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Friday, March 7, 2014

LE QUATTRO PROPRIETA’ DELLA CHIESA

LE QUATTRO PROPRIETA’ DELLA CHIESA


Regola della fede e della preghiera, il Credo è anche chiamato simbolo perché raccoglie i credenti, consentendo il loro riconoscimento e la loro comunione nel tempo e nello spazio. La storia ne conosce diversi, in quasi tutti troviamo la Chiesa, preceduta dall’articolo sullo Spirito Santo e specificata da alcuni aggettivi che variano nel numero ma non nel nome. La comparizione più antica è nell’Epistula Apostolorum, del 170 circa, che dedica il quarto dei suoi cinque articoli al credo«nella santa Chiesa» (DS 1). È il requisito più costante, che indica l’appartenenza a Dio, lo si trova anche nel simbolo Apostolico che aggiunge «cattolica», mentre il credo di Cirillo dice «una santa Chiesa cattolica» (DS 41) e quello di Epifanio «una sola santa Chiesa cattolica e apostolica» (DS 42). Si giunge all’elenco niceno-costantinopolitano che, senza alcuna preposizione introduttiva, recita: «(credo) unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam».
La denominazione più comune per designarle è quella di “note” della Chiesa, perché nascono con l’intento di far conoscere e rendere visibile (notificare) la Chiesa di Cristo ma, entrata in crisi con la chiusura del fine apologetica, oggi si preferiscono altre denominazioni, per cui c’è chi parla di “dimensioni”, di “proprietà”, di “strutture” o, come fa il Catechismo della Chiesa Cattolica, di “attributi”(nn. 811-870).La loro funzione è di segnalare qualità ritenute essenziali per la comprensione del mistero ecclesiale, per cui una chiesa che fosse priva di una di queste qualità non potrebbe essere detta, in realtà, Chiesa di Cristo. La loro ricerca sorge in occasione delle controversie con gli ereticiproprio perché servivano a indicare la vera Chiesa di Cristo. Ireneo è noto per aver approfonditol’apostolicità, sostenendo che «le lingue sono diverse, ma la forma della tradizione è ovunque la stessa» (Adv. Haer. I,10). Anche Ottato di Mile­vi, nato intorno al 320, valorizza l’apostolicità, ma conosce bene le altre e ne aggiunge di ulteriori nella polemica contro i donatisti,parlando di cinque “doti” della Sposa di Cristo.
Una delle prime esposizioni sistematiche si ha con Giacomo da Viterbo, conosciuto anche come autore del primo trattato di ecclesiologia, il De regime christiano (1301-1302). Egli parla di quattro conditiones richieste per la gloria della Chiesa. Anche Tommaso, commentando il Credo, parla di conditiones, termine che dal latino condo  sta a indicare dimensioni fondative dell’identità ecclesiale. In reazione ad alcune posizioni che accentuavano il lato spirituale della Chiesa, il capitolo delle note ha visto crescere l’interesse degli ecclesiologi che cominciano ad usarle in senso apologetico per sottolineare gli aspetti visibili. È il caso Giovanni da Torquemada contro Giovanni Wycliff (+1384) e Giovanni Hus (+1415), ma soprattutto dei cardinali Osio e Roberto Bellarmino (+1621) che usarono il procedimento contro Lutero. Il carattere apologetico produsse una moltiplicazione del numero delle note (Osio ne elencava 100!), anche perché i protestanti, e soprattutto gli ortodossi, non avevano difficoltà a riconoscersi nei valori dell’unità, della santità, della cattolicità o dell’apostolicità. Per semplificare le cose e permettere una migliore distinzione, intorno al XIX si giunse a riassumerle nella nota della “romanità”. L’operazione si afferma con le riflessioni del Perrone e riceve una consacrazione dal Vaticano I quando parla di «santa Chiesa cattolica apostolica romana» (DH 3001).
Allo stato attualequesta via ecclesiologicaha trovato nuovo slancio. L’aver superato la polemica ha però portato a considerarle in una luce più dogmatica (seguendo l’esempio di Tommaso) e meno confessionale, per cui sono studiate non tanto col fine di di­stinguere la Chiesa vera da quella falsa (ciò che non è escluso) ma per indicare un dono, conferito dal Cristo e dallo Spirito, che caratterizza l’essere e la missione della Chiesa. All’interno del metodo teologico si possono anche riconoscere letture particolari. Importante è quella di tipo escatologico che contribuisce a vedere queste proprietà come doni in attesa di una piena realizzazione. In questo modo diventano anche oggetto del compito, della preghiera e della speranza. Per essere quello che è la Chiesadeve continuamente impegnarsi a farsi una santa cattolica e apostolica. Un ultimo aspetto da ricordare è lo stretto legame e la reciprocità che si stabilisce tra i quattro elementi: nessuno può stare senza l’altro, ognuno è nell’altro e ciascuno si comprende alla luce dell’altro. Una citazione del Catechismo della Chiesa cattolica permette di riassumere questa panoramica introduttiva:

«Questi quattro attributi sono legati inseparabilmente tra di loro, indicano tratti essenziali della Chiesa e della sua missione. La Chiesa non se li conferisce da se stessa; è Cristo che, per mezzo dello Spirito Santo, concede alla sua Chiesa di essere una, santa, cattolica e apostolica, ed è ancora lui che la chiama a realizzare ciascuna di queste caratteristiche. Soltanto la fede può riconoscere che la Chiesa trae tali caratteristiche dalla sua origine divina. Tuttavia le loro manifestazioni storiche sono segni che parlano chiaramente alla ragione umana» (nn. 811-812).


1. Una

L’unità esprime un bene fondamentale della Chiesa e non a caso occupa il primo posto nell’elenco del gruppo simbolico. La sua importanza è ampiamente documentata dal dato scritturistico e dalle riflessioni dei padri di cui si possono citare tanti scritti, a partire dal primo abbozzo di ecclesiologia che Cipriano dedicò proprio al De unitate Ecclesiae. Ottato di Milevi scrive che «l’unità è assolutamente necessaria» per la Chiesa.Il modo di intendere questa proprietà è però mutato nel tempoanche se le sue due accezioni essenziali sono rimaste inalterate: una nel senso che esiste una sola Chiesa e una nel senso unitivodei legami interni. Entrambi gli aspetti sono sottolineati in questo passaggio di Lumen gentium 13:

«Perciò questo popolo, pur restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si adempia l’intenzione della volontà di Dio, il quale in principio creò la natura umana una e volle infine radunare insieme i suoi figli dispersi».

1.1. Fondamento biblico. Limitandoci a un promemoria neotestamentario si deve rimarcare l’interpretazione della salvezza di Gesù nei termini pregnanti della riconciliazione, Gesù èvenuto «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv11,52); ad abbattere il muro della separazione, eliminare l’inimicizia (Ef 2,13-22) e riappacificare tutte le cose, «sia quelle che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (Col 1,19-20). L’unità è pure il dono ultimo che Gesù chiede al Padre per i suoi discepoli e anche la sua ultima consegna:«Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me» (Gv 17,20-23).
Consapevole di questo lascito la comunità nascente degli Atti si presenta alla storia unita nella comunione e nell’amore vicendevole: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola» (4,32).Guidata dallo Spirito della pentecoste essa diffonde nel mondo gli effetti salutari della redenzione di Cristo, compiendo due passi importanti: unire nel rispetto della diversità e diffondere il Vangelo a tutti i popoli. Di qui deriva lo stretto legame tra l’unità e la cattolicità: l’unità non esclude che ogni popolo comprenda nella “propria” linguasenza preclusione di razza o di condizione sociale (è dunque un’unità cattolica) ma impedisce la confusione o la frammentazione (è dunque una cattolicità che rispetta l’unità). Nei testi vediamo pure crearsi una moltiplicazione di Chiese indigene e locali che però non mettono in discussione il fatto che esista un’unica Chiesa che è l’unico corpo e l’unica sposa di Cristo. Un celebre testo paolino dà le ragioni teologiche di questa unità ecclesiale:

«Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,4-6).

Il Nuovo Testamento documenta però, da subito, la natura fragile di questa visione per l’esistenza di divisioni e conflitti che vedono un caso esemplare nella comunità di Corinto.Paolo esorta alla comunione, a «essere unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire (1Cor 1,10).L’argomentazione non è semplicemente parenetica (quasi non fosse legittimo avere opinioni diverse) ma va alla radice teologica della divisione in quanto si discute la creazione di particolarismi in cui un gruppo si erge contro l’altro elevandosi ciascuno a principio unificante della fede cristiana, giungendo così a spezzare l’unità di fondo. L’apostolo individua il nucleo del problema in una scarsa identificazione con Cristo. Anziché fare riferimento a questo centro unificante, i Corinti seguono altri criteri, preferendo assimilarsi alle diverse autorità che avevano trasmesso loro il Vangelo: Cefa, Apollo o Paolo stesso. La Chiesa non è di questo o di quello ma di Cristo, solo quando si mantiene questo fulcro si è nell’unità. Un altro testo ci fa invece comprendere l’aspetto solidale, corresponsabile e caritativo dell’unità ecclesiale:

«Noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo [..], non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra. Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri» (1Cor 12,13-28)

1.2. Riflessione teologica. Consideriamo tre approfondimenti: il fondamento trinitario, la questione dei vincula unitatis, la nozione della communio sanctorum.

1) Il fondamento trinitario. La Trinità costituisce modello e fonte dell’unità della Chiesa: modello perché ciascuna persona divina è relativa alle altre e insieme esprimono l’unità; fonte perché la Chiesa è per sua natura estensione della vita trinitaria nel mondo, secondo l’espressione di Cipriano di «popolo radunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (de unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata)». La Chiesa attinge quindi la propria unità non dagli uomini (che spesso registrano piuttosto i propri fallimenti al riguardo) ma dall’uni-trinità divina. Essa è una perché Dio è uno. Il Padre di tutti (Ef 4,6) pianifica un ristabilimento dell’unità, facendo del Figlio suo «il primogenito di molti fratelli» (Rom 8,29) e della Chiesa una fraternità in Cristo. La Chiesa attinge inoltre la propria unità dal Cristo, attraverso la fede e i sacramenti, come i tralci attaccati alla vite (Gv 15,1-17).Si ricordi la forte concezione del Christus totus di Agostino:

«Molte membra, un corpo solo: Cristo. Perciò noi tutti insieme, uniti al nostro Capo, siamo il Cristo; senza il nostro Capo non valiamo nulla. Perché? Perché con il nostro Capo siamo la vite; senza il nostro capo - il che non sia mai - siamo tralci spezzati, destinati non a qualche opera dell'agricoltore, ma soltanto al fuoco. Per questo anche Egli nel Vangelo dice: Io sono la vite, voi siete i tralci, il Padre mio è l'agricoltore; e aggiunge: senza di me non potete far nulla. Sì, o Signore, nulla senza di te, ma tutto in te. Poiché tutto quello ch'Egli fa per mezzo nostro, sembra che siamo noi a farlo» (30 II, 4).

Tuttavia, poiché lo Spirito è il nexus, il vincolo di amore tra il Padre e il Figlio, si suole attribuire a lui, per appropriazione, la realizzazione di questo dono e il dinamismo di questa missione. Scrive la Lumen gentium: «Dio mandò lo Spirito del Figlio suo, Signore e vivificatore, il quale per tutta la Chiesa e per tutti nei singoli credenti è principio di unione e di unità» (n.13). In base al riconoscimento che la vita nello Spirito si realizza per via amoris (cf. Rom 5,5), questo diventa il principio che regge l’unità della Chiesa: una vita nello Spirito che si esprime fattivamente nelle modalità dell’amore. È ancora Agostino a ricordarlo:

«Èda quella fonte, e precisamente dallo Spirito Santo, che ci viene la carità, come appunto dice l`Apostolo (Rom 5,5)). Se dunque la carità di Dio, riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato, fa di molte anime un’anima sola e di molti cuori un cuore solo, non saranno a maggior ragione il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo un solo Dio, una sola luce, un solo principio».

2) I tre vincula. La questione dell’unità della Chiesa si è resa spinosa soprattutto dopo la divisione del XVI secolo che ha visto i cattolici assestarsi sugli elementi fondamentali dell’istituzione, e i protestanti su quelli più spirituali. Si è così giunti quasi a opporre due Chiese, quella della societas exteriorum e quella della societas in cordibus. Il Vaticano II sostiene che la Chiesa non è mai l’una o l’altra cosa, ma un’unica realtà complessa (complexa realitas) che comprende entrambi gli aspetti (LG 8). L’unità della Chiesa non comporta perciò solo principi divini e interiori, ma si esprime in vincoli strutturali che il concilio riassume rirendendo la triade tradizionale: medesima fede, stessi sacramenti, stesso governo ministeriale (LG 13; UR 2; OE 2). I legami interiori della carità sono insufficienti, a essi deve corrispondere anche una manifestazione esterna, ma anche la manifestazione esterna non è garanzia di salvezza e dev’essere animata dalla carità.
- L’unità di fede porta a riconoscere un solo Vangelo, quello di Cristo (Gal 1,6)e, di conseguenza, a professare un medesimo credo.
- L’unità nel culto che si esprime soprattutto attraverso la celebrazione dei sacramenti, con formulari, canoni e riti che dicano la comunione della preghiera, pur nel rispetto della legittima loro varietà. Il sacramento per eccellenza dell’unità della Chiesa è l’eucaristia, «poiché c’è un solo pane, noi pur essendo molti siamo un corpo solo: infatti tutti partecipiamo dell'unico corpo» (1Cor 10,17). Tommaso chiama questo sacramento sacramentum unitatis.
- Al servizio dell’unità il Nuovo Testamento presenta un’organizzazione ministeriale con compiti pastorali e funzioni specifiche di vigilanza e di responsabilità dell’unità ecclesiale (Ef 4,13-16).

3) La communio sanctorum. L’idea di communio sanctorum è così importante da aver ricevuto un posto a parte nell’elenco del credo. Non sempre però è facile comprenderla. Servendoci del concetto di comunicazione si può vederla come una modalità particolare della prima proprietà. L’unità sull’unico Bene fonda tra i membri della Chiesa una reale comunicazione per cui uno può agire sull’altro. Non si parla solo dei membri attuali ma anche di coloro che sono defunti o che sono venerati come santi. La vita ecclesiale è come quella dei vasi comunicanti,tutti i membri vivono congiunti gli uni agli altri, al punto da essere gli uni negli altri in una forma di pericoresi ecclesiologica. Il grado del contatto giunge alla possibilità sostitutiva per cui, a un certo livello, un credente può anche agire al posto di un altro, rappresentandolo perché lo contiene. Il motivo teologico è nella partecipazione comune allo Spirito che stabilisce relazioni simili a quelle intratrinitarie.La conseguenza sul piano dell’agire è il bisogno dell’altro, il sentirsi come una cellula immersa in un tutto dove la vita è quella di un essere di comunione. Sul versante negativo un battezzato senza contattirischia di atrofizzarsi come un membro separato dal resto del corpo. L’idea è presente nei padri, è stata sviluppata da san Pier Damiani nell’opuscolo Dominus vobiscume ha ricevuto attenzioni da Tommaso per il quale è operata dalla carità e dallo Spirito presenti in noi.

1.3. Applicazioni particolari. Poiché tratteremo a parte la questione ecumenica, qui consideriamo l’aspetto lacerante dell’unità, il tema dell’unità sociale, l’impegno della missione

1) Le falsificazioni e le lacerazioni dell’unità.In quanto dono di Dio, l’unità della Chiesa ha valore oggettivo e dunque non può mai scomparire, altrimenti dovremmo sostenere l’assurda posizione che non ci è data una vera Chiesa e la stessa eucaristia sarebbe inefficace.In quanto affidata alla volontà degli uomini, anche questo dono comporta però una fragilità che porta a impegnarsi. Lo scollamento tra i due aspetti è evidente nel fatto che fin dall’inizio all’interno della Chiesa si sono verificati scissioni e scismi e che oggi diverse confessioni cristiane rivendicano la verità del loro collegamento a Cristo. Ciò ne fa una proprietà ferita che giustifica e sostiene l’opera ecumenica, al fine di colmare una lacerazione che è motivo di scandalo all’interno e all’esterno della Chiesa, scandalo ingiustificabile perché «la sua testimonianza per la forza dell’amore al cospetto del mondo viene esposta alla derisione» (Von Balthasar).
Due contrari dell’unità sono l’uniformità e l’eresia. La prima costituisce un equivoco perché riduce l’unità a un unico registro, senza dare il giusto spazio alla diversità. Il Catechismo della Chiesa cattolica dice che la «Chiesa “una” si presenta con una grande diversità, che proviene sia dalla varietà dei doni di Dio sia dalla molteplicità delle persone che li ricevono» (n. 814). Un principio agostiniano è molto adatto a questo proposito: «In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas». Ciò porta a considerare costantemente questa proprietà in stretta connessione con la cattolicità che tutela le differenze, anche se resta il problema di indicare quando queste siano legittime o meno. Ottato di Milevi contestava agli eretici proprio la loro concezione uniformistica dell’unità:

«Perché mai cercate di infrangere la promessa al punto da rinchiudere come in un carcere la vastità dei regni di Dio? perché vi affannate a porre ostacoli a tanta condiscendenza divina? Perché vi sie­te armati contro i meriti del Salvatore? Lasciate dunque che il Figlio abbia in possesso quanto gli è stato promesso, lasciate che egli compia per il Padre i suoi disegni: perché vi mettete a segnare dei termini fissi? Perché ponete dei limiti? Essendo stata promessa da Dio Padre al salvatore tutta la terra, non c’è alcuna porzione in nessuna parte della terra che sembri esclusa dal  suo possesso […]. Voi invece fate di tutto per sottrargli tutto e continuate a fa­re di tutto per convincere gli uomini che soltanto presso di voi esiste la Chiesa».

Tre lacerazioni singolari e ampiamente studiate in questo ambito sono l’eresia, l’apostasia e lo scisma, che il Diritto canonico considera in questa sintetica definizione: «Viene detta eresia, l’ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa; apostasia, il ripudio totale della fede cristiana; scisma, il rifiuto della sottomissione al Sommo Pontefice e della comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti» (can 751).
L’eresia, come indica la sua etimologia (hàiresis = scelta), è la scelta di una posizione della verità cristiana che viene però esasperata fino a rompere l’unità dottrinale. Il suo fenomeno è noto al Nuovo Testamento (At 15,5; Gal 5,20; 2Pt 2,1) che invita a condannare le false dottrine (1Tm 1,3-11), al punto che se anche un angelo predicasse un Vangelo diverso deve essere considerato anatema (Gal 1,8). Gli scritti dei padri sono numerosi, esempi classici sono l’Adversus haereses di Ireneo e il Panarion di Epifanio di Salamina. Tuttavia si rileva anche un aspetto positivo perché molti dogmi sono stati chiarificati proprio “grazie” alle eresie. Congar definisce l’eresia il frutto di una visione parziale della verità che «nella maggior parte dei casi non riprende il dogma nel suo insieme, ma si limita a dare grande rilievo e massima precisione alla verità fraintesa o negata dall’errore; con la conseguenza che, essendo l’errore sempre qualcosa di parziale, anche la verità dogmatica contraria rischia di essere a sua volta parziale».

e) L’unità sociale. Visto sul piano antropologico l’unità è un valore molto importante per l’umanità, che la intende sia a livello individuale, come unità della persona, sia a livello sociale, come unità interpersonale. Molte sono le filosofie che lungo la storia si sono poste alla ricerca dell’uno, identificandolo con diversi soggetti e incarnando l’ansia dell’uomo di fronte alla dispersione del molteplice. La Chiesa non parte da una filosofia specifica, ma dal messaggio evangelico. Tuttavia questo non è astratto e contiene anche un messaggio sociale che si ritrova ad esempio nel comandamento di amare il prossimo, tanto che «se uno dicesse: “io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore» (1Gv4,20).
La concezione di unità nella Chiesa primitiva si estendeva anche alla solidarietà nei beni materiali. La carità, che è dono dell’eucaristia, porta a vivere una vita di comunità che sappia farsi carico anche dei problemi concreti dei fratelli. Per questo Paolo chiama koinonia la colletta a favore dei cristiani di Gerusalemme che avevano bisogno di soccorso, considerandola un’espressione della comunione teologica (2Cor 9,13). L’unità della solidarietà non si esaurisce in un programma intraecclesiale, ma implica una missione all’esterno per cui l’azione per la giustizia e l’amore per i poveri sono aspetti che rientrano nell’identità della Chiesa. Un autore che ha dato molto rilievo a questo aspetto è Moltmann fino a inserirlo nella riflessione sulla proprietà ecclesiale dell’unità, scrivendo:

«Quell’unità di Cristo che non ammette divisioni non si esaurisce semplicemente nell’unità coi suoi discepoli né nella comunione con tutti i credenti, ma comprende anche un’unità e comunione con la gente oppres­sa, umiliata e abbandonata […]. Che cos’è più importante, quella comunione a livello di pa­rola e di sacramento che ci congiunge coi nostri nemici po­litici, o non invece la comunione con i poveri e con tutti coloro che si impegnano a superare le divisioni? Quando una situazione politica sfocia in una situazione che provoca la confessione di fede? Esiste una comunione cristiana tra as­sassini e loro vittime? Possiamo intrattenere dei rapporti di comunione con i carnefici e al tempo stesso con le loro vittime? Fino a che punto la Chiesa sopporterà al proprio interno tali conflitti e quando verrà compromessa la comu­nione cristiana?».

3)L’impegno della missione. Per raggiungere e vivere un’autentica unità è necessario educare le coscienze. In un momento storico come l’attuale, in cui un esasperato individualismo spinge a rinchiudersi in interessi privati, la comunità cristiana è chiamata a promuovere una cultura di comunione.

«Essa postula alcuni valori umani, quali l’attitudine al pensare insieme, alla condivisione dell’impegno, all’elaborazione comunitaria dei progetti pastorali, alla formulazione corretta dei giudizi comuni sulla realtà dell’ambiente, all’adozione di forme di intervento in cui si esprima l’animo di tutta la comunità» (Cei, CC 63).

A ognuno di noi è rivolto l’invito che il Risorto affida alla Maddalena: «Va dai miei fratelli» (Gv 20,18-19). Esiste un incontro con Dio da soli (Gv 14,23) ma questa comunione con Dio qualifica il cristiano se da lì nasce una vita desiderosa di aprirsi e di donarsi. Il cristiano è chiamato a vivere le sue esperienze cristiane in modo comunitario, si è Chiesa quando si partecipa. Parlando della preghiera, Giovanni Crisostomo scrive che la sua forza proviene «dal consenso di molti che attira sommamente lo sguardo di Dio e influisce su di lui». Chiedendosi il perché della promessa di Gesù in Mt 18,20 di essere lì dove sono radunati i due o tre, risponde: «Perché disse due? Perché non saresti lì dove c’è uno solo ti prega? Perché voglio che tutti siano uniti e non separati».



2. Cattolica


L’aver posto questa proprietà in stretta relazione con la precedente ci porta a considerarla al secondo posto. Nella storia della teologia la cattolicità (dal greco kath'olou = ordinato al tutto), ha conosciuto due significati di fondo: quantitativo e qualitativo. Il primo (chiamato anche geografico) identifica la cattolicità con l’estensione della Chiesa super omnem terram, senza limiti di razza, nazionalità o condizione sociale; il secondo fa riferimento alle ricchezze particolari di questi uomini e popoli che vengono assunte con l’adesione al Vangelo, differenze che possono essere di ordine culturale, teologico, liturgico. Per De Lubac il riconoscimento di questo attributo non deve portare solo a vedere la parte nel tutto, ma anche il tutto nella parte per esprimere il volto di «una unità complessa, varia nella sua ricchezza: circumndate varietate».

2.1. Breve indagine storica. Il Nuovo Testamento non conosce l’aggettivo katholikos, tra i Padri, il primo è Ignazio di Antio­chia (+110c) che lo riporta nella lettera agli Smirnesi, senza spiegarlo: «Là dove c’è Gesù Cristo ivi è la Chiesa cattolica (ubi fuerit Christus Jesu, ibi catholica Ecclesia». Nel Martirio di san Policarpo lo si trova più volte, attribuito alla Chiesa universale e locale,il martire Policarposi presenta come «vescovo della Chiesa cattolica di Smirne».Il Vaticano II usa il termine in tutti e due i sensi richiamati, entrambi presenti nel n. 13 della Lumen gentium scrive:

- «L’unico popolo di Dio è presente in tutte le nazioni della terra, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i suoi cittadini, cittadini di un Regno che per sua natura non è della terra, ma del cielo. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito santo, e così “chi sta in Roma sa che gli indi sono sue membra”»,
- «La Chiesa nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le risorse, le ricchezze, le consuetudini del popoli, nella misura in cui sono buone, e accogliendole le purifica, le consolida e la eleva».

2.2. Cattolicità e missione. La nozione della cattolicità è strettamente collegata a quella di missione, in quanto spinge a dilatare la Chiesa ai confini del mondo. Essa è dunque una delle ragioni dell’attività missionaria. Non si tratta di colonizzare i popoli ma di produrre il contatto tra il Vangelo e i popoli. La cattoli­cità impone quindi il compito di liberarsi da ogni forma di integralismo culturale, sfociando in un’impresa di sana inculturazione. L'autenti­cità di queste affermazioni produce almeno un du­plice impegno riguardante due soggetti diversi:

- Le Chiese locali dovrebbero interrogarsi seriamente sul modo di essere se stesse, attuan­do un'inculturazione indigena che sia una vera mediazione culturale della fede, radicando il Vangelo lì dove si realizza l’annuncio, compreso il patrimonio etico e il coinvolgimento nei problemi locali.
- Gli organismi centrali che vigilano sull’unità della Chiesa universale, dovrebbero riconoscere il pericolo di un’eccessiva intromissione nella vita delle Chiese loca­li.Una volta salva l’unità della fede, si deve rispettare un’ampia diversità di usanze.

Sul piano concreto ciò vuol dire che si tratta di saper convivere nella diversità. Gli africani, restando nella comunione universale della Chiesa di Cristo, hanno il dovere di costruire una Chiesa africana, e così via sudamericani. Questo dice la citazione di Ignazio di Antio­chia: «Lì dove è Cristo, ivi è la Chiesa cat­tolica». Da rilevare la prima parte dell’espressione che impone il criterio cristologico. La prima cattolicità è quella di vivere nella pienezza del Cristo. La Chiesa svolge un servizio per cui non porta i popoli e i loro doni a se stessa ma al Cristo. La Sacrosanctum concilium applica questo principio a un settore delicato come la liturgia, sostenendo che questa pure deve rispecchiare la cattolicità della Chiesa. Il tema è trattato soprattutto nei numeri dal 37 al 40, dove emerge la volontà di superare il criterio di uniformità. Al 37 si legge:«La Chiesa non desidera imporre una rigida uniformità nelle cose che non riguardano la fede o il bene di tutta la comunità, e nemmeno nella liturgia; rispetta anzi e favorisce le qualità e le doti d’animo delle varie razze e dei vari popoli» (EV 1/65).L’Ad gentes parla di «una liturgia rispondente all’indole del popolo» (n. 19: EV 1/1151).
La nozione di cattolicità autorizza quindi il pluralismo, aprendo alla Chiesa un’ampia possibilità di forme che riguardano ambiti come i costumi, le leggi,le tradizioni, ma anche una «diversa enunciazione teologica delle dottrine» (Unitatis redintegratio 17: EV 1/553).La cattolicità non è una realtà monocolore, dove tuttivivono o agiscono allo stesso modo, ma un corpo diversificato che ricava la sua ricchezza dalla capacità di non escludere nessuna persona, nessuna comunità particolare, nes­sun valore. Ma poiché, come si è accennato, questa proprietà è strettamente correlata a quella dell’unità, occorre fare il modo che il legittimo pluralismo non degradi al livello di un pluralismo selvaggio: senza la cattolicità l’unità declassa al livello dell’uniformità e senza l’unità la cattolicità si trasforma in un pluralismo privo di identità.Riferendosi al rapporto tra Chiese locali e Chiesa universale, J. Ratzinger scrive:

«Con questa parola [cattolicità] si allude all’unità della Chiesa in un duplice senso. Innanzitutto, ci si riferisce all’unità di luogo: solamente la comunità unita al vescovo è Chiesa cattolica, non i gruppi parziali che, per qualsiasi motivo, se ne sono staccati. In secondo luogo, è qui richiamata l’unità delle Chiese locali fra loro, le quali non possono rinchiudersi in se stesse, ma possono rimanere Chiesa solo mantenendosi aperte l’una verso l’altra, formando un’unica Chiesa nella comune testimonianza della Parola e nella comunione della mensa eucaristica, che è aperta a tutti in ogni luogo. Nelle antiche spiegazioni del Credo la Chiesa cattolica viene contrapposta a quelle Chiese che sussistono soltanto nelle loro rispettive province, contraddicendo così la vera natura della Chiesa».

Ciò non esclude che vi siano tensioni e conflitti, inevitabili in un corpo che cresce per giungere la pieno compimento.

2.3. Cattolicità e opzione per i poveri. Anche qui è possibile ricavare un’applicazione che porta la cattolicità verso un’attenzione specifica alla diversità oppressa. In questo campo la Chiesa non può essere neutrale. seguendo l'esempio di Cristo deve accettare di porsi in difesa di quei “diversi” che sono oggetto di discriminazione e privati di dignità. Si può dunque affermare che la Chiesa è cattolica anche nella misura in cui riconosce l'amore di Dio che vuole la redenzione degli oppressi. Questa scelta di parte non contraddice l’idea di universalità insita nella cattolicità. Seguendo l’ispirazione escatologica, per cui la Chiesa è in cammino verso la cattolicità del Regno, nel frattempo deve vivere la certezza universale dell’amore di Dio che vuole la redenzione degli oppressi. Se non si passa a queste applicazioni, l’universalismo rischia di apparire astratto. Trovandosi in mezzo a una umanità che vive la frantumazione di «chi è perduto, represso e posto in uno stato di asservimento», la Chiesa sarà tanto più cattolica quanto saprà dare a queste parti il senso dell'intero a loro negato.


3. Santa


L’attributo della santità, come si è accennato, è il più antico tanto che in alcuni simboli sta da solo. Essoè ricco di contenuti ed è stato variamente inteso lungo i secoli. Prima di esprimere una valutazione etica è una confessione della fede sulla redenzione di Cristo. È Cristo, infatti, che purifica la Chiesa incessantemente «al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5,27). È anche l’attributo più problematico per la contro testimonianza di molti credenti. Con il Faynel possiamo allora riconoscere che «delle quattro note della Chiesa, (la santità) è il più prezioso e il più ricco, ma anche il più difficile a essere afferrato dall’esterno, sia a causa della sua ricchezza che dei nostri peccati». Sul piano dell’analisi si suole distinguere due tipologie: la santità-di-appartenenza che deriva dalla vicinanza alla fonte divina (santa Bibbia, santi sacramenti, santo Padre), e la santità-vissuta che deriva dalla condotta etica e dalla pratica delle virtù, in alcuni casi eroiche.

3.1. Riflessione antropologica. La ricerca della santità ha un aspetto universale. Essa nasce dalla spinta umana verso l’ideale, dall’esigenza che ogni uomo ha di superare i propri limiti,. La società ha favorito tale orientamento, organizzando una disciplina del sacro; equipaggiandosi di particolari insegnamenti; proponendo figure significative in grado di fare da modello; venerandole dopo la morte con un culto che crede nel loro benefico influsso sull’avanzamento morale del popolo. Il mondo greco-romano aveva gli heroes, le cui gesta sono narrate narrate in un misto di storia e di mito. Nelle religioni più sviluppate, l’islam presenta una forte accentuazione teologica del titolo di Santo che attribuisce solo a Dio, il quddush, il “santissimo” (Corano 59,23). Salvo alcuni aspetti presenti nella corrente sufi, la concezione islamica, inoltre, non ha una dimensione ascetica e si caratterizza per una via mediana che assume le esigenze del quotidiano. Per il Buddismo il Budda non è sorgente di santità ma solo l’indicatore della sua Via, che si realizza seguendo l’Ottuplice Sentiero sulla saggezza; l’etica e la disciplina mentale. Anche il mondo laico ha presentato quest’esigenza, cercandola al di fuori del contesto credente. Un esempio è l’opera di Albert Camus.

3.2. Riflessione biblica. Per l’Antico Testamento è quasi un dogma attribuire il titolo di “santo” solo a Dio. Con esso s’intende indicare la sua trascendenza, la sua perfezione morale e il fatto che egli è degno della lode e dell’ammirazione degli uomini. La condiscendenza divina di stringere con Israele un’alleanza fa del popolo «un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,6). L’elezione fa di Isreale l’am segullah, che partecipa alla dignità del Qadosh. È quindi innanzitutto una santità-di-appartenenza che diventa però fondamento di una chiamata alla santità-vissuta: «Siate santi perché io sono santo» (Lev 11,45).
Per il cristianesimo, prima di essere un impegno, la santità è un dono della partecipazione al mistero personale del Cristo, «chiamato santo e figlio di Dio» (Lc 1,35). Il contatto con lui produce purificazione e guarigione come nella donna affetta da perdita di sangue. Lo scopo dell’elemento rituale (i sacramenti) è di realizzare questo contatto-incontro con Cristo, ma se il battesimo santifica per Paolo è perché produce una unione personale con il Cristo (Rom 6,3-11). In questa prospettiva dell’unione l’apostolo giunge a estendere la dignità di “santi” a tutti coloro che sono in «Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi santificazione» (1Cor 1,30). Egli applica questa denominazione ai cristiani di Roma (Rom 1,7), di Corinto (1Cor 1,2), dell’Acaia (2Cor 1,1) e, senza alcuna distinzione, a tutti i battezzati (Rom 8,27; 1Cor 6,1-3; Ef 1,15). Il dono si fa però responsabilità e la grazia non risparmia dall’impegno che si realizza in vari modi: rimanendo uniti a Cristo, contrastando il peccato e l’iniquità (Rom 6, 12-13), producendo i frutti dello Spirito (Gal 5,16-23) che pongono al primo posto l’amore condiviso.

3.3. Riflessione teologica. Nella Expositio in symbolum apostolorum, Tommaso segue il paragone della consacrazione del tempio per dire che i cristiani sono santificati nella Chiesa in più modi: per il sacrificio del Cristo, per la purificazione del battesimo, per l’unzione dello Spirito, per l’inabitazione divina, avvertendo però che si tratta pure di un dono minacciato, per cui i cristiani devono stare «attenti a non offuscare lo splendore di questo tempio di Dio». Negli autori medioevali la santità comprende la nozione di firmitas, che èl’indefettibilitàcon cui la Chiesa resiste agli assalti degli scismi, delle eresie e delle persecuzioni, idea che verrà ripresa soprattutto in occasione della polemica con la Riforma. «La Chiesa è sancta - scrivono gli apologisti -  cioè sancita, o ferma, stabile, perché essa è columna et firmamentum veritatis» (Thils). L’approfondimento teologico porta a considerare tre temi: il fondamento, la natura e il problema del rapporto col peccato, le conseguenze del peccato sulla Chiesa.

1)Il fondamento trinitario. Parlare di fondamento trinitario significa spiegare il motivo principale della santità della Chiesa. Non si tratta, infatti, di esaltare la Chiesa ma di un atto di fede rivolto verso Dio, il solo “Santo” (Es 19,6; Ap 15,4) che fa la Chiesa santa. La Chiesa lo è quindi per appartenenza e per partecipazione, con motivi che vanno cercati nella sua relazione con la Trinità. All’origine c’è il Padre che convoca e raduna; quindi il Figlio che ama la Chiesa e «ha dato se stessa per lei, per renderla santa» (Ef 5,25-27); quindi lo Spirito che la consacra con l’unzione rendendola«il santo tempio di Dio che siete voi» (1Cor 3,16-17; cf. Ef 2,22). Lo Spirito che “santo”, per appropriazione, emerge spesso dai testi biblici e patristici come il principio trascendente dell’azione santificatrice e dunque della santità della Chiesa. Per questo si fa notare lo stretto legame che il credo pone tra l’’articolo pneumatologico e quello ecclesiologico. È lo Spirito che trasforma la communio peccatorum in communio sanctorum.
2)La natura. Un modo tradizionale di studiare la santità della Chiesa segue la duplice tipologia sopra richiamata: la santità oggettiva (detta anche ontologica) riguarda gli elementi formali che costituiscono la via della grazia e cioè la Parola, i sacramenti e la carità; la santità soggettiva riguarda i membri chiamati alla santità. La dimensione oggettiva non può mai venire meno nonostante l’imperfezione dei membri, è ciò che fa direalla Lumen gentium:«Noi crediamo che la Chiesa è indefettibilmente santa» (n. 39). L’avverbio non elimina la possibilità di attribuire alla Chiesa errori, peccati e limiti, bensì esprime la permanenzadi un legame con Dio che si fonda sulla promessa del Cristo: «Io sarò con voi sino alla fine del mondo» (Mt 28,20). È dunque la grazia divina a impedire «che la Chiesa nel suo com­plesso venga meno all’amore di Dio e alla sua verità e che la rende indefettibilmente santa. Questa grazia opera nel com­plesso della Chiesa, specialmente là dove questa realizza in pieno tutta la sua essenza: nella testimonianza della sua fede e nei sacramenti!» (Rahner).
Come e forse più delle altre proprietà anche questa presenta un aspetto di fragilità che non rende estraneo il peccato nemmeno ai membri della Chiesa. Questi limiti provengono da ragioni antropologiche (in quanto la Chiesa è comunque composta di uomini sottomessi alle leggi della natura umana) e da ragioni escatologiche: una Chiesa senza macchia è la condizione celeste, ora che siamo in viasi usufruisce di un dono non ancora pienamente posseduto e che costituisce la meta del cammino. Ciò spiega la mescolanza, il fatto che nella Chiesa si può trovare il bene e il male, ma motiva anche il dovere della Chiesa di riconoscere le proprie imperfezioni, di chiedere perdono e di riprendere il cammino: atti che la liturgia fa compiere puntualmente ogni volta che l’assemblea si raduna per la celebrazione eucaristica.Non si tratta ovviamente di giustificare i peccati dei membri, che in alcune situazioni possono essere particolarmente odiosi e gettare ombre sul mistero della santità, ma di nutrire uno sguardo sufficientemente realistico della situazione soggettiva. Scrive J. Ratzinger:

«L’aggettivo santo [...] non intende in primo luogo la santità delle persone umane, ma si riferisce al dono divino, al dono della santità umana. Nel simbolo la Chiesa viene chiamata santa non perché i suoi membri siano, insieme e singolarmente santi, uomini senza peccato: questo pio sogno, che rispunta in ogni secolo, non trova assolutamente posto nel vigile mondo del nostro testo [...]. Già qui potremmo dire che i critici più duri della Chiesa, nel nostro tempo, si nutrono sotto proprio di questo sogno e, siccome lo trovano deludente, sbattono la porta di casa in faccia e lo denunziano come ingannatore».

3)Il problema del rapporto tra santità e peccato. La questione che più ha tormentatogli ecclesiologi è quella del rapporto tra santità e peccato, giusti e peccatori. Il rischio è quello di un’aporia: se la Chiesa è “santa” non si vede come i peccatori possano appartenerle ed essere detti suoi membri; se è pure “peccatrice” non si vede come possa essere detta pure “santa”, in quanto santità e peccato non possono coesistere senza annullarsi reciprocamente; se infine si riconosce che nella Chiesa c’è il peccato non si vede come questo non abbia una qualche influenza sulla sua esistenza. Sono tre problemi cui accenniamo separatamente.

- Per il primo problema si sono date diverse soluzioni che hanno visto opporsi, lungo tutta la storia della Chiesa, i puristi (che limitano l’appartenenza solo ai buoni e ai virtuosi) e gli accondiscendenti (contrari all’idea di una Chiesa di soli santi). Rigoristi furono i montanisti, i novaziani, i donatisti, i catari, gli ussiti, i giansenisti, tutti comprensibilmente preoccupati di una Chiesa fedele a se stessa, giungendo però a soluzione scissionista. Tra i padri prevale la seconda posizione, più attenta alla misericordia. Un esempio è dato dalla controversia coi donatisti, che escludevano dalla Chiesa i traditores, cioè quei cristiani che avevano “consegnato” ai pagani i libri sacri e che dichiaravano invalidi i sacramenti dei loro ministri. Ottato di Milevi scrive contro di loro, rimandando a Dio il giudizio:

«Non è peccatore colui che voi presumete sia tale. Se così fosse, anche noi potremmo imitare la vostra presunzione e dichiararvi peccatori. Ma si rinunzi una volta tanto a questa presunzione da una parte e dall’altra: nessuno di noi deve condannare un altro con un giudizio prettamente umano. È proprio solamente di Dio conoscere chi è colpevole, e appartiene a lui emettere una sentenza di condanna. Noi tutti, perché uomini, teniamoci in silenzio: Dio solo deve giudicare quel peccatore».

L’autoredifende l’aspetto oggettivo più che soggettivo, sostenendo che la Chiesa è santa non tanto nei suoi membri, che sono sempre in cammino verso la perfezione, ma per la presenza dello Spirito Santo, i sacramenti, i ministeri, i beni ecclesiali come quello dell’unità con il vescovo di Roma. Agostino condivide questa visione ed elabora l’idea del corpus permixtum, che nella storia unisce buoni e cattivi, grano e zizzania (Mt 13,24-50). Egli ritiene che i veri membri della Chiesa sono solo i giusti, ma che nella condizione terrena non si ha diritto di fare una distinzione che spetta solo a Dio, il quale la compirà alla fine dei tempi. Nelle Ritrattazioni scrive: «Dovunque ho parlato di una Chiesasenza macchia e senza ruga non si deve intendere che già lo sia, ma che si prepara a esserlo al momento in cui si rivelerà anche gloriosa. Per ora, a causa di certa ignoranza e fragilità dei suoi membri, ha ogni giorno motivo di dire a nome della totalità dei fedeli: “Rimetti a noi i nostri debiti”».
La santità della Chiesa va quindi considerata in un’attribuzione dialettica che comprende il bisogno di una continua purificazione. Il n. 8 della Lumen gentium parla di«Chiesa santa insieme e sempre bisognosa di puri­ficazione (sancta simul et semper purificanda), (che) incessantemente si applica  alla penitenza e al suo rinnovamento».Il magistero ha sempre respinto il rigorismo, sia implicitamente, riconoscendo che l’unico suo membro senza pecca­to è (per grazia di Dio) Maria, sia esplicitamente, condannando teorie propense ad escludere i peccatori dall’appartenenza alla Chiesa, come quella del Quesnel (DS 1201, 1205, 2474-2478). Nella Mystici corporis, Pio XII precisa che i peccatori continuano a far parte della Ecclesia sancta perché «non ogni delitto commesso, per quanto grave - come lo scisma, l’eresia, l’apostasia -  è tale che per sua natura separi l’uomo dal corpo della Chiesa» (DH 3803).

- Riguardo alla questione se la presenza del peccato nella Chiesa possa portare a usare l’espressione di “Chiesa peccatrice”, i pareri sono discordi.È favorevole a questo lessico H. Küng, ritenendo che, in quanto assemblea di uomini, la Chiesa porta il peccato dentro di sé, nella sua stessa definizione, è in comunione con Dio ma anche distante da lui e dunque santa e peccatrice al tempo stesso, mentre Karl Rahner preferisce l’espressione “Chiesa di peccatori”:

«La Chiesa è la comunità degli uomini peccatori. In quanto comunità di uomini peccatori redenta e ordinata da Cristo e quindi  frutto della salvezza, essa è anche lo strumento salvifico mediante il quale Dio opera la salvezza dei singoli. L’as­semblea non sarebbe vero popolo di Dio, ma una realtà pura­mente ideale, dal carattere quasi mitico, se si pensasse che lo stato di peccato dei suoi membri non la determini».

Le perplessità sull’espressioneprovengono dal fatto che si mettono sullo stesso piano due realtà di per sé incompatibili: la Chiesa è lo strumento dello Spirito per conseguire la vittoria sul peccato, se invece essa stessa fosse peccatrice, non si vede più il senso della sua missione e se ne dovrebbe dedurre l’impotenza dello Spirito. All’idea monofisita che immagina una Chiesa tutta divina, non si può rispondere con un nestorianesimo che fa coabitare due realtà contrarie. Del resto il Vaticano II, pur richiamando più volte la necessità della purificazione, non usa mai l’espressione “Chiesa peccatrice”. Dobbiamo perciò ritenere che:

«Il suo essere composta da peccatori non è la caratteristica essenziale come lo è la santità, perciò si può parlare di “una Chiesa di peccatori”, ma non di una “Chiesa peccatrice” (sarebbe come identificare la Chiesa fin dal principio con le sue membra peccatrici, dimenticando che il capo e i mezzi della grazia nella Chiesa non sono peccatori)» (L. Scheffczyk).

- Tutto ciò non deve però portare a sminuire la forza del peccato nella vita della Chiesa. È vero che un ministro (o un fedele) peccatore non inquina la grazia dei sacramenti però alla fine è quasi scontato ritenere che esso influenzerà la salute di tutto corpo. È inevitabile che vi siano scandali, «ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo» (Mt 18,7)

3.4. La chiamata universale alla santità.La santità oggettiva ed ontologica deve accompagnarsi alla santità soggettiva ed esistenziale passando, come fa Paolo nella teologia battesimale di Rom 6,3-11, dall’indicativo all’imperativo. Credere in una Chiesa santa implica una chiamata a percorrere la strada della santità, che altro non è se non è la fedeltà al proprio battesimo. «La volontà di Dio è questa: che vi santifichiate» (1Ts 4,3). Questo è il tema del capitolo V della Lumen gentiumche gli conferisce una dimensione universale, sostenendo che è una meta comune a tutti: «È dunque evidente che tutti i fedeli cristiani, di qualsiasi stato o ordine, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità e che tale santità promuove un tenore di vita più umano anche nella stessa società terrena» (n. 40: EV 1/389).
La chiamata comune si diversifica nelle forme. Il n. 41 della costituzione traccia questo panorama multiforme, delineando in termini essenziali il modo in cui l’unica chiamata si differenzia secondo il proprio genere di vita: ministri, laici, sposi, vedovi, lavoratori, sofferenti. La santificazione non implica un’uscita dalla propria situazione: «Nelle varie condizioni, occupazioni e circostanze in cui vivono, anzi proprio per mezzo di esse, i fedeli cristiani saranno sempre più santificati, se sapranno prendere tutto con fede dalla mano del Padre celeste e cooperare con la volontà divina. Col loro stesso servizio temporale, manifesteranno la carità con cui Dio ha amato il mondo» (EV 1/396).
Il come si diventa santi costituisce l’oggetto specifico della teologia spirituale: vivendo sotto la presenza di Dio e adorando il Padre in spirito e verità; rimanendo uniti a Cristo e seguendo il suo esempio che fu mite e umile di cuore; lasciandosi guidare dai frutti dello Spirito (Gal 5,16-23). La via della santità consiste nel contrastare il peccato e l’iniquità (Rom 6,12-13), vivendo le virtù teologali che hanno la carità al primo posto: «La carità, infatti, come vincolo di perfezione e compimento della legge (cf. Col 3,14; Rom 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine. Perciò il vero discepolo di Cristo si caratterizza per la carità verso Dio e verso il prossimo» (n. 42: EV 1/397). La via della santità è l’amore in cui l’uomo trova una moltepli­cità di significati: la strada per  raggiungere Dio, poiché «Dio è amore e chi sta nell’amore sta in Dio» (1Gv 4, 16), per ritrovare se stesso, perché l’amore unifica l’essere nella storia; il carisma più autentico per esprimere il proprio posto nella Chiesa (1Cor 13); il significato del proprio impegno nel mondo e della stessa presenza della Chiesa.
Inserendo il capitolo della santità nella costituzione sulla Chiesa, il concilio ne fa comunque comprendere la natura ecclesiologica: se si è nella Chiesa si è santi e si cammina sulla via della santità. Per diventarlo si ha bisogno anche dell’aiuto reciproco fondata sulla communio sanctorum. L’aiutarsi reciprocamente non è solo un dovere morale, ma qualcosa di ontologico che ha il suo fondamento sacramentale nel battesimo. Non si diventa santi da soli né per se stessi, ma per la Chiesa, tutti siamo quindi chiamati a «dare il nostro apporto e contribuire alla crescita e alla evoluzione di questo organismo che è destinato a costituire, insieme con il suo capo, e da lui vivificato, il “Cristo totale, capo e membra”» (p. Molinari). Poiché la Chiesa è una comunione si può anche affermare che: più si vive una vita di comunione con Dio e con gli altri più si partecipa e si cresce nella santità “della” Chiesa.


4. Apostolica

Con il termine apostolicità, in senso stretto, si intende il primato assoluto degli apostoli per la Chiesa di ogni tempo e luogo, un primato qualitativo e causale, «in quanto la Chiesa ha in essi la propria origine: con gli apostoli la Chiesa esiste; invero Cristo l’ha istituita essenzialmente sui Dodici e la loro missione, con i poteri di ministero che comporta, basta a costituire in modo fondamentale la missione apostolica della Chiesa» (Congar).
La Scrittura ci dà testimonianze indirette che derivano dallo studio del ruolo dei Dodici, dove spicca la figura di Pietro, scelti da Gesù fin dall’inizio della sua vita pubblica (Mc 3,13-15), in rappresentanza delle dodici tribù di Israele (Mt 19,28). Ad essi è confidata la missione di parlare in suo nome (Mc 6,6-13), di esercitare l’autorità nella comunità (Mt 16,18), di ammaestrare e battezzare tutte le nazioni (Mt 28,18). Negli Atti essi hanno un «posto di ministero e di apostolato», come si dice al momento della scelta di Mattia, dettata dalla necessità di ricomporre il numero originario, dopo la fuoriuscita di Giuda (At 1,15-26). La primitiva comunità vi ricorre quando si trova ad affrontare i primi conflitti (At 15,2) e lo stesso Paolo, pur mantenendo una libertà critica, non ne mette in discussione l’istanza, recandosi a Gerusalemme due volte per consultare Cefa e incontrare “le colonne” in segno di comunione (Gal 1,18; 2,6-9). Col passare del tempo tale ruolo direttivo diventa un fondamento e l’Apocalisse scrive: «Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello» (21,14).

4.1.Tre tipologie: apostolicità di origine, di fede e di successione nel ministero. A partire dal XVI se­colo, per rispondere al protestantesimo, gli apologisti fanno un sostanziale ricorso alla nota di apostolicità, mostrando come il cattolicesimo poteva rivendicare l’elemento della durata che mancava agli avversari. Essa è vista nella composizione di tre elementi: l’apostolicità di origine, di fede e di successione. La prima (anche chiamata apostolicità di fondazione) pone l’origine della Chiesa nella missione degli apostoli, con ovvio riferimento al Cristo che sta alla base della loro elezione; la seconda intende sottolineare la fedeltà e la continuità della Chiesa alla dottrina degli apostoli e dei padri, non solo nei contenuti della fede, ma anche nelle tradizioni e nei riti; la terza sostiene l’idea cheil mandato conferito agli apostoli succede in alcuni successori che sono i vescovi, con particolare riferimento al papa, la cui validità legittima della successione era particolarmente evidente.
La terza tipologia era stata particolarmente contestata da Lutero che privilegiava l’apostolicità di fede, sostenendo che non è la successione visibile dei vescovi a rendere apostolica una Chiesa bensì la sua fedeltà alla Parola, l’unica a poter giudicare indistintamente tutti i cristiani, pastori o meno.L’effetto fu una prevalente considerazione dell’aspetto negato da parte della teologia cattolica, tanto da identificare apostolicità e successione, dato comune almeno fino al XX secolo. Per provarla si cercarono testi biblici, dove è presente soprattutto nelle lettere pastorali, e patristici, soprattutto Ireneo, Tertulliano e Agostino, con l’uso di stilare liste di vescovi succeduti su una cattedra, tanto da produrre la ricerca di una linea diretta temporale delle sedi episcopali con qualche singolo apostolo. L’apostolicità divenne così principalmente una dottrina sul trapasso dei poteri apostolici nel ministero episcopale. Rinforzata dalla difficoltà a provare con validi argomenti le altre due forme, questa idea, che era pure più facilmente afferrabile, portò gli apologisti a concentrarsi su di essa, come la sola che poteva garantire la visibilità della continuità.
Attualmente le posizioni sono in fase di riavvicinamento e se da parte protestante si riflette mag­giormente sul ruolo dell’episcopato, da par­te cattolica si precisa il ruolo strumentale dei vescovi nei confronti della Parola e della tradizione.Tuttavia è dottrina cattolica che il ministero episcopale non è di semplice istituzione ecclesiastica bensì si fonda su quello degli apostoli che trapassano il loro mandato nei vescovi, considerati loro successori (cf. Lumen gentium20: EV 1/333). Il rapporto va precisato: gli apostoli conservano un ruolo normativo unico e hanno caratteristiche che non possono essere prestate a nessuno (si pensi alla testimonianza oculare del Risorto), essi, inoltre, normano la tradizione, mentre i vescovi sono ad essa sottoposta. Si può quindi riconoscere che quello che passa dagli Apostoli ai vescovi è «il loro carattere di pastori e di maestri nelle Chiese da essi fondate» (C. Militello). Da notare, infine, che nessun vescovo, salvo il papa, succede a un apostolo in particolare, ma la successione è collegiale. Ciò porta a dire qualcosa sul ministero del papa.

4.2. Apostolicità e romanità.Al centro della comunione visibile delle Chiese e come loro punto di riferimentosi colloca il ministero universale del Vescovo di Roma, successore di Pietro. Suo compito essenziale è di «presiedere nella carità alla comunione delle Chiese». Lumen Gentium 18 ha ripreso e precisato su questi punti un insegnamento che, come si è visto nella parte storica, costituisce la conclusione di un sviluppo teologico e pastorale. La finalità ultima e fondamentale del ministero petrino è l’unità della Chiesa, la comunione delle Chiese. Il primato romano appartiene quindi al mistero della Chiesa nel suo pellegrinaggio terreno. Non lo si potrebbe ridurre senza ferire il progetto di Dio. Questa coscienza ecclesiale ha trovato il suo momento culminante nel Vaticano I (Pastor aeternus) (DS 3050-3075).
Il Vaticano II ha riaffermato il primato giuridico del Romano Pontefice (LG 22b), collocandolo nel contesto dell’intera Chiesa e del collegio episcopale, unito al suo capo, «pure soggetto di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa». Se quindi al Romano Pontefice viene attribuita «tutta la pienezza di questa suprema potestà», come dice la Pastor aeternus (DS 2064), essa non toglie nulla alla “pienezza” che appartiene anche al corpo episcopale. Il papa possiede questa pienezza a titolo personale, mentre il corpo episcopale la possiede collegialmente, unito sotto l’autorità del Papa. Il Vaticano II recepisce quindi il dato tradizionale sul ministerium petrinum, mapone in rilievo la correlazione tra il primato e la collegialità dell’episcopato. Sulla questione del ministero papale molto importante è l’enciclica di Giovanni Paolo II, l’Ut unum Sint.

4.3. La storicità dell’apostolicità. L’apostolicità esprime un dono e un compito: il dono è quello della durata contenuta nella promessa di Gesù che la Chiesa rimarrà nel tempo e che le forze del male non potranno distruggerla (Mt 16,18); il compito è di conservare fedelmente l’iden­tità ricevuta. Gli apostolisono perciò quella realtà cui la Chiesa deve sempre far rife­rimento nel cammino della storia. La continuità è dettata dalla fedeltà. Ciò non spinge univocamente all’indietro, perché gli Apostoli sono anche coloro checirconderanno la seconda venuta del Figlio dell’uomo e ne proclameranno la signoria (Mt 19,28).
Questa proprietà non spinge quindi solo verso il passato, ma apre alla contemporaneità e al futuro. Il riferimento alla passato va vissuto attraverso una tensione aperta, perché lo Spirito non ha cessato di assistere la Sposa. L’apo­stolicità impedisce la creazione di una Chiesa nuova, slegata dalle sue radici ma si oppone pure alla creazione di una Chiesa imprigionata in un punto preciso del tempo. Il nucleo originario, che è oggetto della traditio, non è un puro ricordo, ma qualcosa che esige di essere incarnato di volta in volta in situazioni nuove, tempi e uomini diversi. Luigi Sartori ne ricava due impegni concreti: non confondere la sostanza della Parola con i vari modelli condizionanti del tempo e tenere sempre viva la gerarchia delle verità per cui queste non possono essere considerate tutte allo stesso modo (dogma trinitario o il modo di celebrare un rito non sono la stessa cosa).

4.4. Tutta la Chiesa è apostolica. Nel credo diciamo che “la”Chiesa è apostolica, non solo la gerarchia o alcuni membri, quindi tutto il popolo di Dioè responsabile della fedeltà alla testimonianza degli apostoli. La funzione episcopale non è al di fuori del popolo di Dio, ma all’interno con il compito specifico di garantire e tutelare tale apostolicità. In altri termini si può dire: non è l’apostolicità che è in fun­zione dell’episcopato, ma è l’episcopato che è in funzione dell’apostolicità. Se è una proprietà comune, tutti i cristiani devono sentirsi inviati a testimoniare la fedeltà apostolica al Vangelo. I vescovi hanno questo compito in forma di ministero, ma ciò non li rende più apostolici degli altri, né li spinge a esercitarlo in solitudine, loro compito è anche quello di stimolare tutti i fedeli all’esercizio comunionale di questa proprietà.
Lo stesso rapporto funzionale si realizza nel rapporto tra apostolicità di ministero e apostolicità dottrina: non è la prima che regola la seconda ma sono i vescovi che devono regolare il loro ministero sottomettendosi alla fede della Chiesa (simbolo della cattedra). Ne deriva che il rispetto e l’obbedienza che si devono al ministero episcopale non conducano a un credito incondizionato. Tommaso sosteneva che non si deve obbedire ai vescovi cattolici, anche se le­gittimi, quando i loro insegnamenti contrastano con le Scrit­ture, al punto da ritenere che è compito dei fedeli rimproverare pubblicamente i vescovi quando questi deviano in questioni di fede. Tutti siamo condizionati, ciascuno per la sua parte, dalla fede della Chiesa. L’apostolicità è l’identità di missione della Chiesa presente con gli apostoli e tra gli apostoli e Cristo.


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