.
L’interpretazione è un’esigenza della rivelazione stessa, perché non è comunicazione di verità morte ma di una verità viva che deve essere continuamente riattulizzata.
La teologia ermeneutica cerca di esporre il contenuto oggettivo della parola di Dio, ma ha altrettanta cura nell’attualizzarne il senso per l’uomo di oggi.
Non c’è trasmissione della fede senza reinterpretazione dell’evento Gesù Cristo. La Rivelazione è un evento sempre attuale.
E. Biser: i limiti dei modelli tradizionali: 1. il carattere estrinseco della giustificazione della fede, 2. la separazione fra ordine della salvezza e ordine naturale, 3. impostazione fondamentalmente individualistica.
Il punto di partenza per la giustificazione dell’atto di fede deve essere cercato nella fede stessa; la fede deve essere giustificata ermeneuticamente come un “atto di comprensione che si autosostiene”
La fede è definita come la conoscenza fondata sul sapere altrui, assunta dai testimoni e raggiunta in dialogo con loro; dalla conoscenza viene anche la certezza per il credente.
Si tratta di una fede testimoniale che si dà in un contesto dialogico-personale. Essa scaturisce dal tu interpellante di Dio attraverso la testimonianza.
La certezza di fede proviene dalla connessione con il tu interpellante nell’orizzonte della testimonianza accettata.
Esito: progetto di Biser è interessante per la sottolineatura della fede come punto di partenza, una fede compresa nell’orizzonte di una rivelazione concepita come un dialogo che interpella.

Il modello contestuale
Hans Waldenfels (1931) - Kontextuelle Fundamentaltheologie
TF è chiamata ad ascoltare i contesti (a interpretarli rispettandone la complessità).
Il punto di partenza non sono contesti, ma la rivelazione come autocomunicazione definitiva di Dio in Gesù per salvare l’umanità.
Al centro della riflessione teologico-fondamentale si trova la fede in un unico Dio che ha parlato. Ma TF non può prescindere dal suo contesto sociostorico sempre mutevole.
TF deve giustificare la fede di fronte a quelli che la rifiutano, non la condividono o la contestano, e nello stesso tempo porre le fondamenta della teologia cristiana (ovvero aiutare a dare forma alla fede sul piano del pensiero).
L’affermazione pacifica della “rivendicazione cristiana” esige la sua giustificazione ed essa non può avvenire se non in maniera razionale secondo una modalità al tempo stesso apologetica e dialogica:
L’aspetto apologetico: assumere le categorie nelle quali le contestazioni sono espresse.
L’aspetto dialogico: rinnovare la capacità di comunicazione del cristianesimo nei confronti di tutti i possibili gruppi umani.
Il necessario riferimento al contesto rende di TF una disciplina sempre provvisoria e mutevole. Non esiste TF perenne.
La sottolineatura iniziale concerne il riferimento alla dialettica testo – contesto. Ogni testo espresso e scritto si muove in un contesto dal quale non si può prescindere se si vuole tradurre il testo.
“Testo” è dal “tessuto”: in un testo sono molti elementi – colui che parla, l’intenzione, il suo atteggiamento verso l’uditore, il suo pensiero...  ogni testo è frutto di una molteplicità di momenti degni di attenzione.
Ogni testo si deriva da un contesto ed entra in un nuovo contesto.
Il punto importante per TF contestuale è la comunicazione, perché deve stabilire il ponte tra la fede cristiana e  i contesti umani.
TF come apologetica si rivolge alle contestazioni non tanto per difendersi bellicosamente. La vera apologetica non lavora in primo luogo con gli strumenti della polemica, ma cerca di spiegare, di stabilire un clima di reciproca comprensione.
Il riferimento al contesto  non implica mai una sua assunzione acritica (occorre discernimento).
I contesti da cui provengono le contestazioni della fede cristiana:
          a) il pluralismo religioso, b) l’ateismo, c) la divisione fra le chiese cristiane.
TF ha bisogno di: 1. la filosofia (poiché contribuisce a porre la domanda circa il senso della vita e ad abbozzare la risposta),
 2. la scienza storica (poiché il cristianesimo è legato alla storia),
 3. le scienze sociali (poiché il cristianesimo si costituisce come organo sociale).
Il teologo fondamentale può essere paragonato a uno che sta sulla soglia di una casa – è insieme dentro e fuori.
TF è una scienza teologica che viene coltivata allo scopo di dimostrare che il fondamento della fede cristiana e della sua teologia è un fondamento e un principio salvifico e vivificante, allo scopo di renderlo plausibile e di farlo diventare rilevante per i contemporanei. (TF non è un’introduzione alla dogmatica ma è una dimensione di ogni disciplina teologica.)
Waldenfels delinea tre parti centrali: Dio – Cristo - Chiesa.
Critiche: Si deve partire da Cristo e non dal problema di Dio che appare successivo.
La sproporzione tra il progetto enunciato e la concreta realizzazione dell’intenzione.

­IL PROGETTO: VERSO UN MODELLO
FONDATIVO-CONTESTUALE IN PROSPETTIVA SACRAMENTALE

Premesse contestuali
Dal modello ermeneutico al modello fondativo contestuale
Durante il Novecento il modello ermeneutico (che dominava la scena) ha mostrato anche i suoi limiti e poi entra in sua crisi.
Tra i guadagni dell’ermeneutica  è il recupero della tradizione e dell’autorità.
Tuttavia l’ermeneutica contemporanea si è rivelata incapace di arginare l’invadenza strutturalistica sia a causa del consistente influsso del pensiero analitico, sia nei confronti dei modelli antropologici indotti dalle nuove forme di razionalità scientifica.
Rompere con la struttura infinitamente circolare dell’interpretazione è possibile solo a condizione che si elabori un’ontologia dell’essere storico. E ciò è possibile solo a condizione che si dia almeno un momento nella storia in cui rompe il metastorico.
Nasce così l’esigenza di ripensare la Rivelazione del Dio Unitrino in Cristo nell’orizzonte “sacramentale” e inscrivere in questo orizzonte il momento fondativo e quello contestuale. Il modello che si propone nasce da quello ermeneutico, ma al tempo stesso lo supera, senza perderlo, ritenendo ormai maturi i tempi per tentare di declinare la Rivelazione e la sua credibilità (momento fondativo) in rapporto al contesto contemporaneo e alla cultura che in esso si esprime (momento contestuale).
All’interno della “scuola lateranense”
La scuola tedesca: sottolinea la caratteristica di scienza delle fondamenta che la disciplina certamente possiede.
La scuola gregoriana: impostata sulla tematica della Rivelazione e della sua credibilità (R. Latourelle, R. Fisichella)
La scuola lateranense: prospettiva dialogica della TF (con particolare riguardo verso il fatto religioso e le sue manifestazioni) in rapporto alla rivelazione cristiana e alla sua credibilità (V. Boublik, K. Skalicky)
La scuola milanese: il modello fondativo-fenomenologico (Sequeri).

Lo statuto scientifico della TF
TF può pensare il proprio statuto epistemologico a partire da due punti che segnalano anche due convergenze:
1. riguarda il carattere propriamente teologico di questo settore del sapere della fede,
2. riguarda il carattere non estensivo o pantologico dei contenuti della TF (tale acquisizione ci consente di distinguere fra la fondamentale come dimensione di tutta la teologia e TF come settore o regione del sapere teologico).
Su queste basi, possiamo allora tentare di disegnare lo statuto epistemologico della teologia fondamentale, a partire da tre istanze:
L’istanza epistemologica
Alla TF appartiene la riflessione intorno al sapere che dalla fede si sprigiona e al suo strutturarsi in forma scientifica.
Tale compito epistemico deve essere adeguatamente distinto in modo che vengano trattate l’epistemologia generale (della teologia) e l’epistemologia speciale (della TF).
All’ambedue appartiene una trattazione del rapporto fede-ragione.
L’epistemologia generale mette in luce la razionalità intrinseca della fede stessa.
L’epistemologia speciale indaga il rapporto fra Rivelazione e ragione, alla luce della dimensione storico-escatologica della Rivelazione stessa e della sua dimensione cosmico-antropologica.
Quale filosofia per la teologia?
1. La teologia avrà a che fare con le filosofie chiamate ad esprimere lo spirito del tempo e a porre e indagare le domande fondamentali che l’uomo porge a se stesso, agli altri e a Dio.
2. Risulterà utile l’elaborazione di una filosofia cristiana, la quale può usare la teologia.
L’istanza fondativa
È tipica per TF quella forma del sapere teologico che ricerca le fondamenta o radici del credere.
L’elemento fondativo è dato dalla rivelazione del Dio Unitrino nella storia in rapporto all’esperienza religiosa dei cristiani, degli ebrei, degli islamici, dei buddisti ... e perfino degli agnostici e dei non credenti.
1) La Rivelazione cristiana è una realtà viva e dinamica (non un concetto né una categoria – non si lascia facilmente racchiudere in un sistema totalizzante). Stimola lo sforzo speculativo.
2) TF incrocia le altre discipline teologiche, in particolare l’antropologia, la teologia trinitaria, la cristologia e l’ecclesiologia. Queste discipline si usano nella TF nella misura in cui in essi si mostra la dimensione rivelativa della salvezza e la credibilità della Rivelazione cristiana.
Importante è una prospettiva agapico-trinitara, ma l’oggetto materiale centrale della nostra riflessione resta la dinamica della Rivelazione, in rapporto alla fede, alla ragione e alla/e religione/i.
a) dell’antropologia in TF si tratta di:
- l’apertura dell’uomo alla Rivelazione,
- la Rivelazione come grazia e redenzione, e il rapporto verità/libertà,
- la fede in rapporto alla dimensione conoscitiva, volitiva e affettiva dell’esistenza,
b) della cristologia fondamentale:
- Gesù storico e il duplice inizio della cristologia,
- l’evento fondatore e i suoi segni,
- le modalità rivelative del Regno (parabole, miracoli) proprie del NT,
- l’unicità e universalità dell’evento Cristo (in rapporto alla teologia delle religioni e al dialogo interreligioso),
c) dell’ecclesiologia fondamentale:
- le radici cristologiche ed apostoliche della Chiesa,
- la sacramentalità della Chiesa e le sue funzioni,
- la Tradizione vivente e il Magistero ecclesiale
- i diversi livelli e forme di appartenenza,
- il suo rapporto con il mondo.
3) Sul piano epistemologico costruiamo una sorta di prisma attraverso una molteplicità di approcci e di tematiche.
Questa “integrazione dei saperi” non è stabilita attraverso una sorta di ancillarità delle altre discipline rispetto alla teologia, bensì in un rapporto rispettoso delle autonomie e al tempo stesso attento agli apporti specifici.
4) La teologia della Rivelazione offre la chiave interpretativa in relazione al fatto-fenomeno religioso e alle diverse religioni e al tempo stesso pone la basi per un autentico dialogo interreligioso e interculturale.
5) La riflessione sulla Rivelazione del Dio Unitrino consente di rilevare l’eccedenza della stessa sulla Scrittura, in modo da recuperare e riesprimere la tematica della tradizione vivente e della fede.
6) L’orizzonte veritativo è quello della valenza culturale e filosofica della Rivelazione cristiana.
7) Nell’attuale contesto di disperazione epistemologica e di dispersione antropologica un messaggio importante è: “La Rivelazione cristiana è la vera stella di orientamento per l’uomo”. È l’ultima possibilità che è offerta da Dio per ritrovare in pienezza il progetto originario di amore, iniziato con la creazione.
8) L’ontologia e la metafisica sono intese e sviluppate nel senso di un’ontologia della dedizione, di un’ontologia trinitaria e di una metafisica della carità.
Questo consente darle corpo anche in rapporto alle diverse esperienze religiose. La parola di Dio non si indirizza ad un solo popolo o a una sola epoca. Gli enunciati dogmatici (pur risentendo a volte della cultura del periodo in cui sono definiti) formulano una verità stabile e definitiva. La verità non può mai essere limitata al tempo e alla cultura.
9) La ricerca si fonda su una concezione della verità tale da integrare nell’orizzonte aletheiologico e rivelativo la dimensione adeguativa, attraverso l’adozione di un sano realismo critico in rapporto ai risultati che i diversi approcci scientifici e filosofici al fatto-fenomeno religioso offrono.
Si sviluppa la complessa struttura evento (gesto)-parola in tutta la complessa pregnanza che questa polarità esprime.
Coscienza storica e istanza veritativa non potranno risultare contrapposte.
Fides et ratio: TF dovrà farsi carico di giustificare ed esplicitare la relazione tra fede e la riflessione filosofica. Già il Concilio Vaticano I aveva richiamato l’attenzione sul fatto che esistono verità conoscibili naturalmente (filosoficamente). La loro conoscenza costituisce un presupposto necessario per accogliere la Rivelazione di Dio.
TF dovrà mostrare come, alla luce della conoscenza per fede, emergano alcune verità che la ragione già coglie nel suo autonomo cammino di ricerca. A queste la Rivelazione conferisce pienezza del senso. La mente è così condotta a riconoscere l’esistenza di una via realmente propedeutica alla fede, che può sfociare nell’accoglienza della Rivelazione. 
TF dovrà anche mostrare l’intima compatibilità tra la fede e la sua esigenza essenziale di esplicitarsi mediante una ragione in grado di dare in piena libertà il proprio assenso. La fede, pur non fondandosi sulla ragione, non può fare a meno di essa.
L’istanza contestuale
TF nel momento in cui accoglie l’istanza contestuale è impegnata a mediare (in maniera scientifica) il logos cristiano in seno ad altri ambienti dotati di verità e di valori, e questo al fine di affermare la singolarità e insieme l’universalità del cristianesimo.
TF media la verità cristiana verso l’esterno, cioè verso i diversi contesti culturali della storia. Per questo è disciplina di frontiera.
La filosofia è l’interlocutore privilegiato della TF perché in essa si manifesta quanto un tempo storico considera come razionale.
TF istruisce “auditus temporis” poiché è chiamata a riflettere sui rapporti della teologia con le altre forme del sapere e a porsi in ascolto delle risultanze provenienti dagli altri mondi epistemici. L’auditus temporis e il dialogo con i contesti escludono l’idea di una neutralità del teologo e della teologia di fronte ai contesti stessi.
Importante è un’attenta lettura-interpretazione della postmodernità.
Secondo alcune correnti, richiamatesi alla postmodernità, il tempo delle certezze sarebbe irreparabilmente passato, l’uomo dovrebbe imparare a vivere in un orizzonte di totale assenza di senso.
In rapporto al postmoderno, la cultura cattolica sembra coltivare un atteggiamento, che si manifesta: 1. come differenza nei confronti della rassegnazione alla debolezza del pensiero, 2. come difesa dalla tentazione gnostica, 3. come tendenza all’oltrepassamento del nichilismo, 4. come custodia gelosa dei misteri speculativi e della metafisica.
Se nella contrapposizione agli esiti razionalistici della modernità la Chiesa e la teologia dovevano difendere il senso del mistero e del soprannaturale, ora nella postmodernità devono difendere la ragione e le sue possibilità in ordine alla conoscenza del Vero.

Il metodo della teologia fondamentale
L’auditus fidei in TF
Il momento positivo dell’auditus fidei è per la TF necessario.
Si tratta innanzitutto del rapporto dei contenuti propri del momento fondativo e in particolare della tematica della Rivelazione, con le attestazioni della Scrittura e della Tradizione.
TF deve raccogliere le indicazioni bibliche, patristiche, tradizionali, magisteriali intorno alle tematiche del rapporto Rivelazione/Scrittura e Rivelazione/Tradizione.
1. La Scrittura: fra l’automanifestazione di Dio e le Sacre Scritture non si dà una relazione di totale equivalenza e corrispondenza, perché Rivelazione designa l’insieme degli eventi e delle parole attraverso cui Dio si manifesta, che vengono come a cristallizzarsi in quel luogo privilegiato - nelle SaS.
Le Scritture non sono la Rivelazione bensì attestano i realizzarsi dell’autocomunicazione di Dio.
I libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Scritture (DV11).
La consapevolezza della eccedenza della Rivelazione in rapporto al testo ispirato è espressa anche nella stessa Scrittura (Gv: “..molti altri segni fece Gesù...”).
2. La Tradizione: l’eccedenza della Rivelazione rispetto alla SaS rimanda alla necessità di pensare il fecondo rapporto fra Rivelazione e Tradizione, poiché prima che in un testo scritto, la manifestazione di Dio in Gesù è consegnata in una tradizione.
Il circolo che si instaura tra Rivelazione, Scrittura e Tradizione consente a distinguere una fase costitutiva e una fase interpretativa della Rivelazione (senza separare questi momenti).
La fase costitutiva della Rivelazione culmina nell’evento fondatore (Pentecoste compresa), con la centrale e definitiva manifestazione di Dio in Gesù.
In TF sarà opportuno riservare il termine Rivelazione appunto alla fase costitutiva della stessa.
La Rivelazione cristologica stabilisce il criterio di autenticità di ulteriori eventuali manifestazioni del divino, i quali non possono aggiungere nulla all’essenza del messaggio e alla fede che esso richiede.
Non è da aspettarsi alcun’altra Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (DV4).
3. Il Magistero: l’ufficio d’interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o trasmessa, è affidato al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Magistero non è superiore alla parola di Dio, ma la serve (DV10).
La Tradizione, la Scrittura e il Magistero della Chiesa sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna sussiste senza le altre, e tutte insieme contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime.
L’auditus temporis in TF
L’auditus temporis - la capacità di leggere e interpretare il proprio tempo in modo da mostrare in relazione ad esso la credibilità della Rivelazione.
In questo può usare l’ausilio di altre discipline (le scienze umane, ma in particolare la filosofia).
La filosofia, così come è esercitata da un teologo, diventa profezia sulla Rivelazione, diventa l’“antico testamento” della teologia.
L’istanza filosofica privilegiamo perché alla filosofia è riconosciuto il compito di comprendere il proprio tempo col pensiero e quindi di aiutarci a leggere (decifrare) la nostra epoca e le sue contraddizioni ad un livello diverso dalle scienze umane.
TF si pone dinanzi ai contesti con una specifica intenzionalità teologica e dialogica secondo un duplice atteggiamento di:
a) vicinanza simpatetica (capacità di leggere i segni dei tempi, di riconoscere la presenza e l’azione dello Spirito nella storia),
b) distanza critico-profetica (non compiere un’analisi fenomenologica rinunciando alla propria identità, ma operare una lettura ermeneuticamente situata, dove la precompressione teologica consente una feconda lettura e interpretazione del dato umano).
L’intellectus Revelationis in TF
L’intellectus fidei - si tratta del momento speculativo della riflessione.
La Rivelazione non è soltanto una tematica, ma è una vera e propria prospettiva capace di informare il pensiero e orientarlo.
Il nesso inseparabile tra la persona e verità è stato tematizzato dal pensiero contemporaneo:
L. Pareyson: Quando la libertà cessa di reggere il vincolo originario di libertà e persona, la verità dilegua (lasciando il pensiero vuoto), e scompare anche la persona, ridotta a mera situazione storica. L’armonia fra dire, rivelare ed esprimere si rompe.
Senza verità, l’aspetto rivelativo della parola è puramente apparente e si riduce a una razionalità vuota e priva di contenuto. Non più riferita alla persona nella sua apertura rivelativa, ma alla situazione nella sua mera temporalità, l’espressione diventa inconsapevole e occulta.
La conquista di un nuovo concetto di verità come manifestazione richiede il riconoscimento della vera dipendenza dell’uomo che non è sinonimo di eteronomia.
Interessante è anche il tema del rapporto linguaggio/parola/evento, che si lasci profondamente interpellare dalla teologia biblica di dabar e logos. Il primo scopo del linguaggio fu di rendere a pieno intelligibile l’universo sensibile; il secondo fu, che egli fosse un mezzo per il quale l’uomo trapassasse oltre i confini del sensibile universo.
Con ruolo di cerniera tra il momento dell’auditus e quello dell’intellectus fidei si pone la figura della ragione storica, come determinante per il sapere teologico (nella misura in cui assume il carattere di un’ermeneutica della testimonianza).
Un’ermeneutica senza testimonianza è condannata alla regressione, in una prospettiva senza inizio, né fine.
Appartiene al momento speculativo della TF il tentativo di declinare la credibilità della Rivelazione in rapporto al contesto culturale, sociale, religioso, filosofico, in modo che si rispecchi nel sapere della fede quella “contemporaneità” di Cristo con l’uomo e dell’uomo con cristo che genera l’atto di fede salvifica.
La Chiesa nelle parole del “Mysterium fidei” rivela anche il suo proprio mistero: Ecclesia de Eucharistia. Un momento decisivo della formazione di Chiesa è certamente l’istituzione dell’Eucaristia nel Cenacolo.

TEOLOGIA DELLA RIVELAZIONE ED
ELEMENTI DI CRISTOLOGIA FONDAMENTALE

La teologia cristiana nasce perché Dio ha parlato e si è manifestato nella storia.
La rivelazione è l’oggetto formale (la prospettiva di fondo) di ogni pensare e dire propriamente teologico.
Nella TF la rivelazione diviene anche oggetto materiale (il contenuto e argomento principale).
La traditio e la fides trovano il loro senso teologico più profondo proprio nella revelatio.

Una questione preliminare
C’è davvero bisogno di una trattazione sistematica e formalizzata del nostro tema?  Non è più opportuno che la teologia ritorni alla sua fase premoderna e quindi rinunci a un trattato dedicato alla divina rivelazione?
Abbiamo proprio bisogno di un “concetto fondamentale”?
Nella Dei Filius (del CV1) si realizza un cambiamento semantico significativo: il termine tridentino Evangelium è sostituito con quello appunto moderno di Rivelatio supernaturalis.
Nell’antichità patristica e nel medioevo il termine revelatio indica l‘ispirazione o l’illuminazione interiore e non l’oggetto linguisticamente formulato della fede.
Riguardo all’assunzione di tale concetto in primo luogo si tratta di prendere atto:
a) del fatto che la questione sembra nascere nella genesi e appropriazione controversista del termine nella suddetta accezione,
b) dell’uso di una connotazione concettuale e categoriale del termine stesso,
c) nella legittima convinzione che il parlare e l’agire di Dio nella storia non siano circoscrivibili attraverso un concetto o una categoria, ma esprimibili in una pluralità di metafore, simboli, anche concetti.
In secondo luogo va notato che lo sviluppo successivo della teologia della rivelazione ha ampiamente superato un’accezione meramente concettuale o categoriale del termine rivelazione, sottolineandone appunto la dimensione dinamica, dialogica e storica.
Si tratta di accertare se l’ampliamento semantico del termine rivelazione non costituisca un punto di non ritorno per il cammino della teologia nella storia e se sia lecito cancellare alcuni secoli di storia del pensiero teologico.
La teologia se vuole conservare il proprio statuto scientifico non può prescindere da una certa formalizzazione concettuale.
Si tratta allora di pensare il fondamento con la piena consapevolezza che esso consiste nell’amore trinitario di Dio rivelato in Cristo e accolto nello Spirito, senza nulla perdere di tutto il dinamismo storico salvifico di tale donazione.
Ma anche si tratta di mostrare la valenza speculativa del fondamento stesso e quindi di rifiutarne l’intera ragionevolezza in rapporto alla sua valenza metafisica (cioè fondativo-ontologica, gnoseologico-epistemologica e etico-antropologica).
Alla domanda iniziale (se abbiamo bisogno di un “concetto fondamentale”) possiamo rispondere che abbiamo bisogno di pensare il fondamento in termini rivelativi. (E speriamo che a nessuno venga in mente di confondere i nostri tentativi col mistero di Dio.)
Le tappe del nostro cammino:
1. cercheremo di evidenziare alcuni luoghi paradigmatici in cui si esprime una sorta di praeparatio Revelationis, assumendo come orizzonte il pensiero, la cultura e la religiosità dei greci,
2. esporremo la tematica della rivelazione in rapporto e nella Scrittura/Tradizione; in questo momento sarà dato ampio spazio all’auditus fidei  (ad esso tuttavia non sarà estraneo l’intellectus fidei),
3. la dimensione speculativa nel rapporto alle fonti del teologare e nel riferimento ai maestri del pensiero teologico e filosofico.

Praeparatio Revelationis?
L’avvento della Parola di Dio nella storia si presenti con la caratteristica fondamentale dell’irrompere imprevisto e gratuito di qualcosa di radicalmente nuovo. Tuttavia essa cade in un terreno del cammino dell’uomo di ricerca del Bene, Vero, Bello e Uno.
Il ruolo paradigmatico ha il rapporto che il messaggio cristiano ha con il logos greco e con la “cultura occidentale”.
Ma dal nesso fra rivelazione cristiana e sue espressioni privilegiate nei termini del pensiero greco e delle categorie culturali dell’Occidente non si può derivare l’identificazione fra questi.
La fede resta sempre qualcosa d’altro rispetto alla cultura e anche rispetto alle proprie espressioni culturali.
Ma la Parola di Dio non si dà mai allo stato puro e senza alcuna inculturazione.
Presentiamo adesso tre forme di preparazione della rivelazione presenti nella cultura, nella religiosità e nella filosofia greca:            

Conosci te stesso!
Fides et ratio: Sia in Oriente che in Occidente è possibile ravvisare un cammino che ha portato l’umanità a incontrarsi progressivamente con la verità e a confrontarsi con essa. È un cammino che s’è svolto entro l’orizzonte dell’autocoscienza personale: più l’uomo conosce se stesso, diventa sempre più impellente la domanda sul senso delle cose e della sua esistenza.
Il monito “Conosci te stesso” era scolpito sull’architrave dell’ingresso del tempio di Delfi a testimonianza di una verità basilare che deve essere assunta come regola minima da ogni uomo desideroso di qualificandosi come uomo.
In tutte le culture troviamo le domande di fondo che caratterizzano il percorso dell’esistenza umana: chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita?
Queste domande sono presenti negli scritti di Israele, in Veda, Avesta, Confucio, Euripide, Platone e Aristotele, Omero…
La Chiesa deve partecipare allo sforzo comune che l’umanità compie per raggiungere la verità.
Ogni verità raggiunta è sempre solo una tappa verso quella piena verità che si manifesterà nella rivelazione ultima di Dio.
Alcune sottolineature:
1. al testo delfico si potrebbe affiancarsi la formula cristiana dell’homo capax Dei; il nostro richiamo alla formula delfica ha il senso di mostrare i segni di una sorta di praeparatio Rivelationis nella cultura, nella filosofia e nella religiosità extra e precristiane; ma tali forme non determinano né l’avvento della Parola, nei suoi contenuti (si tratta di argomenti di convenienza),
2. il motto delfico si coniuga con l’interrogativo concernente anche il tema del male (teodicea)
3. il motto delfico ha il suo senso prima che filosofico, profondamente religioso: Apollo invitava l’uomo a riconoscere la propria limitatezza e finitezza e quindi esortava a mettersi in rapporto col dio; il motto quindi significava soprattutto: “uomo, ricordati che sei un mortale e che, come tale, tu avvicini al dio immortale!”
           
Platone per preparare il Cristianesimo?
Alcuni ritenevano che già Platone avesse la fede nella risurrezione, perché c’è allusione dell’immortalità dell’anima.
Uno di luoghi, in cui si può intravedere una sorta di carattere di avvento rispetto alla Parole di Dio, è il Fedone:
“Avere in questa nostra vita un’idea sicura, sia o impossibile o molto difficile ... il più sicuro è affidarsi a una divina rivelazione (logos Theiou).”
L’auspicio della rivelazione non predetermina in alcun modo quello che sarà il contenuto centrale (di questa rivelazione).
Nel Timeo si parla del tema del Padre (creatore) dell’universo:
“È difficile trovare il fattore e padre di quest’universo, e , trovatolo, è impossibile indicarlo a tutti.”
Qui il tema è quello dell’origine dell’universo: dove si intravede una figura paterna, chiamata fattore (non creatore).
Altri luoghi significativi di Platone (riguardanti paternità divina):
“L’uomo è una pianta non terrena, ma celeste, che l’anima solleva verso la sua parentela verso il cielo.” (Timeo)
“Una certa parentela spinge l’uomo verso il suo connaturale (cioè Dio) e lo porta ad onorarlo e a credere il lui.” (Leggi)
Ulteriori testimonianze che esprimono una certa attesa della rivelazione:
“Zeus padre degli uomini e degli dei.” (Iliade)
“Dal tuo sangue siamo nati.” (Eschilo: I sette contro Tebe)
“... tutti noi abbiamo bisogno di Zeus. Di lui infatti siamo progenie.” (Arato: Fenomeni)
Sia la poesia che il pensiero platonico intravedono quindi qualcosa del destino dell’uomo dopo la morte e delle origini del mondo e dell’uomo; da tutti si auspica l’avvento della Parola di Dio.
Né possiamo dimenticare che sarà il pensiero platonico (anche tramite il medioplatonismo e il neoplatonismo) a conferire alla fede cristiana la possibilità di configurarsi come sapere riflesso nelle grandi figure dei Padri.     
 
Metafisica e rivelazione
La speculazione metafisica (di Platone e Aristotele) costituirò punti di riferimento necessari per l’itinerario successivo della ragione nella sua ricerca del Vero.
Uno di vertici speculativi può essere individuato nella metafisica aristotelica e nella sua concezione dell’Assoluto e di Dio:
Questa riflessione si cristallizza nel libro Metafisica dove si parla del primo motore o motore immoto.
“Da un tale Principio dunque dipendono il cielo e la natura. Ed il suo modo di vivere è il più eccellente, quale noi abbiamo solo per breve tempo. Egli è sempre. ... Il pensiero che è pensiero di per sé. L’intelligenza pensa se stessa. ... L’attività contemplativa è ciò che c’è di più piacevole e di più eccellente. In questa felice condizione nella quale noi ci troviamo talvolta, Dio si trova perennemente ... Ed Egli è anche vita, perché l’attività dell’intelligenza è vita, ed Egli è appunto quell’attività. E la sua attività, che sussiste di per sé, è vita ottima ed eterna. Diciamo che Dio è vivente, eterno e ottimo.”[1]
La metafisica aristotelica risulta pluridimensionale e consente l’individuazione di quattro dimensioni costitutive di tale sapere:
1. aitiologica (la causa): metafisica come scienza o conoscenza delle cause e dei principi primi e supremi.
2. ontologica (l’essere): metafisica come scienza dell’essere in quanto essere e di ciò che all’essere in quanto tale compete.
3. ousiologica (la sostanza): è una teoria della sostanza, dove il concetto di sostanza starebbe a fondamento di tutti gli altri sensi attraverso cui l’essere si esprime.
4. teologica (Dio): essa è la scienza più divina e la più degna di onore; una scienza può essere divina solo in questi due sensi:
a) perché è scienza che Dio possiede in grado supremo,
b) perché ha come oggetto le cose divine.
Ma solo la sapienza (cioè la metafisica) possiede ambedue questi caratteri. (Tutte le scienze saranno più necessarie di questa, ma nessuna sarà superiore.)
L’essere si nomina in diversi modi, ma sempre in riferimento all’unità e così il pensiero metafisico risulta strutturalmente unitario.
Il senso più profondo della metafisica aristotelica  resta consegnato alla componente teologica.
Il Dio aristotelico è oggetto d’amore, egli è amato ma non amante, poiché l’amante è solo il cosmo. Dunque, il Dio non ama (o ama solo se medesimo). Gli individui non sono oggetto dell’amore divino.
È perché l’Assoluto di Aristotele non ha creato il mondo, l’uomo e le singole anime.
           
Areopago culturale e filosofico
Fides et ratio: “Secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli, l’annuncio cristiano venne a confronto sin dagli inizi con le correnti filosofiche del tempo. ... I primi cristiani non potevano nei discorsi con “certi filosofi epicurei e stoici” rinviare soltanto a Mosè a ai profeti; dovevano anche far leva sulla conoscenza naturale di Dio e sulla voce della coscienza morale di ogni uomo. Poiché però tale conoscenza naturale, nella religione pagana, era scaduta in idolatria, Paolo ritenne più saggio collegare il suo discorso al pensiero dei filosofi.”
Att 17, 15-34 – il discorso di Paolo all’Areopago:
Paolo pone la sinagoga al centro della sua attività missionaria. Frequenta anche l’agorà, mentre l’areopago era fuori dalle sue intenzioni (in quanto rivestiva un ruolo di particolare importanza).
Nel testo vediamo chiari sintomi della crisi del paganesimo greco come religione istituzionale: presenza di pagani “timorati di Dio” nella sinagoga; curiosità e interesse degli ateniesi verso le religioni misterico-orientalizzanti e verso nuove divinità.
Paolo inizia il discorso con un’apostrofe da retore (captatio benevolentiae), parla degli ateniesi come “timorati degli dèi”.
Offre tre affermazioni fondamentali:
1. l’inopportunità delle immagini e la condanna dell’idolatria con l’esigenza di salvaguardare la trascendenza di Dio (v. 29),
2. Dio non abita in templi fatti dall’uomo né ha bisogno di un particolare culto o sacrificio (vv. 24-25),
3. l’uomo come unica e vera immagine di Dio (vv. 26-28).
La valenza teologico fondamentale della pericope può essere colta a partire dalle seguenti considerazioni:
a) la praeparatio Revelationis incrocia qui la praeparatio Evangelii; prima dell’annuncio, si proclama la fede nell’esistenza dell’Unico Dio che ha fatto il mondo (v. 24),
b) la conoscenza di questo Dio è possibile all’uomo, se questi sa guardare dentro di sé (v. 27),
c) l’elemento discriminante è l’annuncio della risurrezione di Cristo e dei morti,
d) Paolo enuncia la speranza cristiana mostrandone la continuità con la domanda di senso se di verità propria dell’uomo,
e) esplicita la speranza con particolare attenzione alle istanze che il contesto della città offre.
Modalità del rapporto fra la rivelazione e la cultura pagana:
1. Giustino e la sua dottrina dello spermatikos logos (seme del Verbo): “tutto ciò che di buono i filosofi e i legislatori hanno sempre scoperto e formulato, è dovuto all’esercizio di una parte del Logos che è in loro tramite la ricerca e la riflessione. Però, dato che non hanno conosciuto la pienezza del Logos, che è Cristo, spesso hanno sostenuto teorie che si contraddicevano.”
2. Ratzinger - metafora del sicomoro usata nel Amos 7: i (moltissimi) frutti di questa pianta non hanno alcun sapore, se non li si incide accuratamente prima del raccolto. Noi riteniamo il sicomoro un simbolo per pagani: esso forma una gran quantità, ma è allo stesso tempo insipido. Quando si riesce a inciderla con il Logos, si trasforma, diventa gustosa e utilizzabile. Il rapporto cristianesimo-paganesimo risulta paradigmatico per quanto concerne l’inculturazione della fede e l’evangelizzazione della cultura come compito di ogni generazione cristiana.
3. Filone, Origene, Agostino - metafora delle “spoglie degli egiziani”: gli Egiziani avevano non solo gli idoli, ma anche vasi e ornamenti d’oro che quel popolo, uscendo dall’Egitto, rivendicò per sé, per farne uso migliore; e questo ha fatto per volere di Dio. L’utilizzo di questo patrimonio (di filosofi) richiede tuttavia un adeguato discernimento per potersi correttamente situare a servizio del Vangelo.
Conclusione: L’uomo non può staccarsi da Dio, perché Dio non glielo consente. Anche i pagani possono essere ridotti ad alcuni motivi religiosi principali.

La teologia della Rivelazione come momento fondativo del sapere della fede
Il fondamento dei dogmi si presenta come una realtà viva e dinamica, che non si lascia facilmente racchiudere in una formula.
Questo ha due conseguenze:
a) l’approfondimento a livello intellettuale della rivelazione appartiene al sapere teologico di TF,
b) gli altri settori della teologia (e in particolare la teologia dogmatica) non potranno esimersi dal coltivare una dimensione fondamentale (i singoli momenti della riflessione non potranno prescindere dall’orizzonte rivelativo).
Tommaso: Il nostro credere riguarda la realtà di ciò che le formule esprimono, non gli enunciati stessi.
La riflessione teologica intorno alla rivelazione non è originaria, bensì risale all’epoca moderna (sebbene riguardi qualcosa di originario e di imprescindibile).
Tale riflessione ha il carattere profondamente “apologetico” (assumendo un atteggiamento necessariamente dialogico).
1Pt 3, 15-16: “Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto...”
Un’apologetica trova le proprie radici nell’apologia, vissuta spesso nella forma della martyria del cristianesimo delle origini.
La tematica moderna e contemporanea della rivelazione rimanda a quella della Parola di Dio nelle sue tre accezioni fondamentali:
a) Parola di Dio come le sacre Scritture,
b) Parola di Dio come comunicarsi di Dio all’uomo cristianamente intesa,
c) Parola di Dio come la realtà della rivelazione stessa in tutta la sua pregnanza (l’esperienza di fede ebraico-cristiana).

Rivelazione e Scrittura – rivelazione nella Scrittura
Fra l’agire e il parlare di Dio nella storia e nelle sacre Scritture non si dà originariamente una relazione di totale equivalenza e corrispondenza, in quanto il termine rivelazione designa l’insieme degli eventi e delle parole attraverso cui Dio si manifesta.
Le sacre Scritture non sono la rivelazione, né si può ragionevolmente ritenere che contengano in tutta la sua ricchezza l’agire-parlare di Dio, bensì attestano il realizzarsi di tale comunicazione e ce ne offrono testimonianza per la nostra salvezza.
DV11: “I libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle Sacre Scritture. “
Si parla di “ispirazione” che è il termine, che si esplicitamente riferisce allo Spirito, indica un particolare intervento divino che spinge l’uomo a parlare (profezia), agire (storia), scrivere (scrittura) in favore della comunità.
Il testo ispirato è la parola dell’uomo e parola di Dio; non è consentito attribuirlo solo all'autore umano o a quello divino.
Non si può considerare l’autore umano meramente come strumento nelle mani dell’Autore divino, in quanto questi ne rispetta profondamente la cultura, la mentalità, la libertà, il linguaggio.
L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993): dobbiamo distinguere fra approccio e metodo:
metodo (esegetico) = un insieme di procedimenti scientifici messi in opera per spiegare i testi,
approccio = una ricerca orientata secondo un punto di vista particolare.
Il metodo storico-critico è il metodo necessario per lo studio scientifico del significato della SaS. Poiché è composta da autori umani in tutte le sue parti, la sua giusta comprensione richiede l’utilizzazione di questo metodo.
I principi fondamentali del metodo storico-critico:
a) come metodo storico cerca di chiarire i processi storici di produzione dei testi biblici; i testi della Bibbia si rivolgevano a diverse categorie di ascoltatori o di lettori, che si trovano in situazioni spazio-temporali differenti,
b) come metodo critico opera con l’aiuto di criteri scientifici il più possibile obiettivi in ciascuna delle sue tappe,
c) come metodo analitico studia il testo biblico allo stesso modo di qualsiasi altro testo dell’antichità e lo commenta in quanto linguaggio umano per meglio comprendere il contenuto della rivelazione divina.
Non si escludono gli altri metodi né i diversi approcci ai testi, però fondamentale resta metodo critico-storico.
A. RosminiDelle cinque piaghe della santa Chiesa: parla di necessità di riprendere la Bibbia. “Nella Scrittura l’uomo trova una risposta precisa, sicura e evidente a tutte le grandi interrogazioni che ha sempre a fare a se stesso ...  Parla in tutti modi: ora narra, ora ammaestra, ora sentenzia, ora canta ... la dottrina vi è così semplice, che l’idiota la crede fatta a posta per sé. “
L’eccedere della dinamica della rivelazione in rapporto al testo ispirato e espressa e attestata all’interno della stessa Scrittura.
Eb 1,1-2: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio ... per mezzo del quale ha fatto anche il mondo.”
Qui troviamo attestate le due dimensioni fondamentali dell’automanifestazione di Dio in Cristo (la prima include seconda):
1) la dimensione storico-escatologica (“in questi tempi che sono gli ultimi”),
2) la dimensione cosmico-antropologica (“per mezzo del quale ha fatto anche il mondo”).
Tale disposizione inclusiva risulta propria sia dell’AT che del NT;
a) AT: Israele sperimenta innanzitutto la presenza salvifica e liberatrice di JHWH e solo in un secondo momento attribuisce al Dio che l’ha salvato la creazione del cosmo,
b) NT: la comunità credente incontra e attesta il mistero della passione-morte-risurrezione del Cristo, per riconoscerlo in un secondo momento come elemento costitutivo dell’attività creatrice di Dio.
A ciascuno di noi Dio si è fatto incontro e solo in un secondo momento ci si apre alla riflessione intorno alla sua esistenza e al suo carattere fondativo rispetto al cosmo e all’uomo.

La storia della salvezza
Il dinamismo dell’agire-parlare di Dio risulta orientato e centrato sul Verbo fatto carne, centro e fine della storia. In questa prospettiva cristocentrica la storia della salvezza è quindi interpretata come un cammino di precisa direzione.
Usualmente si contrappone la concezione ebraico-cristiana del tempo (lineare) a quella antico-pagana (ciclico).
Una più giusta rappresentazione della historia salutis sarebbe la figura della spirale, dove si dà una direzione, ma non si esclude anche una sorta di circolarità e dove ogni momento successivo include e supera quelli precedenti (p.e. l’esodo è una nuova creazione, la pasqua di Cristo è un nuovo esodo, la fine dei tempi è una nuova creazione...).
O. Cullmann: Per il cristianesimo primitivo, come pure per il giudaismo biblico e per la religione iraniana, l’espressione simbolica del tempo è la linea mentre per l’ellenismo è il circolo.
La rappresentazione della spirale costituisce un ulteriore approfondimento di quella lineare. Nel caso di linea ci sono la creazione ed escatologia due termini estremi. Nel caso di una spirale si rivela in modo migliore la concatenazione degli archetipi salvifici. Ogni atto salvifico di Dio nella storia è attratto da un centro di gravità, da una zona d’influenza costante che è la creazione. L’esodo è una ri-creazione ed è, successivamente, un nuovo esodo.
Quanto al dato cristocentrico, l’itinerario si può pensare come una clessidra posta in orizzontale (p. 37), laddove nel periodo che precede l’incarnazione del Verbo vige la legge della concentrazione dai molti all’unico, dall’umanità a Israele (elezione), mentre il tempo che segue la venuta di Cristo risulta orientato dalla legge della universalizzazione: da Cristo agli apostoli, alla comunità credente a tutti gli uomini (missione).[2]
La rivelazione ha la struttura dell’evento-parola nel suo accadere nello spazio-tempo mondano. Quindi la storia è l’orrizzonte costitutivo fondamentale della rivelazione.
L’irruzione di Dio nella storia include una particolare concezione del tempo.
Le espressioni bibliche del tempo (in rapporto al linguaggio e all’analoga terminologia greca):
1) aiòn, aiònes: questo termine serve a designare sia uno spazio di tempo esattamente circoscritto che una durata illimitata e incalcolabile, che noi traduciamo con eternità; capita così che la stessa espressione che si riferisce all’aiòn presente considerato “cattivo”, è poi usata come attributo di Dio “Re degli aiònes”; questi termini non dicono tanto eternità, quanto piuttosto una dimensione temporale, connessa con l’esistenza umana, ma che lo trascende,
2) chronos: nella filosofia greca serve questo termine a indicare il tempo in sé; nel NT si trova in concreto rapporto con la storia della salvezza ed ha un significato quasi analogo a kairos o ad aiòn; altrove esso significa tempo determinato,
 3) kairos: usato nel NT come il tempo pregnante e occasione propizia di essere raggiunti da Dio che salva.
Gal 4, 4 Paolo parla della “pienezza del tempo”:  “... Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio...”
Questa frase occorre di interpretare in senso inverso: “Quando Dio mandò Figlio suo, venne la pienezza del tempo.”  Non il tempo fece sì che il Figlio venisse inviato, ma al contrario è l’invio del Figlio che fece la pienezza del tempo.
Paradossalità del realizzarsi dell’eschaton nella storia: Paolo afferma la realizzazione dell’eschaton nel tempo. Questo contrasta sia con la mentalità greca (che non conosce un vero eschaton temporale), sia con la fede giudaica (per la quale l’eschaton pone necessariamente fine alla storia).

Interpretazioni teologiche della rivelazione come storia
W. Pannenberg: “La rivelazione non ha luogo all’inizio, ma alla fine della storia rivelatrice.”
“La rivelazione universale della divinità di Dio non è ancora realizzata nella storia d’Israele, ma soltanto nella sorte di Gesù.”
K. Rahner: la dimensione antropologica della storicità - il carattere divino (e quindi metastorico) della Parola di Dio non deve far pensare a una sua espressione in termini avulsi dalla storia umana.
La rivelazione dev’essere attesa come un evento fissato nello spazio e nel tempo di tutto complesso della storia umana.
L’uomo è l’ente che nella sua storia deve tendere l’orecchio a un’eventuale rivelazione storica di Dio attraverso la parola umana.
La determinazione storica della rivelazione viene a trovare la sua ragione più profonda nella storicità costitutiva dell’essere umano. La figura dell’”esistenziale soprannaturale” costituirà la modalità rahneriana di esprimere il paradosso del nesso eschaton-storia.
H.U. von Balthasar: insiste sulla storia stessa che dopo la rivelazione cristiana proviene da Dio e va verso Dio e ciò sia se si pensa la storia come totalità, sia se si riferisce alla singola persona.
La concezione lineare del tempo viene qui radicalmente discussa e relegata alla prospettiva veterotestamentaria, mentre l’insistenza sul kairos suggerisce la proposta di una concezione verticale della storia stessa.
La modalità balthasariana di proporre la paradossalità dell’irruzione dell’eschaton nella storia, si esprimerà nei termini dell’”universale concreto”, dove prevale e insiste la prospettiva discendente dell’irruzione del totalmente Altro nell’al di qua delle umane vicende.

Una riflessione sulla rivelazione a partire dall’AT
Alcune premesse:
a) la prospettiva delle riflessioni: la fede cristiana e la teologia che la riflette, secondo l’indicazione di Eb 1,1-2,
b) il luogo: gli scritti canonici dell’AT,
c) il metodo: non prettamente esegetico, ma teologico-fondamentale, in quanto tiene conto dell’importanza del metodo storico-critico; tiene conto anche dell’esegesi contemporanea.
Il popolo ebraico e le sue Scritture nella Bibbia cristiana ci offre alcuni spunti teologico-fondamentali riguardanti il problema:
1. L’unità dei due Testamenti nella prospettiva cristiana.
L’interpretazione manichea e marcionita che contrapponeva i due testamenti non appartiene alla tradizione cattolica.
Nella teologia dei Padri della Chiesa la questione dell’unità interiore dell’unica Bibbia della Chiesa era un tema centrale.
2. L’interpretazione in chiave cristologica degli scritti veterotestamentari.
I Padri della Chiesa con la loro interpretazione non hanno creato nulla di nuovo, ma solo hanno sviluppato e sistematizzato ciò che già trovavano nel NT stesso. Questa sintesi doveva però diventare problematica nel momento in cui la coscienza storica sviluppò criteri di interpretazione (e così l’esegesi dei Padri appariva senza fondamento storico).
Lutero ha sviluppato una nuova formulazione del rapporto AT e NT, che non si fonda più sull’armonia interiore di AT e NT, ma sulla sua antitesi sostanzialmente dialettica dal punto di vista storico-salvifico ed esistenziale di legge e Vangelo.
Con la vittoria dell’esegesi storico-critica l’interpretazione cristiana dell’AT iniziata dal NT appariva finita (perché appare inverosimile che gli autori dei secoli prima di Cristo, che hanno scritto AT, intendessero alludere a Cristo e alla fede di NT).
Una teologia propriamente sintetica non può estremizzare nessun approccio settoriale. La problematicità intrinseca al tema richiede una profonda coscienza della complessità delle questioni.
Il costituirsi dell’identità cristiana comporta che essa vada colta certamente in maniera fondale nelle sue radici bibliche, ma anche in senso storicamente più ampio nell’orizzonte della storia delle interpretazioni, sempre tenendo conto della distinzione fra la fase costitutiva della rivelazione e la fase interpretativa della rivelazione stessa.
3. La conformità e differenza fra i due Testamenti.
La lettera agli Ebrei mostra di riconoscere l’autorità dell’AT, perché cita i loro testi per fondare il suo insegnamento. Contiene molte affermazioni di conformità (compimento delle profezie) ma anche non conformità.
Rm 3, 21: la giustizia di Dio nella giustificazione offerta dalla fede in Cristo è avvenuta indipendentemente dalla Legge, ma è tuttavia conforme alla testimonianza della Legge e dei profeti.
Gli scritti del NT riconoscono che le Scritture del popolo ebraico hanno un valore permanente di rivelazione divina.
Il carattere rivelativo di ciò che l’AT in maniera pluriforme attesta ci consente il passaggio dalla praeparatio Revelationis alla praeparatio Evangelii.
In scritti del NT si trovano anche numerose citazioni esplicite dell’AT, mostrando così di riconoscere l’autorità dell’AT.
La sottolineatura delle conformità e differenza fra i due Testamenti trova la propria espressione teologica nella categoria del “compimento” del primo nel secondo. Questo è espressa p.e. nel verbo dein, che indica non una necessità meccanica o fatalistica, ma provvidenziale e storica (“Bisogna - dei - che si compiano tutte le cose scritte su di me.”).
Questa insistenza dei Vangeli sullo scopo attribuito agli eventi “affinché si compiano le Scritture” conferisce un’importanza alle Scritture del popolo ebraico.
Fondamentali indicazioni concernenti il rapporto rivelazione/storia:
a) l’interpretazione del compimento porta ad escludere il carattere fatalistico dello sviluppo della storia come historia salutis (il cristiano è libero dal potere del fato; ciò che lo ha salvato non era un evento del destino),
b) la necessità di richiamare la tematica della singolarità e unicità dell’evento.
4. Il tema della rivelazione appartiene fra i contenuti fondamentali attraverso cui si esprime l’unità dell’AT e NT.
Il Dio della Bibbia è un Dio che entra in comunicazione con gli uomini e parla ad essi. Dio fa un’alleanza con il suo popolo. I profeti si mostrano consapevoli di trasmettere la parola di Dio.
Nel racconto della creazione del mondo si scopre che per Dio dire è fare.
NT prolunga questa prospettiva e l’approfondisce. Gesù si fa il predicatore della parola di Dio.
Nell’AT rinveniamo tre luoghi o modalità caratterizzanti la rivelazione: la storia, la sapienza e la profezia:

La dimensione storica della rivelazione veterotestamentaria
Nell’AT Dio si presenta innanzitutto come il Dio della storia. Sia in quanto è Signore delle vicende che nella storia accadono, sia in quanto la storia è il luogo nel quale si manifesta.
1. La rivelazione in questa prospettiva è compresa all’interno di una categoria veterotestamentaria fondamentale - della categoria di alleanza (berit) – rileva il carattere asimmetrico del rapporto Dio/popolo.
Lo schema dell’alleanza è quello di patti di vassallaggio, nei quali non si dà rapporto paritario fra i contraenti.
Il termine ebraico berit riassume nel vocabolario tre concetti: 1. rapporto tra potenze che determinano le relazioni in modo paritetico, 2. imposizione della volontà del sovrano al vassallo, 3. riconoscersi suddito attraverso il pagamento del tributo.
La LXX traduce quella parola non con il termine spondé, ma con un insolito diatheke (mettere insieme, mediare) che sottolinea un significato teologico particolare: comunione tra Dio ed Israele, obbedienza di Israele al suo Sposo e Signore.
Lo schema dell’alleanza del Sinai (Es 19-20) corrisponde con i trattati hittiti di vassallaggio (presentazione – prologo storico – clausole – sacrificio – aspersione dei contraenti – benedizione/maledizione). Questo indica l'asimmetria della relazione con Dio e mostra il profondo rapporto fra la Sua automanifestazione e la storia e la cultura del popolo cui è destinata, in quanto né adotta la lingua, i costumi, la mentalità, secondo una legge fondamentale della rivelazione biblica.
Nell’AT sono due elementi che mostrano il carattere asimmetrico della relazione tra Dio e l’uomo e l’orizzonte di trascendenza, in cui viene sperimentato e pensato il soprannaturale:
a) L’indicibilità del nome
 Nella cultura semitica chiamare qualcosa significa penetrarne l’essenza, le parole esprimono la realtà al massimo grado.
La pluralità dei nomi, attraverso cui si indica la divinità, segnala difficoltà che la parola sperimenta rispetto alla realtà di Dio.
Nell’AT si usano due nomi: El/Elohim (designa il Dio dei patriarchi) e JHWH (il nome proprio del Dio dell’Esodo).
Per il significato del tetragramma JHWH ci sono due possibilità:
1) significato apofatico, come una sorta di rifiuto a rivelare il nome,
2) significato storico-salvifico: il Dio come Colui che fa esistere e viene a liberare, è un Dio che partecipa alle angosce del suo popolo e si preoccupa della sua liberazione (questa possibilità è più probabile).
Il nome dovrà restare impronunciato, secondo la dabar dell’alleanza (Es 20,7).
b) L’invisibilità del volto di Dio
Es 33,18-23: Dio mostra a Mosè solo le sue spalle - “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. ...  Quando passerà la mia Gloria ... vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere.”
Le interpretazioni dei posteriora Dei (spalle di Dio):
1) la Torah - le clausole dell’alleanza; la legge è l’unico modo attraverso il quale l’uomo può incontrare l’Assoluto,
2) la creazione - ciò che possiamo vedere di Lui sono le sue opere.
Connesso al tema della non visibilità del volto è il comando che proibisce le rappresentazioni.
2. Un’altra categoria significativa per la rivelazione è la gloria (kabod) di JHWH. Si tratta della potenza di Dio, che si manifesta nella storia e nella creazione, e che splende sul volto dell’eletto.
La presenza della gloria del Signore si accompagna alla nube, che sottolinea l’oscurità della rivelazione e la distanza.
Il tema della dimora (shekinah) costituisce un correttivo rispetto alla radicale trascendenza e alterità del Dio, perché in tale modo Egli si rende vicino a prossimo al popolo, manifestandosi come emmanuEl (Dio-con).

La dimensione sapienziale della rivelazione veterotestamentaria
Uno dei modi attraverso cui Dio manifesta la sua gloria è la sapienza (”emanazione della potenza di Dio”).
La dimensione sapienziale della rivelazione indica il carattere universale e conoscitivo della verità, che la rivelazione dona.
In questi testi non c’è soltanto la fede di Israele, ma anche il tesoro di civiltà e di culture ormai scomparse (Egitto, Mesopotamia).
Appartiene in certo senso a questo itinerario sapienziale lo sforzo eziologico di Gn 1-11, dove troviamo attestate le narrazioni concernenti le origini del cosmo e dell’uomo.
Dalla cultura circostante si differenzino questi testi per l’affermazione del primato e della libertà trascendente di Dio rispetto al cosmo, i cui elementi vengono radicalmente demitizzati (perché dipendono dal Creatore).
Dunque anche la creazione è rivelazione, in quanto manifesta la realtà di un Assoluto personale da cui tutto ha origine. Il cosmo e l’uomo portano in sé la traccia del loro Creatore.

Excursus: La valenza cosmologica e antropologica della rivelazione biblica
Parola di Dio (scritta) non intende offrirci una visione cosmologica e antropologica organica e strutturata, adottando piuttosto le visioni cosmologiche e antropologiche proprie del contesto culturale in cui nascono.
La rivelazione ebraico-cristiana sul cosmo si può ricondurre a tre asserti fondamentali:
L'ebraico biblico non possedeva un termine corrispondente al nostro “cosmo” e usava il termina “tutto”.
1) Il cosmo non mitico
I racconti delle origini sono inquadrati nell’orizzonte, dove la dimensione storica della rivelazione intreccia quella sapienziale.
Si contrappongono alla mentalità sacrale di stampo pagano di interpretare elementi cosmici come divinità da adorare.
La concezione ebraica della rivelazione è caratterizzata di nascondimento che accompagna il soggetto stesso della manifestazione, che è l’Assoluto trascendente (nel paganesimo il Dio ha volto vivo, visibile, mentre per la fede Dio in sé è un “Dio nascosto”).
2) Alterità non dualistica
La rivelazione ebraico-cristiana è contro ogni dualismo gnostico (che dice che la materia sia qualcosa di negativo).
La creazione non è frutto della defezione o opera dell’errore.
3) Legame creaturale
La concezione del cosmo propria della rivelazione ebraico-cristiana si distanzia sia da una visione emanazionista del rapporto Dio-mondo sia dall’idea di una possibile generazione del mondo dal soprannaturale.
Non dobbiamo dimenticare la dimensione di continuità della creazione (creazione continua), che esprime la creaturalità come legame costitutivo del cosmo con Colui da cui trae origine. Possiamo osservare due modelli:
a) modello farisaico: parla della CO dal nulla e della risurrezione dei morti (quasi tutti i Padri della Chiesa),
b) modello alessandrino: parla della CO da una materia informe preesistente e dell’immortalità dell’anima (solo Giustino e lo Pseudo-Ippolito)
Eppure solo pochissimi testi dogmatici (Laterano IV e Vaticano I) riportano la formula “creazione dal nulla”. Il Vaticano II allude alla CC. (CO = creazione originaria; CC = creazione continua).
Assunta la differenza ontologica tra creatura e Creatore, non è l’esistenza della materia per un tempo non finito a fare problema.
Gn 1 nei suoi dettagli dei sei giorni corrisponde all’evoluzione e non all’origine.
Il testo biblico di per sé non preclude nessuna delle due ipotesi scientifiche (l’origine e l’evoluzione dell’universo).
L’uomo alla luce della rivelazione
H. Cohen: “La rivelazione è la creazione della ragione”. Dio non si può rivelare in qualche cosa, per esempio nel cosmo, bensì a qualcuno => la ragione è una ragione creata (è immediatamente correlata al nulla originario e originante). La ragione non inizia con la storia, bensì la storia deve iniziare con la ragione.
La visione antropologica che la rivelazione suggerisce, ha anche tre momenti: a) l’unità non unidimensionale dell’uomo (carne e spirito), b) il rapporto fra interiorità relazionata e alterità accolta, c) l’orizzonte della gratuità – il rapporto persona/libertà.
Rosenzweig: nella rivelazione si verifica l’irruzione del totalmente altro nella storia: il circolo egoistico si chiude e viene superato il pensiero in terza persona proprio della sistematica e idealistica. L’evento della rivelazione non si propone come irruzione distruttiva, ma continuamente costruttiva della creazione in rapporto alla redenzione.
L’idea centrale della rivelazione è che l’io di Dio si compie attraverso la sua affermazione da parte dell’uomo. (Non sono in gioco categorie e concetto spersonalizzati, bensì è chiamata in causa l’esistenza concreta.)
L’intreccio fra Dio, uomo e mondo, avviene nella prospettiva fondamentale della rivelazione ebraico-cristiana, che è quella storico-salvifica ossia soteriologica.
La creazione non riguarda semplicemente il cosmo e l’uomo, ma Dio stesso. La creazione è la prima rivelazione che tuttavia esige l’irruzione di una seconda rivelazione.
La teodicea e il dolore innocente
Le tappe della teodicea biblica (come riflessione sulla rivelazione del senso del male e del dolore innocente):
a) teodicea amartiologica (Gn 3) - il male e il peccato (il male è connesso con il peccato),
b) teodicea apofatica (Giobbe) - il dolore innocente e le imperscrutabili vie del Signore,
c) teodicea soteriologica (il servo sofferente) - il valore espiatorio (farsi carico di peccato dall’innocente).
Kant: la “teodicea autentica” (che oppone alla “teodicea dottrinale”); nella figura di Giobbe vede il paradigma biblico della prospettiva apofatica ed etica nello stesso tempo.
Giobbe 38: Dio pone a Giobbe di fronte agli occhi la saggezza della sua creazione, soprattutto nell’aspetto per cui essa è insondabile. La sincerità di cuore e non l’eccellenza del conoscere, l’onestà di confessare i propri dubbi apertamente – questo sono le qualità che nel giudizio divino hanno deciso la superiorità.
Rosmini: legge la figura e il libro di Giobbe in chiave fortemente cristocentrica.
Il Giobbe cristiano è identificato con Cristo e con il suo fiducioso abbandono al Padre (nel momento della morte).
L’equazione Giobbe=Cristo poggia sulla constatazione che Giobbe è descritto come uomo perfetto, “uomo integro e retto” che “teme Dio ed è alieno dal male”... Giobbe è dunque “Cristo innocente”.
Le altre identificazioni: il popolo ebraico sono i figli e le figlie di Giobbe, per cui Giobbe prega e sacrifica, le piaghe sono la crocifissione, la moglie è la sinagoga...
Niente accade in terra senza ragione.
Descrive la situazione dell’uomo e della natura dopo il peccato originale come l’”abbandono di Dio”. L’assenza di Dio, determinata dal peccato originale, pone la natura e la storia in uno stato di desolata irredenzione
Il nascondimento di Dio è la minaccia tanto più terribile quanto più mite, che Dio faceva agli Ebrei già per bocca di Mosè.
I giorni della desolazione sono quelli in cui Dio tace, ritraendosi nella sua trascendenza assoluta.

La dimensione profetica della rivelazione veterotestamentaria
Qohelet ha la dimensione profetica, c’è spesso la formula “parola del Signore” accanto a “oracolo del Signore”.
Qui emerge con chiarezza la coscienza di chi è portatore di un messaggio proveniente da Dio (quindi non risultante dal proprio sapere e dalle proprie convinzioni). Si tratta di un messaggio che riguarda primariamente la storia con un duplice riferimento: alla situazione attuale che e alla storia della salvezza.
Il concetto di storia è una creazione del profetismo che è riuscito a creare ciò che l’intellettualismo greco non poteva produrre.
Per i greci la storia rimane volta solo al passato. Il profeta invece è il veggente - la sua visione ha prodotto il concetto della storia in quanto essere del futuro. Il tempo diviene il futuro e il futuro è il contenuto di questa riflessione storica.
Nella Bibbia è in primo piano Dio come soggetto del messaggio profetico.
Gli oracoli dei profeti biblici si possono distinguere in:
1. oracoli di giudizio (soprattutto negli oracoli preesilici che contengono elementi fortemente critici),
2. oracoli di salvezza (soprattutto nei profeti postesilici - Deutero-Isaia; Dio non abbandona mai del tutto il suo popolo).
Le considerazioni riguardanti la valenza rivelativa della dimensione profetica della rivelazione veterotestamentaria:
a) il rapporto profezia/storia e riprendimento della categoria di “compimento”: le profezie offrono indicazioni circa il senso della storia, guardano al futuro, vanno lette e interpretate come ciò che accadrà in prospettiva escatologica, ma in senso messianico,
b) l’esperienza del gesto profetico: non di rado la profezia si esprime attraverso gesti tendenti a suscitare la domanda circa senso del gesto stesso (p.e. Osea, che sposa una prostituta dai cui genera figli di prostituzione).
Caratteristiche del messaggio profetico:
1) Monoteismo: sembra utile il richiamo alla metafora sponsale (elaborata da Osea).
L’esperienza dell’unicità di Dio riguarda l’esperienza dell’unicità dell’amore uomo/donna. (Come nell’innamoramento l’amato è un unicum per l’amata, così Dio è unico per il credente.)
L’unicità di Dio si esprime attraverso antropomorfismo della gelosia: “Io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso.” (Es 20,5)
La dinamica sponsale consente una vera e propria reinterpretazione dell’altra metafora teologica, quella della paternità di Dio.
2) Messianismo:
Il messianismo dell’AT è pluridimensionale; ha dimensione: regale, sacerdotale e profetica.
Il messianismo cristiano presenta notevoli differenze rispetto a quello ebraico. La concezione cristiana è nata man mano, al termine dello sviluppo del messianismo veterotestamentario, dopo aver universalizzato e spiritualizzato l’attesa messianica di un re salvatore da parte d’Israele.
Nel cristianesimo sono presenti due livelli del messianismo: 1. il re ideale futuro, 2. il servo di JHWH e del Figlio dell’uomo.
3) Moralità/moralismo
Centrale nella prospettiva dell’AT è la modalità propria dell’automanifestazione di Dio che è costituita dalla sua dabar (parola, evento), termine che indica la realtà stessa e la sua espressione in senso dinamico e storico. Dio crea attraverso la sua dabar.
Le dieci debarim sono le dieci parole, ma che devono diventare fatti nella vita di chi ha accolto l’alleanza.
La teologia della parola dell’AT suggerisce uno stretto legame fra parola e storia, fra linguaggio e realtà, fra ciò che si esprime e il modo di esprimerlo.
Sbagliato è di contrapporre radicalmente l’udito e la vista. Interessante e richiamo a Es 20, 18: “tutta la gente vide la voce”.
La complessità del manifestarsi di Dio nella storia va sempre riflessa e ripensata in linguaggi e concetti che risultano sempre inadeguati rispetto alla res che intendono evocare e dire.
Struttura sacramentale espressa dal dabar dell’AT rimanda al carattere di sacramento della stessa rivelazione attestata nell’AT.
Israele era una parte già realizzata del mistero di Cristo. La Chiesa dell’AT era segno e causa di grazia nella misura in cui il tempo del Cristo vi era realmente inaugurato.

Una riflessione sulla rivelazione del Dio di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento
Gesù rappresenta nello stesso tempo il Deus revelans e il Deus revelatus (il Dio che rivela e il Dio che si rivela), soggetto e oggetto di rivelarsi.
Egli rappresenta il compimento delle promesse messianiche contenute nell’AT e dall’altro lo stravolgimento delle attese d’Israele, così Egli è e non è profeta, è e non è messia, è e non è sacerdote – il compimento non avviene se non nel superamento.
Ma questo non toglie nulla alla tesi dell’unità dei due Testamenti e alla concezione della historia salutis.
L’universalità dell’evento stesso poggia infatti sulla sua unicità e il “compimento” chiede di essere rappresentato anche secondo la categoria del “superamento”.

L’approccio alla rivelazione cristologica neotestamentaria
L’approccio a Gesù Cristo attraverso i testi NT è abbastanza complesso e richiede una serie di rilievi preliminari.
La cristologia non ha solo un fondamento biblico: al primo posto nell’origine della fede cristologica c’è la storia, cioè la vita vissuta, per quanto riguarda sia il credente sia soprattutto Gesù stesso.
La rivelazione eccede le Scritture e anche la storia eccede i testi.
Le conseguenze in sede storico-critica riguardano:
a) la necessità di riferirsi anche alle fonti extrabibliche,
b) l’attenzione ai contesti in cui le vicende narrate e le parole riportate nei testi si inseriscono,
c) l’attenzione non solo alla raccolta e interpretazione dei dati, ma anche allo sviluppo di una coscienza storica.
In sede teologico-fondamentale si tratterà di:
a) leggere e interpretare i testi anche in relazione alla loro Wirkungsgeschichte e alla grande Tradizione ecclesiale,
b) cogliere la differente valenza rivelativa dei testi stessi (la rilevanza dei libri canonici rispetto all’ulteriore letteratura),
c) interpretare il dato dogmatico in continuità e relazione con le attestazioni canoniche riguardanti il mistero di Gesù Cristo.
Le tappe di cristologia: 1. old quest (1778-1906) – l’opposizione fra il Gesù storico e il Cristo del dogma,
2. no quest (1921-1953) – contrapposizione fra il Gesù storico e la Chiesa,
3. new quest (1953-1985) – rinnovata continuità tra il Gesù storico e il Cristo del kerygma,
4. third quest (1985-2000) – rinnovata continuità  tra Gesù di Nazareth e i Vangeli.
La cristologia attuale si interessa alla terza ricerca sul Gesù storico.
I guadagni storico-teologici della third quest:
a) l’interesse al contesto storico-sociale da cui emergerebbe la possibilità di scorgere la continuità fra il circolo prepasquale dei discepoli e il cristianesimo postpasquale,
b) l’insistenza sull’ebraicità di Gesù; un movimento di rinnovamento giudaico,
c) il rilievo storico riattribuito sia alle fonti canoniche che a quelle extrabibliche,
d) la tendenza a sfumare la discontinuità fra Gesù e il contesto ebraico (studia con serietà l’ebraicità di Gesù).
Considerazioni:
1) tale tematica è tutt’altro che pacificamente acquisita e risulta al centro di una forte controversia (tra alcuni autori l’attenzione all’ebraicità di Gesù raramente costituisce un interesse centrale),
2) la necessità di integrare l’attenzione all’ambito culturale ellenistico-pagano, per una corretta impostazione della cristologia (la Chiesa delle origini poteva servirsi di categorie ermeneutiche tipicamente ellenistiche dell’ambiente culturale del Mediterraneo orientale).
Particolarmente significativa è l’impostazione esegetica che richiama la necessità di far riferimento al duplice inizio della cristologia: 1. nell’azione e nella predicazione di Gesù in Galilea, 2. nasce dall’evento pasquale.
Si tratta di superare la dicotomia tra gesuologia (studio del Gesù terreno) e la cristologia (riflessione su Cristo della fede) e di sottolineare il nesso fra i due approcci.
Alla fondamentale distinzione fra il Gesù della storia e il Cristo della fede vanno accostate altre due distinzioni: 1. fra il Cristo reale (l’insieme di aspetti in un quadro cristologico sintetico) e il Gesù storico, 2. il Gesù storico (ciò che lo studio delle fonti dice di Lui) e il Gesù terreno (le vicende terrene di Gesù).
L’approccio al livello gesuano degli ipsissima facta e ipsissima verba di Gesù passa attraverso l’applicazione di alcuni criteri metodologici. I classici criteri sono:
1) discontinuità o duplice dissomiglianza – fatti o detti di Gesù originali (si differiscono dall’ambiente giudaico e cristiano),
2) coerenza – esterna (con  il contesto giudaico del tempo) e interna (conforme all’insegnamento di Gesù già altrimenti stabilito),
3) molteplice attestazione – un fatto o un detto che è presente in fonti diverse e indipendenti (Q, sinottici, Paolo, Gv...).
Gli scritti canonici ci offrono dell’unico Signore Gesù Cristo una pluralità di ritratti, attraverso i quali ci viene trasmessa l’unicità singolare e insieme l’universalità della mediazione cristologica della rivelazione.
La necessità di innestare la cristologia sulla gesuologia comporta anche in confronto con le fonti extrabibliche, che parlano da diverse prospettive di Gesù.
La conclusione riguardante fonti extrabibliche:
a) l’ampiezza della documentazione relativa all’esistenza storica di Gesù,
b) l’impossibilità di una definizione univoca della complessità della sua figura.

Parole e gesti di Gesù
Cristo rivela il mistero di Dio in modo che caratterizza ogni processo comunicativo interpersonale - attraverso le parole e i gesti.
Se la rivelazione fosse solo verbale, avrebbe valenza unicamente dottrinale e intellettualistica (e Cristo sarebbe come un qualsiasi filosofo o dotto comunicante il proprio sapere). Ma i gesti non illuminati dalle parole risulterebbero ambigui e incapaci di trasmettere il mistero nella sua interna logica agapica e nella sua carica di senso.

1) Le “parole” di Gesù
a) I loghia personali (i detti di Gesù) - lasciano emergere con particolare enfasi la personalità di colui che li pronuncia.
Tra i loghia sono importanti quelli che iniziano con le parole “amén legò hymin” - sono tipici del linguaggio di Gesù, anche perché la posizione di un amen usato per introdurre e sottolineare parole proprie non viene mai attestata nelle fonti antiche.
Questo dice che il parlante rivendica per sé un’autorità di rivelatore. Gesù si presenta come quello che assicura la verità delle proprie parole, poiché le pronuncia come inviato di Dio.
Mt 11,25-27 (cosiddetto loghion giovanneo): “... Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.”
Il testo pone l’accento sulla prospettiva intratrinitaria (descrive il rapporto fra P e F attraverso il verbo epiginoskò – conosco) e parla della rivelazione cristologica (non possiamo conoscere Dio senza Cristo) che è caratterizzata da un’originaria gratuità (espressa dal verbo “voglio”, sicché gli sforzi degli intelligenti e dei sapienti risultano vani).
b) Le parabole
Mc 4,11-12 - spiega perché Gesù usa le parabole: “A voi è stato affidato il mistero del regno di Dio, a quelli di fuori invece tutto viene esposto in parabole, perché guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano, perché non si convertano...”
Attraverso la parabola si propone il mistero del regno di Dio – la parabola rivela e nasconde.
È evidente il carattere insieme immanente e trascendente, storico e metastorico della rivelazione cristologica nella sua paradossalità costitutiva (l’espressione greca “viene esposto in parabole” si potrebbe tradurre “tutto accade in parabole”).
La parabola ha valenza non solo informativa ma anche performativa (non lascia indifferente).
Nelle parabole si può scorgere una cristologia sia implicita (parabola della pecorella smarrita) che quasi “esplicita” (parabola dei vignaioli omicidi).
Gesù non si rivela massivamente (col fulgore di una teofania) ma si propone discretamente all’intelligenza di chi lo incontra, perché l’adesione a lui sia più riflessa, personale, convinta.
 2) I “gesti” di Gesù e la tematica del “miracolo” in prospettiva teologico-fondamentale.
Gesù rivela nel suo comportamento “un atteggiamento di grande libertà” nei confronti del contesto socioculturale-religioso (i gesti di misericordia con le genti povere, soprattutto con i pubblicani e i peccatori).
L’attribuirsi della prerogativa di “perdonare i peccati” mostra la coscienza che Gesù aveva di sé.
Non sapiamo molto di primi 30 anni della vita di Gesù. Quale è il senso di questo nascondimento?
Importante è gesto compiuto nel Tempio di Gerusalemme che è accompagnato da loghion relativo alla distruzione del Tempio e alla sua ricostruzione. Gesto e loghion insieme dimostrano che Gesù si riconnette alla speranza giudaica del rinnovamento escatologico. Qui, Gesù si rivela come un profeta: non tanto nel senso di chi prevede il futuro quanto piuttosto in quello di chi parla e agisce autoritativamente in nome di Dio.
a) Definizione del miracolo e prospettiva epistemologica generale:
Il miracolo: un’irruzione dell’Assoluto trascendente nella natura e nella storia, tale da sovvertirne le leggi e sconvolgerne l’ordine.
Il miracolo deve essere pensato nella sua valenza fondamentale, superando il livello dei miracoli come gesti mirabili.
Cristo stesso è il Miracolo.
La teologia non è soltanto, ma necessariamente anche la logica del miracolo.
Dobbiamo ripensare radicalmente il nostro linguaggio, per troppo tempo abituato a distinguere la rivelazione naturale e soprannaturale. Si tratta invece di due dimensioni fondanti e decisive dell’unica rivelazione del Dio Unitrino in Cristo.
Blondel: offre un’interpretazione stimolante del rapporto Miracolo/miracoli e della relazione fra naturale e soprannaturale:
Miracolo è signum contradictionis = quello che illumina gli uni è anche quello che indurisce e acceca gli altri.
Nessuna scienza può dire che i miracoli sono impossibili (perché la scienza si pronuncia solo sul reale e non sul possibile).
L’idea di leggi fisse della natura non è altro che un idolo. Ogni fenomeno è un caso singolo e una soluzione unica.
Miracoli rivelano che il divino non sta solo in ciò che evidentemente trascende le possibilità ordinarie dell’uomo e della natura ma ovunque.
I miracoli sono miracolosi soltanto allo sguardo di coloro che sono già disposti a riconoscere l’azione divina negli avvenimenti e negli atti più consueti.
b) Il miracolo nella prospettiva della dimensione storico-salvifica (escatologica) della rivelazione:
La valenza teologica dei miracoli è diversa nel caso in cui appartengono alla fase costitutiva della rivelazione o alla sua fase interpretativa.
Mt 11, 2-6: “Giovanni ... mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attendere un altro? » Gesù rispose: «Andate e riferite ciò che udite e vedete: I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, ... ai poveri è predicata la buona novella.»”
L’attestazione marciana mostra come questi gesti prodigiosi diminuiscono che ci si avvicina alla croce. I miracoli muoiono sulla croce ed è qui che vanno compresi. I gesti di potenza confermano che Dio è con lui.
L’ambiguità di questi segni fa sì non solo che non servano a convincere i capi del popolo, ma provoca delle relazioni contrarie.
C’è la doppia dimensione della sua coscienza: di operare a compimento delle Scritture e di agire come strumento dell’irruzione escatologica del regno di Dio. (“Se io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio.”)
Si tratta di un tratto di originalità gesuana - queste “componenti” infatti mancano tanto negli antichi profeti Elia ed Eliseo quanto nei taumaturghi esorcisti del tempo operanti in Israele.
I miracoli non sono tanto delle prove della venuta del regno quanto piuttosto uno dei modi con cui il regno stesso già viene!
Il miracolo trova la sua espressione propria nel mistero pasquale e nei segni che l’accompagnano (il sepolcro vuoto e le apparizioni). Senza riferimento a questo non è possibile pensare per chi crede nel Dio di Gesù in maniera sensata.
Il fallimento di ogni teodicea razionalmente elaborata  rimanda alla necessità di rapportare il dolore del mondo non a una teoria, ma a un evento nel quale la sofferenza innocente risulta penultima rispetto al trionfo della vita.
c) Il miracolo nella prospettiva della dimensione cosmico-antropologica della rivelazione:
La creazione possiamo pensare sotto un duplice punto di vista: 1. come atto intelligente e libero di un Dio, 2. come “legame” creaturale che tale atto stabilisce.
In entrambe le prospettive la creazione è pensata come rivelazione.
I miracoli rivelano la signoria del Dio sul cosmo ed esprimono la sua radicale libertà nei confronti delle “leggi della natura”.
Il cosmo è autonomo e altro rispetto a Dio. Così la creazione non può essere intesa né nel senso della generazione né nel senso dell’emanazione.
(Il miracolo è un segno inspiegabile che non dipende da nessuna legge, né conosciuta, né sconosciuta. Credere al miracolo è accettare in anticipo che l’ordine della natura non è sottomesso a una necessità matematica e che Dio è libero di intervenire nel cosmo per realizzare fini più alti.)
d) Risultanze “epistemologiche”:
1. Il miracolo-segno
Il miracolo è essenzialmente segno (segno della provvidenza di Dio). Miracolo e profezia sono strettamente connessi.
Nella prospettiva teologico-fondamentale adottata, il miracolo è il “sacramento”.
Lc 5, 20-26 – nella guarigione di paralitico vediamo il senso sacramentale del miracolo: “Perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati: io ti dico prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua. ... Tutti rimasero stupiti e glorificavano Dio; pieni di timore dicevano: Oggi abbiamo visto cose prodigiose (paradoxa)”
2. Quale assenso?
Se dimentichiamo la dimensione reale dell’assenso, si produrrebbe la convinzione circa il carattere meramente funzionalistico e convenzionalistico del nostro sapere (dove il simbolo non avrebbe altro riferimento reale che il nulla) e comporterebbe l’impossibilità di un autentico dialogo interdisciplinare (condannando i nostri approcci all’autoreferenzialità).
Rispetto al miracolo-sacramento l’assenso reale del teologo è costituito dalla fede nella rivelazione che in esso si esprime.
Religione è sempre stato un sinonimo di rivelazione. La religione non è mai stata una deduzione del noto, ma un’asserzione di qualcosa che era da credere. (Non si è mai espressa in una conclusione, ma in un messaggio, in una narrazione, visione.)
3. Quale ermeneutica?
Il teologo è chiamato a interpretare una realtà che si costituisce nei termini di un’eccezione fisica e storica; ciò che esige il dialogo con pensiero filosofico e le scienze. Così non può valere un pretesa esclusivista del sapere della fede (secondo la quale la realtà di cui teologia si occupa appartiene ad un altro orizzonte epistemologico).
Nel settore del discernimento del miracolo è l’apporto delle scienze considerato fondamentale (p.e.  in un giudizio di autenticità in ordine alle manifestazioni del soprannaturale nella natura e nella storia).
Il lavoro del scienziato prepara la strada e fornisce elementi indispensabili perché il giudizio dell’autorità ecclesiastica componente possa essere espresso.
Il modello ermeneutico, affondando le sue radici nella contrapposizione radicale fra scienze della natura e scienze dello spirito, rischia di precludere al sapere della fede il dialogo con le altre forme di sapere (delle scienze della natura).
Prima di attestarsi intorno a un nuovo modello teologico, il sapere della fede dovrà compiere un lungo cammino e avvalersi di molteplici competenze. La struttura sacramentale del reale che è chiamato a interpretare e pensare impone il dialogo con le altre scienze nel tentativo di inventare nuove modalità di rapporto fra “ragione creata” e “ragione redenta”.
Tommaso: La sapienza elencata tra i doni dello SpS è distinta da quella che è posta tra le virtù intellettuali. Quest’ultima si acquista con lo studio, quella invece viene dall’alto.

L’identità di Gesù e il suo rapporto con il Padre[3]
Il motivo fondamentale della singolarità-universalità di Gesù va ricercato nella sua pretesa anticipatoria del Regno di Dio nella prassi di Gesù e nella sua predicazione.
La “religione di Gesù” si deve giudaicamente comprendere nella linea suggerita dal termine ebraico aramaico che sta a designare “il timore del Signore”, soprattutto nel senso non con connotazione di paura ma coniugandosi ai concetti forti di servire Dio, amarlo e aderire a Lui, sicché esso diventa principio di sapienza.
La religione di Gesù non può essere intesa come la religione dell’umanità, né dialetticamente contrapposta alla religione cristiana.
Gesù non pone dei riti propri, ma compie dei gesti e dice delle parole (p.e. eucaristia situata nella cena ebraica).
La valenza rivelativa della cristologia NT si rispecchia nella paternità di Dio e nella fede di Cristo:
La paternità divina: nel NT ci sono tre luoghi in cui alla parola greca patér si affianca il termine aramaico abbà (Mc 14, 36; Rm 8, 15; Gal 4,6).
Il rapporto con il padre dice insieme confidenza e tenerezza, ma anche la necessità di compiere il suo volere (che si esprime spesso nell’asprezza e nella fatica della croce).
Abbà - in origine era una forma espressiva infantile, all’epoca di Gesù è usata già come allocuzione sia per lo status emphaticus (il Padre), come per la formula “mio e nostro padre”, ma solo in rapporto al padre terreno.
Potrebbe indicare insieme confidenza e difficoltà nel prepararsi a compiere la volontà del Padre.
La metafora di Dio-padre:
Quanto al senso del linguaggio metaforico (nelle Scritture):
1) si tratta di esprimere il sovrasensibile attraverso il sensibile (l’uso del linguaggio metaforico conferisce una coloritura affettiva alla verità che esprime; Così non è la stessa cosa dire “il cielo sta piangendo” e “piove”),
2) il linguaggio metaforico risulta particolarmente significativo in ordine all’espressione della realtà divina, in quanto lascia il mistero nella sua alterità e nella sua trascendenza, senza violarlo e pretendere di possederlo.
Il carattere metaforico delle affermazioni bibliche e teologiche non tende a escludere, bensì a includere quello analogico.
Analogia - nel lingua greca significa “proporzione”.
Si può dire che la metafora è un'analogia di attribuzione (analogia attributionis) estrinseca.
Ma nel caso della metafora del padre pur restando in primo luogo definibile come analogia attributionis, essa non manca di suggerire e di evocare la proporzione, che verrebbe graficamente indicata nella formula:
Dio : universo = padre : figlio
Ma non può non essere inteso che nel senso di una proporzione decisamente sproporzionata, sicché resta anche vero che
Dio : universo ≠ padre : figlio
Il Concilio Lateranense IV: tra il creatore e la creatura, per quanto grande sia la somiglianza, maggiore è la differenza.
La metafora del padre, interpretata allora sia nella prospettiva dell’analogia di attribuzione che in quella di proporzione, indica semplicemente l’origine divina di tutte le cose; la figura paterna sta nell’essere origine, principio del tutto.
La metafora del padre suggerisce allora un rapporto di partecipazione fra l’Ipsum esse subsistens e gli enti creati, sicché l’essere dell’Uno e degli altri va predicato appunto in maniera analogica.
La metafora del padre sta ad indicare la realtà di Dio come assoluto trascendente, da cui tutto trae origine, al di là delle distinzioni intratrinitarie, ma non oltre esse.
Il radicale superamento che la rivelazione cristiana intorno alla creazione opera rispetto alle espressioni metaforiche e alle suggestioni speculative espresse in ambito pagano è che la creazione è opera del P, come del F e dello SpS.
La metafora del padre suggerisce un discernimento ulteriore nella direzione dell’analogia proportionalitatis, dove in primo piano è posto il rapporto fra i termini rispetto ai contenuti cui rimandano. Si esprime nella formula:
Padre : Figlio = padre : figlio
Questi rapporti, se contenessero un’incognita, consentono di risolverla soltanto se tre dei termini dati sono conosciuti:
X : Figlio = padre : figlio
perché l’analogia ci dica qualcosa della realtà di Dio-Padre bisogna che si abbia conoscenza/esperienza della relazione filiale intraumana e della persona del Figlio.
La tematica della paternità divina è connessa con la questione della identità di Gesù che la cristologia esprime utilizzando i titoli cristologici. Importanti sono quelli che indicano la filiazione: “Figlio di Dio” e “Figlio dell’uomo”.
Il titolo di “Figlio di Dio”: Ha Gesù riconosciuto questo titolo o l’avrebbe respinto? Dalla parabola dei vignaioli omicidi e dal loghion cosiddetto giovanneo possiamo dire che è chiaramente suggerita un’eguaglianza tra il Padre e il Figlio.
Gesù ha pensato se stesso in termini di figliolanza nei confronti di Dio, e di una figliolanza tale che in pratica è priva di paralleli dello stesso tipo e perciò unica nel suo genere.
Il titolo di “Figlio dell’uomo”: si tratta di tre ordini di significati: Gesù avrebbe usato questa espressione:
1) per delineare la propria funzione giudiziale escatologica,
2) per esprimere un inevitabile destino di sofferenza,
3) per sottolineare la sua peculiare attività carismatica.
Con questa espressione Gesù corregge le concezioni messianiche correnti combinando insieme paradossalmente sofferenza e gloria. In riferimento a Dn 7, esprime la propria autocomprensione di “santo dell’Altissimo”, destinato alla sofferenza, ma anche al riscatto.
Possiamo concludere che l’identità di Gesù viene espressa nel NT secondo tre dimensioni costitutive:
a) interiorità – fa riferimento alla sua autocoscienza (p.e. nella riflessione sui miracoli, dai titoli di origine gesuana),
b) alterità – a livello “verticale” nel peculiare rapporto col Padre,
a livello “orizzontale” nell’attenzione agli ultimi (ai peccatori e a coloro che sono considerati “altri”),
c) gratuità – espressa nell’annuncio del regno di Dio e del perdono.
L’espressione “fede di Cristo” può essere rilevata in tre ambiti semantici (in relazione al termine fede):
1. La fede come abbandono fiduciale (come affidamento ad un altro, sulla sua parola e sulla sua testimonianza):
Ci sono tre aspetti fondamentali costitutivi di tale atteggiamento nel NT:
a) la fede sorge dalla parola e quindi dall’ascolto (non è atteggiamento passivo e recettivo, ma si tratta di un l’atteggiamento attivo della persona e del popolo dinanzi a Dio); Cristo “insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi”,
b) la fede come obbedienza: obbedire è permettere al vangelo liberamente accettato di esprimere la sua forza trasformante nell’uomo, è un lasciarsi condurre in tutta la vita,
c) il rapporto della fede con il miracolo: sia in quanto il miracolo è generato dalla fede, sia in quanto esso genera la fede;           il carattere di “segno” proprio del miracolo venga in luce appunto in relazione alla fede, da cui nasce e alla fede che si produce a partire dal segno stesso.
2. La fede come atto e come contenuto (fides qua e fides quae creditur):
Qui la fede è pensata in particolare rispetto ai contenuti (in rapporto a depositum fidei).
Nel NT il testimone e il messaggio coincidono nell’evento di Cristo: Deus revelans et Deus revelatus.
1 Cor 15,1-11 - il nucleo originario del deposito: che Cristo morì, che fu sepolto e che è risorto e che apparve.
3. La fede cristiana in maniera più ampia e in relazione all’evento cristiano e al suo dispiegarsi nella storia:
Si tratta di un complesso esperienziale, individuale e comunitario, con particolare riferimento alla comunità ecclesiale: in particolare ciò che la Chiesa annuncia, celebra e opera (aspetti dottrinali, morali, giuridici e strutturali).
Per quanto riguarda interpretazione correlate al genitivo (di Cristo) che accompagna il sostantivo (fede): fede di Cristo è intesa in primo luogo come fede nel Dio che si è definitivamente manifestato in Gesù, o che ha perdonato in Gesù Cristo.
Gal 2,16-20: l’uomo non è giustificato in virtù di opere di Legge, ma soltanto per mezzo della pistis di Gesù Cristo. (Pistis Christou  vuol dire fede del cristiano suscitata e sostenuta dall’affidabilità di Cristo.)
Il termine “fede di Cristo” è da alcuni inteso nel senso biblico di “fedeltà di Cristo”, dove è evidente il riferimento all’alleanza.
La “fede di Gesù”: la contrapposizione fra l’ipotesi della fede e quella della visione beatifica del Gesù storico indichi due approcci diversi al tema. Si tratta di due modalità speculative di interpretare l’umanità del Cristo in rapporto alla conoscenza del Padre e della sua volontà.
L’esasperazione delle due tendenze comporterebbe per l’una (fede di Gesù) un Gesù troppo umano, e per l’altra un Gesù metastorico e disincarnato, quasi angelico.
Nell’AT è dominante l’aspetto fiduciale, mentre nel NT è accentuata la dimensione di conoscenza e di confessione.
Si può superare il dilemma fede/visione, considerando il primo in rapporto alla conoscenza (mediazione tra fede e visione).
Resta la domanda circa non parlare del NT di “fede di Gesù”. Per l’atteggiamento del Figlio dell’uomo di fronte a Dio, il NT non ha vocabolo globale e preciso.
In Gesù si compiono gli elementi della fede espressa nell’AT:
a) fedeltà totale del Figlio dell’uomo al Padre, data una volta per sempre e tuttavia sempre di nuovo attuata ad ogni istante,
b) preferenza assoluta data al Padre (alla sua persona, al suo amore, alla sua volontà),
c) perseveranza irremovibile in questo proposito,
d) rimettere ogni iniziativa al Padre, senza voler saper niente prima, senza anticipare l’ora.
Rosmini: come potesse l’umanità di Cristo godere della visione beatifica e patire nello stesso tempo? La risposta riguarda l’”abbandono del Padre”:
L’ineffabile grandezza della morte di Cristo sta nel fatto che Egli avrebbe potuto impedirsi questo dolore, ma non volle.
Il Padre mette all’ultima prova l’umanità del Cristo, la sua fede e il suo abbandono. Il Padre lo lasciò morire senza confortarlo. Abbandonato Cristo dal Padre non abbandonò per questo il Padre, ma sperò ancora in Lui.
Sul Golgota, allora, accade qualcosa di infinitamente tremendo: il ritrarsi di Dio dalla storia di Gesù di Nazareth, il nascondersi del Padre dinanzi alle sofferenze del Figlio.
L’evento del ritrarsi di Dio dalla natura e dalla storia nel momento culminante della passione, può ricevere ulteriori approfondimenti dal confronto con l’originario nascondimento divino conseguente al peccato di Adamo.
Come il ritrarsi di Dio da Gesù produce la morte, così l’assenza di Dio, determinata dal peccato originale, ha posto la natura e la storia in uno stato di desolata irredenzione.
Il fatto che Gesù non sia una semplice persona umana, ma una persona divina, “il Figlio di Dio”, ha come risultato che la sua relazione personale con Dio non possa essere una semplice relazione di fede. Ma questo riguarda il livello più alto della fede.
Ad altri livelli Gesù (a causa della sua natura umana) condivideva la nostra situazione ed è stato un “pioniere della fede”.
La morte della croce di Gesù possiede una forte valenza rivelativa in rapporto al mistero di Dio e al mistero dell’uomo.
La croce rivela un volto di Dio che si pone sempre al di là di ogni possibilità ideologica di rappresentazione umana.
Solo un Dio che assume su di sé il dolore può offrire la risposta di senso alla lacerante esperienza della vittima innocente.
Ma la valenza redentiva della croce sta nell’affidarsi di Gesù al Padre, in questo atto della sua libera volontà.
Il mistero pasquale (che ha al suo centro la croce) è sempre creduto e pensato nella sua integralità, come mistero di passione-morte-risurrezione-pentecoste-ascensione del Cristo, che rivela così il volto trinitario di Dio.
Il carattere redentivo dell’affidarsi del Crocifisso al Padre e l’accento sull’affidabilità mette in campo la necessità di pensare la fede cristiana in relazione alla “testimonianza” (al rapporto tra il testimone e la sua credibilità).
Nell’orizzonte della dialettica tra le opere della legge e la fede, il testo di Abacuc (“il giusto vivrà per la sua fede”) sia letto da Paolo con l’apporto di tre nuove variazioni rispetto all’originale:
a) l’uomo in questione non è più il pio giudeo, ma è ogni essere umano (la prospettiva è assolutamente universalistica),
b) la giustizia in questione non dipende assolutamente dall’osservanza della Legge, anzi è legata a un suo superamento mediante un’incondizionata adesione alla persona di Gesù Cristo (così la traduzione migliore è: “il giusto per fede vivrà”),
c) la vita non è legata a un benessere di tipo mondano e materiale, ma si apre su orizzonti escatologici.
Il compimento della fede nell’amore corrisponde alla costituzione della fede come regalo ricevuto dall’esterno.
           
La risurrezione di Gesù: formule, metafore, segni
L’evento fondatore è la morte e risurrezione di Gesù, la cui attestazione più antica non si ritrova in:
1 Cor 15, 1-11: “...A voi ho trasmesso, quello che anch’io ho ricevuto: Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e apparve e Cefa e quindi ai dodici. In seguito apparve a più di 500 fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora.”
Il contesto è dato da una comunità che ha già ricevuto il primo annuncio, per cui il verbo gnòridzò richiama una “conoscenza” (nel senso biblico, non intellettualistico) che è anche un richiamare alla memoria. (In questa comunità cominciava il dubbio circa la risurrezione dei morti.)
Il messaggio non è un invenzione dell’Apostolo, ma lui stesso l’ha ricevuto all’interno di un dinamismo di trasmissione che si esprime secondo lo schema della paradòsis (traditio): consegna – ricezione – trasmissione.
I contenuti sono espressi attraverso quattro verbi: “morì”, “fu sepolto”, “è risorto”, “apparve”, di cui tre sono all’aoristo (eventi accaduti che restano consegnati al passato), mentre il risorgere è espresso con il perfetto, trattandosi di un evento che continua (Cristo è morto/sepolto, ma non rimane morto/sepolto, è apparso, ma non continua ad apparire, mentre è e rimane risorto.)
“Morì hyper tòn hamartiòn hémòn” indica da un lato il fatto che la morte di Gesù è causata dal peccato (si tratta di una ingiustizia), dall’altro Gesù morì in favore dei nostri peccati (per liberarci dalla schiavitù del peccato).
Kata tas grafas” (secondo le Scritture) indica la conformità dell’evento al piano salvifico di Dio realizzato nella storia della salvezza e attestato nelle Scritture (la continuità fra l’evento pasquale e l’antica alleanza).
Ricordare che Gesù fu sepolto, sembrerebbe del tutto inutile, se non costituisse un implicito richiamo al sepolcro vuoto.
In questa attestazione NT dell’evento pasquale, kerygma (annuncio) e storia (evento) risultano profondamente intrecciati. La valenza storica della risurrezione è presente nel richiamo alla morte e alla sepoltura del Signore, mentre il kerygma riguarda la dimensione salvifica della morte, la risurrezione e le apparizioni.
L’evento fondatore è pensato e assunto come un evento metastorico con valenza storica (eschaton che si dà nella storia) - si tratta di una vera e propria irruzione del soprannaturale nella storia, la cui portata può essere colta solo nell’orizzonte della fede.
Tale evento può dirsi un evento “escatologico” in cui gli ultimi tempi e le ultime realtà non sono solo annunciati, ma già realizzati.
Questo evento e l’esperienza di fede costituiscono l’orizzonte  in cui va letto il NT.
Ogni pretesa di attingere all’evento Cristo prescindendo dal mistero pasquale è fallace.
Il Cristo della fede, senza il necessario riferimento al Gesù della storia, ridurrebbe la narrazione dell’evento fondatore e delle vicende di Gesù di Nazareth a mera mitologia, mentre, prescindere dal Cristo della fede, significa precludersi la possibilità di cogliere il senso stesso della persona e della vicenda di Gesù.
Il Verbo preesistente e la sua funzione nella creazione del mondo e dell’uomo:
Col 1,15-17: “generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose ... quelle visibili e quelle invisibili .... Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui.”
Questo ruolo del Verbo preesistente e del Verbo incarnato suggerisce la necessità di sottolineare la dimensione trinitaria della creazione.
Sulla base dell’idemità (intesa nel senso dell’idem esse, come p.e.: “Io e Padre siamo una cosa sola”) è possibile pensare la tematica della creazione nei termini della concreatività trinitaria, intravedendo in essa la partecipazione di ciascuna delle persone divine sia all’atto creativo originario sia a quella che precedentemente abbiamo chiamato la creazione continua.
La sinergia divina ha comunque una struttura agapica fondamentale, che da un lato conferisce unità all’agire delle persone, in questo caso ad extra, e dall’altro consente di leggere e interpretare ogni loro agire come atto d’amore.
Nessun linguaggio è pienamente adeguato a definire compiutamente la pienezza dell’evento fondatore. Perciò ci occuperemo di:
  a) le formule (attraverso cui il mistero è detto),  b) le metafore (con le quali si cerca di esprimerlo), c) i segni (che ci sono dati perché possiamo attingere ciò su cui la nostra fede è fondata).
I primi due elementi appartengono alla tradizione formulare della risurrezione, più antica e distinta dalla tradizione narrativa, in cui ci vengono consegnati i racconti delle apparizioni e i resoconti sul sepolcro vuoto.
Le formule possiamo schematicamente distinguere (p. 126) secondo la dimensione che si sottolinea:
 1. dimensione teologica (dell’evento fondatore) - Dio è colui che ha risuscitato Gesù dai morti:
Rm 10,9: “Poiché se con la tua bocca proclamerai che Gesù è il Signore e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.”
Rm 4, 23-25: “... crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore...”
 2. dimensione cristologica (della risurrezione) - Cristo stesso “soggetto-oggetto” della risurrezione:
1 Ts 4,14: “Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti.”
 3. dimensione soteriologica (del mistero pasquale):
Rm 4, 25: “... è stato risuscitato per la nostra salvezza” 
Tra le formule di fede che si riferiscono è importante l’espressione: “Signore [è] Gesù” (cf. Rm 10,9).
Si tratta di una homo-logia (confessione), che vuole esprimere il nucleo essenziale della fede cristiana.
1 Cor 12,3 sottolinea la dimensione pneumatologica: “Nessuno può dire Gesù è Signore se non sotto l’azione dello SpS”.
Paolo vuol sottolineare che neanche il più iniziale atto di fede può essere compiuto solo con le forze umane, senza lo Spirito.
Le metafore della risurrezione:
1. il “risveglio” e quindi il rapporto morte:sonno = risurrezione : risveglio (egeirò),
2. alzarsi (anistémi/anastasis, hyperypsò – innalzare oltre misura).
I segni della risurrezione: Non possiamo parlare di “prove” ma di segni che ce lo indicano, svelandone al tempo stesso le dimensioni di evento e di messaggio (evento-parola), ossia la struttura sacramentale.
La maggiore rilevanza ha il secondo rispetto al primo (in quanto la tomba vuota non ci dice nulla di quanto è accaduto).
1. Il sepolcro vuoto - è un segno ambiguo, nella sua pura fatticità. Ma la risurrezione (secondo giudaismo) doveva comportare l’idea di una sottrazione del cadavere al suo sepolcro.
La storicità della scoperta (in base alle fonti) è difficilmente eliminabile. Oltre al fatto delle donne, ricordiamo questi fattori:
- l’uso quadruplice dell’espressione “il primo giorno della settimana” invece di quella più teologica “il terzo giorno”,
     - il tipo di narrazione disadorna, non apologetica (cf. la reazione negativa delle donne e dei discepoli),
     - l’impossibilità di proclamare la risurrezione a Gerusalemme, se la tomba non fosse stata vuota,
     - la stessa polemica giudaica circa il furto del cadavere suppone la tomba vuota.
Il significato teologico del sepolcro vuoto è rinvenuto nella necessaria continuità fra il Gesù della storia e il Cristo delle apparizioni, sebbene resti acquisito il fatto che la fede pasquale non dipenda dalla tomba vuota ma dalle apparizioni.
Il sepolcro vuoto non può essere considerato un prodotto della fede di Pasqua, bensì come fatto accaduto indipendentemente dalle apparizioni.
2. Le apparizioni - le apparizioni del Risorto non sono sinottiche (la sinossi termina con la scoperta del sepolcro vuoto).
Siamo di fronte non solo al racconto di un fatto, ma a quello di esperienze (che si vivono da parte dei protagonisti).
L’iniziativa di queste esperienze rimane quella del Signore risorto e non degli interlocutori-destinatari. Le apparizioni di Gesù non possono essere in alcun modo prodotto dai suoi discepoli.
I destinatari non sono spettatori passivi delle apparizioni, ma partecipano a queste esperienze rapportandosi al Risorto e interloquendo con lui. Le apparizioni del Risorto attestate nel NT non possono omologarsi a quelle che saranno successive.
L’esperienza dei primi testimoni resta unica e incommensurabile, perché:
a) i primi testimoni hanno conosciuto il Gesù terreno e poterono perciò identificarlo come il Risorto,
b) la loro esperienza pasquale rappresenta l’esperienza inaugurale dell’inizio, cioè storicamente unica e non più ripetibile.
Il presentarsi del Cristo con il suo corpo, per certi aspetti in continuità con il suo corpo terreno (le stigmate), per altri in discontinuità con esso (carattere glorioso del corpo risorto), fa sì che non si può pensar alla risurrezione di Cristo come ad un semplice prodigio di chi ritorna alla vita terrena (come Lazzaro): si tratta invece di un evento escatologico straordinario.
Lc 24,13-35 (l’apparizione ai discepoli di Emmaus) ha la valenza rivelativa-sacramentale. Alcune tematiche teologico-fondamentali di questo testo:
1) la perplessità che nasce dalla delusione per la morte del giusto innocente e per non compiersi delle attese messianiche,
2) l’incapacità di “vedere” – riconoscere nel Risorto il Gesù della storia,
3) il vago (scettico) riferimento alla tomba vuota e all’apparizione degli angeli,
4) la memoria del Gesù storico e della passione, alla luce delle Scritture,
5) il riconoscimento al momento della fractio panis,
6) il recupero dell’esperienza alla luce della fides oculata (vedere credente),
7) l’annuncio e la corrispondenza di questa esperienza con quella degli apostoli.
L’origine liturgica del testo suggerisce la profonda dimensione sacramentale dell’evento fondatore e il carattere totale della redenzione che Dio offre all’uomo in Cristo. Ma tutto ciò va posto in relazione all’eucaristia.
La dimensione trinitaria dell’evento pasquale: è l’atto distinto del F: il suo amore traspone la sua generazione nella forma espressiva della libertà creata, ma il P vi è implicato come colui che invia F a lo abbandona sulla croce, lo SpS come colui che non unifica più le due persone che sotto la forma della separazione.
Il mistero pasquale costituisce il momento culmine del manifestarsi del Dio Unitrino come Amore infinito.
Solo nel nesso tra cristologia e pneumatologia è possibile illustrare teologicamente il paradosso cristiano della singolarità-universalità di Gesù, per cui non c’è vera singolarità senza SpS e neppure c’è presenza dello SpS (come persona trinitaria) nell’universalità della storia senza evento singolare cristologico.

La rivelazione del “mistero del Regno”
La modalità asimmetrica dell’alleanza-rivelazione dell’AT è rovesciata nel NT: “Non vi chiamo più servi ... ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal padre l’ho fatto conoscere a voi.” (Gv 15, 15)
Gesù non presenta un proprio pensiero, ma appunto rende testimonianza al Padre, e viceversa, il Padre gli rende testimonianza, cui va aggiunta la testimonianza delle Scritture. (Gv 5,39: “Le Scritture ... sono proprio esse che mi rendono testimonianza.”)
Il capovolgimento della struttura asimmetrica dell’antica alleanza risulta evidente se si riflette intorno a due elementi caratterizzanti la dinamica rivelativa NT:
1. All’indicibilità veterotestamentaria del nome di Dio fa riscontro la valenza salvifica della professione di fede neotestamentaria che avviene proprio nel nome del Signore.
Fil 2,9-11: “gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome ... e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore. ”
Può essere interessante la portata dell’eventuale trasgressione di Gesù, qualora fosse verificata l’ipotesi secondo cui egli nel Sinedrio avrebbe pronunziato il tetragramma e per questo sarebbe stato accusato di bestemmia.
2. Il NT infrange il tabù relativo all’invisibilità di Dio.
Gv 1,18: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.”
Il Cristo è chiamato icona del Dio invisibile (Col 1,15). In riferimento al giudaismo ellenistico il termine eikòn non esprime qui la visibilità dell’immagine stessa: il Signore risorto non è visibile. L’immagine non connota la visibilità, anche se manifesta e riflette Dio. La manifestazione operata dal Figlio è diversa da quella, perché viene dalla sua partecipazione, come mediatore, all’opera di creazione.
L’espressione “mistero del Regno di Dio” (che è in sinottici solo in Mc 4, 11).
Ef 1,3-10: “... egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà ... il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose...”
In questo inno è stato colto il nesso fra la nozione paolina di mistero e la rivelazione: è lo schema di rivelazione nascosto-manifesto, Deus absconditusDeus revelatus.
Alcuni propongono di interpretare il termine greco mysterion in corrispondenza con l’aramaico raz (segreto), che in Daniele significa un evento escatologico, “stabilito da Dio, la cui rivelazione è riservata a Lui solo”.
Si tratta di una struttura dinamica, dove si possono distinguere i momenti o le tappe della “traiettoria del mistero” (fase del nascondimento) e quella della “rivelazione”, cui succede la fase “missionaria”.
Il fine della dinamica storico-salvifica consiste nella ricapitolazione di tutte le cose in Cristo.
Il mistero rivelato nella lettera agli Efesini è all’opposto dei misteri pagani.
Nel NT non c’è mai l’espressione “misteri di Cristo”. Così è evidente la distanza tra i culti misterici ellenistici e la rivelazione.
Gesù non è un dio cultuale. Ma il mistero ha comunque a che fare con il culto e con la celebrazione liturgica.
Mysterion significa originariamente non una dottrina ma un’esperienza mistico-cultuale del divino, che non si riusciva ad esprimere razionalmente.
Per san Paolo e per la Chiesa delle origini il “mistero” non è una dottrina, ma l’azione salvifica di Dio mediante Cristo, nella quale il progetto d’amore, nascosto da sempre in Dio, è entrato nella storia e si è rivelato a tutta l’ecclesia.

Mancano le pagine 142-167 (Excursus: la dimensione escatologica dell’evento fondatore - la risurrezione della carne;  la dimensione pneumatologica della rivelazione e la personalità dello SpS).



[1] Dio è la vita al massimo livello. Lo sperimentiamo solo se pensiamo (contempliamo). Lui è sempre – è eterno. La sua attività è piacere. Dio è meraviglioso in sé.
[2] Clessidra esprime il dinamismo della rivelazione.
[3] L’identità di Cristo è connessa strettamente con il tema del regno di Dio e con il rapporto filiale con il Padre.
 La Rivelazione e il suo rapporto con la tradizione nel Magistero della Chiesa cattolica
La tesi centrale: La teologia cattolica che pensa la rivelazione del Dio Unitrino in Gesù Cristo in sintonia con l’insegnamento del Magistero della Chiesa rileva e riflette l’eccedenza della rivelazione sulla sua attestazione scritturistica e sulla sua mediazione tradizionale, ponendo sempre in rapporto dinamico le tre componenti fondamentali del sapere teologico:
Rivelazione – Scrittura – Tradizione.
           
Rivelazione e Tradizione – rivelazione nella Tradizione
Prima che in un testo scritto, la manifestazione di Dio in Gesù Cristo è consegnata in una tradizione vivente chiamata a custodirla e interpretarla. Distinguiamo una fase costitutiva e una fase interpretativa della rivelazione, senza separare i due momenti.
La fase costitutiva della rivelazione culmina nell’evento fondatore (pentecoste compresa).
Sarà opportuno riservare il termine “rivelazione” alla fase costitutiva. (L’espressione “rivelazione/i privata/e” è per ulteriori manifestazioni del soprannaturale nella storia della Chiesa e del mondo successive rispetto all’evento fondatore).

Scrittura e Tradizione fonti della rivelazione?
L’epoca patristica, la teologia medievale e della Riforma non hanno avuto un concetto di rivelazione pienamente esplicitato sul piano riflessivo. Il problema della natura, della possibilità e dell’esistenza della rivelazione è legato all’età moderna.
Per la modernità nascente, punto di riferimento è il contenuto del Concilio tridentino e per la modernità compiuta Dei Filius del Vaticano I e naturalmente alla Dei Verbum del Vaticano II.

Il Concilio di Trento (1546)
La “fonte di ogni verità salvifica e di ogni norma morale” è il vangelo “annunciato” da Cristo e “predicato” dagli Apostoli. Si tratta dunque di un’unica fonte della rivelazione (la manifestazione di Dio in Cristo e il suo annuncio).
Nel testo conciliare si individuano i tre principi e fondamenti della fede cattolica:
1. i Libri santi – scritti per ispirazione dello SpS,
2. il Vangelo – impiantato da Cristo “nei cuori” dei credenti e di cui gli evangelisti hanno messo per iscritto alcuni elementi,
3. l’azione dello SpS - che nel cuore dei fedeli rivela i misteri.
Si tratta così di una concezione viva e dinamica della rivelazione con un’attenzione pneumatologica, in prospettiva tutt’altro che oggettivante del rapporto rivelazione-S-T che verrà espressa nella “teoria dei due canali” della scuola di Tubinga (Möhler).
Per il Concilio questo vangelo vivo nella Chiesa è l’unica fonte di ogni verità salvifica e di ogni disciplina della prassi.
“Il Sinodo sa che questa verità e normativa è contenuta nei libri scritti e nelle tradizioni non scritte … sotto l’ispirazione dello SpS trasmesse ... con uguale pietà e venerazione accoglie e venera tutti i libri, sia dell’AT che NT, essendo Dio autore di entrambi, e così pure la tradizione stessa, inerenti alla fede e ai costumi … e conservate nella Chiesa cattolica in forza di una trasmissione ininterrotta”.
Era esclusa l’espressione “partim in libris scriptis, partim in sine scripto traditionibus”, sebbene probabilmente la teologia della maggior parte dei Padri tridentini intendesse il testo proprio in tal senso (che fortunatamente non è nel testo conciliare).
Tale concezione avrebbe introdotto un inaccettabile dualismo (quasi che la tradizione contenesse un maggior numero di verità).
Il Tridentino non elenca una lista di tradizioni.
Concilio parla anche sulla tematica della giustificazione: “... la fede è il principio dell’umana salvezza, il fondamento e la radice di ogni giustificazione, senza la quale è impossibile piacere a Dio. ... Si dice che siamo giustificati gratuitamente, perché nulla di ciò che precede la giustificazione (sia la fede che le opere) merita la grazia della giustificazione, è per grazia, non per le opere.”
“Questa fede è attiva nell’amore e per questo motivo il cristiano non può e non deve restare inoperoso. Tuttavia la giustificazione non si fonda né si guadagna con tutto ciò che precede e segue nell’uomo il libero dono della fede.”

Il Vaticano I
Di fronte alle sfide del razionalismo e fideismo la teologia cattolica finisce su posizioni difensive dei suoi contenuti in modo da proporla come un corpo dottrinale organico e ben determinato.
Dei Filius: la costituzione dogmatica affronta la tematica della rivelazione assumendola sostanzialmente come punto centrale.
Capitoli: 1. la creazione, 2. la rivelazione, 3. la fede, 4. il rapporto tra fede e ragione:
1. La creazione: si richiama la dottrina della creatio ex nihilo del Lateranense IV.[1]
2. La rivelazione: inizia ricordando la possibilità di conoscere Dio attraverso “la luce naturale della ragione umana a partire dalle cose create”, con rimando a Rm 1,20: “dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità”.
È comunque a partire dalla dimensione cosmico-antropologica della rivelazione (attingibile per il tramite della ragione creata) che si imposta il discorso sulla dimensione storico-escatologica della manifestazione di Dio.
“Essendo piaciuto alla sua sapienza e bontà rivelare se stesso al genere umano[2], nonché gli eterni decreti[3] della sua volontà per altra via, questa volta soprannaturale.”
“È grazie a questa divina rivelazione che tutti gli uomini possono, nella presente condizione del genere umano, conoscere facilmente, con assoluta certezza e senza alcun errore, ciò che nelle cose divine non è di per sé inaccessibile alla ragione.”
La rivelazione è necessaria perché Dio, nella sua infinita bontà, ha ordinato l’uomo a un fine soprannaturale, perché partecipi ai beni divini.[4]
3. La fede: “Poiché l’uomo dipende totalmente da Dio ... quando Dio si rivela, dobbiamo prestargli, con la fede, la piena soggezione dell’intelletto e della volontà”.
“La fede è una virtù soprannaturale, per cui ... crediamo vere le cose da lui rivelate, non per intrinseca verità delle cose, ..., ma per l’autorità dello stesso Dio, che li rivela (che non può né ingannarsi né ingannare).”
“Iddio volle che agli interiori aiuti dello SpS si aggiungessero anche gli argomenti esterni della sua rivelazione: fatti divini, cioè in primo luogo i miracoli e le profezie che ... sono argomenti certissimi della divina rivelazione, adatti ad ogni intelligenza.”
La fede è intesa come relazione di obbedienza all’autorità di Dio; mentre l’esercizio della ragione si basa sull’evidenza intrinseca di ciò che essa percepisce, la fede si fonda sull’autorità di Dio che non può sbagliare. [5]
4. Il rapporto fede/ragione: si precisa la distinzione fra conoscenza naturale e conoscenza di fede, il ruolo della ragione nell’intellectus fidei, l’impossibilità della contraddizione fra fede e ragione, la distinzione fra progresso delle scienze e progresso della dottrina.[6]
Si afferma la duplice differenza fra ragione e fede: la differenza di principio (strumenti di conoscenza) e di oggetto.
Questa distinzione si evidenzia nel fatto che la ragione può pervenire a una mysteriorum intelligentiam eamque fructuosissimam, ma non può penetrare le verità di fede che oltrepassano omnino l’intelletto creato.
La distinzione non potrà mai significare una vera divergenza tra entrambi per la comunanza dell’origine (Dio che rivela i misteri e crea la ragione). La distinzione piuttosto implica reciproco aiuto.[7]
L’attualità di Dei Filius è nel convincimento che la fede cristiana è caratterizzata dal logos e la pretesa di verità del cristianesimo può porsi con piena fiducia in questo logos e nella sua conservazione, di fronte a qualsiasi richiesta della ragione.

Il Vaticano II   
Il Novecento si apre per la teologia cattolica con la grande crisi modernista - la dottrina autentica della rivelazione è sottoposta agli attacchi in nome di categorie elaborate dalla modernità (p.e. coscienza e esperienza), con radicalizzazioni che finiscono con il consegnare la realtà dinamica della rivelazione ad un’irreversibile deriva soggettivistica e relativistica.
La costituzione dogmatica Dei Verbum raccoglie istanze positive del pensiero moderno e contemporaneo.
Da una concezione oggettivante e statica si è approdati a un modo dinamico e personologico di intendere l’automanifestazione di Dio in Gesù Cristo.
Sarebbe sbagliato interpretarla in un orizzonte di contrapposizione dialettica rispetto a quelli del Tridentino e del Vaticano I.
Dei Verbum:[8] Prologo e 6 capitoli: Rivelazione, Tradizione, Ispirazione, AT, NT, Interpretazione della SaS nella vita della Chiesa.
Prologo: assume l’atteggiamento dell’auditus (religioso ascolto) - la Chiesa si fa serva della Parola stessa e dei suoi intenti.
I. La rivelazione:
Art. 2: “Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero (sacramentum) della sua volontà.”
La rivelazione è grazia (dono), è Dio che fa il primo passo.
Capovolge i termini del CVI (bontà e sapienza) - è elevata la dimensione agapica  (contro il pericolo del razionalismo).
L’oggetto della rivelazione è Dio, che comunica se stesso.
Il termine sacramentum è sinonimo di “mistero” e sostituisce l’espressione “gli eterni decreti della sua volontà” di CVI. È svolta da una concezione giuridico-moralistica a una concezione biblico-teologica e storico-salvifica della rivelazione.
“Mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello SpS, hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura. ... Parla agli uomini come ad amici.”
Si vede la dimensione cristologica, pneumatologica, trinitaria della rivelazione e anche la dimensione dialogica (amici).
“Questa economia della rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi...”
Qui confluiscono due grandi prospettive teologiche del Novecento: rivelazione come parola e rivelazione come storia.
È sbagliato separare o contrapporre l’aspetto storico-eventuale della manifestazione di Dio dall’aspetto intelligibile-dicibile della stessa - l’evento di fatto già parla e inversamente la parola accade.
La storia non deve essere considerata solo come uno scenario della rivelazione ma come luogo e struttura portante fondamentale della manifestazione di Dio in Cristo.
L’intelligibilità espressa nella parola non deve essere interpretata soprattutto in senso intellettualistico e dottrinale.
“Cristo è il mediatore e la pienezza dell’intera rivelazione.”[9]
Art. 5: “A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede, con la quale l’uomo gli si abbandona tutt’intero e liberamente prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà ...Perché si possa prestare questa fede, sono necessari la grazia di Dio ... e gli aiuti interiori dello SpS.”
Tre dimensioni dell’atto di fede: conoscitiva, volitiva e affettiva.
Art. 6: si ribadisce la valenza veritativa della rivelazione e la possibilità della conoscenza naturale di Dio.
II. La trasmissione della divina Rivelazione:[10]
Art. 9: si può considerare definitivamente superato e abbandonato lo schema delle due fonti della rivelazione.
Si parla di un’unica fonte della rivelazione, riprendendo la formula tridentina del pari pietatis affectu.
“La sacra Tradizione e la sacra Scrittura sono strettamente congiunti e comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine...”[11]

Sviluppi del pensiero rivelativo
Accenniamo alcuni possibili sviluppi del pensiero che nasce dalla rivelazione e di essa si nutre.
La prospettiva di fondo resta sempre quella del credo ut intelligam.
Fides et ratio: Il rapporto fede/filosofia trova nella predicazione di Cristo crocifisso e risorto lo scoglio contro il quale può naufragare, ma oltre il quale può sfociare nel oceano sconfinato della verità.

La valenza speculativa della rivelazione cristologica
Indicazioni di metodo
1. La necessità di storicizzare il discorso relativo alla valenza speculativa (ontologica e metafisica) dell’evento Cristo, onde evitare il rischio di una sincronizzazione fideistica.
L’ontologia o la metafisica che l‘evento cristologico suggerisce e consente di sviluppare, non si può ricavare attraverso un’operazione di riduzione immediatamente esercitata a partire dal dato neotestamentario (che contiene solo possibili spunti).
Tale nucleo speculativo si dispiega piuttosto storicamente sia all’interno del pensiero credente (filosofico e teologico), sia attraverso il contatto con le filosofie estranee alla vicenda cristiana.
(Così l’affinità con categorie platoniche e neoplatoniche è risultata determinante nell’elaborazione di alcune forme originarie della teologia cristiana...)
2. La necessità di porre attenzione alla polivalenza delle espressioni storicamente date.
L’evento non contiene e non produce un ontologia o una metafisica (se con questi termini si intende una visione speculare e organica dell’essere e del reale), bensì offre degli spunti che la storia del pensiero cristiano è chiamata a raccogliere e organizzare in prospettive diverse.
La riflessione filosofica è seconda rispetto all’esperienza credente e alla sua attestazione biblica.
Germi speculativi
1) L’evento pasquale.
Il mistero pasquale produce un vero e proprio terremoto nelle categorie ontologiche proprie di una metafisica faraonica, mentre la risurrezione ribalta i criteri intorno a ciò che fenomenologicamente appare definitivo – la morte.
Se pure la mitologia pagana ha parlato del mistero della morte-risurrezione del dio, la filosofia non lo aveva mai metabolizzato.
Schelling: l’inizio della filosofia è l’abbandono - anche di Dio. Chi vorrà conservarlo lo perderà e chi lo abbandonerà lo ritroverà.
2) La proesistenza che caratterizza l’esperienza e la vicenda di Gesù di Nazareth.
La capacità di Gesù e il suo modo di relazionarsi al Padre nello Spirito e agli altri uomini impone al pensiero dell’essere il non potersi declinare prescindendo dalla relazionalità e dalle sue esigenze.
La sussistenza della relazione non si possa pensare come se sussistenza = sostanza.
L’evento cristologico apporta stravolgimento delle categorie nel pensiero metafisico: indipendente dal concetto di “sostanza” il pensiero cristiano ha trovato il nucleo centrale di “persona”.

Principio e fondamento nella logica della fede che nasce dalla rivelazione cristiana
Che la fede abbia una sua logica non è tesi pacificamente acquisita, sicché il “rendere ragione della speranza” (1 Pt 3,15) resta un compito di attualità di fronte alle tentazioni fondamentalistiche.
Metafora delle due ali propugna l’ideale di una collaborazione armonica fra fede e ragione.
La fede è altra cosa rispetto al ragionare e la ragione e le diverse forme di razionalità spesso si costituiscono come realtà altre rispetto al credere.
Per il cristiano l’atto di fede è costitutivo ed essenziale (sebbene il credere non si ponga al termine di un percorso razionale).
D’altra parte il cammino della ragione filosofica esige una cesura rispetto alle credenze e quindi il rischio di un abbandono.
La riflessione sul rapporto armonico tra fede e ragione induce la necessità di impostare il nostro discorso sulla “logica della fede”.
La prospettiva dunque sarà teologica, nel senso che il principio e il fondamento della logica della fede e la sua stessa possibilità verranno indagati ed esposti nell’ottica del sapere credente.
La fede cristiana ha una sua logica (il suo logos) e così si tratta di estrarre la struttura logica e teologica insieme, sottesa al credere cristiano e ai suoi contenuti centrali.
L’apologetica cristiana, fin dall’inizio (attribuendo al Logos i frammenti di verità presenti nella cultura e nella filosofia pagana) ha affermato con chiarezza che una piena logicità è possibile solo nell’accoglienza del Verbo incarnato, mentre dall’altra parte il Verbo preesistente, ragione e fine del creato, agisce in tutti gli uomini che cercano la verità, il bene e il bello con cuore sincero.
Rosmini: elaborava una teoria del cristianesimo nella quale l’istanza apologetica assumeva un carattere insieme dialogico, ma anche di distanza critica nei confronti del pensiero moderno. Ci troviamo due espressioni particolarmente significative:
a) la necessità di allontanare ogni possibile interpretazione fideistica in rapporto ai misteri della fede cristiana,
b) il rischio del razionalismo teologico (con gravissimo danno per la dottrina e per la fede).
Ha anche elaboroto una dottrina della certezza della fede, basata sul dinamismo della testimonianza e della sua trasmissione:
Ogni mediazione della conoscenza di Dio si fonda su un’immediatezza di comunicazione (ai profeti, apostoli...), sicché la fede fa riferimento a verità che si percepiscono e non solo si conoscono.
Le verità della fede sono attestate da moltissime testimonianze (le profezie, i miracoli, la costanza dei martiri...). Tuttavia la verità di questa religione non si fonda solo sulla dimostrazione, ma di più sull’evidenza del lume interno, che Dio per grazia comunica. Se ella si fondasse puramente sopra una dimostrazione razionale, sarebbe per pochi.
La tesi centrale: la logica della fede cristiana riconosce il proprio principio nella kenosi del Logos, ovvero nel logos sarx egeneto, dove il verbo dice riferimento al carattere storico di tale principio e attraverso tale principio scopre il proprio fondamento nel nome del Dio neotestamentario che è ho Theos agapé estin (1 Gv 4, 8).
Dunque la logica della fede cristiana ha un principio kenotico e un fondamento agapico su cui poggia e attraverso i quali si costituisce e si esprime.
Il principio kenotico fa riferimento all’economia della salvezza e quindi alla Trinità economica, mentre il fondamento agapico si innesta nella riflessione intorno alla Trinità immanente.
Fil 2,6-11: “Egli, pur essendo di condizione divina, non considerò suo bene esclusivo l’essere uguale a Dio, ma annientò se stesso prendendo la condizione di schiavo ... umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte. Per questo Dio lo esaltò...”
  In questo testo è interpretato il principio kenotico: alla kenosi fa riscontro la sua esaltazione e glorificazione.
La logica della fede cristiana:
1. esige un pensiero rivelativo, nel quale il riconoscimento del vero non può mai essere disgiunto dall’esercizio della libertà e dal coinvolgimento dell’affettività,
2. è una logica del paradosso,
3. è una logica simbolico-sacramentale, o se si vuole “eucaristica”.
Il fondamento agapico della logica cristiana esige a sua volta che l’ontologica e la metafisica che debbano essere intese e sviluppate nel senso di un’ontologia trinitaria e di una metafisica della carità.

Pensiero rivelativo nel tempo del disorientamento: verità e libertà
Nella logica della fedele istanza veritativa non può mai disgiungersi da quella etica. Fra l’adesione della verità e l’esercizio della volontà libera è un nesso profondo ed imprescindibile.
P. Florenskij: “La verità esige una vita spirituale. ... Se la verità non fosse antinomica, il raziocinio non avrebbe un punto d'appoggio, non vedrebbe l’oggetto extrarazionale, e quindi non avrebbe lo stimolo di abbracciare l’eroismo di fede. Questo punto d’appoggio è il dogma. ... Infatti non si può obbligare nessuno a credere o a non credere.”
Il tema della libertà viene trattato in connessione con quello del peccato.
La volontà libera è percepita nel quadro della stessa struttura metafisica dell’essere umano e strettamente connessa all’immagine di Dio che l’uomo porta in sé come “nucleo santo” del suo esistere. L’uomo non è in grado di esercitare la libertà rispetto a questo nucleo, mentre può esercitarla nella possibilità di accogliere o rifiutare la realizzazione della somiglianza divina.
La divinizzazione dell’uomo esige il suo assenso libero:
“Se la libertà dell’uomo è una vera libertà di decisione, il perdono della cattiva volontà è impossibile, essendo essa il prodotto creativo della libertà ... Se la libertà non è reale, nemmeno l’amore di Dio per la creatura è reale ... non c’è kenosis  e quindi non c’è amore e non c’è perdono. Ma se esiste perdono di Dio, esiste l’amore, esiste kenosis, esiste vera libertà della creatura… La possibilità della cattiva volontà e quindi l’impossibilità del perdono.”
Solo un pensiero che mantenga il nesso strutturale fra verità e libertà, può costituire un vero baluardo nei confronti del fondamentalismo e della violenza che esso impone.

Logica del paradosso
La logica della rivelazione è una logica del paradosso (è decisamente diverso rispetto a quello della doxa - opinione).
Le precisazioni iniziali riguardanti paradosso:
a) si oppone alle opinioni false ed errate (mentre rispetto alle opinioni vere, assume la funzione di ulteriore inveramento),
b) deve valere il principio di non contraddizione.
La ragione umana è chiamata a sperimentare il senso del proprio limite creaturale e la sua condizione di precarietà derivante dal peccato, che la ferisce, senza distruggerla.
Il paradosso diviene stimolo per la ragione a lasciarsi redimere da Cristo e ad aprirsi al mistero. Il paradosso supremo del pensiero è di voler scoprire qualcosa ch’esso non può pensare.
Il paradosso possiamo definire come “passione del pensiero” dove con la passione si pensa non solo pathos ma anche kenosi.
Kierkegaard: “è un compito della conoscenza umana capire che ci sono le cose che essa non può capire.”
Se il paradosso e l’intelletto s’incontrano nella comune comprensione della loro diversità, l’incontro sarà felice come l’intesa dell’amore. Se lo scontro non è di comune intesa, il rapporto è infelice, e questo amore infelice.
La logica del paradosso consente al pensiero della fede un guadagno teoretico, ma anche testimoniale:
-   il carattere dirompente del paradosso non è disgiunto dal suo carattere antinomico: l’antinomia del paradosso ne determina la dirompenza (nell’ebraico il paradosso è espressione della doxa del totalmente Altro),
-   il paradosso dice la necessità di tenere aperta l’anarchia della diacronia come spazio per la trascendenza di rivelarsi, irrompendo nella storia,
-   difende la verità cristiana dalla deriva dossica (opinionale),
-   difende da ogni deriva fondamentalistica, anzi fonda la possibilità di un rapporto dialogico fra le culture, le filosofie...

Il paradosso della conoscenza di Dio
Paolo in Rm 1,19-21 afferma non solo la capacità metafisica dell’uomo di conoscere Dio, ma anche il reale dato di fatto della sua conoscenza, mentre in 1 Cor 1,21 dice che l’uomo di fatto non ha mai conosciuto Dio.
Questi due testi danno corpo alla questione quale è lo specifico rapporto tra la ragione e la fede.
L’esegesi coglie in questi testi una particolare dialettica tra due poli.
1) Rm 1,19-21: tenta di escludere ogni deriva fideistica nel rapporto fede/ragione e nella riflessione teologica.
Lo cita anche Descartes per sostenere il proprio lavoro speculativo.
2) 1 Cor 1,21: cita Pascal per affermare che senza la mediazione di Cristo non si dà alcuna autentica conoscenza di Dio:
“Non conosciamo Dio che per mezzo di Gesù Cristo. Senza questo Mediatore è impossibile ogni comunicazione con Dio ... Non possiamo conoscere bene Dio se non conoscendo le nostre iniquità.”
La dialettica paolina fra possibilità/impossibilità di una conoscenza razionale di Dio costituisce in un certo senso il punto di riferimento per le due anime della modernità:
a) cartesiana, attenta alla dimensione cosmico-antropologica della Rivelazione, col rischio della deriva razionalistica del credere,
b) pascaliana, attenta alla dimensione storico-escatologica della Rivelazione, col rischio di una deriva fideistica del credere.
3) Gal 4,8-9: “Ma un tempo, non conoscendo Dio, servivate quelli che per natura non sono dèi; ora invece conoscendo Dio, anzi conosciuti da Dio...”
Questo è la sintesi delle precedenti contrapposizioni dialettiche
La dialettica paolina tra possibilità e impossibilità di conoscere Dio da parte dell’uomo si risolve solo tenendo conto del duplice oggetto della conoscenza.
Possiamo così distinguere due momenti diversi nel cammino dell’uomo verso Dio.
Tommaso d’Aquino: anche nel suo pensiero c’è la paradossalità riguardante la conoscenza di Dio.
Summa Theologiae: c’è anche una teologia che fa parte della filosofia - teologia filosofica, che si distingue dalla teologia propriamente detta sulla base della diversa prospettiva adottata sullo stesso oggetto: Dio.
La teologia propriamente detta ha come punto di partenza la Rivelazione divina (la Parola di Dio), la teologia filosofica conosce con la luce della ragione (la quale è limitata e non attinge direttamente Dio).
La distanza tra Dio e la ragione dell’uomo è attribuita al limite stesso dell’uomo e alla situazione di peccato.
L’esistenza dell’ateo mostra che l’esistenza di Dio non è per sé nota.
Conosciamo Dio implicitamente in ogni conoscenza, perché il nostro desiderio naturale tende alla beatitudine che è Dio stesso, e suppone quindi la sua conoscenza. Ma tale conoscenza implicita rimane confusa e possiamo anche non identificare con Dio il Bene cui naturalmente intendiamo.
L’Infinito conserva dunque un carattere enigmatico.
Se Egli può non essere riconosciuto, non è a causa di mancanza di intelligibilità da parte sua, bensì dal suo eccesso di intelligibilità, dalla sua trascendenza infinita. (“Troppa luce abbaglia.”)
Tuttavia il nostro intelletto porta in sé un’apertura radicale che lo orienta alla conoscenza di Dio.
In noi c’è il “desiderio naturale di conoscere e vedere Dio”.
La nostra conoscenza, che prende la sua origine dal sensibile, si appoggerà su di esso per risalire fino a Dio. Così non attingeremo l’essenza stessa divina, bensì una certa conoscenza di Lui come causa dei propri effetti. Verremo così a conoscere l’esistenza di Dio, il suo rapporto di Creatore con le creature e la sua trascendenza nei loro confronti. L’itinerario verso Dio consisterà dunque nel tentativo di comprendere il creato formalmente come effetto a partire dalla nostra esperienza.
Non proporre le cinque prove ma indica diversi cammini attraverso quali si può scoprire la presenza e l’azione creatrice divina (cinque vie).
 “Nessun filosofo prima della venuta di Cristo poteva sapere tanto su Dio quanto dopo la venuta di Cristo sa una vecchietta mediante la fede.”
“Di Dio non possiamo sapere cosa sia, ma ciò che non sia, non possiamo considerare in che modo sia, ma come non sia.”
Cristo ovvero il “paradosso assoluto”: il Logos-sarx (contro ogni tendenza gnostica)
La visione gnostica (che è dualistica) comporta il disprezzo per ciò che è mondano e carnale, e quindi la negazione della storicità della rivelazione cristiana, l’incarnazione del Verbo e la risurrezione della carne di Cristo e nostra.
Gv 1, 14: “Il Verbo si è fatto carne”. Vediamo come la fede cristologica escluda ogni forma di dualismo gnosticistico. Accosta il termine sarx a logos.
Il paradosso che è la Chiesa
Rosmini: “La Chiesa ha in sé del divino e dell’umano. Divino è il suo eterno disegno, l’assistenza del Redentore. Umani sono altri mezzi: la Chiesa è una società composta di uomini (soggetti alle imperfezioni e miserie dell’umanità).”
“L’unità della divina natura, posta a fondamento ammirabile dell’unità che debbono formare gli uomini”.
La Chiesa è santa, ma fatta di peccatori.
Mancano le pagine 213-219 (Logica simbolico-sacramentale e pensiero iconico)

Rivelazione cristiana e “metafisica della carità”
Quali effetti la rivelazione produce sul pensiero metafisico? Essa ne promuove un profondo ripensamento.
La “metafisica dell’essere” è chiamata così a lasciarsi includere e riflettere nella “metafisica della carità”.
La verità senza la carità non è Dio. Dunque si tratta di pensare Dio secondo il suo nome proprio: l’Agapé.
Blondel: “L’essere è amore; quindi se non si ama, non si conosce niente. E per questo la carità è l’organo della conoscenza perfetta. ... Solo la carità risolve completamente il problema della conoscenza dell’essere.”
Rosmini: Verità e Carità risultano inseparabili nella divina sapienza, che ci fa discepoli di Dio stesso. “In due parole si compendia la scuola di Dio - VERITÀ e CARITÀ. Queste parole significano cose diverse, ma ciascuna comprende l’altra: in ciascuna è il tutto; ma nella verità è la carità come un’altra, e nella carità è la verità come un’altra.”
L’alterità reciproca di Verità e Carità dice l’alterità delle divine persone e il loro relazionarsi.
È solo nel Dio che si compone ogni tensione fra la solitudine originaria della persona e la relazione con l’alterità dell’altro.
Le tre forme dell’essere, che Rosmini denomina in un primo momento con i termini subiettività, obiettività, santità e in seconda istanza realtà, idealità, moralità, hanno “uguale dignità e pienezza”. Nella persona umana le tre forme dell’essere creato convivono il loro incontro.
Il fondamento di ogni realtà è il dogma trinitario (con tutta la sua pregnanza teologica e filosofica).
La rivelazione dell’essenza di Dio come uno e trino ha dunque una ricaduta filosofica di enorme portata.
Rosmini ci offre i dodici anelli della catena ontologica che avvincola tutto l’ente infinito e finito, nell’ordine suo. Da questa catena appare evidente come tutto l’essere risulta strutturato trinitariamente:

Principio (1)
=>
Verbo (2)
=>
Spirito Santo (3)
Causa efficiente (6)
<=
Causa esemplare (5)
<=
Causa finale (4)
Reale finito (7)
=>
Forma intelligibile (8)
=>
Appetito finale (9)
Il Padre (12)
<=
Il Verbo che rivela (11)
<=
Operazione dello SpS, per la quale s’incarna (10)

Prima serie di anelli (1-3) = eterno costituirsi dell’Infinito.
Seconda serie di anelli (4-6) = eterna costituzione della causa.
Terza serie di anelli (7-9) = costituirsi del causato (ente finito).
Quarta serie di anelli (10-12) = sublimazione del causato o ente finito nell’Infinito (l’ordine soprannaturale inserito nel creato).
Non c’è nulla nell’universo e nella storia che non porti in sé l’impronta trinitaria.
La trattazione trinitaria della carità: considerata nel Padre come prima, infinita, assoluta e universale beneficenza; nel Figlio come riconoscenza e gratitudine, prima, assoluta, infinita; nello Spirito Santo, la carità infinita assume la forma dell’unione, dove la stessa beneficenza e riconoscenza trova il suo riposo e si consuma, e dove la catena si scioglie nella comunione mistica.
Rispetto alla prospettiva aitiologica (ossia della causalità), l’orizzonte agapico  consente non pensare la causa prima non in termini deterministica, ma secondo la dimensione della gratuità. (La creazione è un atto d’amore del Dio.)
Rispetto alla prospettiva teologica, Dio è pensato come essere che ama, nel quale l’amore trova la sua pienezza e perfezione.
La metafisica della carità include:
a) un’ontologia della dedizione – si tratta di pensare l’essere nella prospettiva del dono (Dio è dedizione),
b) un’ontologia trinitaria – la costituzione trinitaria propria dell’Assoluto invoca di essere riflessa anche a livello della struttura stessa dell’essere finito (uomo e cosmo).
Edith Stein: la ripresa dell’antropologia trinitaria, che considera l’essere umano finito come immagine dell’Essere eterno trinitario. (Anima sensibile - abita nel copro, anima spirituale – si eleva sopra di sé, anima nel senso proprio – abita in sé.)
Un’ulteriore articolazione di un’ontologia trinitaria possa esprimersi a partire da una rigorizzazione teoretica di un approccio fenomenologico-esistenziale alle figure dell’interiorità, dell’alterità e della gratuità:

Momenti dell’itinerario
Fondamento ontologico
Richiamo alla teologia della rivelazione
La via dell’interiorità (la ricerca di Dio come scoperta del più profondo in noi).
Forma ideale dell’essere. Riferimento al Figlio (dimensione cristologica)
Conosci te stesso.
Orizzonte pagano dell’immanenza.
La via dell’alterità (la ricerca di Dio come incontro con l’altro).
Forma reale dell’essere.
Padre (dimensione teo-logica)
Asimmetria.
Orizzonte ebraico della trascendenza.
La via della gratuità (la ricerca di Dio nel legame agapico fra interiorità e alterità).
Forma morale dell’essere.
Spirito Santo (d. pneumatologica)
Dirompenza del paradosso.
Orizzonte cristiano dell’agape.

               GLOBALIZZAZIONE E TRADIZIONE


Premessa
Poiché la cosiddetta “globalizzazione” è un fenomeno prettamente e prevalentemente di carattere socioeconomino, non si vede immediatamente come esso possa interpellare la teologia.
Oggi che il contesto sarebbe quello del villaggio globale, dal quale anche la teologia sarebbe chiamata a superare le esasperate differenziazioni, resta il dubbio cha una teologia che inseguisse il contesto socioculturale, possa trasformarsi in scienza del mondo e delle sue espressioni, non senza la possibilità di una pericolosa deriva ideologica.
Una teologia fondamentale che ignorasse il contesto socio-culturale del proprio tempo rischierebbe l’autoreferenzialità e l’isolamento. La speranza cristiana chiede che le si renda ragione non in maniera disincarnata o in rapporto a un’antropologia astratta, ma nei contesti umani, che le diverse epoche o stagioni culturali esprimono. E’ necessario che la Rivelazione si declini in rapporto ai suoi destinatari/interlocutori - agli uomini e alle culture cui appartengono.
Ci sono almeno tre motivazioni per quali il teologo fondamentale  si occupa del villaggio globale e delle sue caratteristiche:
1) I cristiani sono chiamati a vivere la loro fede in questo contesto socioculturale. Si devono penetrare non solo i misteri della Rivelazione, ma anche il mondo e l’uomo, che il Cristo è venuto a redimere. Dobbiamo discernere il presente, onde la fede cristiana possa incidere la cultura e in essa innestarsi.
    Tale necessità appartiene da sempre alla fede. Questo possiamo vedere nella metafora biblico-patristica del sicomoro: i (moltissimi) frutti di questa pianta non hanno alcun sapore, se non li si incide accuratamente prima del raccolto. Noi riteniamo il sicomoro un simbolo per pagani: esso forma una gran quantità, ma è allo stesso tempo insipido. Quando si riesce a inciderla con il Logos, si trasforma, diventa gustosa e utilizzabile. Il rapporto cristianesimo-paganesimo risulta paradigmatico per quanto concerne l’inculturazione della fede e l’evangelizzazione della cultura come compito di ogni generazione cristiana.
2) La globalizzazione mette in crisi la stessa identità cristiana, chiamata a vivere ed esprimersi nella forma di sempre, ma anche nei linguaggi e nelle modalità dell’oggi. Il villaggio globale ha le enormi potenzialità tecniche e comunicative, ma anche i suoi inquietanti rischi in ordine alla capacità di saper essere se stessi fino in fondo, ma anche le capacità di instaurare un dialogo autentico con appartenenze culturali diverse e differenziate.
   Una cultura della rete-ragnatela rischia di dimenticare il soggetto disperdendolo nella molteplicità delle relazioni virtuali o più o meno reali che quotidianamente nascono e muoiono. E ciò vale anche per le appartenenze sociali, etniche e religiose, che rischiano di sciogliersi nel pluralismo, che relativizza e indebolisce i loro nuclei vitali.
3) La globalizzazione mette in gioco il termine “tradizione”; non riguarda soltanto la cosiddetta “tradizione dell’Occidente”, bensì chiama in causa sia il trasmettersi della fede nella forma della paradosis e anche l’appartenenza credente, dove assume un ruolo non secondario la forma cattolica dell’essere cristiani oggi e in rapporto con il nostro passato e con il nostro futuro.

Globalizzazione e religione
Riduzionismo interpretativo: possiamo vederlo nel processo di marginalizzazione del fattore religioso e cristiano.
Oggi nella letteratura si tende a evidenziare il carattere esteriore delle appartenenze religiose e il loro impatto politico – a scapito dell’interiorità coltivata dalle singole identità religiose. A spiegare tale riduzionismo sono addotte due circostanze:
1. la letteratura che legge e interpreta il villaggio globale sarebbe nella quasi totalità opera di intellettuali occidentali e (adottando il punto di vista dell’Occidente) non sarebbe affatto a sua volta globale,
2. il carattere postmodernistico degli schemi interpretativi soggiacenti a interpretazioni, che comporterebbe la sistematica elusione dei problemi connessi col senso e con la valenza veritativa di cui le appartenenze religiose sono portatrici.
Non mancano interpretazioni, che enfatizzano l’aspetto soggettivo delle espressioni religiose, accanto ad approcci di tipo strutturale, drammaturgico o istituzionale.
Riduzionismo etico: alcuni (pur riconoscendo al fattore religioso un ruolo non marginale) attribuiscono a tale fattore un ruolo meramente etico di pacificazione globale. Il compito principale si vede nel creare un ethos particolare per facilitare le interazioni tra le diverse culture, il commercio internazionale e le soluzioni dei conflitti. Le tradizioni religiose hanno un ruolo centrale in tale processo in quanto determinanti per la definizione delle norme, i valori, i significati.
Tale prospettiva finisce col ridurre la trasmissione della fede alla tematica della fede a pura trasmissione di valori; e il dialogo interreligioso ed ecumenico al semplice rinvenimento delle convergenze etiche.
 In accordo con la tendenza all’omogeneizzazione, le religioni subirebbero una metamorfosi che le porterebbe a trasformarsi in una sola “religione” concepita idealmente insieme a un’”etica globale” ben confezionata: beni spirituali e morali standard che chiunque, in tutto in mondo potrebbe consumare. (Una forma emblematica della religione globale possiamo vedere nel Breve racconto dell’Anticristo di V. Solovjev.)
Che la fede cristiana generi un’etica o un ethos, è ovvio e auspicabile, ma che la tradizione cristiana possa ridursi a un quadro valoriale rischia di compromettere l’identità più profonda. Quella identità che ci impedisce (come cristiani) di accogliere il riduzionismo estetico della “religione ornamento”, il riduzionismo culturale e religioso di una fede che è anche, ma non solo, estetica, etica, cultura, religione.

Nulla di nuovo sotto il sole
La sapienza biblica invita alla cautela nel tentativo di decifrare, di leggere e interpretare i fenomeni umani.
C’è una lunga storia della globalizzazione (Alessandro Magno, XVI sec. con i grandi navigatori e i commerci marittimi). Da allora si sarebbe sviluppata in Europa una forma economica tale da espandersi e incidere sul resto del pianeta.
Una storia relativamente breve della globalizzazione ne identifica tre ondate principali:
1870-1914: calo dei prezzi del trasporto marittimo (dalla vela alla forza a vapore), sviluppo della rete ferroviaria,
1945-1980: caduta dei nazionalismi, riduzione delle barriere doganali, sviluppo tecnico,
1980-       : alcuni paesi in via di sviluppo che fanno irruzione nel mercato globale, mentre altri vengono emarginati, flussi migratori, utilizzo dell’e-commerce ecc.
Dobbiamo distinguere fra “globalizzazione” e “mondializzazione”. (“Globalizzazione” è un termine che viene dall’ambito finanziario e si è esteso alla cultura, ai media; “mondializzazione” è un concetto geografico, rappresenta un concetto proprio della cibernetica e consiste nella concezione del mondo come sistema, e rimanda a una gestione del mondo come sistema informatico: è pertanto un’ideologia.)
Il legame genetico e strutturale globalizzazione-modernità può anche essere colto all’interno della tesi secondo cui la modernità sarebbe per se stessa globalizzante a partire da tre fonti:
1. la separazione del tempo dallo spazio,
2. lo sviluppo di meccanismi di disaggregazione (nuova diaspora = le relazioni sociali portate al di fuori del contesto locale e riarticolate intorno a tratti tempo-spazio indistinti e indefiniti),
3. appropriazione riflessiva della conoscenza.
Il complesso di questi fattori ha come esito quello di far scivolare via la vita sociale dai punti fissi della tradizione.
La trasformazione del moderno sta avvenendo sotto la spinta di sfide congiunte: 1. globalizzazione, 2. individualizzazione,           3. disoccupazione, 4. rivoluzione dei generi, 5. crisi ecologica e turbolenza dei mercati,
Vediamo anche il nesso globalizzazione-ideologia. La valenza ideologica del processo di globalizzazione sta nel fatto che la forma mentis che la globalizzazione veicola è l’ideologia dell’individualismo liberal-capitalistico che si diffonde su tutta la pianeta.
Alcuni attribuiscono alla globalizzazione il carattere illusorio: essa crea un mondo di convinzioni artificiose (entro le quali persone abitano beatamente).
Sintesi: la globalizzazione è 1) un processo di espansione-estensione 2) verso il mondo intero 3) dell’economia capitalistica 4) attraverso le potenzialità delle nuove forme comunicative (rete informatica).
La rete informatico-telematica in rapporto al processo globalizzante non è né un mezzo né un fine, piuttosto è un “luogo”, nel senso francese del “milieu”, capace di produrre nuovi paradigmi culturali e sociali (se non addirittura antropologici).

Dio gioca col Leviatano
La metafora del Leviatano (accanto a quella del Golem) è stata recentemente ripresa per esprimere il villaggio globale, soprattutto in riferimento alla rete e in particolare ad internet.
La tradizione ebraica insegna che JHWH vive la sua giornata in quattro momenti: 1. per un quarto del tempo siede sul trono della giustizia, 2. per un quarto su quello della misericordia, 3. per un altro procura il cibo ai viventi, 4. l’ultimo quarto gioca col Leviatan.
Dobbiamo tener aperto lo spazio della libertà, con il relativo appello alla responsabilità che il nostro contesto impone. Sia i singoli soggetti, sia i gruppi (e in particolare la Chiesa), non possano né debbano restare passivi osservatori e fruitori di quanto accade nel mondo (la rassegnazione sarebbe tutt’altro che cristiana).
Persino chi dice di non potersi rassegnare e intende combattere l’ideologia sottesa alla globalizzazione adotta un paradigma interpretativo. Perché anche quello dei no global è un fenomeno globale, quindi incluso nel processo stesso che intende combattere. Fidel Castro: la globalizzazione è come la legge di gravità, la si può solo utilizzare, non eliminare.
Assistiamo all’emergere di correttivi all’interno della stessa globalizzazione. Si pensi al termine di “glocalizzazione” (sintesi del globale e del locale). Questo conferma l’improbabilità di una visione monolitica del villaggio globale.
E. Severino: avverte l’ineluttabilità della globalizzazione. Ritiene che lo strumento (la tecnica) dell’espansione dell’economia capitalistica stia assumendo il ruolo di fine. E in tale processo verrà la fine della cultura occidentale e del cristianesimo (che con essa si identifica), perché verrebbe meno il fondamento gnoseologico e ontologico dell’Occidente = cristianesimo: la persuasione che l’uomo possa scorgere la verità assoluta, definitiva, innegabile. L’inevitabile tramonto della tradizione occidentale sarebbe dunque determinato dall’espandersi di Techne. (Le radici religiose e filosofiche occidentali e dell’islam sono destinate a diventare mezzi di cui la tecnica si serve per la realizzazione del proprio scopo essenziale: l’incremento infinito della capacità di realizzare scopi.)
La globalizzazione come prodotto della modernità sembra esigere dal soggetto moderno un autotrascendimento di cui questo si rivela incapace. La soggettività moderna non vuole assumere la responsibilità verso gli altri (lontani spazialmente e temporalmente) sia quali ricadono le conseguenze del nostro agire, del nostro stile di vita.
La soggettività contemporanea ha dato la vita a un soggetto sazio, incapace di suscitare conflitti politici legati al fronteggiarsi di posizioni eticamente configgenti perché disinteressato a porre all’agire politico esigenze di senso. La “sazietà” dell’individuo contemporaneo non rimanda all’esperienza di una pienezza, ma segnala un vuoto che, tuttavia, non produce ricerca, tensione verso una soddisfazione perché coincide con la rimozione del desiderio di contenuti di senso.
La metafora di “gabbia” e del senso di angoscia e di impotenza che essa suscita: la globalizzazione esprime per molti soltanto il timore di essere “intrappolati” in una gabbia mondiale dalla quale non si può sfuggire e nella quale sembra che manchi l’aria, che si tratti di un mondo senz’anima, che si muove rapidamente ma non si sa verso che cosa e in base a quali valori. Non si sa bene neppure chi ne sia il soggetto: chi si globalizza? Ci sono molte cose che si globalizzano, ma non i valori per i quali vale la pena di vivere, come la solidarietà o i diritti umani, né le dimensioni etiche.
Ulteriori considerazioni si devono svolgere intorno all’ineluttabilità dei percorsi storici, che eventualmente si scontra con la concezione cristiana della storia, nella quale non vi è assolutamente nulla di necessario, neppure la volontà di Dio e il suo piano salvifico (perché l’uomo può sempre rifiutarsi di accoglierlo). L’inferno come “reale possibilità” di destino ultimo dell’uomo sta lì a lanciare un perenne appello alla nostra libertà responsabile.
Una filosofia della storia che appella al carattere di destino del succedersi delle epoche in termini deterministici, ripropone di fatto la concezione pagana della vita e dell’esistenza, cui si oppone la teologia cristiana della storia con la Provvidenza.
J. Sobrino: la globalizzazione richiede di essere redenta. Tale redenzione spetta solo al Signore Gesù, il quale tuttavia redime il mondo non senza la nostra cooperazione. La perdizione e la redenzione non sono un destino.
La fede produce nell’uomo il germe della vita eterna, fa sì che il credente sia in una situazione storica e nello stesso tempo metastorica, partecipi quindi della vita e della libertà di Dio. Anche a lui è concesso (con cautela) di giocare col Leviatano.
Occorre di rinunciare a colpevolizzare il globo, assolvendo le persone, i gruppi sociali e le stesse nazioni. Non possiamo scaricare la responsabilità dei nostri mali e del nostro disagio morale sul globo.
Le forme della ricomposizione dello spazio morale in relazione al villaggio globale e alle sue sfide: 1. la riflessività del soggetto (deve prendere le distanze da se stesso), 2. il riconoscimento, con il relativo riferimento all’alterità.
Non è possibile riconoscere alcuna identità, se prima non si riconosce che fuori di noi sta qualcosa che non sarà mai completamente intelligibile, prima ancora che condivisibile.
H. Jonas: nell’elaborazione dell’etica della responsabilità si deve più sottolineare 1. il carattere profondamente asimmetrico delle relazioni (che è contro l’egalitarismo dei soggetti e dei nessi che la ragnatela impone), 2. l’alterità della trascendenza.
Z. Bauman: nessuna azione può essere certa di non avere conseguenze sul resto dell’umanità, né ogni segmento dell’umanità può limitarsi a se stesso e dipendere solo dall’azione dei suoi membri. L’attuale sistema informatico non ci consente di dichiararci ignoranti rispetto a quanto accade nel resto del pianeta (così da spettatori possiamo diventare attori).
Non esistono puri agenti e puri pazienti nella rete telematico-informatica che ci avvolge.
Il racconto su Davide e Golia (1 Sam 17) ci mostra quali sono i nostri compiti. Elementi significativi:
1. il panico che il gigante fa nell’esercito d’Israele,
2. il gesto di Davide di spogliarsi della pesante armatura di Saul (che non gli consente libertà di movimento),
3. Davide sceglie accuratamente le pietre per affrontare e uccidere Golia.
Ai cristiani è richiesto di: 1. non soccombere e non lasciarsi prendere dal panico, 2. non lasciarsi ingannare da armamentari tecnologici, 3. operare un accurato discernimento, onde potersi muovere con spirito profetico nel villaggio globale.
L’etica deve essere accompagnata e fondata dall’adesione di fede al Dio e poggiata sull’evento fondatore della Pasqua.

Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore
Internet sembra offrire una connettività globale senza tempo.
Il concetto di globalizzazione conferma la tesi interpretativa, secondo cui il processo che così denominiamo produce una sorta di esautorazione del tempo a favore dello spazio (adotta esclusivamente categorie spaziali). La “network society” è caratterizzata da una temporalità circolare di flussi interattivi in una realtà di natura spaziale, che dissolve la linearità ed irreversibilità del tempo in un “timeless time” (tempo eterno) neutro, senza storicità, e pertanto svaluta in tempo soggettivo.
La frammentazione e la formattazione del tempo producono la percezione dell’equivalenza dei momenti che compongono il flusso temporale. (Questo succede soprattutto nel momento in cui abitiamo la rete informatica o le reti televisive.)
C. Geertz ha elaborato la categoria di “tempo tassonomico”: anziché susseguirsi giorni vuoti e giorni pieni (dove la pienezza è data dal loro significato per il singolo e la comunità), abbiamo soltanto la catena dei giorni vuoti riempiti da ciò che immediatamente urge la coscienza degli individui. (Si parla di “società detradizionalizzata”.)
Per effetto della globalizzazione sono oggi in atto due mutamenti fondamentali:
a) nei paesi occidentali la vita quotidiana si sta liberando dal peso della tradizione,
b) nelle altre società nel mondo rimaste più tradizionali si rapidamente perde questa caratteristica.
Questo può essere facilmente visto nello svuotarsi delle chiese, mentre contemporaneamente si riempiono i musei.
Nonostante, possiamo indicare alcuni elementi di interesse positivo:
1) la ripresa del carattere dinamico della tradizione - finora l’immagine della tradizione si delineava su di un piano di fermezza, di inalterabilità, ma ora l’immagine ci può apparire sotto l’aspetto del movimento, non statica, ma dinamica, quindi direttiva; tradizione non in senso passivo, ma attivo, di iniziativa,
2) possiamo dimenticare tutto ciò che abbiamo imparato (la matematica, le formule chimiche...), perché questa dimenticanza non costituirà una grossa perdita; ma se dimenticheremo a cosa apparteniamo, se dimenticheremo che Dio esiste, perderemo qualcosa di molto profondamente umano.
3) il tema della fiducia - la possibilità di un atteggiamento di umana fiducia in qualcuno riposa sull’assenza di tempo e spazio, ossia su una sorta di metastoricità: non vi sarebbe bisogno di dare fiducia a una persona le cui attività fossero sempre visibili; la fiducia è un meccanismo per affrontare la libertà altrui, ma la prima condizione della fiducia non è la mancanza di potere bensì la mancanza di un’informazione completa.
L’orizzonte antropologico sembra provocare la fede cristiana per il suo profondo carattere strutturale-sincronico, perché la fede ha carattere profondamente diacronico (il nesso fra passato-presente-futuro).
Oggi le dimensioni dell’umano sono sempre e comunque individuate e descritte all’interno di un eterno presente, in cui il kairos dell’attimo fuggente sottrae ogni rapporto autentico con il passato e di conseguenza con il futuro. Oggi siamo di fronte al fatto che i comportamenti indotti dalle nuove tecnologie risultano da una forma mentis sincronistica.
Quale è capacità delle nuove tecnologie in rapporto alla dimensione spazio-temporale dell’esistenza? Alcuni dicono che esse cambiano i concetti di spazio e tempo e altri invece ritengono che modificano la stessa realtà spazio-temporale. Sembra più plausibile ritenere che ciò che si modifica la nostra percezione dello spazio-tempo, che non si dà se non in relazione all’uomo e alla sua corporeità.
Lo strutturalismo del XX secolo, col suo radicale rifiuto della diacronia e della tradizione, risulta l’erede di quella tendenza a detradizionalizzare che ha caratterizzato il secolo dei Lumi. Tra i guadagni fondamentali connessi a l’ingresso della ragione storica e l’imporsi dell’ermeneutica possiamo senz’altro annoverare il recupero della tradizione e quindi correlativamente dell’autorità in senso decisamente e dichiaratamente antiilluministico.
L’ermeneutica contemporanea è incapace di arginare l’invadenza strutturalistica (sia a causa del consistente influsso del pensiero cosiddetto analitico, sia nei confronti dei modelli antropologici indotti dalle nuove forme di razionalità scientifica). Anche i sostenitori del modello ermeneutico in teologia sostengono che occorre radicale apertura alla dimensione ontologica e metafisica. Rompere con la struttura infinitamente circolare dell’interpretazione è possibile solo a condizione che si dia almeno un momento nella storia in cui irrompe il metastorico.
La fede cristiana è chiamata a operare un forte recupero della dimensione diacronica dell’esistenza dei singoli e delle comunità. Questo recupero può comportare alcuni fondamentali guadagni:
1. L’appello alla libertà e alla responsabilità che la memoria offre, indicando un ambito teologico all’etica della responsabilità. Una sana “anarchia della diacronia” costituisce un antidoto ai totalitarismi della sincronia. I cambiamenti che nel mondo si producono non vengano subiti, ma guidati da una fede. Il tema dell’indebolimento del soggetto ecclesiale e della minoranza cattolica crea le possibilità per esprimere nuove e rilevanti forme di presenza lievitante la cultura e il mondo in cui siamo chiamati a vivere la fede.
2. L’acquisizione di una forte dimensione sapienziale delle conoscenze, delle azioni e della vita (che un sano rapporto diacronia-sincronia può offrire). Occorre imparare a contare i giorni di noi come individui, ma anche a contare i giorni della comunità civile ed ecclesiale. L’uomo rimane sempre sostanzialmente lo stesso e le sue domande di senso attengono sempre e comunque ai grandi temi della teodicea: dolore, vita, morte, amore, inizio, fine, futuro. Incrociare queste domande è il grande compito della nuova evangelizzazione, che è chiamata a rintracciarle e farle emergere.
3. La tradizione cristiana: offre al tempo stesso un orizzonte di senso nel quale appartenenza e identità sono chiamate a convivere con apertura e universalità, essendo Cristo venuto a salvare tutto l’uomo e tutti gli uomini.
Disaggregazione del tempo dallo spazio, con il conseguente processo di detradizionalizzazione, pone in crisi e chiama in causa la tematica dell’identità sia nel senso socio-antropologico sia nel senso dell’identità credente della fede cattolica.
La Tradizione non è un semplice sostitutivo dell’insegnamento scritto. Essa sa conservare del passato non tanto l’aspetto intellettuale quanto la realtà vitale. Si può confermare, che la Tradizione anticipa il futuro e si dispone ad illuminarlo con lo stesso sforzo che essa compie per rimanere fedele al passato.
La comprensione teologica della tradizione cristiana: occorre tener conto del superamento prodotto dall’evento Cristo rispetto alla nozione socioculturale di tradizione. Originariamente tradere (il termine latino che significa trasmettere o dare qualcosa a qualcuno affinché lo conservi) era impiegato nel contesto del diritto romano, e in particolare si riferiva alle leggi che regolavano l’eredità: la proprietà che passava da una generazione a un’altra si considerava affidata e l’erede aveva l’obbligo di proteggerla e conservarla. Y. Congar ha moltissimo contribuito al superamento di questo concezione.
In termini teologici la tradizione significa coglierne tre aspetti costitutivi:
1. tradizione come consegna - la dimensione cristologico-pasquale-sacramentale,
2. traditio come trasmissione - la dimensione diacronica e storica,
3. tradizione come appartenenza (o cittadinanza) - la dimensione ecclesiologica.
Queste dimensioni sono tra loro profondamente intrecciate e interconnesse.
1. L’identità cristiana poggia su un tradere che originariamente dobbiamo interpretare nel senso della consegna, dell’essere consegnato e del consegnarsi. Il “tradimento” richiama il dramma del venerdì santo quando Gesù consegnato alla passione e alla morte, si consegna al Padre in un supremo atto di libertà, che cambia l’essere abbandonato-consegnato da Dio nell’abbandonarsi-consegnarsi in Dio. Ci sono le radici cristologico-trinitarie della tradizione-consegna.
La vis e la res della traditio, nell’evento pasquale, coincidono perché il messaggio non è altro a ciò che avviene e si compie, compiendo appunto la Rivelazione.
H. Verweyen: descrive il carattere di “consegna” della paradòsis nella triplice accezione: a) la consegna di un uomo alla violenza di un altro (il tradimento), b) la consegna da parte di Dio del proprio Figlio per tutti noi, c) del dono di sé che Cristo compie per noi, per la Chiesa, per ciascuno.
La consegna di Cristo al Padre nel momento supremo è possibile e plausibile nella continuità fra il Gesù storico e Risorto: Egli esercita la libertà suprema di fronte alla propria morte, consegnandosi al Padre, in quanto in quel momento culmina la sua esperienza terrena di uomo autenticamente e profondamente libero.
L’evento fondatore può costituirsi con valenza unica e al tempo stesso universale in quanto atto metastorico e storico insieme. Questo evento trova il suo modo privilegiato di trasmettersi nel tempo e nello spazio attraverso la testimonianza-martyria dei discepoli e può essere accolto soltanto attraverso un atto di fede, nel quale grazia e libertà si incontrano e nel quale ancora una volta si realizza il legame fra storia e metastoria.
Il tradere della fede cristiana fa anche riferimento al sacramento e in particolare all’eucaristia: “hoc est enim corpus meum quod pro vobis tradetur”. Sicché la realizzazione della redenzione in pienezza può avvenire solo nella forma sacramentale, che non è disponibile ad alcuna cattura virtuale o comunicativo-telematica (non è possibile confessare per telefono...). Di fronte a questo trasmettersi sacramentale si pensi ad una “misteriosa contemporaneità” dell’evento. Nel dono eucaristico c’è misteriosa contemporaneità tra Triduum paschale e lo scorrere di tutti i secoli.
Il carattere dirompente e antinomico dell’evento fondatore tocca le dimensioni spazio-temporali dell’esistenza: rompe il circolo del tempo-destino (proprio del mondo pagano) e con la sua dimensione misterico-sacramentale, fa sì che l’evento unico e irripetibile abbia la possibilità di rendersi contemporaneo agli uomini di ogni epoca e di ogni latitudine.
2. Accezione della tradizione nel senso del trasmettersi della fede appartiene all’evento fondatore e al kerygma originario, come mostra 1 Cor 15, 1-15, dove Paolo si considera anello di una catena di trasmissione del messaggio, che dovrà essere mantenuto nella sua integrità e integralità perché possa produrre la salvezza in coloro che lo accolgono – la traditio richiede la responsabilità della fedeltà.
   In questo contesto è possibile richiamare un quarto senso della tradizione-consegna: quello connesso con il dono dello Spirito. Il verbo che il IV Vangelo utilizza nel momento in cui narra lo “spirare” di Gesù è lo stesso (paradidòmi) che sta ad indicare il tradere. La fede cristologica poggia proprio sui due elementi: lo Spirito e la Tradizione.
3. Tradizione, intesa come appartenenza (principio di identificazione del cristiano nel mondo): proprio nel cattolicesimo il carattere comunitario della fede cristologica esclude in partenza ogni identificazione culturale, ogni valenza tribale o particolaristica, risultando radicalmente fondato sull’unicità e insieme sulla universalità dell’evento Cristo.
    L’orizzonte trinitario costituisce il fondamento dell’unicità/universalità del Cristo e quindi la motivazione più profonda del suo poter parlare ai abitanti del villaggio globale.
La tematica della comunicazione-trasmissione della fede è la più indicata a descrivere e farci comprendere il mistero della Chiesa. (Non è possibile alcuna comunicazione della fede che non sia anche comunicazione della propria esperienza).
La formula “comunicazione della fede” non è priva di ambiguità né immune da possibili fraintendimenti, e tuttavia, se adeguatamente chiarita può essere utile e feconda, anche in relazione all’attuale contesto culturale, caratterizzato sempre più da una mentalità comunicativa.
Se infatti la persona è anche costitutivamente relazione, allora la dimensione comunicativa appartiene di per sé al suo costituirsi e realizzarsi in rapporto alle scelte fondamentali e quotidiane che è chiamata e compiere. Il tentativo di esiliare il credere in un dorato guscio individualistico e soggettivo può costituire una tentazione tutt’altro che ipotetica della stessa comunità cristiana, chiamata quindi a superare tale tendenza evocando proprio la dimensione comunitaria e comunicativa della fede professata.
a) La nostra formula chiama in causa i contenuti del credere (fides quae creditur), nel loro oggettivo proporsi al soggetto credente, superando ogni cattura individualistica e razionalistica. Non si può ignorare il problema dell’effettiva e obiettiva conoscenza dei dati della fede.
    Ci vuole la vera e propria alfabetizzazione cristiana ad intra (perché la fede è anche conoscenza, e la dimensione intellettuale le appartiene quanto quella affettiva e volitiva) e ad extra perché il cristianesimo chiede solo di essere conosciuto autenticamente e profondamente prima di essere rifiutato o perseguitato. Non si può tralasciare il problema della cosiddetta gerarchia delle verità che la fede cristiana propone. Solo molto di rado si pone attenzione a ciò che è davvero fondamentale nel credere, ma spesso e volentieri su elementi marginali.
b) Problematico sembra anche l’ambito dell’atto stesso del credere (fides qua creditur) in rapporto alla dimensione comunicativa della fede. Tale atto non è delegabile né facilmente comunicabile, eppure la sua dinamica radicalmente comunicativa. Esiste l’intimo e fecondo rapporto fra apologia e martyria (= testimonianza), in quanto solo il tramite del testimone può rendere credibili e accettabili i contenuti della fede che si intende comunicare (ma può rendere plausibile il rifiuto non banale, ma pensato e davvero scelto di chi non crede).
La fede si trasmette solo nel dialogo interpersonale, ossia nell’incontro da persona a persona, attraverso lo sguardo e la parola, il gesto e l’atteggiamento di chi ha di fronte un altro con un nome e un volto profondamente inalienabili. Nella misura in cui il “virtuale”, che tende sempre più a caratterizzare l’orizzonte comunicativo odierno, risulta espressione e aiuto al personale, esso costituisce un elemento determinante e significativo (tra l’altro per il suo porsi fra il meramente corporeo e lo spirituale). La fede cristiana (raccogliendo questa sfida e denunciandone i rischi) è chiamata a svolgere un compito profetico nei confronti di ogni deriva ideologica, da cui non sembra del tutto immune il processo socioculturale della globalizzazione.
D’altro canto ciò che è in gioco è lo stesso carattere veritativo della tradizione-identità cristiana. La detradizionalizzazione potrebbe esprimere la fuga dell’uomo dalla verità e dal suo centro. La valenza veritativa della traditio non solo risulta imprescindibile e liberante per l’identità credente cristiana, ma oltremodo significativa per ogni identità che voglia continuare a ritenersi autenticamente umana, in quanto continua ad indicare agli uomini la loro meta. Nascendo dalla libertà di Cristo, la tradizione è portatrice di una verità che appella non solo l’intelligenza, ma anche la volontà libera dell’uomo, per cui la fede si descrive nei termini dell’obsequium.
Le tradizioni attraverso le quali la fede si esprime possono essere verificate nella loro autenticità solo in rapporto alla capacità di rendere presente e attuale storicamente la tradizione originaria - la rivelazione del Dio Unitrino in Cristo: la Tradizione in tal senso è e ha in sé il criterio di discernimento delle tradizioni.
Si può concludere non solo all’impossibilità di pensare la storia in termini di “destino” (dato che l’evento su cui la fede poggia è un atto di suprema libertà redentiva), bensì anche alla necessità di interpretare l’identità cristiana come profondamente e indissolubilmente legata alla cultura occidentale. Il legame fra cristianesimo e Occidente è decisamente profondo, ma non tale da imporre l’identificazione della fede con la nostra cultura.

Ultimo Dio – Ultimo uomo
Dobbiamo impegnarsi nel tentativo di superare prospettiva dell’”ultimo dio” (“il totalmente Altro contro quelli già stati, soprattutto contro quello cristiano”). Ma ancora più importante è superare la prospettiva dell’”ultimo uomo” - colui che deve venire (il nostro destino) dopo la “fine della storia” - postumano. Siamo così all’individuazione del terzo punto su cui il Logos cristiano è chiamato a incidere il villaggio globale: il nodo antropologico.
Non sembra veritiera la tesi secondo cui da internet passerebbe informazione, ma certamente non cultura e tanto meno formazione. Di fatto internet media una cultura della rete, del nesso, della connettività, che interpella la valenza ontologica dell’antropologico, dell’ontologia della relazione, ripensata a partire dall’istanza della soggettività (non tanto come istanza moderna dell’autocoscienza, quanto come recupero del “subjectum”, come ciò che sta sotto).
Ma il nodo antropologico è messo in gioco anche nell’ambito delle biotecnologie, che sembrano sempre più sottintendere l’idea del corpo-oggetto o macchina e attraverso questa idea rivelano l’intenzionalità di oggettivare la persona. Si tratta per l’antropologia di recuperare la nozione di corpo-soggetto, dove il legame fondamentale con l’elemento psichico e spirituale diventa decisivo, nella misura in cui questo legame si può esprimere nella forma del “sentimento fondamentale”. Il che condurrebbe al superamento del “parallelismo dei bisogni” (spirituali e corporali), che sta in qualche modo a designare una tendenza dualisticamente perniciosa del nostro contesto culturale (spiritualismo/materialismo).
L’emergere del postumanesimo come prospettiva antropologica e socioculturale tendente a leggere e interpretare il presente con lo sguardo rivolto al futuro, e il suo rapporto con l’epoca e la forma di pensiero dell’umanesimo, descrive R. Maresini: le rivoluzioni informatica e biotecnologica del XX secolo hanno introdotto elementi di riflessione che necessariamente dovranno essere affrontati all’interno di una rinnovata cornice filosofica perché i principi basilari su cui si fondava la vecchia distinzione tra umano e non-umano sono decaduti. Le vecchie distinzioni umanistiche se da una parte si dimostrano inefficaci nel dare risposta ai dilemmi aperti dalle biotecnoscienze, dall’altra non si può certo dire che siano state superate da una proposta coerente e solida da un punto di vista fondativo. Gravi danni allo sviluppo di un pensiero organico riferito all’alterità e al rapporto dell’uomo con essa sono fatti a causa dell’incapacità di fare i conti con:
1. l’umanesimo – cioè con: a) l’idea autarchica e separativa dell’ontologia umana, b) la pretesa di un modello paradigmatico di ontologia umana, c) la nozione pervasiva o proiettiva dell’ontologia umana, 
2. l’antropocentrismo – cioè con: a) l’utilizzo dell’uomo come misura dell’universo, b) la visione dell’uomo come fine dell’universo, c) l’idea che proiettività ed espressività umane costituiscano degli universali.
Alcune considerazioni intorno ai nodi nevralgici più significativi del problema:
1) Si chiama in causa la stessa natura umana e la sua possibilità a partire dall’affermazione secondo cui qualunque tentativo di sottomettere la natura umana a una teoria esplicativa esaustiva e coerente ricorda in qualche modo il progetto formalistico in matematica ed è pertanto destinato a fallire.
La critica all’umanesimo nasce e si sviluppa intorno alla presupposta attribuzione di un’idea necessariamente fissista al sintagma “natura umana”, senza in alcun modo tener conto di una visione personologica della stessa. Altro presupposto è quello secondo cui la critica all’umanesimo nasce dall’autarchica concezione dell’uomo, di cui esso è portatore e da cui si sviluppa ogni antropocentrismo.
Di qui la necessità di rompere questa autoreferenzialità in modo che il postumano venga a costituirsi dalla compenetrazione di umano e non-umano. E tuttavia sembra riduttivo sostenere che l’alterità per l’uomo sia data dalla macchina o dall’animale o dal “cyberspazio”, mentre il vero problema è nella capacità di pensare la trascendenza.
L’infosfera porta a una spersonalizzazione del sapere e dell’esperienza stessa: le conoscenze possono venire separate dalla fonte, corredati da particolari euristiche. L’essere in rete va a scapito dell’identità e della particolarità.
De Kerckhove: il “virtuale” possiamo interpretare come una delle possibilità che ci è offerta di ripensare il rapporto materia-spirito: “Uno degli eventi che caratterizza la fine dell’umanesimo è sicuramente l’esplosione della cybercultura.” L’immergersi nel virtuale introduce nuovi modi di interazione con la realtà e soprattutto una totale metamorfosi nella percezione del tempo e dello spazio. La tecnica informatica ci consentirebbe di palpare il contenuto dei nostri pensieri. Ma questa apertura di possibilità non necessariamente induce il postumano (né il transumano) bensì può leggersi e interpretarsi come una modalità tutta contemporanea dell’uomo di non essere autarchico rispetto all’unica trascendenza o alterità autentica. Come si può vedere, non è affatto necessario ricorrere al postumano per offrire un’adeguata piattaforma antropologica ai processi culturali in atto. La grande tradizione cristiana chiede di essere rivisitata e ripensata in rapporto ai processi culturali.
2) F. Fukuyama: l’impossibilità di pensare la natura umana e in essa la mente alla stregua di una “tabula rasa in qua nihil scriptum est” (che è idea di Locke). Esistono reazioni emotive innate che presiedono alla formazione di idee morali relativamente uniformi in tutta la specie – così possiamo affermare la specificità dell’essere umano.
3) La libertà e il suo esercizio nel villaggio globale: quand’anche si accettasse l’idea che la libertà di scelta individuale equivale all’autonomia morale, resterebbe da dimostrare che la possibilità di effettuare scelte senza limitazioni sia il valore più importante per l’uomo. L’uomo è chiamato ad appropriarsi di una “nuova libertà”, capace di orientare il cambiamento e di arginare l’avvento del postuomo, prospettiva che non siamo affatto tenuti ad accettare, anche perché potrebbe aprirsi davanti a noi una tirannia gentile in cui tutti sono sani e felici ma nessuno ricorda il significato di parole come speranza, paura, lotta.
Il grande successo di Internet non è tecnico, ma nell’impatto umano. La posta elettronica è un modo completamente nuovo che la gente usa per comunicare. Dobbiamo tener conto del fatto che la globalizzazione non è strumento sufficiente a interpretare la nostra storia: nel mondo non ci sono solo microchip e mercati, ma anche uomini e donne con costumi, tradizioni, desideri e aspirazioni imprevedibili.
Ci sembra che la tradizione cristiana sia in grado di offrire una visione antropologica capace.
a) di integrare le dimensioni della conoscenza e della volontà libera, con quella dell’affettività (spesso ignorata nelle interpretazioni correnti socioculturali e antropologiche) attraverso la nozione di “corpo soggetto”,
b) di volgere lo sguardo alla storia davvero a partire dalla sua fine, ma nel senso della riserva escatologica, che è soprattutto messaggio di speranza sul mondo e sull’uomo che lo abita.

Per concludere
Probabilmente dobbiamo semplicemente rassegnarci a ignorare se la globalizzazione costituisca il nostro futuro o sia già nel nostro passato; in ogni caso la teologia cristiana non sembra possa esimersi dal misurarsi con le questioni di fondo che ha posto e pone, trattandosi in ogni caso di esercitare l’intelligenza della fede su tematiche non marginali. D’altra parte una fede che si lascia criticamente pensare e culturalmente mediare è un dono grande per la “polis” nell’età del fondamentalismo e di presunti, ma non meno pericolosi, “conflitti di civiltà”.
L’Europa non è in realtà un territorio chiuso o isolato; si è costruita andando incontro, al di là dei mari, ad altri popoli, ad altre culture e civiltà. Perciò deve:
a) Essere continente aperto e accogliente - l’Europa non può ripiegarsi su se stessa. Essa non deve disinteressarsi del resto del mondo, al contrario deve avere piena coscienza del fatto che altri Paesi si aspettano da essa iniziative audaci per offrire ai popoli più poveri i mezzi per il loro sviluppo, e per edificare un mondo più giusto e più fraterno.
b) Ripensare la cooperazione internazionale. La cooperazione non si può ridurre all’aiuto e all’assistenza, addirittura mirando ai vantaggi di ritorno per le risorse messe a disposizione. Essa deve esprimere un impegno concreto e tangibile di solidarietà, tale da rendere i poveri protagonisti del loro sviluppo.
c) Farsi parte attiva nel promuovere e realizzare una globalizzazione “nella” solidarietà che è accompagnata da globalizzazione “della” solidarietà e dei connessi valori di equità, giustizia e libertà, nella ferma convinzione che il mercato chiede di essere opportunamente controllato dalle esigenze fondamentali di tutta la società.
d) Impegnarsi a costruire la pace dentro i suoi confini e in tutto il mondo. Le differenze nazionali devono essere mantenute e coltivate come fondamento della solidarietà europea.   



[1] Usa termini teologici e non filosofici – non si tratta di preambula fidei; prospettiva storica. Dio crea per rivelarsi  (non per realizzarsi). La creatura umana è vista come centrale. Dio si interessa della creatura (contro deismo). Canone 4 – contro panteismo.
[2] Dio non rivela i dogmi, ma se stesso.
[3] Nel DV è sostituito dalla parola “misteri”.
[4] Dio si sarebbe rivelato anche se Adamo non avesse peccato. (A causa del peccato Cristo è morto sulla croce.)
[5] Nell’atto di fede è coinvolto tutto l’uomo. La fede è una virtù soprannaturale, è grazia. La fede non è cieca. Nessun può credere senza illuminazione dallo SpS e nessun può essere giustificato senza la fede. L’assenso di fede è libero.
[6] La dottrina di duplex ordo cognitionis (duplice ordine della conoscenza) – ragione e fede sono 2 modi di conoscere che corrispondono alle due dimensioni della rivelazione – naturale e soprannaturale. (Ma non c’è duplice verità). La fede è anche conoscenza.
[7] Menziona anche il concetto di analogia.
[8] Primo schema (di modello neoscolastico) era rifiutato.
[9] Art.3: preparatio revelationis – Dio crea e conserva tutto per mezzo del Verbo. Nella creazione abbiamo testimonianza di Dio. Il peccato non è motivo della rivelazione. Le tappe della salvezza hanno il senso preparatorio all’evangelo.
Art. 4: Cristo completa la rivelazione – Cristo manifesta il Padre con le parole, le opere e specialmente con la sua morte e risurrezione. Si tratta di alleanza nuova e definitiva.
[10] Art. 7: “Tutto quello che aveva rivelato ... Dio dispose che rimasse sempre integro e trasmesso a tutte le generazioni.” Il luogo della trasmissione è la comunità degli apostoli.
 Art. 8: La sacra tradizione – la tradizione progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello SpS. Cresce la comprensione delle cose e delle parole trasmesse: tramite lo studio, l’esperienza della vita spirituale e la predicazione dei vescovi. Dio non cessa di parlare con la “sposa” del suo Figlio diletto (dialogo sponsale tra Dio e Chiesa). La tradizione è vangelo eterno – viva vox evangelii.
[11] Art. 10: Relazione tra T, S e M – l’interpretazione autentica della parola di dio è affidata al solo magistero vivo della Chiesa. T, S e M sono tra loro talmente connessi da non poter sussistere l’uno senza l’altro.

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