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Friday, March 7, 2014

SACRAMENTARIA

SACRAMENTARIA

INTRODUZIONE

La teologia sacramentaria è articolata in sacramentaria generale e sacramentaria speciale.

Un corso teologico prevede questi momenti:

-        momento contestuale: come si vive e si pensa oggi. E’ l’auditus temporis, culturae et theologiae (ricezione dei sacramenti nel contesto contemporaneo, status quaestionis della teologia sacramentaria);
-        momento fondativo: come si è vissuto e cosa si è pensato ieri. È l’auditus fidei in historia (fondazione biblico-patristica e magistero nel suo sviluppo, ermeneutica storica nell’orizzonte di una circolarità fra lex credendi, orandi e vivendi);
-        momento sistematico: nuova proposta per vivere e pensare oggi (si parte dall’oggi per arrivare all’oggi). E’ l’intellectus fidei, spei et caritatis (prospettiva sistematico-organica e interdisciplinare, visione sintetico-categoriale: trovare una categoria che faccia da sintesi al percorso sistematico, sempre nel suddetto orizzonte di circolarità tra lex credendi, orandi e vivendi).

Dunque questo sarà il nostro percorso:

-        primo punto sarà la contestualizzazione antropologica nell’orizzonte ecclesiale attuale e nella prospettiva culturale, interculturale e interreligiosa contemporanea;
-        secondo punto sarà dato da: fondazione biblica sia nella testimonianza cristica come in quella ecclesiale del NT, sia nella prospettiva veterotestamentaria, fondazione patristica negli scritti, nell’esperienza liturgica e nella vita dei Padri, percorso diacronico dello sviluppo e del rapporto fra le tre leges nella storia della teologia dal Medioevo a oggi, in uno sguardo ecumenico, con particolare sottolineatura all’apporto dei Concili e del Magistero;
-        terzo punto sarà la prospettiva sistematica e interdisciplinare nella quale sono colte le varie problematiche sacramentali nella circolarità della riflessione teologica, liturgica, morale, etc. e infine vi saranno alcune questiono sull’oggi.

Circa l’approccio alla Sacra Scrittura, ne abbiamo di diversi tipi, tra cui la tipologia (cfr. 1Cor 10,1-6: l’AT si compie in Cristo e viene riletto alla luce di Cristo): nell’AT troviamo il typos, l’evento Cristo porta a compimento queste realtà e nel NT i sacramenti o altre realtà divengono gli antitypoi (per esempio l’esodo è tipo della salvezza della Chiesa, oppure il diluvio è tipo del Battesimo, oppure Cristo è il nuovo Adamo). La tipologia dunque è analogia anche storico-teologica e non solo allegorica: si tratta di analogia in senso teologico (DH 806), storico (tratta di eventi storici e non di miti: Agostino dice factum audivimus, mysterium requiramus) e teologica (tratta di eventi teologici). Il percorso è questo: vi è il fatto, la storia rilegge il fatto con la ragione, mentre il mistero rilegge il fatto alla luce della fede. Di qui la domanda di Lessing: come può un fatti singolare pretendere di aver valore universale per tutti i tempi? Bisogna sempre leggere i fatti sempre alla luce della ragione e della fede: dunque Cristo può essere semplicemente un fatto, oppure un avvenimento (quando Cristo lo si legge solo con la ragione) oppure un evento (quando si legge Cristo nella fede); mentre l’avvenimento è e rimane nel passato (e lo si ricorda con una cerimonia), l’evento invece viene ripresentato nel presente (si pensi alla liturgia e alle celebrazioni). Quello di Cristo non è solo un avvenimento (che è culturale), ma l’evento salvifico che riviviamo in ogni celebrazione.
Cristo è però molto di più dell’evento pasquale, in quanto è anche alfa e omega della storia.

Andiamo ora all’auditus temporis, culturae et theologiae.
Scrive Romano Guardini nel 1923: “L’aspetto visibile, concreto della religione, il rito eil simbolo, viene compreso sempre meno”. E oggi?
I sacramenti oggi non vengono capiti e non vengono accolti: sono visti come residui di magia e superstizione, o come segni folkloristici; oppure vengono accolti senza essere capiti, in nome del fascino del misterioso o di una nostalgia di appartenenza ad una determinata comunità sociale (come nei piccoli paesi). Anche nelle Chiesa i sacramenti possono essere non accolti e non capiti: alcuni li ritengono ininfluenti per la vita spirituale e non necessari (in nome di un rapporto “diretto” con Dio) o imposti (dalla tradizione della Chiesa); oppure possono essere accolti senza essere capiti, sia in nome del fascino del misterioso, sia perché sono una sorta di distintivo.
Ma i sacramenti possono essere anche capiti e accolti: in questa prospettiva essi sono un punto di riferimento nelle tappe della vita, rendono operante oggi il rapporto con Dio, comunicano la salvezza di Cristo, sono segni di appartenenza alla Chiesa, sono fonti di vita spirituale, permettono la comunione oltre il tempo. Ma i sacramenti formano la Chiesa? Daremo una risposta a questa domanda.

Circa l’auditus culturae, con la post-modernità abbiamo dei cambi di paradigma: nel Medioevo si aveva una lettura teocentrica della realtà, ordinata come dono da Dio, ma lettura in chiave platonica, dove l’idea della cosa è in Dio. Tra il I e il II millennio l’attenzione si sposta al soggetto (si pensi all’importanza in teologia morale dell’intuizione di Abelardo, per cui l’intenzione di un’azione è fondamentale per la moralità dell’azione: intenzione significa riferimento al soggetto) e all’umanità (l’umanità di Cristo diviene soddisfazione per Dio: è la tesi di Anselmo). Nel XIII secolo permane una lettura teologica della realtà, ma in chiave aristotelica: la res è immanente, la forma dentro l’ente è voluta da Dio. La modernità scientifica mantiene la prospettiva del XIII secolo, mentre la modernità culturale ha invece una lettura antropocentrica della realtà, ma sempre in chiave aristotelica: non è più Dio a stabilire l’ordine delle cose, ma è l’uomo. Nelle ideologie del XIX e XX secolo la lettura rimane antropocentrica, ma in chiave platonica: l’uomo non solo decide l’ordine degli enti, ma stabilisce anche la realtà degli enti stessi (per cui qualcuno decide che il proprio Stato è tutto). Questa prospettiva si mantiene anche nella post-modernità, ma a decidere del valore della realtà non è più una ragione ideologica, ma il singolo uomo: ecco dunque l’individualismo che caratterizza il nostro tempo.
In sintesi, si parla dall’homo faber (dove il mondo è un libro da leggere, ma le parole e la sintassi è di Dio), all’homo creator (dove il mondo è un libro da scrivere: nella modernità culturale le parole sono dell’uomo, ma la sintassi è di Dio; nelle ideologie invece parole e sintassi sono dell’uomo) al postumano (dove l’uomo è un libro da scrivere: non più solo sugli eventi, ma l’uomo decide su tutto, compreso se stesso; non si accoglie più la realtà voluta da Dio).
L’esito della modernità che ha assolutizzato la ragione sono state tutti gli orrori del secolo scorso, le crisi economica, energetica, ecologica di oggi. Tutto questo genera oggi una grande sfiducia nella ragione, per cui essa è incapace di elaborare sistemi di valore universale. La ragione, incapace di indagare la realtà, si ripiega in una ragione debole, che può risolvere solo piccoli problemi.

Circa l’auditus theologiae, ci troviamo talora davanti ad ermeneutiche teologiche riduttive. Per lungo tempo, per esempio, si è considerato come teologico solo quanto rientrava nel modello teologico di Tommaso d’Aquino (come nota Gilson). Si hanno ermeneutiche teologiche riduttive quando la riflessione sulla/nella fede non pone in dinamismo dialogico l’auditus fidei e l’auditus temporis, ma ne pone in rilievo uno solo, offrendo così esclusivamente una parola archeologica o relegata nel passato oppure una parola senza radici.

(manca una lezione)

  1. L’INIZIAZIONE CRISTIANA

L’iniziazione cristiana non è altro che la prima partecipazione sacramentale alla morte e resurrezione di Cristo: si noti l’aspetto ontologico. Nelle premesse al RICA, la CEI afferma che è importante richiamare l’attenzione sul fatto che l’itinerario, graduale e progressivo, di evangelizzazione, iniziazione, catechesi e mistagogia, è presentato dall’Ordo con valore di forma tipica per la formazione cristiana: vediamo qui presente la dimensione esistenziale, dopo quella ontologica.
Partiamo dalla Scrittura, come prescrive OT 16 (vs. teologia manualistica, dove la Scrittura doveva servire solo a fornire i dicta probantia) e soprattutto DV 24 (Scrittura anima della teologia: lo aveva già affermato Leone XIII nella Providentissimus Deus). Il punto di partenza quindi non è dato da categorie antropologiche o culturali sull’iniziazione: facciamo teologia sacramentaria (ha un’indagine biblica: mette in rapporto evento cristologico e fede della Chiesa nella loro circolarità) e non teologia della sacramentalità. Indaghiamo i testi del NT: non è un’indagine biblica generale. Nel NT compare un’esplicita terminologia battesimale: non si analizzano dunque possibili simbolismi o prassi battesimali o di iniziazione cristiana.
Nei Vangeli notiamo che manca la descrizione esplicita della prassi battesimale, nonostante si parli di Battesimo: a livello gesuano sono presenti comunque fatti e parole riferite esplicitamente alla terminologia battesimale. Vediamo ora alcuni passi in particolare dove troviamo questa terminologia, senza però che troviamo una descrizione della prassi battesimale:

-        Mc 1,8: “Io vi ho battezzati con acqua, egli battezzerà con lo Spirito Santo”. Battesimo, in greco, significa immersione. Qui si parla dunque di 2 immersioni, una nell’acqua (Battista) e una nello Spirito (Messia). I paralleli di questo testo in Mt e Lc si parla di Spirito Santo e fuoco: il fuoco è il giudizio escatologico. Il Battesimo del Messia ha dunque una valenza escatologica e avviene nell’immersione nello Spirito
-        Mc 10,38-39: “Potete bere il calice che io bevo e ricevere il battesimo che io ho ricevuto”. Il calice, nella Scrittura, indica l’ira di Dio, quindi un elemento che implica una sofferenza. Mc 10 indica dunque la sofferenza di Gesù all’interno del disegno del Padre: anche i discepoli perciò dovranno soffrire come Gesù. Nella Bibbia “battesimo” indica i flutti che sommergono (cfr. Sal 42,8; 69,2-3; 2Sam 22,5): si riferisce ancora dunque alla sofferenza, e qui alla sofferenza di Gesù e dunque anche al martirio dei discepoli. Dunque, per i discepoli, sembra che il Vangelo si riferisca al martirio e non al Battesimo. L’acqua, per gli Ebrei, non era un elemento connotato positivamente (non è un caso che gli Ebrei non erano navigatori): indicava la morte. Mancano dunque elementi, a livello di Vangelo, per affermare un cammino di iniziazione cristiana. Tuttavia, mettendo insieme questi primi due passi, possiamo dire che il Battesimo: è immersione nello Spirito, ha valenza escatologica, si pone in rapporto con la morte di Gesù (con il possibile martirio del battezzato);
-        Mc 16,15-18: “il credente e battezzato sarà salvo”. Al v. 15 il Risorto ordina di andare dappertutto a predicare ad ogni creatura. L’ordine dato dal Risorto è assoluto, nella prospettiva della totalità. Al v. 16 il Risorto contrappone chi crede e chi non crede: non è automatico che l’annuncio porti alla fede; credere è essere battezzato: non sono due fasi o azioni successive ma realtà complementari di un unico soggetto (i due participi hanno il medesimo articolo, il medesimo soggetto: il participio inoltre indica un’azione dinamica, che continua nel tempo; dunque il credere del battezzato continua nel tempo: l’aspetto ontologico si invera nell’aspetto storico). L’essere battezzati è dunque la manifestazione esterna del credere. Ai vv. 17-18 il Risorto afferma che per chi crede vi saranno effetti, segni che accompagnano chi crede. Questi segno sono conseguenza della comunione del battezzato con Cristo, che provoca un cambiamento sostanziale e azioni ben visibili e incisive. Il nome del Risorto indica l’essenza del Risorto stesso; scacciare i demoni significa la presenza del Regno nei credenti; parlare lingue nuove è dono dello Spirito; prendere in mano serpenti significa dominare il male; bere veleno senza danni significa la vita che non può morire; il bene ai malati è azione del Risorto.

Credere quindi porta all’essere battezzati, che implica dei segni: più credo, più sono battezzato e più porto dei segni. È dunque un processo dinamico, non statico.
Tornando su Mc 16, vediamo come vi sia:

-        un fondamento cristologico: lo troviamo al v. 15 (“andate”) e al v. 17 (“nel mio nome”): il Risorto accompagna l’azione dei suoi discepoli;
-        un fondamento pneumatologico: segno delle lingue nuove;
-        un orizzonte ecclesiologico: si viene battezzati perché raggiunti dai discepoli, si testimonia la propria fede, vi è la presenza del Regno;
-        una valenza antropologica: nel nome del Risorto i battezzati sono risorti.

Il Battesimo non esaurisce il credere ma lo manifesta, ma apre la strada della manifestazione dei segni della vita risorta.
In Mt 28,19-20 troviamo ugualmente a Mc il Risorto come soggetto: tutti i sacramenti hanno stretto riferimento con il Kyrios, a cui è stato dato ogni potere. Anche qui vi è l’imperativo andate, che ha in sé dunque il fondamento cristologico, ma anche una valenza ecclesiologica (è al plurale). Vi è in questi versetti un’inclusione: si è iniziati con il Kyrios (“andate”) e si finisce con il Kyrios (“tutto ciò che vi ho comandato”). Nell’inclusione (nella potenza) del Kyrios vengono fatte discepole tutte le nazioni: Mc diceva “nel mio nome”, qui vi è questa inclusione. Questo comando del Kyrios assume due determinazioni: battezzare e insegnare, mentre in Mc c’era il riferimento a battezzare e ai segni. Il Battesimo non esaurisce il discepolato, occorre una continua ripresa di quanto ha insegnato Gesù.
Dunque, concludendo:

-        in Mc: al Battesimo seguono segni straordinari;
-        in Mt: al Battesimo seguono gli insegnamenti di Gesù che devono essere vissuti.

Il Battesimo, alla luce di questo,costituisce una tappa importante nel cammino di iniziazione cristiana, ma non lo esaurisce.

Vediamo ora gli Atti degli Apostoli:

-        in 2,37-42 si parla del Battesimo di 3000 giudei nel giorno di Pentecoste. Questo lo schema di questa pericope: dono dello Spirito agli Apostoli e parlare in lingue (2,5-13), predicazione di Pietro, pentimento dei presenti, Battesimo, vita nella comunità cristiana;
-        in 10,1-48 si parla del Battesimo nella casa di Cornelio. Questo lo schema di questo pericope: azione dello Spirito su Pietro e Cornelio, predicazione di Pietro, venuta dello Spirito con il dono delle lingue, Battesimo, vita nella comunità.

Gli schemi dunque si somigliano: in entrambi l’azione dello Spirito precede il Battesimo, in entrambi c’è la predicazione di Pietro e in entrambi al Battesimo segue l’inserimento nella vita della comunità.
Il Battesimo è suscitato dal Signore e dallo Spirito nella mediazione ecclesiale: anche in At 8 vi è un’azione che precede il Battesimo e una che la segue. I segni della presenza di Dio in At 8 sono la gioia e la Scrittura.
Dopo il Battesimo si ha dunque partecipazione alla vita della Chiesa: il Battesimo dunque non viene visto come elemento puntuale, che ha senso da solo in rapporto colo dono di Dio, ma rimanda alla vita concreta della comunità dei credenti. Ma questa partecipazione alla vita della Chiesa richiede sempre una rinnovata adesione (dimensione esistenziale che segue a quella ontologica): la vicenda di Simon Mago evidenzia che il Battesimo non garantisce, da solo, l’inserimento nella vita cristiana in modo pieno ed efficace.
Dopo il Battesimo non si ha automaticamente il dono dello Spirito: il battesimo di Filippo non basta a conferire lo Spirito Santo in At 8, ma necessita dell’imposizione delle mani degli apostoli (8,17): il Battesimo è sempre un inizio, ma c’è bisogno di altro.
Concludendo:

-        vi è un agire di Dio che precede il Battesimo: effusione dello Spirito, parlare in lingue;
-        vi sono delle mediazioni che precedono il Battesimo: Scrittura, dialogo personale, predicazione, integrazione di conoscenze precedenti;
-        il rito non è mai isolato, ma integrato da altri momenti: imposizione delle mani
-        importanza dell’inserimento nella comunità.

Passiamo ora a Paolo.
Nelle sue lettere Paolo utilizza alcune immagini traendole dalla Scrittura: esse sono figure (typoi) della realtà. Si pensi a 1Cor 10,1-5. Qui essere sotto la nube e attraversare il mare rimanda al Battesimo, mentre la manna dal cielo e l’acqua dalla roccia sono figura dell’Eucarestia: in Cristo gli antichi segni vengono risignificati e sono visti come immagini delle realtà attuali. Il Battesimo è collegato dunque all’Eucarestia in un unico processo di aggregazione alla comunità: Battesimo ed Eucarestia sono un’unica realtà (molto più ricco di At). Vi è inoltre il riferimento alla necessità del cammino costante nella vita cristiana: come non bastano i doni ricevuti nel deserto da Israele perché esso entri nella terra promessa, così non bastano i sacramenti dell’iniziazione cristiana (aspetto ontologico) per salvarsi (necessità dell’aspetto esistenziale, storico). Dall’iniziazione cristiana devono scaturire la vita in Cristo (aspetto ontologico) e il cammino di sequela Christi (appartenenza esistenziale).
Anche in 1Pt 3,21 troviamo il diluvio indicato come typos del Battesimo.

Quindi l’iniziazione cristiana nel NT:

-        manca una struttura precisa nell’iniziazione cristiana nel NT: vi è però la consapevolezza che non basta il Battesimo;
-        vi è sempre l’iniziativa di Dio (effusione dello Spirito, lingue nuove);
-        coinvolgimento della comunità e non solo del singolo;
-        capacità di coinvolgere altri nella vita cristiana: vi è una dimensione missionaria (cfr. Filippo con l’Etiope);
-        prodigi come segno della presenza di Dio: la dimensione escatologica è realizzata nella vita dei credenti, che diventano testimoni perché realmente risorti in Cristo;
-        il Battesimo non basta all’iniziazione cristiana: necessità di un processo più ampio (es. imporre le mani) e necessità di una sequela Christi.


Passiamo ora ai Padri.
Troviamo che l’iniziazione cristiana si struttura in 3 momenti successivi e strutturalmente legati:

-        catecumenato: il catecumenato antico è un tempo di noviziato, un’istituzione pedagogica, un processo d’iniziazione, di crescita e di apprendistato, per mezzo del quale la totalità della persona si trasforma, orientando la propria vita in forma radicalmente nuova, verso il Dio di Gesù Cristo e la comunità della Chiesa (sempre i sacramenti hanno un orientamento cristologico ed ecclesiologico, sullo sfondo antropologico). Questa istituzione ecclesiale di tipo pastorale-liturgico è nata e consolidata dall’esperienza, fu approvata dall’autorità ecclesiastica, si sviluppò all’interno delle comunità cristiane a partire dalla fine del II sec., si diffuse rapidamente nel III sec. e la prima metà del IV sec., si trasformò nella seconda metà del IV sec., rimase vitale durante il V sec., decadde fino a scomparire nei secoli VI e VII;
-        sacramenti dell’iniziazione
-        mistagogia

Circa l’iniziazione cristiana, le fonti principali sono:

-        gli scritti liturgici e canonici: si pensi agli scritti di Ippolito Romano, alla Traditio Apostolica, ai canoni del Concilio di Elvira (306/314);
-        le catechesi battesimali: in Occidente troviamo gli scritti di Ambrogio (De mysteriis, De sacramentis) e di Agostino (De catechizandibus rudibus), mentre in Oriente troviamo le Catechesi di Cirillo di Gerusalemme, di Giovanni Crisostomo e di Teodoro di Mopsuestia;
-        gli scritti dottrinali: ricordiamo fra questi la Demonstratio apostolicae praedicationis di Ireneo di Lione, il Pedagogo di Clemente Alessandrino, il De baptismo e il De oratione di Tertulliano, il Contra Celsum di Origene, il Testimonia ad Quirinium di Cipriano, l’Itinerarium Aetheriae, l’Oratio catechetica magna di Gregorio di Nissa, il De baptismo contra donatistas, il De unico baptismo contra Petulianum, il De peccatorum meritum et remissione, il De fide et operis di Agostino, il De ecclesiasticis officiis di Isidoro di Siviglia;
-        i libri liturgici: fra essi segnaliamo il Sacramentario Gelasiano.

Guardando all’iniziazione cristiana nel III secolo, fondamentali sono alcune opere: la Traditio apostolica di Ippolito e il De baptismo di Tertulliano per l’Occidente, il Contra Celsum di Origene per l’Oriente.
Consideriamo la Traditio apostolica di Ippolito (forse), che è un testo antico e autorevole. In essa si parla di diverse fasi del catecumenato:

-        ingresso (da postulante a catecumeno) e primo esame a cui i padrini (che presentano il candidato ai responsabili della comunità) rispondono circa i motivi della conversione, lo stato di vita e la condizione sociale e il mestiere svolto (doveva essere compatibile con la via cristiana);
-        periodo catecumenale: durava 3 anni, durante i quali i catecumeni ascoltano le catechesi dopo una liturgia della Parola;
-        elezione (da catecumeno a eletto) e secondo esame sulla condotta morale del catecumeno a giudizio dei catechisti e dei padrini. Si inizia la quaresima e si ascolta il Vangelo: il manuale dei catecumeni era il libro dell’Esodo, mentre il catecumeno leggeva e meditava anche il vangelo;
-        periodo battesimale: settimana precedente la Pasqua, digiuno, letture e catechesi;
-        celebrazione dei riti di iniziazione cristiana: il giovedì santo si lavano, venerdì e sabato santo digiunano, il sabato santo si stava tutta la notte in preghiera con letture e catechesi, al canto del gallo vi era la rinuncia a Satana, l’unzione, la triplice domanda sulla fede, il Battesimo per triplice immersione. Poi i neofiti entrano nell’assemblea dei fedeli in attesa, dove il vescovo amministra la Confermazione per partecipare tutti, fedeli e neofiti, all’Eucarestia;
-        momento mistagogico: prima di partecipare alla comunione venivano loro dati latte e miele (simboli della Terra promessa). Poi ricevevano brevi istruzioni dottrinali del vescovo, che li esortava a vivere rettamente da cristiani.

In definitiva l’esperienza dei catecumeni era un’esperienza di morte e resurrezione (cfr. Rm 6).
Nel primo millennio l’iniziazione cristiana è costituita da un rito fortemente unitario: vi era la triplice domanda della professione di fede, la prima unzione del presbitero, il Battesimo, l’ingresso in chiesa, l’imposizione delle mani e la preghiera del vescovo, la seconda unzione, il bacio della pace e l’Eucarestia. Come si vede, in questo rito vi sono tutti e tre i sacramenti dell’iniziazione cristiana.
Consideriamo ora lo scritto di Tertulliano. Il De baptismo è la più antica e completa esposizione sul Battesimo, prototipo delle future catechesi mistagogiche e prolungamento della tradizione evangelica. Se Ippolito ci descrive i riti, Tertulliano ne mette in evidenza il significato teologico: i due testi sono complementari. Il De baptismo è un prezioso documento che ci offre però anche la prassi liturgica e la dottrina battesimale del III secolo, dove la seconda è fondata nella prima.
In Tertulliano sono presenti e complementari un aspetto esistenziale (i catecumeni devono essersi accuratamente preparati e moralmente lavati) e un aspetto ontologico (teologia dell’acqua, giuramento/appartenenza). Circa l’aspetto esistenziale, per Tertulliano è necessaria una accurata preparazione prima di accedere ai sacramenti dell’iniziazione cristiana: c’è un esame di entrata (come in Ippolito) e vi è una veloce istruzione sulla dottrina e sulla morale cristiana (prima ancora che diventi catecumeno; cfr. De paenitentia); in questo Tertulliano sembra quasi pelagiano (sottolinea lo sforzo umano nella preparazione pre-battesimale). Circa l’aspetto ontologico, nei primi capitoli del De baptismo si sottolinea l’importanza dell’acqua ma vengono lasciate in secondo piano le parole del battezzando (la fede del battezzando) e le parole del ministro (la comunità): qui sembra quasi che Tertulliano si contraddica rispetto al De paenitentia, dove era importante la moralità del catecumeno, mentre qui Tertulliano insiste sull’importanza dell’acqua. Nell’acqua Dio opera con potenza che misteriosamente è trasmessa all’acqua che, per creazione, ha caratteristiche battesimale (fecondità e liberazione); la nascita e la salvezza viene dal Battesimo e si ha un fondamento cristologico del Battesimo stesso. Uscito dall’acqua battesimale, il battezzato è accolto dalla comunità e il Battesimo segna una sua nuova nascita (oltre all’aspetto cristologico, vi è sempre quello ecclesiologico e antropologico): la Chiesa è la nuova Madre del neofito, diventato Figlio di Dio. Accanto alla nuova nascita, il Battesimo è colto come liberazione dal diavolo, effetto della vittoria di Cristo: inizia qui la soteriologia dei “diritti del demonio” (Cristo avrebbe pagato con il suo sangue il riscatto perché potesse liberare l’uomo dal diavolo), che verrà abbandonata unicamente con Anselmo d’Aosta nel Cur Deus homo: il demonio non ha diritti, perché è un usurpatore che ha ingannato l’uomo. Dunque l’acqua è segno di fecondità ma anche di distruzione: questo viene applicato al Battesimo, perciò l’acqua diviene fecondante e rigenerante (nuova nascita, la Chiesa diventa madre, il neofita diventa Figlio di Dio), ma anche distruggente (cancella il peccato e libera dal demonio). Pur avendo l’acqua, per invocazione dello Spirito Santo, una forza santificante datale da Dio in Cristo, tuttavia occorre la fede e l’impegno del battezzando.
Altro schema utilizzato da Tertulliano e dai Padri è quello del Battesimo come giuramento: come il soldato giura fedeltà all’imperatore e viene arruolato, così nel Battesimo il neofita viene segnato con la fede e il neofita d’ora in poi appartiene a Cristo.
I Padri leggono tipologicamente 1Cor 10,1-4: il Battesimo non lo si vede solamente nel mare, ma anche nell’acqua che sgorga dalla roccia. Vi è un’ermeneutica patristica della tipologia biblica: il mare è tipo del Battesimo, l’uscita dall’Egitto è tipo dell’abbandono dell’idolatria pagana, la traversata del Mar Rosso è immagine dell’ingresso nel catecumenato, la traversata del Giordano è il Battesimo.

Vediamo ora Origene. Per l’Alessandrino, la liberazione di Israele dall’Egitto, il suo pellegrinare nel deserto e l’ingresso nella Terra sono prefigurazione del cammino cristiano. In Origene il cammino catecumenale è ancora segnato da tappe come in Ippolito Romano. Anche per Origene l’uscita dall’Egitto è immagine dell’abbandono dell’idolatria pagana, la traversata del Mar Rosso è immagine dell’ingresso nel catecumenato e la traversata del Giordano è il Battesimo. Molto importante è l’ermeneutica biblica in Origene: per i rudes vi è l’ermeneutica letterale, mentre per i perfecti vi è l’ermeneutica allegorica.
Considerando ancora 1Cor 10, l’acqua dalla roccia viene vista da Ambrogio come immagine del Battesimo; la manna dal cielo è l’Eucarestia dono di Dio, mentre l’acqua della roccia è il Battesimo ma anche il Sangue scaturente da Cristo (due ermeneutiche diverse in 2 opere diverse, De mysteriis e De sacramentis)
Dunque, la “celebrazione dell’iniziazione cristiana non è solo il culmine del “catecumenato” e il compimento del cammino, ma l’inizio di una vita nuova ottenuta dal lavacri di rigenerazione nello Spirito Santo, orientata verso il bene per piacere a Dio, attraverso una viva esperienza ecclesiale sorretta dalla catechesi e una costante attuazione esistenziale di quanto appreso durante il lungo periodo catecumenale”. Importantissimo, dunque, è l’unione fra aspetto esistenziale e aspetto ontologico.

Molto importante in antichità era il momento della domenica in albis: cfr. i brani di Agostino nelle slides. Otto giorni dopo il Battesimo i catecumeni deponevano le albae: ma, nota Agostino, spogliarsi dell’abito bianco, non significa deporre quell’essere rivestiti di Cristo che si è ricevuto nel Battesimo. Agostino, nei suoi discorsi e catechesi per questa domenica, riprende anch’egli Rm 6; inoltre egli vede la domenica in albis come prefigurata nel rito della circoncisione, che si compiva all’ottavo giorno.

L’iniziazione cristiana inizia ad entrare in crisi nel IV-V sec., con la svolta costantiniana e, successivamente con Teodosio, con la proclamazione del Cristianesimo a religione di Stato. Questo comportò un’ampia diffusione del catecumenato, dal momento che da esso è riconosciuta l’appartenenza cristiana a livello civile (Agostino nel Sermo 46 dice che cristiani sono anche i catecumeni, oltre ai fedeli). Si ebbe inoltre un forte flusso migratorio dal nord con l’invasione dei barbari: fra questi popoli succedeva che la conversione del capo portava poi alla conversione del popolo, giungendo a conversioni e battesimi di massa che rendevano impossibile il catecumenato.

Vediamo meglio l’itinerario catecumenale:

-        la signatio: si entrava nel catecumenato e si diventava audientes del libro dell’Esodo (letto tipologicamente);
-        si diveniva poi electi;
-        nomendatio: il diacono annunciava i nomi di quanti sarebbero stati battezzati e, durante la Quaresima, essi divengono competentes, cioè ricevono il Simbolo della fede e il Pater, che vengono appresi;
-        infine vi è la celebratio: avveniva nella Veglia Pasquale e venivano amministrati tutti e 3 i sacramenti dell’iniziazione cristiana.

Nella fase decadente del IV-V secolo il catecumenato viene ridotto alla sola Quaresima ed inoltre veniva protratto moltissimo, anche fino alla fine della vita: infatti importava unicamente l’acquisizione dei diritti civili, e il differimento del Battesimo serviva a non assumersi gli impegni derivanti dal sacramento. Il catecumenato perciò diviene scadente in quanto ridotto e senza esame e protratto per paura delle pubbliche penitenze (se si cadeva in peccato dopo il Battesimo); a questo però fanno da contraltare eccellenti catechesi mistagogiche di ottimi vescovi, che in tal modo tentano di supplire il catecumenato ridotto.

Concludendo circa l’epoca patristica, dobbiamo dire che i Padri sottolineano che:

-        la storia della salvezza è orientata e compiuta in Cristo: il vertice e compimento di questa storia è Cristo, si viene inseriti in questa storia attraverso Cristo, la mistagogia spiega l’inserimento in Cristo (testo fondamentale è Rm 6);
-        il popolo di Dio, la Chiesa, è salvato e rende partecipi della salvezza: la Chiesa è madre poiché concepisce figli unendosi al Verbo (i quali però divengono essi stessi madri). Il catecumenato non è una tecnica ma un’esperienza vitale generante. La comunità locale è attiva ed è rappresentata dai catechisti e dai padrini ma soprattutto dal vescovo; inoltre tutta la comunità digiuna per tutta la Quaresima. Il cammino è personale, non massificato e anonimo, non individuale e isolato, ma è all’interno di una comunità che genera;
-        il catecumeno è già considerato christianus: il catecumeno è già visto come membro della Chiesa. Il catecumenato non è solo un tempo pedagogico, sociologico, giuridico, anagrafico, ma ha un valore sacramentale-teologico;
-        il Battesimo è ingresso e permanenza nella salvezza: il Battesimo introduce e apre all’alleanza (salvezza), e immagine di questo è l’ingresso nella Terra promessa. Il Battesimo impegna tutta la vita come permanenza nell’alleanza e questo impegno è nella caritas. Il Battesimo, proprio per questo, richiede dunque una “formazione permanente”.

Vediamo ora il Medioevo e il XX secolo.
Il motivo della decadenza del Battesimo degli adulti è dato dalla diffusione del Battesimo dei bambini, anche se fino al IX secolo il secondo è ancora inferiore al primo. La notevole mortalità infantile invita al Battesimo dei bambini e inoltre sempre di più senza aspettare la veglia pasquale. In genere i genitori partecipano ad una sorta di cammino catecumenale al posto dei bambini.
Carlo Magno tentò di stabilire, per motivi politici (Impero stabile), una liturgia uniforme e “romana” attraverso la celebrazione dell’iniziazione cristiana: si introduce perciò il Sacramentario Gelasiano e si dà un’inchiesta ai metropoliti.
Sino al XII secolo sono prescritti pontificali nei quali si sottolinea l’unità della celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana. Tuttavia, la Confermazione si staccò progressivamente, divenendo autonoma e riservandola al vescovo. Ciò è dovuto:

-        alla scomparsa del catecumenato;
-        al Battesimo dei bambini fatta dai presbiteri, lasciando al vescovo la Confermazione: la Confermazione perde in tal modo valore, perché non ritenuta essenziale per la salvezza.

Dal IX secolo la Confermazione diviene autonoma: il Battesimo dei bambini si allarga (ministro del Battesimo è il sacerdote) e la cresima è differita perché prerogativa del vescovo. Si cercò di giustificare teologicamente questa separazione fra Battesimo e Confermazione.
Quale valore ha il Battesimo nel Medioevo? Vi è un’importanza laica del Battesimo: è segno di appartenenza alla comunità sociale (christianitas = societas). Tuttavia il Battesimo perde importanza a livello ecclesiale: il Battesimo è ormai universale e dato per scontato. Importante perciò diventa essere continentes (monaci) o almeno praedicatores (chierici). La societas e ecclesia si divide in 3 ordines (l’ordine è garanzia che Dio domina sulla realtà): oratores, bellatores, laboratores nella società, continentes, praedicatores, coniugati nella Chiesa. La gerarchia dei differenti stati di vita poggia sul postulato che la condizione carnale sia deteriore: più ci si allontana dalla carne, identificata con la sessualità, tanto più si è perfetti. In questa prospettiva, il matrimonio, pur essendo un sacramento, non ha alcun valore positivo: rappresenta unicamente un rimedio alla concupiscenza e una concessione alla debolezza umana. Questa visione pessimista della condizione dei laici nonché del loro ruolo della Chiesa non è appannaggio di qualche autore isolato o estremista. Viene condivisa anche dagli stessi fedeli, che non riescono ad intravedere alcuna salvezza se non in un’unione assai intima con il mondo dei religiosi. Tuttavia la visione è più complessa.
Nell’ambito della letteratura monastica medievale convivono due tendenze, una di rifiuto e l’altra di accoglienza verso il mondo rappresentato dal laicato, soprattutto dalla donna e del matrimonio. Anche in ciò che riguarda la donna e il matrimonio, quali espressioni tipiche del mondo, i monaci conservano uno sguardo positivo. Donna e sesso sono talora assunti a parametro della stessa esperienza religiosa (si pensi al Cantico dei Cantici, che è uno dei testi più letti nel Medioevo monastico).

Guardiamo ora al Vaticano II, nel quale si riscopre l’iniziazione cristiana: Battesimo, Confermazione ed Eucarestia hanno un’intrinseca unità (SC 71) e sono detti sacramenti dell’iniziazione cristiana (AG 14; PO 2): cfr. anche gli altri passi. Ci concentriamo su AG 14: leggere bene! I catecumeni non devono solo apprendere verità dogmatiche o norma morali, ma devono essere portati all’incontro con Cristo. Successivamente si mette in evidenza la dimensione ecclesiologica, quando si parla di celebrazione del memoriale della morte e resurrezione del Signore con tutto il popolo di Dio. L’iniziazione cristiana non deve essere solo opera dei catechisti e dei sacerdoti, ma di tutta la comunità (si tratta della Chiesa particolare); inoltre si sottolinea ancora una volta la dimensione missionaria della Chiesa, che tutti i battezzati devono coltivare. I catecumeni, come già diceva Agostino, sono già uniti alla Chiesa e non è raro che essi conducano già una vita ispirata alla fede, alla speranza e alla carità.
Pasquato ha affermato che il Vaticano II non ha voluto riprendere passivamente di valori della Chiesa antica, ma ha voluto riappropriarsi di valori che permangono tali nel tempo, facendoli interagire con le attuali situazioni storiche.
Da qui dunque la riforma dei libri liturgici (v. sulle slides). Nei praenotanda dei vari rituali si trovano notizie molto preziose: i praenotanda generalia del RICA riprendono AG; l’iniziazione cristiana non è altro che la prima partecipazione sacramentale alla morte e resurrezione di Cristo (configurazione ontologico-sacramentale a Cristo). Si dice anche nel RICA che il tempo della purificazione e dell’illuminazione deve coincidere con la Quaresima e la mistagogia deve essere inserito nel Tempo Pasquale: l’iniziazione cristiana deve rivelare chiaramente il suo carattere pasquale. Sul piano esistenziale l’iniziazione cristiana deve avvenire con gradualità in seno alla comunità cristiana: quest’ultima deve non solo pregare per i catecumeni, ma anche incoraggiarli in un orizzonte di conversione per corrispondere più generosamente alla grazia dello Spirito Santo. La CEI, nelle premesse al RICA, richiama l’attenzione sul fatto che l’itinerario progressivo di evangelizzazione, iniziazione, catechesi e mistagogia è presentato come la forma tipica per la formazione cristiana. In Sacramentum Caritatis 17, Benedetto XVI afferma che, se l’Eucarestia è fonte e culmine della vita della Chiesa, ne consegue che il cammino di iniziazione cristiana ha come suo punto di riferimento la possibilità di accedere a questo sacramento: bisognerà dunque verificare se nelle comunità cristiane è percepito il rapporto fra Battesimo-Confermazione-Eucarestia (in questo ordine!); infatti noi veniamo battezzati e cresimati in ordine all’Eucarestia: è necessario far comprendere dunque questo orizzonte unitario. Il Battesimo, prosegue il Papa, costituisce la porta di accesso a tutti i sacramenti, dal momento che con esso si viene inseriti nel Corpo di Cristo: tuttavia è la partecipazione al Sacrificio eucaristico a perfezionare in noi il dono battesimale; l’Eucarestia porta a pienezza l’iniziazione cristiana.

Vediamo alcuni aspetti sull’iniziazione cristiana, circa la sua natura e la presenza di una prospettiva teologica o cronologica e in una prospettiva soteriologica, pneumatologica-trinitaria, ecclesiologica ed eucaristica.
Spesso abbiamo dei riduzionismi: si identifica infatti l’iniziazione cristiana col momento del catecumenato; in realtà nell’iniziazione cristiana si tratta essenzialmente della valenza teologico-sacramentale colta in chiave cristologico-pasquale. Falsini afferma che l’iniziazione cristiana non è da considerarsi:
-        un semplice fatto educativo che tende a dare corpo e valori insiti nella coscienza umana;
-        un cammino dove si impara un comportamento, né un atto giuridico richiesto dalla situazione sociologica cristiana;
-        un rituale di appartenenza giuridico-religiosa ad una comunità con ovvi impegni di rapporti determinati;
-        un sistema moralistico per far apprendere norme di condotta cristiana.

Invece, secondo Falsini, che riprende AG 14, l’iniziazione cristiana esprime il mistero e la realtà che introduce l’uomo nella vita nuova, sia trasformandolo nel suo essere (aspetto ontologico) sia impegnandolo personalmente (aspetto esistenziale) sia integrandolo in una comunità (aspetto ecclesiologico) che lo accoglie come suo membro (Battesimo), gli dona lo Spirito (Cresima), lo ammette alla mensa della Parola e dell’Eucarestia (Eucarestia): l’uomo in tal modo raggiunge la sua identità cristiana, che poi dovrà sviluppare nella sua esperienza di vita perché essa raggiunga la sua pienezza.
La realtà dell’iniziazione cristiana è il mistero pasquale di Cristo, morto e risorto, applicato al credente, che muore alla vita precedente (peccato) per vivere la nuova vita di risorto: è dunque una dinamica di vita e di morte. La medesima realtà viene significata e comunicata mediante i 3 riti sacramentali, con modalità e finalità diverse.
Possiamo vedere 2 fasi:

-        nella prima la modalità cristologica formativa è data dalla sequela Christi in cui il soggetto ha quale cifra antropologica esistenziale la conversio. Nella fase catecumenale la fede celebrata si presenta con una dimensione parziale in quanto il soggetto non può partecipare alla celebratio perché non è ancora membro a pieno della Ecclesia. La preghiera che ne deriva sarà “soggettiva” e del cuore (il catecumeno, leggendo il libro dell’Esodo, pensa di compiere soggettivamente lo stesso cammino), ispirata alla professio fidei, soprattutto biblica, e orientata verso la celebratio fidei quale culmen;
-        nella seconda fase la modalità cristologica formativa è la configuratio Christi, in cui il soggetto ha come cifra antropologica esistenziale la conversatio, ossia una disposizione permanente, una connaturalità alla conversione come status et modus vivendi, mentre la conversio si pone sul piano fattuale e contingente. La conversatio è una realizzazione a-posteriori del soggeto, la conversatio è una permanenza a-priori del soggetto. In questa fase in cui la celebratio fidei è l’a-priori costitutivo, anche la fede pregata dipende e si invera dalla e nella celebratio fidei.

Vediamo la prospettiva cronologica. Si è iniziati ai sacramenti: la catechesi è orientata alla liturgia. Ma se la catechesi è orientata ai sacramenti, dopo i sacramenti la gente va via dalle parrocchie. In tal modo non abbiamo più un autentico catecumenato. Si è invece iniziati verso i sacramenti (questa è la prospettiva teologica): la catechesi è finalizzata alla vita cristiana e i sacramenti sono dei momenti importanti all’interno di essa, ma l’orizzonte rimane sempre la vita; inoltre si è iniziati dai sacramenti: la liturgia precede la catechesi, che diviene mistagogia. Quindi la liturgia è culmen e la catechesi diviene catecumenato; ma allo stesso tempo la liturgia è fons e la catechesi è mistagogia. Sono questi i due aspetti della prospettiva teologica.


  1. IL BATTESIMO

Guardiamo innanzitutto il fondamento biblico. Partiamo dalla tradizione di Israele:

- simbolismo dell’acqua: ha 3 aspetti:
1) morte: Dio libera e salva dalla morte. Si guardi a Gen 1,6-10, in cui Dio permette la vita separando le acque creando il firmamento (che è segno della fedeltà di Dio): le acque sono segno del male e Dio salva dal male e dalla morte. Ma Dio lotta anche contro i mostri del mare (diverse citazioni nei Salmi). In alcune preghiere inoltre è immagine di angoscia mortale (2Sam 22,5 e nei Salmi). Nell’evento fondante inoltre Israele si salva dall’acqua (Es 15; Is 51), segno del male, che non ci sarà nella nuova creazione (Ap 21,1);
2) vita: Dio dona la vita. L’acqua è un bene per la creazione (Gen 2,10-14), l’acqua dalla roccia salva il popolo nel deserto (Es 16; Nm 20), l’anelito ai corsi d’acqua è immagine dell’orante (Sal 42), sulle rive dell’acqua (si tratta dell’acqua di fiume e non di mare, che è distruttiva) crescono alberi molto fruttuosi (Ap 22,1);
3) purificazione: Dio purifica dall’impurità. Naaman guarisce dalla lebbra (la lebbra rende il corpo insensibile ed è contagiosa: esattamente come il peccato) bagnandosi al Giordano (2Re 5), chi diviene cultualmente impuro deve essere ritualmente purificato prima di rientrare in comunità mediante abluzioni (Lv 11-15; Nm 19,11-22), si riferisce al cuore nuovo e al dono dello Spirito di Dio (Ez 36; Is 32,15-40; 44,3). Vediamo come abbiamo 3 tipi di impurità: fisica (malattia), cultuale (contatto con forze di vita o di morte), morale (peccato); Gesù elimina le prime due.
- abluzioni: servivano a purificare coloro che erano divenuti cultualmente impuri, mediante aspersione con acqua o bagno nel fiume. L’importanza dei riti di purificazione crebbe sempre più nel giudaismo (si parla di giudaismo dopo l’esilio, di ebraismo prima dell’esilio), fino ai tempi di Gesù: la frequente ripetizione divenne un obbligo, tanto che accanto alle sinagoghe vengono costruite vasche per l’immersione.
Il diluvio è immagine sintetica di tutto questo: Dio infatti purifica, salva (Noè) e rinnova l’alleanza (purificazione).
-        battesimo dei proseliti: i proseliti erano quei pagani che entravano a far parte del popolo di Israele. Il battesimo dei proseliti avveniva per immersione e si compiva una sola volta; le immersioni erano compiute dal soggetto.
-        battesimo di Giovanni: esso riprende i “bagni” in chiave profetica (escatologia prossima) e non è rituale: ha invece una forte accentuazione etica, è necessario convertirsi. Diversamente dalle abluzioni, esso non è più ripetibile: dunque ciò indica una radicalità nella conversione e l’irripetibilità della situazione escatologica annunciata. A differenza dei proseliti, non ci si battezza, ma si viene battezzati: non è il segno di una propria volontà di conversione, ma occasione unica offerta in dono; inoltre viene sottolineata l’importanza della mediazione. Il battesimo di Giovanni fu importante per le prime comunità cristiane, dal momento che Gesù stesso si fece battezzare.

Passiamo ora al NT:

-        sinottici-At: la comunità cristiana battezza fin dagli inizi. Vi è una continuità e discontinuità col mondo giudaico: il battesimo è ora amministrato nel nome di Gesù, sintesi e compendio della salvezza, con il quale si entra in un nuovo rapporto; il battesimo è amministrato nella formula trinitaria; il battesimo suppone Cristo predicato e creduto; il battesimo opera il perdono dei peccati e comunica lo Spirito Santo;
-        Paolo: il battesimo suppone Cristo predicato e creduto. Esso opera una nuova e fondamentale relazione con Cristo, espressa dai verbi con syn; vi è però una diversità rispetto ad At: in At si dice nel nome (il nome esprime proprietà, possesso: l’uomo è passivo), mentre in Paolo si dice eis Christon (moto a luogo, dimensione dinamica: unione intima). Questo produce la remissione dei peccati e il dono dello Spirito Santo: la Chiesa ha la struttura di nuovo popolo di Dio. Circa la relazione con Cristo, già prima di Paolo, si affermava che il Battesimo ci permette di partecipare alla salvezza di Cristo e che la salvezza ci è ottenuta dalla morte e resurrezione di Cristo: Paolo “elimina” il riferimento alla salvezza di Cristo e mette direttamente in relazione Battesimo e morte e resurrezione di Cristo. Ciò appare benissimo in Rm 6,1-11: il Battesimo è inserimento nella morte di Cristo (vv. 3-4.8), segnando una comunione profonda con Cristo crocifisso, e nella resurrezione di Cristo (v. 4). In questo versetto 4 ci si sarebbe aspettati che Paolo parlasse di con-resurrezione: ma qui Paolo pone in evidenza la necessità della vita nella resurrezione, quindi l’aspetto esistenziale e non solo ontologico oggettivo; camminare in una vita nuova è possibile perché la morte/resurrezione di Cristo ci ha resi nuove creature (il termine kainè ktisis compare in Paolo solo in 2Cor 5,17 e Gal 6,15: ma questo tema è importantissimo in Paolo). Il Battesimo è rivestirsi di Cristo, come giustamente mette in evidenza Gal 3,26-29, da interpretarsi correttamente. C’è una diversità del Battesimo rispetto ad At: in At 2,38 si parla di Battesimo nel nome di Cristo (significa appartenere a Cristo come un dono che viene dall’alto, in maniera quasi passiva), mentre in Rm 6,3 si parla di Battesimo in Cristo (è un’unione dinamica e intima, che fa riferimento ad un movimento dell’uomo). Il mistero pasquale di Cristo viene partecipato al battezzato, che muore al peccato e risorge a vita nuova.
Circa la remissione dei peccati, possiamo vedere Rm 6,10.14; 1Cor 6,11; Col 2,8-13. Camminare a vita nuova è possibile solo perché la morte/resurrezione ci ha resi nuove creature (kainè ktisis): il cristiano perciò è chiamato a vivere da risorto (Col 3,1-2.5-6.8-15), da uomo nuovo, di cui egli si è rivestito (quando Paolo parla di rivestire allude alla dimensione ontologica).
Circa il dono dello Spirito, si può vedere Gal 3-4. Circa la formazione della comunità, si vedano 1Cor 12,13 e Ef 1,13: la formazione della comunità e il Battesimo sono inseparabili, perché il Battesimo è comunione dello Spirito, il quale forma la comunità come Corpo. Mentre il secondo millennio e Trento accentuano molto l’aspetto cristologico, il Vaticano II accentua l’aspetto ecclesiologico (molto presente nel primo millennio);
-        Giovanni: guardiamo a Gv 1,29.31-33. Cristo immerge continuamente nello Spirito Santo e toglie continuamente il peccato (la presenza di numerosi participi accentua il carattere dinamico di tali azioni di Cristo). Giovanni Battista inoltre non vede ma contempla: il termine theoria esprime il vedere con gli occhi di Dio (orao in Gv rimanda al vedere con gli occhi della fede, a differenza di blepo): non si è solo coscienti di quanto si sta vedendo, ma tale coscienza viene per mezzo di Dio.
Guardiamo anche a Gv 3,1-15: qui si affermano 3 necessità. 1) Necessità di rinascere dall’alto: con questa espressione si afferma che Dio è necessario per essere rinnovati e che è Dio a porre le condizioni per rinascere; 2) necessità di nascere dall’acqua e dallo Spirito: in questa espressione abbiamo il compimento della prospettiva veterotestamentaria: si pensi alla tradizione veterotestamentaria sull’acqua e anche ai riferimenti allo Spirito (Ez 36; Ger 31: trasforma i cuori per mettere in pratica la legge); 3) necessità di ritornare nel seno della propria madre: in ebraico, con la stessa parola raham, si esprime il significato viscere e utero: la misericordia di Dio fa rinascere, come da un utero.
Guardiamo ora a 1Gv 5,6-8: Gesù è venuto con acqua e sangue, segni del Battesimo e della morte di Gesù. Al v. 7 si parla di tre testimoni: Spirito, acqua e sangue.
Sintetizzando Gv: il Battesimo è causa della nostra rinascita, è testimonianza dell’opera redentrice che Gesù compie nella storia, è testimonianza che lo Spirito Santo rende a favore del Figlio inviato dal Padre e che mantiene sempre viva ed efficace; in Gv risulta più sottolineato l’aspetto pneumatologico del Battesimo.

Vediamo il rapporto Battesimo-fede nel NT:

-        la fede prepara il Battesimo: la lex credendi fonda la lex orandi. Si guardi a At 8,12ss.; 18,8;
-        la fede nasce dal Battesimo: la lex orandi fonda la lex credendi. Si guardi a Ef 1,8; Eb 6,4;
-        la fede suppone il Battesimo e lo approfondisce: si guardi a Rm 6,3ss., 1Cor 6,11; 1Pt 3,21.

 Nel NT emerge inoltre una prospettiva cristocentrica del Battesimo:

-        salvezza in Cristo attraverso il Battesimo: il Cristo crocifisso e risorto è il centro che il Padre ha costituito per l’intero creato e la sua storia. Ora si può essere integri e graditi a Dio soltanto se riferiti a Cristo. E questa professione di fede, che lo Spirito Santo rende possibile, sta alla base della concezione biblica del Battesimo e ne spiega gli sviluppi;
-        il Battesimo istituito da Cristo: nella visione biblica tutti i doni del Battesimo, missione dello Spirito, santificazione, remissione dei peccati, sono frutto dell’opera salvifica di Gesù. Perciò si potrà fondatamente sostenere, con la Chiesa apostolica, che il Battesimo è stato istituito direttamente da Gesù.

Guardiamo ora all’esperienza patristica e facciamo alcune domande ai Padri:

-        orizzonte cristocentrico e/o trinitario? La tradizione lucana parla del Battesimo nel nome di Gesù: è quindi cristocentrica; in Paolo, Rm 6,11, si parla della relazione tra morte-resurrezione di Cristo e Battesimo. Ma in Rm 1,4 appare un orizzonte trinitario, come anche in Mt 28,19. Dunque già nel NT emergono entrambe le prospettive: una non esclude l’altra, si tratta di due modi diversi di interpretare la realtà. Nella Didachè il Battesimo ha un orizzonte cristologico e trinitario giustapposti; Giustino e la Traditio apostolica hanno unicamente un orizzonte trinitario. Circa il Battesimo trinitario, è interessante notare che prima delle controversie trinitarie del IV secolo la prospettiva trinitaria del Battesimo è già chiara ed esplicita (la lex orandi anticipa di secoli la lex credendi). Al sinodo di Arles (314) ai donatisti sarà considerato valido il loro Battesimo solo se conterrà la professione di fede trinitaria; tuttavia Ambrogio di Milano attesta ancora l’orizzonte cristologico: nel De Spiritù Sancto Ambrogio afferma che il Battesimo conferito nel nome di Gesù è valido se in questo nome si comprendono anche le altre persone della Trinità e chi è stato battezzato in questo modo non deve ripetere il Battesimo perché e valido. Questa riflessione di Ambrogio eserciterà una grande influenza nel Medioevo, diventadone una quaestio disputata;
-        Battesimo solo nel nome di Gesù? Il Battesimo nel nome di Gesù è valido: questo viene attestato da Ugo di S. Vittore e da Pietro Lombardo; Gilberto Porretano afferma invece che il Battesimo nel nome di Gesù non è mai stato valido; Alberto Magno, Tommaso e Bonaventura affermano che il Battesimo è stato valido per gli apostoli. Per Ugo di s. Vittore, è la fede nel Dio trinitario che qualifica il Battesimo, mentre la formula con cui si battezza è secondaria; il Battesimo può essere implicitamente trinitario all’interno di una prospettiva cristologica:  la forma non coincide con la formula. Per Gilberto Porretano la forma coincide con la formula: il Battesimo nel nome di Gesù contraddice l’esplicito comando di Mt 28,19 di battezzare nel nome della Trinità. Per quanto riguarda la posizione di Tommaso, l’Aquinate afferma che la causa efficiente del Battesimo sta nella formula (“Io ti battezzo nel nome del P, F e SS”): in questa formula vi è una causa efficiente principale (Trinità) e una causa efficiente strumentale (ministro). La forma equivale alla causa formalis del Battesimo, che equivale alla forma sacramenti, che coincide con la formula. Ma per Tommaso vi è un’eccezione: per uno speciale privilegio, gli apostoli hanno battezzato nel nome di Gesù. Da Tommaso in avanti, la forma coincide con la formula: prima non era stato così; 
-        il Battesimo degli eretici è valido? Circa il Battesimo degli eretici, i Padri ebbero diverse posizioni: per alcuni (come Cipriano di Cartagine) il Battesimo deve essere ripetuto, mentre per altri non si deve ripetere, ma è sufficiente la penitenza e l’imposizione delle mani (papa Stefano I). La questione qui è questa: cosa garantisce l’effetto del Battesimo, lo stato di grazia del ministro o l’azione di Dio?
Cipriano afferma che gli eretici e gli scismatici sono peccatori, perciò non hanno lo Spirito Santo e non lo possono comunicare: Cristo infatti ha affidato i sacramenti agli apostoli e ai loro successori. Gli eretici non professano la fede nel Dio trinitario, perciò non possono agire nello Spirito di Cristo anche se pronunciassero la forma esatta.
Stefano I afferma che gli effetti del Battesimo sono realizzati da Cristo e non dal ministro e dalla sua santità. Il Concilio di Costantinopoli, ripreso da Trento, proibisce di ribattezzare l’eretico che entra nella Chiesa: le disposizioni del ministro e di chi lo riceve non sono essenziali.
Vediamo ora Agostino. Nella controversia donatista Agostino affermò la validità del Battesimo con ministri eretici o indegni: vi è una differenza tra Battesimo valido e fruttuoso. Per un Battesimo valido è necessaria la forma trinitaria, che esso sia amministrato anche da un cristiano laico e persino da un eretico; per un Battesimo fruttuoso è necessario però che l’eretico si converta dai suoi errori e rientri nella Chiesa. Il Battesimo dell’eretico è dunque valido: il carattere infatti è dono di Dio; ma esso non è fruttuoso: non c’è infatti automatismo tra Battesimo e suo frutto. Il Battesimo è unione permanente con Cristo e, attraverso di lui, con il Dio trinitario: esso imprime il carattere, che è una nota distintiva che si imprime indipendentemente dallo stato di grazia di chi lo riceve e non si perde nemmeno a causa del peccato mortale. Nella controversi pelagiana invece Agostino insiste invece sul rapporto tra Battesimo e peccato originale (quarta domanda).

Passando all’epoca medievale, vediamo la lettera di Innocenzo III al vescovo di Arles (1201): in questa lettera si tratta della necessità della libertà del battezzando per avere un Battesimo valido; il carattere può essere impresso solo laddove non vi è l’opposizione della libertà, mentre il Battesimo non è valido se non vi è un’esplicita opposizione.
Mentre i Padri erano stimolati dall’esperienza degli eretici e dall’esperienza pastorale, nel XIII sec. gli stimoli sono di tipo accademico, in cui la scienza equivale ad Aristotele, per il quale la scienza è scienza delle cause e nel quale prevale una visione ilemorfistica. Vediamo il pensiero dell’Aquinate, contenuto in S. th. III, qq. 66-71. Tommaso rilegge il Battesimo con l’ilemorfismo di stampo aristotelico.
Nella quaestio 66, art. 1, Tommaso distingue tra:

-        sacramentum tantum (signum tantum): è il segno esteriore, il rito. Nel Battesimo sarà l’acqua;
-        res et sacramentum: è l’effetto oggettivo intermedio (permanente), è il carattere. Nel Battesimo è il carattere, la conformazione a Cristo (che non si può perdere);
-        res et sacramenti (res tantum): è la grazia effetto del sacramento (fine del sacramento). Nel Battesimo è la grazia santificante, la santificazione gratia habitualis (che si può perdere).

La fonte esplicita di Tommaso è Giovanni Damasceno di cui mette in evidenza 4 parole: sigillum/custodia (equivalente alla res et sacramentum) custodisce l’anima al bene, mentre la regeneratio si riferisce alla vita nuova e la illuminatio si riferisce alla fede (queste ultime due realtà si riferiscono alla res sacramenti).
Per Tommaso la causa principale è la Trinità, mentre la causa strumentale è il ministro. Il ministro del Battesimo è per ufficio il sacerdote, ma per necessità può essere anche un laico o persino un non credente, purché intenda fare ciò che fa la Chiesa e usi la forma della Chiesa: in tal modo Tommaso risolve la questione lasciata in sospesa da Agostino. Circa l’iniziazione cristiana, Tommaso afferma la necessità del Battesimo per la salvezza, il Battesimo di desiderio, che il Battesimo dei bambini non va differito e che il Battesimo degli adulti va differito, sia per esigenza del catecumenato (l’adulto deve conoscere e vivere la fede) sia per esigenza liturgica (Battesimo nella Veglia pasquale). Circa le disposizione del battezzando, per gli adulti fondamentale è la conversione: chi ha volontà di peccare non può essere battezzato; la fede non è necessaria per la res et sacramentum, mentre è necessaria per la res sacramenti. Circa gli effetti del Battesimo, essi sono: liberazione dal peccato (colpa) e dalle pene; incorporazione a Cristo e alla Chiesa, suo corpo; illuminazione: conoscenza della verità e fecondità nel fare il bene; rigenerazione spirituale. La vita spirituale e morale è fondata nel Battesimo.
Nella Scolastica dunque:

-        abbiamo una particolare chiarezza e precisione;
-        l’impostazione e le categorie sono quelle aristotelico-tomiste;
-        si ha un’accentuazione cristologica;
-        la riflessione scolastica sarà un riferimento per il Magistero successivo;
-        non è evidente l’unità dei sacramenti dell’iniziazione cristiana;
-        vi è un modesto riferimento alla lex orandi e alla dimensione ecclesiale e comunitaria;
-        vi è un modesto riferimento pneumatologico.

Il Concilio di Firenze riprende Tommaso.
Il Concilio di Trento risponde ai riformatori, che accettano il Battesimo come vero sacramento e sottolineano molto la fede. Il Concilio di Trento non offre una dottrina sistematica sul Battesimo, ma esso viene considerato in rapporto a vari temi: il peccato originale, la giustificazione, il settenario sacramentale, la penitenza, 14 canoni.
Circa il Battesimo e il peccato originale, Trento afferma che lo stesso merito di Gesù Cristo è applicato agli adulti e ai bambini: perciò i bambini appena nati devono essere battezzati e vengono veramente battezzati per la remissione dei peccati anche se non hanno commesso peccati. La grazia del Battesimo toglie la macchia del peccato originale e non è semplicemente non imputato il peccato (il peccato non era perdonato): nei battezzati rimane la concupiscenza, che non è peccato, ma ha origine nel e inclina al peccato; essa viene lasciata come prova per il combattimento spirituale: in tal senso può essere occasione di meriti, dovuti anche allo sforzo umano. Per Lutero invece la concupiscenza è la prova che l’uomo è rimasto peccatore anche dopo il Battesimo, per cui non gli è stato rimesso il peccato.
Circa il Battesimo e la giustificazione, la giustificazione del peccatore è il passaggio dallo stato in cui l’uomo nasce figlio del primo Adamo allo stato di grazia per mezzo del secondo Adamo, Gesù Cristo: questo passaggio non può avvenire senza il lavacro di rigenerazione o senza il desiderio di esso (qui le citazioni bibliche sono in fondo: non è la Bibbia che deve uniformarsi alla teologia). Il Battesimo dunque è inizio della giustificazione dalla grazia preveniente (contro il semipelagianesimo). La giustificazione non è una semplice remissione dei peccati, ma è anche santificazione e rinnovamento dell’uomo interiore, mediante la libera accettazione della grazia e dei doni che l’accompagnano, per cui da ingiusto diviene giusto. Le cause della rigenerazione sono:

-        causa finale: la gloria di Dio, di Cristo e la vita eterna;
-        causa efficiente: la misericordia di Dio, lo Spirito Santo;
-        causa meritoria: passione di Cristo;
-        causa strumentale: il sacramento del Battesimo, che è sacramento della fede, senza la quale nessuno ha mai ottenuto la giustificazione.

Per Lutero la giustificazione è un atto giudiziario: libera dalla pena del peccato e non dal peccato; essa dunque non è anche santificazione e rinnovamento dell’uomo interiore, per cui il peccatore resta peccatore (simul iustus et peccator): l’uomo in re è peccatore, in spe è salvo. Per Lutero, a giustificare non è il sacramento, ma la fede in esso: l’ex opere operato sembra una magia, mentre l’importante è la fede soggettiva; il Battesimo non giustifica nessuno, ma a giustificare è la fede nella promessa di Dio, a cui si aggiunge il Battesimo. Tra giustizia di Dio e battezzato vi è solo un rapporto esteriore, in quanto l’uomo non è toccato: con il sacramento Dio si lega con un patto all’uomo e, pur lasciandolo peccatore (in re), con la sua grazia lo cambia gradualmente fino alla salvezza escatologica (in spe).
Rispondendo a Lutero, nel can. 6 De sacramentis in genere, Trento risponde a Lutero:

-        i sacramenti sono necessari per la salvezza;
-        i sacramenti della nuova legge contengono la grazia;
-        non solo segni esteriori della grazia già ricevuta mediante la fede (Lutero): il sacramento è causa strumentale con cui si riceve la grazia;
-        per ottenere la grazia non basta la sola fede nella promessa divina.

Il can. 1 specifica il battesimo di Cristo rispetto al battesimo di Giovanni: per Tommaso la circoncisione e il battesimo di Giovanni perdonano il peccato; il Concilio di Firenze afferma che i segni dell’antica alleanza non contengono la grazia ma orientano verso di essa. Trento, fra queste due posizioni contrastanti, non si esprime su questo tema (a Trento premeva rispondere alla Riforma e non affrontare problemi della Scolastica).
Al can. 2 si afferma che la rinascita nel Battesimo non è semplicemente simbolica. Al can. 4 si riafferma il Battesimo valido anche se amministrato dagli eretici; al can. 5 si afferma la necessità del Battesimo in ordine alla salvezza; ai cann. 6-10 si afferma non solo la necessità di credere ma anche di vivere la fede; ai cann. 11-13 si afferma la unicità del Battesimo e la possibilità del pedobattesimo.
Il Concilio di Trento:

-        riprende Tommaso: non è originale Trento;
-        risponde ai riformatori: non è organico perciò;
-        vi è un clima controversistico: ciò porta ad avere una visione non organica, ma apologetica;
-        vi sono tematiche antropologiche: rapporto Battesimo-peccato, Battesimo-giustificazione;
-        non affronta il Battesimo nell’insieme dell’iniziazione cristiana;
-        non affronta il rapporto tra Battesimo-fede-vita, il rapporto tra il Battesimo dei bambini e quello degli adulti, il rapporto tra Battesimo ed esistenza ecclesiale.

Il rinnovamento pastorale dopo Trento culmina nel Rituale Romano e nel Catechismo. Nel Rituale Romanum il Battesimo viene celebrato in un unico rito continuo in cui non si offre più il senso dinamico di cammino e di ingresso nel mistero della salvezza; non viene recepita la proposta del card. Santoni, che proponeva di ricostituire il catecumenato. Nel Catechismo romano si fissa la Confermazione all’età di 7 anni, mentre la Comunione a 11 anni.

Vediamo ora il Concilio Vaticano II. All’interno di esso il Battesimo ha un orizzonte cristologico ed ecclesiologico: vi è una continuità sul cristologico (Trento), ma una novità rispetto all’ecclesiologico. Circa l’aspetto cristologico, tramite il Battesimo si è:

-        uniti al mistero pasquale;
-        conformi a Cristo;
-        figli adottivi nello Spirito;
-        adoratori del Padre.

Tutte queste realtà denotano l’aspetto ontologico. Ma vi è anche un aspetto esistenziale: con il Battesimo si è incorporati a Cristo:

-        nel popolo di Dio;
-        nella triplice funzione;
-        nella missione nella Chiesa e nel mondo.

Inoltre il cristiano viene inserito nello stile oblativo di Gesù.
Circa l’aspetto ontologico, cfr. SC 6 (il Battesimo non ha un riferimento assoluto nell’ottica sacramentale, ma è orientato all’Eucarestia in uno sguardo escatologico; vi è il riferimento al mistero pasquale), LG 7 (unione di aspetto cristologico ed ecclesiologico: mediante i sacramenti si diffonde la vita di Cristo nel suo corpo e allo stesso tempo i fedeli si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e glorioso; anche qui vi è il riferimento al mistero pasquale), ancora LG 7 (ancora una volta l’Eucarestia viene concepito come compimento del Battesimo).
Circa l’aspetto esistenziale, cfr. LG 31: la missione nella Chiesa non è individuale, ma è tutto il popolo cristiano, il popolo di Dio, impegnato nella missione della Chiesa.
Circa l’aspetto ecclesiologico, abbiamo alcuni motivi:

-        inseriti nella Chiesa (incorporati) → LG 11. Non bisogna aspettare qualcuno che mi spinga, ma già in forza del Battesimo siamo chiamati a professare pubblicamente la fede: in questa professione della fede vi è uno stretto rapporto tra il culto e la vita. Con la Confermazione questa professione della fede pubblicamente deve essere ancora più forte; si fa anche riferimento alla partecipazione all’Eucarestia: vediamo l’unione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana. Il Battesimo non solo incorpora nella Chiesa, ma rigenera figli di Dio, non ha solo valenza ad intra ontologica, ma anche storica; similmente la Confermazione non ha solo valenza ad extra (testimonianza), storica, ma anche ontologica. La partecipazione all’Eucarestia non è solo culto in cui si offre la vita divina, ma anche offerta della propria vita (SC 48). Battesimo ed Eucarestia sono orientati all’Eucarestia.
La salvezza operata da Cristo è un evento nel quale si comunica la salvezza nel tempo (kairos), per cui la storia diventa storia della salvezza: la salvezza di comunica attraverso l’azione cultuale che diventa l’oggi, per cui il culto diventa actio sacra, actio Dei. Per ritus et preces = Il rito perciò è importante, non inteso come ritualismo rubricale, che tende a ridurre all’essenziale valido; le preghiere sono molto importanti, non intese come formule “magiche”, ma quale azione liturgica che coinvolge tutto l’uomo quale risposta all’azione di Dio. L’azione sacra coinvolge tutto l’uomo: conscie rimanda all’intelletto (mente concorde con le parole); pie rimanda all’affetto (devotio); ma cosa significa actuose? Di partecipazione attiva avevano già parlato diversi documenti precedenti di Pio X (Tra le sollecitudini), di Pio XI (Miserentissimus Redemptor) e di Pio XII (Mediator Dei): in quest’ultimo documento il papa afferma che i fedeli partecipano del sacerdozio cristiano, partecipando all’offerta del culto eucaristico e offrendo se stessi. Testo molto importante è LG 10;
-        prospettiva storico-escatologica;
-        popolo di Dio;
-        aspetto materno della Chiesa: grembo;
-        sacerdozio battesimale: abbiamo 3 dimensioni: sacerdotale, profetica, regale. Circa la dimensione sacerdotale, i fedeli partecipano del sacrificio di Cristo, che ha offerto se stesso: anche i fedeli perciò offrono se stessi e partecipano al culto (nessuna separazione tra culto e vita). Circa la dimensione profetica, i fedeli partecipano della profezia di Cristo, Parola di Dio: anche qui i fedeli offrono se stessi, testimoniando e annunciando il Vangelo (nessuna divisione tra vita e missione). Circa la dimensione regale, i fedeli partecipano della regalità di Cristo, re dell’umanità, del cosmo e della storia: anche qui i cristiani offrono se stessi, non separando la propria vita dalle realtà terrene. Per questa dinamica di offerta di sé in relazione all’Eucarestia, cfr. LG 11;
-        scoperta del laicato: i laici sono chiamati, in forza del Battesimo e della Confermazione, a partecipare alla missione della Chiesa; l’Eucarestia costituisce l’anima di questo apostolato (LG 33; AA 3). Battesimo e Cresima costituiscono il legame fondativo con Cristo, mandante dell’apostolato; inoltre Battesimo e Cresima fondano il sacerdozio regale, la nazione santa in forza delle quali i laici possono offrire sacrifici spirituali con le proprie attività nonché testimoniare Cristo (emergono le 3 funzioni: sacerdotale, regale, profetica). Battesimo e Cresima, incorporando in Cristo e nella Chiesa, abilitano all’apostolato e tendono all’Eucarestia (culmen), ma allo stesso tempo l’Eucarestia comunicando la carità costituisce l’anima dell’apostolato (fons). Cfr. anche AG 36
-        universale chiamata alla santità: cfr. LG 40. Anche in questo passo troviamo aspetto ontologico ed esistenziale: i fedeli hanno ricevuto la santità, che essi devono vivere e perfezionare;
-        unità dei sacramenti dell’iniziazione cristiana;
-        ripristino del catecumenato;
-        aspetto ecumenico.


Vediamo ora la celebrazione del sacramento. Abbiamo due riti: il Rito della iniziazione cristiana degli adulti (1978) e il Rito del Battesimo dei bambini (1970). Questi due rituali manifestano che vi sono 2 possibilità: il Battesimo degli adulti, che segue l’iter antico (Battesimo, Confermazione, Eucarestia), e il Battesimo dei bambini, che non segue l’iter antico (Battesimo, Confessione, Eucarestia, Cresima all’età di ragione).
All’interno dei praenotanda rito ritroviamo tutti gli aspetti messi precedentemente in esame:

-        fondazione e orizzonte cristologico: parlano di inserimento e configurazione a Cristo; inoltre la celebrazione del Battesimo viene contestualizzata nella Veglia Pasquale o in domenica;
-        appartenenza ecclesiale: missionarietà della Chiesa in cui sono coinvolti tutti i battezzati; importanza della Chiesa locale (importanza del Vescovo, battezzandi nella stessa Chiesa);
-        prospettiva unitaria dei sacramenti dell’iniziazione;
-        valenza storica (conversione) non solo ontologica: importanza dell’accompagnamento spirituale e della parrocchia.

Vediamo gli aspetti del rito. Innanzitutto la spiritualità. La sequela Christi è l’imitatio Christi: l’agire di Gesù e la sua parola, le sue azioni e i suoi precetti, costituiscono la regola morale della vita cristiana (VS 20); tuttavia seguire Cristo non è un’imitazione esteriore, perché tocca l’uomo nella sua profonda interiorità: essere discepoli di Gesù significa essere conformi a lui, che si è fatto servo fino al dono di sé sulla croce (sequela Christi = conformatio Christi). La configurazione (ontologica; è diversa dalla conformazione, che si pone a livello del cuore) a Cristo è la vita nuova: il Battesimo configura radicalmente il fedele a Cristo nel suo mistero pasquale. Morto al peccato, il battezzato riceve la vita nuova: vivente per Dio in Cristo Gesù, è chiamato a camminare secondo lo Spirito e a manifestarne nella vita i frutti.
Vediamo un secondo aspetto: l’ecumenismo. Cfr. UR 22: il Battesimo è il vincolo sacramentale dell’unità che vige fra tutti quelli che per mezzo di esso sono stati rigenerati. Il Battesimo è solo l’esordio, in quanto esso tende all’acquisto della pienezza della vita di Cristo. Esso è dunque ordinato all’integrale professione di fede, all’integrale incorporazione nell’istituzione della salvezza e all’integrale inserzione nella comunione eucaristica. Il Battesimo assicura la comunione con la Chiesa; l’unità cristologica precede ontologicamente le divisioni confessionali: il riconoscimento reciproco del Battesimo è presente in quasi tutto l’ambito cristiano. Il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, in un direttorio del 1993, ha affermato che il Battesimo per immersione o infusione con la formula trinitaria è sempre valido.
I padrini del Battesimo devono essere cattolici: essi sono testimoni della fede; un non cattolico può essere ammesso come testimone.
Vediamo ora un terzo aspetto: la pastorale. Le differenziazioni delle tradizioni presenti nella Chiesa non sono di carattere dogmatico, ma di carattere pastorale. Tuttavia bisogna verificare quale prassi possa aiutare i fedeli a mettere al centro il sacramento dell’Eucarestia, come realtà a cui tutta l’iniziazione tende (Sacramentum caritatis 18). La prassi liturgica fonda la pastorale: i documenti sulla pastorale richiamano la prassi liturgica. Nel documento L’iniziazione cristiana. Orientamenti per il catecumenato degli adulti della CEI (1997) vede l’iniziazione cristiana come itinerario “iniziatico” per condurre l’uomo a diventare cristiano maturo, cioè membro cosciente e attivo della Chiesa (n. 1): tuttavia in questa affermazione manca l’aspetto ontologico (ovviamente bisogna tener conto che si tratta di un documento pastorale, che chiaramente mette in evidenza l’aspetto esistenziale). In Educare alla vita buona del Vangelo, n. 40, si dice che l’iniziazione cristiana è l’esperienza fondamentale dell’educazione alla vita di fede: essa non è una delle attività della comunità cristiana, ma l’attività che qualifica l’esprimersi proprio della Chiesa. Essa ha assunto un’ispirazione catecumenale, che conduce ad una progressiva consapevolezza della fede, mediante itinerari di catechesi e di esperienza di vita cristiana (non si tratta di una dottrina). Al n. 54 si dice che il primo punto degli obiettivi e delle scelte dei Vescovi deve essereci l’iniziazione cristiana.
Il documento Pastoralis actio della CdF dice che la pastorale del Battesimo dei bambini deve ispirarsi a questi due grandi principi, di cui il secondo è ordinato al primo:

-        il Battesimo è necessario alla salvezza: per questo esso non deve essere differito;
-        devono essere prese delle garanzie perché tale dono possa svilupparsi mediante una vera educazione nella fede e nella vita cristiana. Se queste garanzie non ci sono, il Battesimo può essere rifiutato: non basta l’aspetto ontologico, ma è necessario anche quello esistenziale.

Inoltre il documento afferma che la comunità cristiana deve essere coinvolta nella preparazione al Battesimo e nella formazione cristiana: questa partecipazione è necessaria anche per il Battesimo dei bambini. D’altronde la stessa comunità crescerà nella fede partecipando ai Battesimi.
Il n. 1231 del CCC parla di un catecumenato post-battesimale per il Battesimo dei bambini: non si tratta solamente della necessità di una istruzione dottrinale posteriore al Battesimo, ma si tratta di portare a compimento la grazia battesimale nella crescita della persona. È questo l’ambito proprio del catechismo
Vediamo ora l’aspetto del diritto liturgico. Il CJC, circa i sacramenti dell’iniziazione cristiana, prevede una celebrazione unitaria con preparazione a tappe per gli adulti e una celebrazione a tappe con preparazione a tappe per i bambini. Il can. 842 richiama l’unità tra i sacramenti dell’iniziazione cristiana. Il can. 851 afferma che la celebrazione deve essere debitamente preparata: ecco il senso del catecumenato per gli adulti e della preparazione dei genitori per i bambini. Il can. 866 afferma che dopo il Battesimo, gli adulti devono ricevere la Cresima e l’Eucarestia. Il can. 893 consiglia che il padrino della Cresima sia lo stesso del Battesimo: si vuole mettere in rilievo l’unità dell’iniziazione cristiana. Il can. 863 afferma che il Battesimo degli adulti sia deferito al Vescovo diocesano. Il can. 872 afferma l’importanza del padrino, che ha una funzione molto importante e richiama la presenza della comunità cristiana (come era in origine, un membro della comunità).
La critica che Montan fa è l’assenza evidente dell’ordinamento del Battesimo e della Confermazione all’Eucarestia.
Accanto alla celebrazione unitaria dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, il CJC prospetta una celebrazione a tappe: il can. 867 prescrive il Battesimo nelle prime settimane di vita; il can. 891 prescrive la Cresima nell’età della discrezione (7 anni); il can. 914 prescrive l’Eucarestia all’età della ragione, premessa la confessione sacramentale.
Ai cann. 849-878 vi è il riferimento fondativo al Vaticano II e ai libri liturgici: rispetto al 1917, è tolta la precedente divisione tra Battesimo solenne e non solenne (privato), vi è una visione unitaria dell’iniziazione cristiana e una duplice modalità nella celebrazione del Battesimo. Questi canoni inoltre mettono in evidenza diverse valenze del Battesimo. Circa il luogo del Battesimo, il luogo di preferenza deve essere la chiesa parrocchiale.
Nel Battesimo degli adulti, perché il Battesimo sia valido è necessaria la volontà di ricevere il Battesimo, mentre per la liceità è richiesto che l’adulto sia sufficientemente istruito nella fede, che vi sia stato un periodo di prova (catecumenato) e che vi sia il pentimento dei peccati.

Vediamo la parte sistematica sul Battesimo. In esso vi sono diverse dimensioni: trinitaria, cristologica, pneumatologica, ecclesiologica, escatologica; vediamo anche alcune tematiche: conseguenze del Battesimo, sacerdozio battesimale, salvezza dei bambini senza Battesimo. I manuali seguono 3 tipi di impostazione differenti: cristologico-trinitaria, ecclesiologica (è quella del Vaticano II) e quella neoscolastica (più individualista).
Circa la dimensione trinitaria abbiamo già detto: i sacramenti in quanto mysterion devono essere compresi trinitariamente, dal momento che sono in relazione all’agire storico di Dio nel quale tutto ha origine dal Padre, tutto si realizza nel Figlio e per il Figlio, tutto si compie e viene portato a compimento nello Spirito Santo; viceversa tutto nello Spirito Santo per il Figlio torna al Padre. Il Battesimo è accoglienza della vita trinitaria attraverso una via trinitaria: il Padre è origine, il Figlio realizza e sviluppa, lo Spirito porta a compimento la vita trinitaria nel battezzato. Il mysterion è l’unico progetto di Dio in 3 momenti: 1) creazione; 2) redenzione; 3) compimento escatologico. Il peccato originale vela la sacramentalità del mondo; con l’incarnazione del Logos la corporeità e il creato assumono tutta la loro rilevanza; le realtà create (acqua, pane, vino, etc.) sono trasformate dallo Spirito divenendo segni di grazia. Nella creazione dunque si trovano le vestigia Dei, che non si riconoscono più col peccato; sempre col peccato l’uomo, pur mantenendo l’immagine di Dio, perde però la somiglianza, sempre in attesa del compimento escatologico.
Circa la dimensione cristologica, il Battesimo è azione salvifica del Kyrios (come anche gli altri sacramenti) e l’azione salvifica del Kyrios è il suo evento pasquale (cfr. Rm 6,1-11). Dal Battesimo, quale partecipazione della Pasqua, deve scaturire una duplice appartenenza cristologica: la vita in Christo (appartenenza ontologica) e il cammino di sequela Christi (appartenenza esistenziale); la prima sottolinea la partecipazione alla morte di Cristo, la seconda sottolinea la partecipazione alla resurrezione di Cristo. Sempre per la dimensione cristologica, è importante il “camminare nella vita nuova”: esso è possibile perché la morte e la resurrezione ci ha resi nuove creature e dunque l’appartenenza ontologica precede l’esistenziale.   
Circa la dimensione pneumatologica, (v. slides).
Circa l’impostazione ecclesiologica, Isidoro di Siviglia parla di Chiesa come convocata et congregata e come convocans et congregans; Cipriano parla della Chiesa come della plebs adunata dalle persone divine. Con il Battesimo si è accolti nella Chiesa e incorporati in essa (dimensione passiva); si è inoltre incorporati a Cristo e si diventa figli nel Figlio (Trinità) e membra del corpo di Cristo (Chiesa). Questo filone ecclesiologico, sviluppato dal Vaticano II, era però già esistente nella teologia. La valenza ecclesiologica del Battesimo è sottolineata dal fatto che ministro ordinario di esso è il Vescovo ed esso deve essere amministrato nella celebrazione domenicale, quando l’assemblea è riunita. Nel Battesimo inoltre la Chiesa genera nuovi figli come una madre.
Circa la dimensione escatologica, dato che il Battesimo partecipa alla resurrezione di Cristo, esso ha delle implicazioni escatologiche, dal momento che la resurrezione di Cristo ha implicazioni escatologiche; in tal senso, il Battesimo è sigillo e caparra per il giorno della parusia.

Vediamo ora le tematiche.
Innanzitutto le conseguenze del Battesimo: sono rimessi tutti i peccati, nuova creazione, figlio adottivo di Dio, partecipazione alla natura divina, membro di Cristo, coerede di Cristo, tempio dello Spirito Santo (cfr. CCC 1265: manca l’aspetto ecclesiologico! Altro limite è che, parlando della nuova creazione, cita solo 2Cor 5,17 e non cita Gal 6).
Quali peccati vengono perdonati? Sono perdonati il peccato originale, i peccati personali e le conseguenze del peccato (pena). Per i Padri il Battesimo costituiva una sorta di ritorno al paradiso terrestre: il rito del Battesimo non c’è solo la professione di fede, ma anche la rinuncia a Satana; Tommaso afferma che dopo il peccato permangono le paenalitates presentis vitae: nel battezzato permangono le conseguenze del peccato. Per Lutero e Trento, abbiamo già visto sopra. Per il CCC, dopo il Battesimo rimangono le conseguenze temporali del peccato (sofferenza) e l’inclinazione al peccato. Nella dichiarazione congiunta (cattolico-luterana) sulla Dottrina della giustificazione si afferma l’essere peccatore del giustificato, sebbene per noi cattolici l’uomo è fatto santo nel Battesimo.
Circa l’effetto di nuova creazione, cfr. testo di Gregorio di Nissa.
Circa la filiazione divina, si pensi a Gv 1,12, dove credere non ha solo valenza giuridica, nominale, ma ha valenza ontologica (cfr. Gv 6,42; 1Gv 3,1): chi crede ha la vita eterna, perciò la vita eterna è già qui. Tertulliano ci dice che la Chiesa è la madre del neofito diventato figlio di Dio; anche Ireneo parla del Battesimo come nuova nascita.
Circa la partecipazione alla natura divina, questo tema è più caro agli orientali (v. slides).
Le conseguenze del Battesimo sono di 3 tipi: spirituali, etiche, pastorali. In Novo millennio ineunte, Giovanni Paolo II afferma che il Battesimo dà la santità all’uomo nuovo (cap. III) e spinge poi al comandamento dell’amore (cap. IV).

Vediamo ora il sacerdozio battesimale. Esso è sacerdozio:

-        dei fedeli: per fedeli si intendono tutti i battezzati
-        comune: non perché secondario, ma comune a tutti i battezzati;
-        battesimale: fondato sul Battesimo;
-        fondamentale: costituisce il fondamento di ogni stato di vita.

Vediamo il fondamento biblico del sacerdozio. Il sacerdozio greco-pagano ed ebraico hanno come elemento caratterizzante la mediazione tra il divino (sacro) e l’umano (profano). Il termine ebraico kohen può essere tradotto o con iereus o con leitourgos: la LXX preferisce sempre il primo (che ha significato di mediazione in ambito cultuale) e non il secondo (significato politico e generale, prima che cultuale). Soltanto con 1Pt 2,5.9 e Ap 1,6; 5,10; 20,6 si parla di sacerdozio battesimale e queste citazioni sono in riferimento a Es 19,6 (basileion ierateuma): la Bibbia ebraica parla di regno di sacerdoti (regno come somma di sacerdoti), mentre la LXX parla di regno sacerdotale (il regno come corpo sacerdotale); nella Bibbia ebraica il regno è un insieme di singoli e la sovranità è assunta solo dai sacerdoti, mentre nella Bibbia greca il regno è un corpo unico e la connotazione sacerdotale è estesa a tutto il popolo. Il termine ierateuma è un neologismo della LXX e ha un sufisso importante (-euma) che esprime una dimensione corporativa: siamo perciò di fronte all’idea del corpo. Nella Scrittura abbiamo infine la presenza di altri termini (popolo, stirpe, nazione), che esprimono questa dimensione corporativa e sottolinea la dignità della Chiesa nel suo insieme. Il sacerdozio dei fedeli non si tratta perciò di un sacerdozio vissuto in una modalità individualistica, ma di un sacerdozio posseduto tutti insieme in modo organico. Esso non è in contrapposizione con il sacerdozio ordinato: non si intende dare una dignità particolare ai singoli battezzati in rapporto ai sacerdoti ordinati, come avvenne con la Riforma che utilizzò questo passo per esaltare il sacerdozio dei fedeli a scapito di quello ordinato. I battezzati hanno invece una loro dignità: essi sono tempio del Dio vivente e sono chiamati ad offrire la propria vita come sacrificio santo e gradito a Dio.
Circa la riflessione patristica sul sacerdozio battesimale, Ambrogio commentando, l’unzione post-battesimale, afferma che tutti siamo unti con la grazia spirituale per il regno di Dio e per il sacerdozio. Agostino, commentando Ap 20,6, afferma che queste parole non riguardano solo vescovi e preti, ma a causa dell’unzione battesimale consideriamo tutti i fedeli unti del Signore. Giovanni Crisostomo, commentando 2Cor 1,21, afferma che Dio ci ha dato lo Spirito rendendoci re, sacerdoti e profeti. Riguardo alla riflessione patristica, si può vedere che il metodo è una fondazione liturgica e biblica, mentre il contenuto riguarda tutti i fedeli, il sacerdozio.
La riflessione medievale riprende quella patristica e accentua il culto.
Nell’epoca moderna, Lutero afferma che non vi è alcuna distinzione ontologica tra gerarchia e laici e nessuna distinzione ontologica tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune. In forza del Battesimo e della fede tutti hanno davanti a Dio la stessa dignità sacerdotale: in quanto sacerdote, ogni cristiano non ha bisogno di alcun mediatore se non di Cristo per accedere al Vangelo. Ogni cristiano è inoltre chiamato ad annunciare al Vangelo. Il ministero ordinato ha il compito di guidare la comunità e predicare ed è la stessa comunità che stabilisce chi deve diventare ministro ordinato. L’ordinazione non conferisce alcuna consacrazione, ma solo il diritto di annunciare la Parola e amministrare i sacramenti: tutti i battezzati hanno il medesimo diritto, ma per amore dell’”ordine” vengono delegate alcune persone.
Trento risponde con la sacramentalità dell’Ordine: essa si oppone alle tesi luterane sui sacerdoti, che hanno un potere spirituale specifico che li differenzia dai laici, che hanno un ministero non temporaneo ma permanente, che hanno un ministero non solo funzionale alla predicazione e ai sacramenti; i vescovi sono successori degli Apostoli. Mentre Lutero dunque esalta e assolutizza il sacerdozio battesimale e nega il sacerdozio ordinato, da Trento al XX sec. si minimizza il sacerdozio battesimale e si esalta il sacerdozio ordinato.
Nei documenti dei papi del Novecento si riprende la prospettiva del sacerdozio dei fedeli; ciò viene dichiarato esplicitamente dal Vaticano II, in LG 10, dove troviamo la triplice dimensione regale (offrire tutte le attività umane), profetica (annunciare i prodigi) e sacerdotale (sacerdozio santo). Circa la dimensione sacerdotale, Cristo è il sacerdote che ha offerto se stesso e i fedeli partecipano al sacerdozio di Cristo, in quanto offrono se stessi e partecipano al culto divino: non vi è divisione tra vita e culto. Circa la dimensione profetica Cristo è la profezia di Dio e i fedeli partecipano a tale profezia, in quanto offrono se stessi e annunciano rendendo testimonianza: non vi è divisione tra vita e missione. Circa la dimensione regale, Cristo è re dell’umanità, del cosmo e della storia e i fedeli partecipano a tale regalità, in quanto essi offrono se stessi e, risorti offrono le attività umane: non vi è divisione tra vita e realtà terrene.

Vediamo ora la questione della speranza della salvezza dei bambini che muoiono senza Battesimo (cfr. documento CTI 2007). Al n. 103 vi è la sintesi di tutto questo documento: Dio vuole salvare tutti. Il fatto che Dio possa salvare senza Battesimo è faccenda sua, a noi sta rimanere nella via ordinaria che è quella del Battesimo.


  1. LA CONFERMAZIONE

Nella prospettiva biblico-patristica il Battesimo è stato associato al dono dello Spirito Santo: esiste allora un sacramento specifico che conferisce lo Spirito? Nella prospettiva teologica, se il Battesimo porta alla pienezza dell’inserimento in Cristo, che valore ha la confermazione? Nella prospettiva storica, nella genesi dei sacramenti dell’iniziazione cristiana la Confermazione sembra accessoria al Battesimo. Nella prospettiva ecumenica la Confermazione è considerata sacramento solo nel mondo cattolico e ortodosso, non in quello riformato. Ma allora: in che senso è sacramento la Confermazione? In prospettiva pastorale, come si configura la Confermazione all’interno della formazione cristiana? Nell’iter dei bambini la Confermazione sembra il culmine, mentre in quello degli adulti è l’Eucarestia a sembrare anche il culmine.

Vediamo il fondamento biblico:

-        in 1Cor 12,13 si parla di un solo Spirito e di un solo corpo nel contesto battesimale;
-        in 1Cor 6,11 si afferma che siamo stati lavati, santificati e giustificati nel nome di Gesù e dello Spirito;
-        in 2Cor 1,21-22 si afferma che Dio, conferma in Cristo, conferisce l’unzione (importante verbo ungere), imprime il sigillo (importante il verbo suggellare), e dà la caparra dello Spirito;
-        in Ef 1,13-14 si dice che i cristiani hanno ricevuto il suggello dello Spirito, che è caparra della nostra eredità;
-        in Tt 3,5 si dice che siamo stati salvati mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito.

Ci soffermiamo sull’unzione, sul sigillo e sullo Spirito.
Circa l’unzione, nell’AT troviamo che venivano unti i sacerdoti (Es 29,7; Lv 4,3), i re (1Sam 16,1-13: dopo l’unzione lo Spirito si posa su Davide da quel giorno in poi; vi è uno stretto legame tra unzione e dono dello Spirito: con l’unzione si comunica lo Spirito) e i profeti; circa la consacrazione dei profeti, essa si pone spesso su un piano metaforico e indica l’investitura da parte di Dio attraverso un suo rappresentante autorizzato e riconosciuto tale (il profeta diviene rappresentante di Dio). Nell’unzione vi è sempre una persona autorizzata a ricevere l’unzione: l’unzione porta lo Spirito e lo Spirito porta alla consacrazione e alla missione.
Nel NT l’unzione compare solo in Gc 5,13-15: essa non dona lo Spirito Santo, ma porta alla guarigione dei malati.
Circa il sigillo, “suggellare” significa accoglienza di Dio che offre protezione e significa appartenenza a Dio (che diviene proprietario): in altri termini, attraverso il sigillo Dio salva. In 2Cor 1,21-22 il soggetto è Dio ed è trinitario. Quanto detto viene confermato da CCC 1295-1296: il sigillo è il simbolo della persona dello Spirito, il segno della sua autorità e della sua proprietà (per questo lo si imprimeva sui propri soldati o sui propri schiavi): il sigillo dello Spirito Santo segna l’appartenenza totale a Cristo, l’essere a suo servizio per sempre e la promessa della divina protezione nella grande prova escatologica.
Circa lo Spirito, in Paolo e Gv abbiamo uno stretto legame tra il Battesimo e il dono dello Spirito. Nell’AT lo Spirito non è per la persona in sé, ma per la sua missione, tanto che lo Spirito si può ritirare dalla persona (1Sam 16,14); infine lo Spirito sarà dato in pienezza al Messia: vi è una dimensione messianico-escatologica, dal momento che il Messia verrà consacrato con l’unzione dello Spirito. È l’unzione profetica che ha le due dimensioni della consacrazione e della missione. L’AT è dunque già orientato alla pienezza cristologica. Inoltre, nell’AT, la salvezza raggiungerà Israele e tutti i popoli (Is 11) e Dio metterà lo Spirito nel cuore dell’uomo (Ez 36): già l’AT ha la visione di una salvezza universale; di fatto è quanto avverrà con la Nuova Alleanza, di cui già parla Ger 31,31.
Nel NT vediamo la presenza dello Spirito in rapporto all’iniziazione cristiana. In At lo Spirito è donato: 1) dopo il Battesimo (At 2,38; 8,17; 19,6); 2) senza il Battesimo (At 2,1-41; 11,15-17); 3) prima del Battesimo (At 10,47-48); lo Spirito dunque fa quello che vuole. Lo Spirito è donato con l’imposizione delle mani dopo il Battesimo (At 8, Pietro e Giovanni in Samaria; At 19, Paolo ad Efeso). In At 8,14-17 la forte dimensione ecclesiologica è collegata alla valenza pneumatologica: l’accoglienza e l’appartenenza alla Chiesa si attua mediante gli apostoli attraverso i quali si ha il dono dello Spirito Santo; nonostante la Samaria abbia già accolto la fede, è necessaria la comunione con la Chiesa. In At 19,1-7 abbiamo in successione cronologica: l’annuncio del mistero di Cristo, il Battesimo, l’imposizione delle mani, il dono dello Spirito.
Circa l’imposizione delle mani, esso era un gesto utilizzato per:

-        benedizione (Gen 48,14-20; Mt 19,13);
-        trasmissione di uffici o di compiti (Nm 27,18-23; At 6,6; 13,3);
-        guarigione da malattie (solo NT: Mt 9,18; Mc 16,18; Lc 4,40);
-        dono dello Spirito dopo il Battesimo (solo NT: At 8,14-17; 19,5-6).

Circa il rapporto tra l’imposizione delle mani e il dono dello Spirito, vi sono 2 teorie interpretative:

-        in alcuni casi il dono dello Spirito dipende esclusivamente dall’imposizione delle mani, per cui al Battesimo non si ha dono dello Spirito. Esso è un tentativo di dare fondamento biblico alla Confermazione;
-        in altri casi il dono dello Spirito non dipende esclusivamente dall’imposizione delle mani, per cui al Battesimo si ha il dono dello Spirito, ma non nella pienezza, come per i Samaritani. Questa impostazione è preferibile, in quanto non prende solo alcuni versetti per confermare una tesi alla quale si è già aderito.

L’unzione dunque, con il suo legame al dono dello Spirito, manca nel NT, mentre è presente nell’AT.
Courth giustamente ricorda che il dono dello Spirito non implica un nuovo Redentore, ma si riferisce al compimento della redenzione operata da Cristo. Testa nota che già la Chiesa apostolica intuisce che è necessario, dal momento che lo ha detto lo stesso Gesù promettendo lo Spirito, trovare dei segni attraverso cui si comunica lo Spirito.
Teniamo presente che, per quanto riguarda la comunicazione del dono dello Spirito, la tradizione occidentale predilige l’imposizione delle mani (NT), mentre la tradizione orientale l’unzione (AT).

Vediamo l’esperienza e la riflessione dei Padri.
Nel primo millennio l’iniziazione cristiana è costituita da un rito fortemente unitario. Abbiamo già visto a tal proposito lo schema del rito che abbiamo nella Traditio Apostolica: triplice domanda della professione di fede, Battesimo, prima unzione del presbitero, ingresso in chiesa, imposizione delle mani, preghiera del vescovo, seconda unzione, bacio della pace, Eucarestia; Ippolito ci trasmette anche il testo della preghiera del vescovo.
Molto interessante è quanto scrive Tertulliano nel De Baptismo: non è esatto asserire che nell’acqua riceviamo lo Spirito; nell’acqua veniamo piuttosto purificati e veniamo preparati a ricevere il dono dello Spirito. L’imposizione delle mani è il rito attraverso il quale si trasmette lo Spirito. Nella Lettera 73 Cipriano richiama At 8 e afferma che i battezzati si presentano ai loro capi e, attraverso la loro preghiera e l’imposizione delle mani, ottengono lo Spirito Santo e il Signore dona loro il sigillo della perfezione; Cipriano è il primo autore che collega esplicitamente la comunicazione dello Spirito e l’imposizione delle mani dopo il Battesimo.
Molto importante è la Catechesi 21 di Cirillo di Gerusalemme, conosciuto per le sue catechesi mistagogiche. Siamo infatti nel periodo post-costantiniano: il periodo di catecumenato da 3 anni si riduce alla Quaresima, perciò i vescovi insistono maggiormente nelle catechesi mistagogiche dopo il Battesimo. In questa catechesi Cirillo indica un rapporto costante tra Cristo e i cristiani: quello che Cristo ha vissuto (acqua-Spirito) è ciò che vive anche il cristiano. Abbiamo:

-        una fondazione cristica dell’unzione in un orizzonte trinitario-pneumatologico. ;
-        una fondazione cristologico-pneumatologica: vi è il triplice riferimento al Battesimo, alla crismazione (come con il Battesimo si è uniti alla morte e alla resurrezione di Cristo, con la Cresima siamo resi partecipi dell’unzione stessa che Cristo ricevette; riferimento a Rm 6 per il Battesimo) e al crisma (come nell’Eucarestia è presente Cristo, così nel crisma è presente lo Spirito Santo);
-        una fondazione biblica: vi è il duplice riferimento all’AT e al NT. L’idea soggiacente è quella del rapporto typos-antitypos tra i due Testamenti.

Infine vediamo Ambrogio, che è il primo Padre a parlare di confermazione in De mysteriis.

Vediamo l’epoca medievale.
Dal IX sec. la Confermazione diviene autonoma. Il Battesimo dei bambini si allarga, dal momento che siamo nel regime di Christianitas: perciò ministro del Battesimo diviene il sacerdote. La Cresima invece viene differita in quanto considerata prerogativa del Vescovo (lettera di Innocenzo I al vescovo di Gubbio, 416). Da questa separazione tra Battesimo e Confermazione seguì una riflessione che tentò di giustificare a livello teologico tale separazione (cfr. omelia di Fausto di Riez).
Circa la riflessione scolastica, Pietro Lombardo (che mette insieme le glosse che si facevano dalla alla lettura della Sacra Scrittura: ecco le Sentenze) riflette circa gli effetti del sacramento; il Battesimo e la Confermazione operano entrambe il dono dello Spirito: mentre però nel Battesimo l’effetto è quello della remissione dei peccati, nella Cresima è la fortificazione del cristiano. Perciò il Battesimo deve essere amministrato subito (in quanto è collegato alla salvezza o meno), mentre la Cresima perde importanza e viene differita nel tempo: certamente la Cresima fortifica, ma a cosa serve se decisivo per la salvezza è il Battesimo?
Centrale nella Scolastica è la riflessione di Tommaso d’Aquino. In S. Th III, q. 72 Tommaso esamina 12 questioni. In esse vediamo come Tommaso si preoccupi di essere scientifico, cioè si preoccupa di utilizzare la metafisica e la logica di Aristotele: egli si interroga innanzitutto sulla natura della cresima (se sia sacramento o meo), sulla materia (causa materiale) e sulla forma (causa formale), sul carattere e sulla grazia (causa finale). Inoltre l’Aquinate si sofferma anche sugli effetti e sul ministro del sacramento; come ultimo punto infine vi è anche il riferimento al rito: la lex credendi è fatta di 11 punti e precede la lex orandi (1 punto solo). È presente anche un certo sottofondo giuridico, in quanto Tommaso è preoccupato anche delle condizioni di validità del sacramento.
Sostanzialmente egli afferma, con un’analogia rispetto alla vita umana, che la vita spirituale è ricevuta mediante il Battesimo (che è rigenerazione spirituale), mentre nella Cresima si ottiene, per così dire, l’età perfetta della vita spirituale. In entrambi i sacramenti agisce lo Spirito Santo: ma mentre nel Battesimo si ha una rinascita spirituale, nella Cresima si raggiunge la maturità della vita spirituale. Nell’analisi di Tommaso:

-        il sacramentum tantum è il segno esteriore o il rito: nella Cresima è l’unzione col crisma e l’imposizione della mano (l’imposizione della mano è però riferita unicamente alla prassi apostolica e non avviene più);
-        la res et sacramentum è l’effetto oggettivo intermedio (permanente): nella Cresima è il carattere, che non si può mai perdere;
-        la res sacramenti è la grazia effetto del sacramento (fine ultimo): nella Cresima è la grazia santificante, che invece può essere persa.

Il Concilio di Firenze, nel decreto Pro Armenis, accoglie Tommaso e dà una prima descrizione organica dei sacramenti. Sia il Battesimo e la Cresima operano il dono dello Spirito: mentre il Battesimo segna una rinascita spirituale, la Confermazione costituisce la maturità della vita spirituale e rende forti in essa. Se la Confermazione è legata alla forza, essa allora deve essere celebrata in età adulta: un neonato non ha forza.

Vediamo ora il Concilio di Trento.
La Riforma non accettò la sacramentalità della Confermazione per diversi motivi:

-        mancanza di riferimenti biblici;
-        veniva mortificato il Battesimo, bisognoso di integrazioni;
-        la Cresima non era amministrata in vista dell’Eucarestia;
-        essendo riservata al Vescovo, essa appariva una cerimonia.

A questo rispose il Concilio di Trento, con una risposta molto breve che non intende essere certamente esaustiva. La Confermazione:

-        è istituita da Cristo;
-        imprime il carattere;
-        è vero sacramento: perciò non è né catechesi, né cerimonia;
-        è riservata al Vescovo.

Il Concilio di Trento ebbe importanti implicazioni pastorali: il rinnovamento da questo punto di vista viene espresso dal Pontificale Romano e dal Catechismo. Riprendendo il Pontificale di Guglielmo Durando, secondo il Pontificale Romanum (1595), nella maggior parte dei casi la Confermazione si conferisce non il Sabato Santo (il vescovo non poteva presenziare in tutti luoghi della diocesi) e viene staccata dal Battesimo e dall’Eucarestia; in esso si introduce lo “schiaffetto”, eliminato dalla riforma del Vaticano II: originariamente il vescovo, come accoglienza, dava al cresimato un bacio; nel Medioevo lo schiaffetto era il segno del fatto che il cresimato era divenuto miles Christi, era divenuto grande. Il Catechismo Romano (1566) stabilisce la Confermazione a 7 anni e la Prima Comunione a 11 anni.
Circa l’età della Confermazione, dal XIII sec. si è stabilito che la Confermazione possa essere celebrata dall’età con uso di ragione (7 anni). Dal XVIII sec. in Francia, la Confermazione inizia ad essere procrastinata dopo la Prima Comunione, sotto l’influenza illuminista (se si deve annunciare Cristo, si deve essere grandi nella ragione: perciò la ragione vi è non tanto a 7 anni, ma più tardi), giansenista (i sacramenti richiedono la perfezione per accedere ai sacramenti) e, dopo la Rivoluzione francese, per l’assenza di vescovi. Dal XIX sec. anche in Germania, in Austria e in Ungheria la Confermazione inizia ad essere ritardata dopo la Comunione; sempre nel XIX sec. però, in Francia, sotto l’influenza della Santa Sede, la Comunione viene ritardata dopo la Cresima. In Italia, nel XX sec., la Confermazione viene posta a 7 anni e poco dopo si celebra la Comunione (pochi mesi dopo): in questa scelta vi è l’influenza del CJC del 1917. Nel 1910, con il decreto Quam singulari, Pio X stabilisce la Prima Comunione all’età di 7 anni, mentre la Confermazione viene ulteriormente differita. Per quanto riguarda l’Italia, poco prima e dopo il Vaticano II, i vescovi chiedono di rimandare la Confermazione, per 3 motivi:

-        la Confermazione era troppo vicina alla Comunione;
-        in tal modo si dava ai candidati una maggiore formazione;
-        esso è il sacramento della militia Christi: dunque è richiesta una certa responsabilità.

Passiamo ora al Vaticano II.
Il Vaticano II mira innanzitutto al recupero di una visione unitaria dell’iniziazione cristiana: perciò SC 71 invita ad una revisione del rito della Confermazione, in cui le promesse battesimali precederanno il rito della Confermazione. Questi sono gli aspetti presenti nella Confermazione:

-        funzioni sacerdotali, profetiche e regali dei fedeli: in LG 10 si parla sia di rigenerazone che di unzione e si afferma che il Battesimo e la Confermazione fondano appunto tali funzioni dei fedeli;
-        il fondamento pneumatologico;
-        l’orizzonte cristologico;
-        la valenza ecclesiologica;
-        le dimensioni ontologica (ad intra) e storica (missio): sia il Battesimo sia la Confermazione hanno aspetto ontologico ed esistenziale, mentre prima si credeva che il Battesimo avesse valore ontologico (rende cristiani) e la Cresima valore esistenziale (invio in missione). In LG 11 si afferma che già col Battesimo il cristiano, incorporato alla Chiesa, è tenuto a professare la fede. Con la Confermazione, il cristiano viene vincolato più perfettamente alla Chiesa, viene arricchito di una speciale forza dallo Spirito Santo e sono più strettamente obbligati a diffondere e difendere con la parola e le opere la fede. In LG 11 vi è un riferimento all’iniziazione cristiana nella sua visione unitaria (Battesimo, Confermazione, Eucarestia).

La Confermazione dunque unisce più perfettamente alla Chiesa: quindi la Confermazione ha valenza ecclesiologica; essa dona anche forza dallo Spirito: abbiamo anche una fondazione pneumatologica. Vi è infine un orizzonte cristologico storico: il cristiano viene infatti visto come testimone di Cristo, chiamato a diffondere e difendere con parole ed opere la fede. Dunque la Confermazione ha anche valenza ontologica e non solo storica. Inoltre Battesimo ed Eucarestia sono orientati all’Eucarestia, alla quale si partecipa offrendo la vittima divina e se stessi.
In LG 26 si afferma che il vescovo è il ministro originario della Confermazione: ancora una volta si sottolinea la valenza ecclesiologica della Confermazione.
In LG 33 si sottolinea come i laici sono chiamati a contribuire alla santificazione della Chiesa e alla sua missione: ogni cristiano, in virtù del Battesimo e della Cresima, è deputato all’apostolato, che è partecipazione alla stessa missione salvifica della Chiesa. Anima di questo apostolato sono i sacramenti, specie l’Eucarestia.
Stessa verità viene affermata da AA 3: Battesimo e Confermazione costituiscono il legame fondativo con Cristo, mandante dell’apostolato, e fondano il sacerdozio regale (aspetto sacerdotale), la nazione santa in  forza delle quali i laici possono offrire sacrifici spirituali con le proprie attività (aspetto regale) nonché testimoniare Cristo (aspetto profetico). Battesimo e Confermazione, incorporando in Cristo e nella Chiesa, abilitano all’apostolato e tendono all’Eucarestia (culmen), mentre l’Eucarestia, comunicando la carità, costituisce l’anima dell’apostolato (fons).
In AG 36 si afferma che tutti i fedeli, come membra di Cristo a cui sono stati incorporati e configurati mediante il Battesimo, la Confermazione e l’Eucarestia (notare l’ordine), hanno l’obbligo di cooperare all’espansione del suo corpo, per portarlo prima possibile alla sua pienezza.

Vediamo ora la celebrazione del sacramento.
Nella costituzione apostolica Divinae consortium naturae di Paolo VI si mettono in evidenza: l’elemento essenziale del rito (unzione) e la formula pneumatologica. Per il rito della Confermazione, leggere bene la costituzione e i praenotanda!
Nella DCN Paolo VI:

-        promulga il nuovo rituale (come chiesto da SC 71);
-        propone una prospettiva biblica, patristica e storica;
-        riprende le tematiche del Vaticano II;
-        stabilisce l’elemento essenziale del rito, che è l’unzione;
-        stabilisce una formula pneumatologica.

Circa l’elemento essenziale, vi è una differenza fra la tradizione occidentale e quella orientale: la crismazione/unzione con olio viene messa in evidenza nella tradizione orientale, mentre l’imposizione delle mani nella tradizione occidentale; l’unzione con l’olio la ritroviamo nell’AT, mentre l’imposizione delle mani la ritroviamo nel NT. Nel Discorso 324 Agostino afferma che dopo il Battesimo si è unti e si riceve l’imposizione delle mani; nel Discorso 302 Agostino afferma che il cristiano porta sulla fronte la croce di Cristo: da queste due citazioni vediamo come l’unzione c’è anche nella tradizione occidentale, ma ha valenza non pneumatologica, ma cristologica (non è vero perciò che l’unzione è presente unicamente nella tradizione orientale con valenza pneumatologica). Dunque, nella tradizione occidentale, la Confermazione ha in sé l’unzione con olio, che implica la configurazione a Cristo, e l’imposizione delle mani, attraverso cui si comunica il dono dello Spirito.
Tommaso parla della materia della Confermazione, che è l’unzione crismale, senza alcun riferimento all’imposizione delle mani (se non per la prassi apostolica); l’imposizione delle mani riappare solo nel XVIII sec.
Nella DCN di Paolo VI si afferma che il sacramento della Confermazione si conferisce mediante l’unzione del crisma sulla fronte, che si fa con l’imposizione della mano e mediante le parole “Ricevi il sigillo del dono dello Spirito Santo che ti è dato in dono”. Anche se non appartiene all’essenza del rito sacramentale, l’imposizione delle mani è da tenersi in grande considerazione, in quanto serve a integrare maggiormente il rito stesso e a favorire una migliore comprensione del sacramento. Questa imposizione delle mani, che precede la crismazione, differisce dall’imposizione della mano, con cui si compie la funzione crismale sulla fronte.
Circa la formula che viene recitata nella Confermazione, essa è trinitaria in Ippolito Romano, nei pontificali del XII sec., nel Pontificale di Guglielmo Durando e nel Pontificale Romano del Concilio di Trento (1595); essa è invece pneumatologica in Tertulliano, nel rito bizantino e nella DCN. Mentre Trento è cristologico-trinitario, Paolo VI è pneumatologico.
Questa la struttura del rito della Confermazione:

-        Liturgia della Parola;
-        presentazione dei confermandi al vescovo;
-        omelia del vescovo;
-        rinnovazione delle promesse battesimali;
-        esortazione alla preghiera rivolta ai fedeli (imposizione delle mani sui candidati e preghiera trinitaria in cui si chiede l’effusione dello Spirito)
-        crismazione con la formula pneumatologica e gesto di pace (è tolto lo schiaffetto);
-        preghiera dei fedeli;
-        Liturgia eucaristica;
-        benedizione finale.

Vediamo alcuni aspetti della Confermazione.
Circa la spiritualità, perché il sacramento incida nel quotidiano, è necessaria una seria preparazione catechetica, recuperando gli antichi valori del catecumenato, una consapevole celebrazione del rito e la continuità nel quotidiano di ciò che è stato vissuto ritualmente. In tal modo dalla lex credendi e dalla lex orandi si giunge alla lex vivendi: dopo il rito segue necessariamente la vita. La Confermazione non solo porta a compimento il cammino di iniziazione cristiana (che però è l’Eucarestia! Non è condivisibile questo!), ma avvia il credente a riconoscere la sovrana libertà del pneuma di Cristo nella sua vita, ma anche a saper vivere sacramentalmente, cioè come manifestazione dello Spirito, tutta la sua esistenza (Tragan).
Circa il lato ecumenico, nel documento di Lima (cattolici, protestanti e ortodossi; 1982) si mette in evidenza il legame tra la Pasqua e la Pentecoste e si richiama la diversità circa i segni che donano lo Spirito: acqua, crisma e/o imposizione delle mani, tutti e tre i gesti insieme; vi è dunque confusione a livello ecumenico. La Confermazione, in rapporto al Battesimo:

-        rinvigorisce, intensifica, matura: questa affermazione convince sia un cattolico che un protestante, ma è più vicina all’ambito cattolico;
-        attualizza: è più vicina all’ambito protestante;
-        “integra”: unicamente cattolica come posizione

Il CCC richiama che la tradizione orientale sottolinea maggiormente l’unità dell’iniziazione cristiana, mentre quella latina evidenzia nettamente la comunione del nuovo cristiano con il vescovo, garante e servo dell’unità della sua Chiesa.
Circa il lato pastorale, si dibatte circa il posto in cui la Confermazione deve essere collocata: essa deve essere preferibilmente collocata prima dell’Eucarestia, che deve essere il coronamento del percorso di iniziazione cristiana, anche perché essendo l’Eucarestia reiterabile, si eviterebbe la “fuga” che avviene dopo la Confermazione.
Circa il diritto liturgico, si guardino i cann. 879-896. Al can. 879 vi sono gli aspetti introduttivi, quelli teologico-canonici (la teologia è dentro il CJC, proprio del CJC del 1983): è un canone pieno di citazioni del Vaticano II. Ai cann. 880-881 si parla della celebrazione: a differenza di quanto avveniva in Tommaso, la celebrazione è uno dei primi punti, tra quelli più importanti; il can. 880 riprende la DCN di Paolo VI (il CJC del 1917 affermava che l’imposizione della mano durante la crismazione non è necessaria per la validità e non specifica le parole da dire, rimandando ai libri liturgici), mentre il can. 881 afferma che la Confermazione deve essere celebrata in chiesa (è un sacramento) e durante la Messa (per mettere in evidenza il rapporto con l’Eucarestia). Ai cann. 882-888 si afferma che il ministro ordinario è il Vescovo diocesano; vi è poi anche il ministro che ha facoltà (presbitero) per diritto (equiparato al Vescovo diocesano nel proprio territorio, come gli abati nelle abbazie territoriali; presbitero che battezza un adulto per mandato del Vescovo), per speciale concessione, per associazione. Tuttavia, quando la Confermazione viene celebrata da un altro ministro, questi dovrà fare riferimento al Vescovo nell’omelia. Ai cann. 889-891 si parla dei confermandi che devono essere:

-        già battezzati
-        non devono aver ricevuto già la Confermazione
-        ben preparati
-        in grado di rinnovare le promesse battesimale
-        avere l’età di discrezione (sebbene le Conferenze Episcopali possano decidere altra età rispetto a 7 anni).

Ai cann. 892-893 si parla dei padrini, che non sono un optional, ma devono esserci per quanto possibile; è conveniente che sia lo stesso del Battesimo, per mettere meglio in evidenza il nesso fra questi due sacramenti.

Passiamo infine alla parte sistematica.
Innanzitutto ci soffermiamo sulla struttura del rito della Confermazione:

-        Liturgia della Parola: lex credendi;
-        presentazione dei candidati al vescovo;
-        omelia del vescovo;
-        rinnovazione delle pro,messe battesimali: legame con il Battesimo;
-        esortazione alla preghiera rivolta ai fedeli: imposizione delle mani e preghiera trinitaria;
-        crismazione con la formula “sigillo del donon dello Spirito Santo”;
-        gesto di pace;
-        preghiera dei fedeli;
-        Liturgia eucaristica;
-        Benedizione finale: lex vivendi.

Dunque si inizia con la lex credendi, poi vi è la lex orandi e infine vi è la lex vivendi.
Guardiamo alle dimensioni: cristologico-trinitaria, pneumatologica, ecclesiologica, escatologica.
Circa quella cristologico-trinitaria, il punto di raccordo è lo Spirito Santo. Guardando a Cristo, la sua unzione come Messia lo costituisce Figlio del Padre e al tempo stesso lo investe della missione del Padre. La Confermazione configura quindi a Cristo-unto: costituisce maggiormente figli e fa partecipare alla missione stessa di Cristo. Dal punto di vista liturgico (eucologia) la prospettiva trinitaria era evidente fino alla DCN (esclusa): si trattava però di una visione trinitaria che non entrava nella struttura del sacramento, ma vi era estrinseca e giustapposta; ora invece la dimensione trinitaria è all’interno della struttura del sacramento ed è associata all’imposizione delle mani (actio con cui si invoca lo Spirito Santo): si tratta di un atto pneumatologico, ma la forma è trinitaria.
Circa la dimensione pneumatologica, la Confermazione rende presente la grazia della Pentecoste: lo affermava già Tommaso, lo afferma DCN e lo affermano i teologi del XX sec. Dal punto di vista della celebrazione la dimensione pneumatologica risulta più evidente con la DCN. Nel XX secolo i grandi teologi riprendono i Padri: Cristo nasce a Natale e viene manifestato nel Battesimo; la Chiesa nasce a Pasqua e viene manifestata a Pentecoste; il cristiano nasce nel Battesimo e viene manifestato nella Confermazione.
Circa la dimensione ecclesiologica, la Confermazione rende presente la grazia della Pentecoste: nella Confermazione lo Spirito è donato ai confermati e a tutta la Chiesa. Come giustamente ricorda LG 11, la Confermazione dona una maggiore appartenenza ecclesiologica.
Circa la dimensione escatologica, molto importante è la forma “ricevi il sigillo del dono dello Spirito Santo”: parlare di signaculum allude al fatto che il cristiano ha ricevuto lo Spirito Santo già nel Battesimo. In 2Cor 1,21-22 si dice che Dio dona la caparra: la caparra è lo Spirito; stessa cosa in Ef 1,13-14, in cui il sigillo viene posto in rapporto alla caparra (il sigillo avrebbe perciò una valenza escatologica). Sigillo significa perciò appartenenza eterna a Dio, mentre caparra indica l’ulteriorità dell’eredità di Dio, che avremo in pienezza. L’appartenenza eterna a Dio implica l’appartenenza totale a Cristo e al suo servizio (“escatologia realizzata” in chiave storica: è un’appartenenza diaconale, in chiave del servizio) e la promessa della divina protezione nella prova escatologica (“escatologia finale” in chiave profetica); il discorso della caparra dello Spirito Santo richiama la dimensione peregrinante del cristiano e della Chiesa.

Vediamo ora alcune questioni.
Innanzitutto il rapporto Battesimo-Confermazione. Nella prospettiva dei Padri la Confermazione viene vista come il perfezionamento del Battesimo: inizialmente non viene specificato cosa significhi questa perfectio, mentre da Ambrogio in poi la perfectio significa pienezza dello Spirito, quindi perfezione della vita spirituale. Molto importante è l’Omelia di Pentecoste (460-70) del vescovo di Riez: questa omelia venne inserita nelle Decretales pseudo-isidoriane (IX sec.); attribuita a papa Melchiade, essa entrerà nel Decretum Gratiani e influenzerà perciò tutto il Medioevo. In questa omelia troviamo analogie con la vita militare: mentre il Battesimo rigenera per la vita, la Confermazione ci fortifica (robur: è un termine nuovo che sostituisce, in un certo senso, perfectio) per la lotta con le armi; mentre il Battesimo dona un nuovo essere, la vita nuova in Cristo, la Confermazione riguarda maggiormente l’agire, realizza la vita nuova ricevuta nel Battesimo. I limiti di questa prospettiva sono evidenti:

-        innanzitutto i nemici considerati da Fausto sono spirituali e la lotta è solo interiore e intima. La Confermazione darebbe la forza per vincere i peccati, sul piano dell’agire;
-        in realtà anche il Battesimo ha conseguenze sul piano dell’agire e anche la Confermazione ha conseguenze sul piano dell’essere.

Tommaso si ispira a Fausto di Riez, ma a differenza di Fausto non esclude la dimensione dell’agire nel Battesimo e non esclude la dimensione ontologica nella Confermazione, sebbene egli riconosca che il Battesimo riguardi per eccellenza l’aspetto ontologico, mentre la Confermazione quello pratico. In Tommaso robur indica primariamente la testimonianza pubblica della fede per diffondere il regno di Dio, anche se intende anche la lotta spirituale interiore; questa duplice prospettiva rimarrà fino ai nostri giorni. Abbiamo già visto come in Tommaso verrà utilizzata l’analogia con la vita umana, mettendo la nascita in rapporto al Battesimo e la crescita in rapporto alla Confermazione. Inoltre mentre con il Battesimo l’edificio spirituale viene costruito, con la Confermazione esso viene perfezionato; mentre il Battesimo è necessario alla salvezza, la Confermazione è necessaria alla perfezione della salvezza.
Molto discutere fece discutere all’inizio del XX secolo la posizione di Gregory Dix: il Battesimo darebbe solo il perdono dei peccati e sarebbe preliminare alla Confermazione, mentre la Confermazione darebbe solamente il dono dello Spirito Santo.
(v. posizioni dei teologi): l’inizio è con il Battesimo, la ripresa e il completamento sono con la Confermazione.

Vediamo la natura della Confermazione.
Auer mette in parallelo, come nei Padri, il rapporto tra Chiesa, Pasqua e Pentecoste e il rapporto tra cristiano, Battesimo e Confermazione: come lo Spirito Santo a Pentecoste porta a compimento il mistero pasquale, così lo Spirito nella Confermazione porta a compimento la salvezza operata nel Battesimale.
Schmaus critica Auer: tutta la Chiesa e il suo agire sacramentale è cristologico-pasquale (anche la Cresima perciò) e pneumatologico-pentecostale (anche il Battesimo perciò); il cristiano inoltre è raggiunto da Cristo solo nello Spirito Santo: se non vi fosse lo Spirito Santo nel Battesimo, come Cristo potrebbe raggiungere il cristiano, per cui la dimensione pneumatologica non può essere esclusiva della Confermazione (d’altronde tutti i Sacramenti hanno dimensione pneumatologica, in quanto operati dallo Spirito). Inoltre Tommaso critica Tommaso: se Tommaso aveva detto che la Confermazione porta a perfezione la vita cristiana, Schmaus rivendica che tutti i sacramenti portano a perfezione la vita cristiana. Secondo Schmaus la Confermazione infonde coraggio e forza (robur) per poter essere fedele a Cristo (lotta spirituale) e testimoniare pubblicamente la fede (se necessario con il sacrificio della vita). 
Muhlen afferma che il Battesimo può essere definito Battesimo di acqua e di riconciliazione, mentre la Confermazione può essere definito Battesimo di Spirito e di testimonianza: il primo è per il perdono dei peccati e per la salvezza personale, il secondo è per la testimonianza e per la salvezza degli altri.

Vediamo gli effetti della Confermazione.
Effetto della Confermazione è una speciale effusione dello Spirito Santo, come quella concessa agli Apostoli nel giorno di Pentecoste: ne deriva che la Confermazione apporta una crescita e un approfondimento della grazia battesimale (CCC1302-1303). La Confermazione:

-        ci radica più profondamente nella filiazione divina;
-        ci unisce più saldamente a Cristo;
-        aumenta in noi i doni dello Spirito Santo, messi in noi con il Battesimo;
-        rende più perfetto il nostro legame con la Chiesa (mette insieme Padri, perfectio, e Vaticano II, Chiesa);
-        ci accorda una speciale forza dello Spirito Santo per diffondere e difendere con la parola e con l’azione la fede, come veri testimoni di Cristo, per confessare coraggiosamente il nome di Cristo e per non vergognarci mai della sua croce.


  1. L’EUCARESTIA

Partiamo dalla prospettiva fenomenologica, che ha 3 dimensioni (antropologica, biblica, sacrificale) in 2 aspetti (individuale, conviviale)
L’Eucarestia è una realtà che si inserisce nell’ambito più profondo dell’esistenza umana, trasfigurandolo in una tangibilità che dice, invera e anticipa la comunione con Dio.
Circa la dimensione antropologica, l’Eucarestia ha una radice antropologica in quanto pone in evidenza il valore del nutrimento nella vita terrena, nei suoi vari aspetti, annunciando il Vero nutrimento per la vera Vita: il mangiare e il bere hanno un aspetto individuale (nutrirsi, avere vita) e un aspetto conviviale (comunione). Il luogo normale del pasto è, per la maggior parte degli uomini, la famiglia o anche un’altra comunità di vita: la communitas vitae suppone la communitas victus; il punto importante è che il nutrirsi sia condividere il cibo comune e non prendere un cibo individuale, anche se occorre che la ripartizione sia equa fra tutte le persone (Lafont): è sempre una comunità che mangia, non un insieme di individui. L’aspetto conviviale esprime e rafforza la comunione tra i membri di un gruppo: il pasto del gruppo si compie nei momenti più importanti della sua vita o della vita di un suo membro.
Circa la dimensione biblica, il mangiare e il bere nell’AT, nell’aspetto individuale, permette di vivere e di compiere ciò che si deve fare: si guardi a Saul (1Sam 28,20-25), Davide (1Sam 21,4-7) ed Elia (1Re 19,5-8); si mangia, dunque, non solo per vivere, ma per compiere una missione data da Dio: mangiare è perciò segno di vita e non mangiare è segno di morte. Nell’aspetto conviviale il mangiare e il bere esprimono la comunione umana che si manifesta come:

-        ospitalità (Gen 18,1-8);
-        suggello di un’alleanza (Gen 26,30; 31,4): non è tollerabile la presenza di un falso amico o di un traditore al pasto, in quanto il pasto vuol dire comunione (Sal 41,10);
-        perdono (2Re 25,27-30).

Nell’aspetto conviviale si esprime anche la comunione con la divinità: si pensino ai sacrifici di comunione con il Dio di Israele (una parte si brucia a Dio e una parte la si mangia), ma anche ai pasti sacri (es. il mangiare carni immolate agli idoli; 1Cor 10).
Circa la dimensione sacrificale, il cibarsi implica il morire: infatti qualcosa cessa di vivere perché possa diventare cibo che dà la vita.

Passiamo ora alla terminologia.
Per dire Eucarestia vi sono molti nomi in CCC:

-        il n. 1328 si parla di Eucarestia come rendimento di grazie. I termini eucharistein e eulogein ricordano le benedizioni ebraiche che proclamano le opere di Dio: la creazione, la redenzione e la santificazione;
-        il n. 1329 si parla di cena del Signore, che Gesù ha consumato con i suoi discepoli la vigilia della sua passione e l’anticipazione della cena delle nozze dell’Agnello
-        il n. 1329 parla anche di frazione del pane. Questo gesto era tipico della cena ebraica e fu utilizzato da Gesù quando distribuiva il pane come capo della mensa. Da questo gesto lo riconosceranno i discepoli di Emmaus e con tale espressione i primi cristiani si riferiranno all’assemblea eucaristica. Lo spezzare il pane esprime la comunione tra quanti spezzano l’unico pane;
-        il n. 1329 parla anche di assemblea eucaristica (synaxis), in quanto l’Eucarestia viene celebrata nell’assemblea dei fedeli, espressione visibile della Chiesa;
-        il n. 1330 parla di memoriale della passione e della resurrezione del Signore;
-        il n. 1330 parla anche di santo sacrificio, in quanto attualizza l’unico sacrificio di Cristo Salvatore e comprende anche l’offerta della Chiesa. Inoltre il sacrificio eucaristico porta a compimento e supera tutti i sacrifici dell’antica alleanza;
-        il n. 1330 parla di santa e divina liturgia, perché tutta la liturgia della Chiesa trova il suo centro e la sua più densa espressione nell’Eucarestia…;
-        il n. 1330 parla anche di comunione, perché mediante questo sacramento ci uniamo a Cristo, che ci rende partecipi del suo Corpo e Sangue per formare un solo corpo;
-        il n. 1330 parla anche di Santa Messa, perché la liturgia, nella quale si è compiuto il mistero della salvezza, si conclude con l’invio dei fedeli (missio) affinché compiano la volontà d Dio nella loro vita quotidiana.
-        altri termini, oltre a quelli di CCC, sono calice del Signore (1Cor 11,27), che esprime la comunione con Cristo; sacramentum altaris e sacramentum unitatis e caritatis (Agostino); sacramentum caritatis (Tommaso).

Nel NT l’Eucarestia ha due riferimenti fondamentali: cena del Signore (1Cor 11,20) e frazione del pane (At 2,42; 20,7.11); abbiamo dunque il riferimento all’evento dell’Ultima Cena del Signore e il riferimento alla celebrazione della Chiesa apostolica.
Circa cena del Signore, si tratta di partecipare al mistero pasquale nella memoria di quanto il Kyrios ha detto e fatto. Si dice:

-        “nella notte in cui fu tradito” (1Cor 11,23): è presente innanzitutto un livello gesuano;
-        “il calice, il pane, comunione con Cristo” (1Cor 10,16): è il livello cristologico;
-        “siamo un solo corpo” (1Cor 11,17): è il livello ecclesiologico;
-        “annunciate la morte del Signore finchè egli venga” (1Cor 11,26): è il livello escatologico

Circa la frazione del pane, vi è il riferimento alla cena pasquale ebraica, dove vi era:

-        un antipasto, con la benedizione del capofamiglia sul 1° calice e le verdure intinte nella passata di frutta;
-        il pasto principale, con la benedizione del campofamiglia sul 2° calice, la benedizione del capofamiglia sul pane non fermentato e lo spezzare e la distribuzione del pane da parte del capofamiglia.

Vediamo ora la radice veterotestamentaria, con gli eventi tipologico-eucaristici nell’AT e la berakah.
Circa gli eventi tipologico-eucaristici dell’AT nel NT, la comprensione storico-salvifica che guarda al passato, lo rende presente e lo annuncia per un ulteriore intervento di Dio nella storia: si guarda al passato, che permette di contemplare gli interventi di Dio, nella certezza che Dio interverrà ancora nella storia per portarla a compimento (vi è dunque un ieri, un oggi e un domani). Soggetti a questa dimensione stanno alcuni eventi tipologico-eucaristici dell’AT nel NT: la Pasqua di liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, il sangue e il sacrificio dell’alleanza, il banchetto di comunione e la dimora di Dio (lo schema è typos, archetypos, che è Cristo che realizza il typos, e antitypos: la liberazione dell’Egitto diventa in Cristo passaggio al Padre, i sacrifici dell’AT diventano in Cristo l’unico sacrificio, la dimora di Dio diviene Cristo; inoltre, la liberazione dall’Egitto diventa nella Chiesa salvezza della Chiesa, il sacrificio diventa nella Chiesa l’offerta della propria vita, la dimora di Dio diviene la Chiesa, in quanto il nostro corpo è tempio del Dio vivente).
Circa la Pasqua di liberazione dalla schiavitù di Egitto, vi è innanzitutto l’idea del passaggio dalla schiavitù senza identità alla libertà di servire Dio come popolo in cammino nella mediazione (Mosè) verso la terra promessa; vi sono poi anche altri aspetti tipologici (oltre il passaggio): il mangiare pane azzimo, l’immolazione dell’agnello, essere sotto la nube e attraversare il mare, la manna dal cielo e la bevanda dalla roccia, un paese dove scorre latte e miele.

(manca una lezione)

La berakah ha 3 componenti:

  1. benedizione (iniziale e breve)
  2. memoriale (anamnesi) delle opere di Dio
  3. benedizione finale (dossologia).

Già da questa struttura si può notare come la parte centrale sia la più importante e abbia il contenuto storico, mentre l’orizzonte di fondo è dossologico e dunque rimanda all’escatologia. Inoltre abbiamo un’inclusione: la benedizione apre e chiude la berakah; l’inclusione è una forma letteraria molto importante nell’ebraismo che serve ad indicare la realtà intera: tra l’inizio e la fine vi è infatti il tutto.
Il memoriale, che è la parte centrale, è composto dal ricordo delle opere di Dio (passato come memoria), che viene reso contemporaneo attraverso la celebrazione (presente) e che prepara e anticipa l’incontro (futuro-profezia): come scrive Rocchetta, il rendimento di grazie (berakah) abbraccia tutta la storia, diventando memoria collettiva di ciò che di grande YHWH ha compiuto per la realizzazione del suo disegno eterno di salvezza. Proprio per questa sua ampiezza, la berakah biblica non è una produzione estemporanea di individui isolati, ma l’espressione della fede del popolo ed è pronunciata dall’assemblea (esempio significativo di questo è Ne 9): è la comunità a contemplare le opere di Dio, mentre il singolo è colui che semplicemente proclama e loda le opere di Dio ed è a servizio della comunità.

L’opera di Dio per eccellenza, nell’AT, è l’esodo. Si tratta della liberazione dall’Egitto e il passaggio del mar Rosso. La festa di Pasqua presenta il pane e il calice e ripresenta l’evento della liberazione dall’Egitto: vi è un evento storico ripresentato in un atto liturgico (Es 12).
La berakah è tradotta dalla LXX con i verbi eucharisteo e eulogeo. Il verbo eucharisteo è utilizzato da Paolo e Lc in generale, mentre in Mt e Mc è riferito al calice; il verbo eulogeo è utilizzato da Mt e Mc per il pane.

Passiamo ora al NT.
Partiamo dall’istituzione dell’Eucarestia, con 2 temi: le 4 redazioni e la questione della Cena come banchetto pasquale o meno.
Circa l’istituzione dell’Eucarestia, possiamo individuare una triplice dimensione:

-        tempo di Gesù: l’ultima Cena di Gesù con gli apostoli;
-        tempo della Chiesa: cristallizzazione liturgica, che si orienta in una duplice tradizione, palestinese e antiochena;
-        tempo degli scritti: presenta una tradizione comune, concorde e con peculiarità proprie.

Il dato storico è il seguente: la cena di Gesù è memoria anticipata e profezia in atto dell’evento pasquale (anticipa il mistero pasquale: la Cena è all’interno di un contesto pasquale). Le 4 tradizioni sono: Mt 26; Mc 14; Lc 22; 1Cor 11.
Circa le concordanze delle 4 redazioni, abbiamo alcuni punti in comune:

-        cena di Gesù con gli apostoli in contesto pasquale;
-        la celebrazione dei 2 riti tipici del giudaismo (benedizione e distribuzione del pane, offerta del calice ai commensali);
-        il fatto che Gesù ponga una relazione tra suo Corpo e pane “dato per” e suo Sangue e vino “versato per”;
-        legame tra l’Ultima Cena e mistero della Pasqua di Gesù, quale servo che dona la vita in riscatto di molti;
-        legame tra l’Ultima Cena e il banchetto escatologico;
-        eco della valenza liturgica già vissuta dalla Chiesa: nelle redazioni dei Vangeli

Vediamo ora invece la divergenza tra le 4 tradizioni:

-        mentre in Lc-1Cor vi è una maggiore distinzione tra la benedizione sul pane (prima della cena) e quella sul vino (dopo la cena), e dunque vi è un maggiore rispetto per l’ordine giudaico, in Mt-Mc le due benedizioni sono unite al punto da sembrare una, e dunque risentono maggiormente della prassi della Chiesa;
-        mentre in Lc-1Cor vi è l’ordine di Gesù “fate questo in memoria di me” (con il maggiore rispetto della convinzione giudaica sulla necessità di ripetere in forma celebrativa l’evento fondamentale e costitutivo), in Mt-Mc quest’ordine non c’è (ormai la celebrazione dell’Eucarestia è divenuta prassi della Chiesa);
-        mentre Lc-1Cor parlano di nuova alleanza nel mio sangue, Mt-Mc parlano di il mio sangue dell’alleanza.

Mt-Mc costituiscono la tradizione palestinese (prima del 40 d.C.), ricevuta da Pietro, dalla chiesa di Gerusalemme e dall’ambito semitico; Lc-1Cor costituiscono la tradizione antiochena (prima del 45 d.C.), in ambito ellenistico (Paolo).

Benedicendo il pane, Gesù porta come motivo non solo fare memoria della pasqua di liberazione dall’Egitto, ma la Pasqua della sua morte, espresso nella corrispondenza tra il pane spezzato e il corpo donato; benedicendo il vino, Gesù pone il passaggio dall’antica alla nuova alleanza nel “mio sangue”. Si tratta di due novità sostanziali a livello gesuano.
Le due tradizioni ci forniscono due modalità di descrizione complementari dell’Ultima Cena: bisogna infatti contestualizzare le pericopi e cogliere la vicenda di Gesù in una prospettiva globale che tiene conto del passato e del futuro.
La prospettiva delle due tradizioni, come fortemente separate, non è accolta concordemente da tutti gli esegeti. Questi autori dicono:

-        è prioritaria la paradosi di Mc 14, a causa di diversi semitismi e del logion testamentario sul “frutto della vite”: da Mc avrebbero ripreso tutti (Pesch);
-        prioritaria è 1Cor, a causa della sequenza della cena che prevede la frazione del pane, la consumazione del pasto e le parole sul calice (Marshall);
-        prioritaria è la tradizione di Lc a motivo del contesto pasquale della cena (Schurmann);
-        nessuna tradizione è prioritaria, ma per ogni termine il peso della bilancia cade sull’una o sull’altra paradosi (Barbaglio).

Vedi sulle slides la conclusione di Pitta.

Passiamo ora ad un’altra questione: Gesù istituì l’Eucarestia all’interno della cena pasquale ebraica?
Per i Sinottici la Cena del Signore è nel contesto di un banchetto pasquale, mentre per Gv la Cena del Signore è avvenuta il giorno prima di Pasqua e quindi non in un contesto di banchetto pasquale.
Quale la cronologia giusta? Anche tale questione è dibattuta tra gli studiosi. Secondo Jeremias, la cronologia giovannea sarebbe dovuta a motivazioni teologiche: Gv vuole presentare Gesù come il vero agnello pasquale; questa posizione ha avuto un influsso esegetico, teologico, liturgico e pastorale enorme. Ogg, nel 1965, sostiene la cronologia giovannea affermando che nei racconti della cena del Signore è assente ogni riferimento agli elementi tipici della cena pasquale ebraica (azzimi, agnello e erbe amare): in tal modo egli apre il dibattito rispetto a Jeremias.
La scoperta dei rotoli di Qumran mostra invece che la storicità è data da Gv e non dai Sinottici, in quanto sembra ammettere che Gv non sia una visione teologica, ma contenga anche dati cronologici: la morte di Gesù sarebbe avvenuta al momento dell’immolazione degli agnelli al tempio; l’Ultima Cena, secondo il calendario di Qumran, sarebbe avvenuta almeno un giorno prima della Pasqua ebraica, per cui l’Ultima Cena non fu pasquale.
Al di là di queste discussioni, bisogna dire, riprendendo Lafont, che ciò che tutti i vangeli affermano è che la morte di Gesù celebrata nell’Eucarestia della Chiesa è la vera Pasqua.

Passiamo ora a Paolo.
A differenza del Battesimo, quello dell’Eucarestia è un tema poco trattato in Paolo (1Cor 10-11); l’Apostolo tratta dell’Eucarestia “costretto” dalla situazione di Corinto: è lecito mangiare la carne degli idoli? La risposta paolina è questa: gli idoli non esistono, ma non si può entrare in comunione con essi.
I punti fondamentali dell’Eucarestia in Paolo sono 4:

-        comunione con il Signore
-        vincolo di unità
-        annuncio di Cristo crocifisso
-        banchetto escatologico

Innanzitutto l’Eucarestia è comunione con il Signore (1Cor 10,14-16): il corpo di Cristo è presente attraverso la figura del pane, mentre la comunione con il Signore è realizzata nella “mensa” offerta dal Signore (l’idea della comunione attraverso un pasto era già presente nell’AT).
L’Eucarestia è anche vincolo di unità (1Cor 10,17). La Chiesa non è una semplice unione di persone, che sanziona la propria unità/identità attraverso la celebrazione dell’Eucarestia, ma è il Corpo di Cristo unificato dall’Eucarestia: l’Eucarestia non è perciò funzionale alla comunità/Chiesa (ethos con epsilon), ma è fondativa della comunità/Chiesa (ethos con eta); non si può strumentalizzare l’Eucarestia in funzione della comunità. L’Eucarestia realizza la Chiesa e più la Chiesa realizza la sua missione più vive dell’Eucarestia.
L’Eucarestia è annuncio di Cristo crocifisso (1Cor 11,26): l’Eucarestia non è semplice ripetizione del banchetto pasquale, ma annuncio della presenza del Signore nell’oggi della storia.
L’Eucarestia è infine banchetto escatologico (1Cor 11,26): essa è prefigurazione e speranza per il futuro; nell’Eucarestia si ha già la comunione con Cristo ma al tempo stesso del non ancora di una comunione piena e definitiva.

Passiamo ora a Gv (vedere sulle slides lo schema delle allusioni all’Eucarestia in Gv: molto interessante è la struttura chiastica).
Gv 13 descrive l’Ultima Cena con la lavanda dei piedi, senza Eucarestia. La lavanda era presente nel banchetto pasquale ebraico. Vi sono però delle varianti rispetto al banchetto ebraico:

-        il soggetto non è il più giovane (Giovanni) che lava ma colui che presiede il banchetto (i primi sono ultimi, l’autorità è vista come servizio);
-        l’oggetto non sono le mani, ma i piedi: non si tratta di un semplice gesto rituale-cultuale (purificazione), ma di un servizio concreto.

La lavanda dei piedi, che era prerogativa dello schiavo, contiene il senso dell’Eucarestia, quello di un amore condizionato; nella diakonia si fa dunque memoria dell’Eucarestia. Il come in Giovanni non è né epesegetico (spiega ciò che viene prima) né imitativo, ma ha un valore fondativo: è Gesù che fonda il fatto che possiamo seguirlo.
Gv può anche non descrivere l’istituzione dell’Eucarestia perché essa è contenuta già nei Sinottici e l’Eucarestia è già celebrata nella comunità; d’altronde tutto Gv è eucaristico-pasquale: eucaristica perché Cristo offre la vita, pasquale perché Cristo passa/ritorna al Padre.
In Gv 6 Gesù afferma che i suoi interlocutori lo cercano (elemento cristologico) non perché hanno visto dei segni (elemento teologico: i segni sono il luogo della presenza salvifica di Dio), ma perché hanno mangiato del pane (elemento antropologico). Il “credere in colui che egli ha mandato” (v. 29), a cui Gesù invece invita (il segno esprime la presenza di Dio alla quale deve andare la fede), ripresenta questi tre aspetti: il credere quello antropologico, il riferimento colui a quello cristologico, il riferimento a egli a quello teologico. Gesù parte dal livello basso dei suoi interlocutori per alzare il livello.
Inizio del lungo discorso di Gesù è il v. 31, con il riferimento alla manna (i vv. 26-59 sono un’esegesi di questo versetto): la manna è il nutrimento dato da Dio durante l’esodo e nel tempo messianico.
I vv. 26-51 pongono l’identità tra il mangiare e il credere; i vv. 51-59 pongono l’identità tra il mangiare e la carne e il sangue di Gesù. La prima è la prospettiva simbolica (fede), sostenuta dai protestanti, mentre la seconda è la prospettiva reale (sacramento), propriamente cattolica.
I vv. 26-51 ribadiscono comunque la necessità della fede; successivamente si parla anche della comunione nel mistero cristologico; il v. 56 parla del dimorare con Cristo; la necessità di mangiare la sua carne e bere il suo sangue (si oppone al docetismo); la comunicazione della vita (v. 53). Tutti questi sono temi propri di Gv: il cap. 6 è dunque un concentrato della prospettiva teologica di Gv.

Passiamo ora alle tematiche bibliche di fondo.
Innanzitutto una cultura biblica di fondo. Il pane e il vino sono: sono il frutto della terra (non di una terra qualsiasi, ma della terra promessa, dono di Dio) e del lavoro dell’uomo. La benedizione è la comunione con Dio, con il suo dono: è l’atto con cui Dio agisce nella storia, l’atto in cui passa la vita divina. Il mangiare insieme significa la comunione tra i fratelli, tra commensali. Gesù pone esplicitamente una relazione tra lui e i doni (pane e vino) nella benedizione e comunione; l’Ultima Cena porta al culmine queste 3 dimensioni del pasto ebraico: dono di Dio, comunione con Dio, comunione con i fratelli. Con Gesù i doni indicano e realizzano la relazione comunionale con lui: Gesù concentra su di sé tutte queste dimensioni.
Il soggetto del memoriale è Dio: l’AT ha come dimensione la liberazione dall’Egitto dove Dio è colui che libera; questa liberazione nel NT diviene la resurrezione di Cristo. Altro aspetto è quello del corpo: esso indica la totalità della persona che si dona (valenza cristologica), mantiene in unità le membra (1Cor 12; valenza ecclesiologica); il per molti si riferisce alla totalità degli uomini.
Circa il concetto di memoriale, sappiamo che esso è il ricordo delle opere di Dio: è il passato come memoria; esso però è reso contemporaneo nella celebrazione e prepara e anticipa il futuro-profezia. Nell’AT il ricordo delle opere di Dio si identifica con l’esodo, reso contemporaneo dalla celebrazione pasquale, che prepara e anticipa i tempi messianici. Nell’Ultima Cena ritroviamo questa triplice dimensione del passato, reso presente, che anticipa il futuro: essa ricorda l’esodo/opere di Gesù, resi contemporanei dal pane donato e dal vino versato, che anticipano la morte in croce e la venuta escatologica. Anche per l’Eucarestia ritroviamo questa dinamica: essa è ricordo dell’Ultima Cena e della Pasqua di Gesù, resa contemporanea nei gesti e nel pane e vino, che anticipa la venuta escatologica.
Nella visione protestante l’Ultima Cena è una semplice allegoria della morte prossima: quindi vi è una rappresentazione che è nel simbolo, per cui i doni non sono segni realistici della morte di Gesù, ma vi è un linguaggio senza alcun rapporto con la realtà. In ambito cattolico non si afferma che l’Ultima Cena sia una semplice allegoria della morte prossima: nella dinamica della rivelazione cristologica il rivelarsi con parabole indica il Regno del Padre, mentre nell’Ultima Cena Gesù rivela se stesso come colui che compie la volontà del Padre nel momento decisivo della sua vita. Nella vita di Gesù, inoltre, i momenti forti di rivelazione sono espressi da realtà concrete:

-        la resurrezione di Lazzaro (verificabile) è il segno che Gesù dà la vita;
-        la guarigione del paralitico (verificabile) è il segno che Gesù può perdonare i peccati;
-        la morte in croce (verificabile) è il segno che Gesù può dare da mangiare il suo corpo e da bere il suo sangue.

Circa il mangiare insieme, il mangiare e il bere hanno 2 dimensioni: quella biologica e quella conviviale. Il mangiare insieme aveva diversi significati: ospitalità, suggello di un’alleanza, perdono. Il pasto giudaico nelle feste ha un carattere liturgico simile alla cena pasquale in questa struttura:

-        il capofamiglia alza la focaccia di pane, benedice Dio, rende grazie e lo distribuisce;
-        si aveva poi il pasto vero e proprio;
-        il capofamiglia alza il calice del vino, benedice il vino, ne beve un po’ e lo distribuisce;
-        alle due benedizioni tutti rispondono “Amen”.

Il pasto giudaico nelle feste non è un semplice mangiare insieme, ma indica una comunione profonda orizzontale (con i commensali) e con Dio; partecipare a questo pasto significa partecipare della benedizione di Dio.
Non è perciò possibile mangiare con i peccatori, in quanto significava partecipare della loro esclusione dall’alleanza: davanti al peccatore l’unico modo era quello di eliminarlo dalla comunità. Gesù stravolge questo schema, in quanto elimina il peccato e non il peccatore. Il fatto che Gesù banchetta con i peccatori significa che anche i peccatori partecipano della stessa benedizione di Dio. Già i profeti descrivono l’alleanza messianica come un banchetto in cui tutti sono invitati, compresi i peccatori: i peccatori ricevono la remissione dei peccati; il banchetto inoltre funge da pregustazione del banchetto messianico-escatologico.
Gesù non mangia solo con i peccatori, ma mangia con i discepoli dopo la resurrezione: questo sia per convincerli della resurrezione sia per indicare che il Risorto continua ad essere presente nel segno pasquale del pasto. Il pane spezzato è segno di presenza/assenza del Risorto: non si tratta però di un semplice dato fenomenico, ma sono necessari la Parola di Gesù accolta nella fede e lo spezzare il pane. La comunità ecclesiale ha consapevolezza di essere il nuovo popolo di Dio riunito attorno al Risorto “mangiando”: l’Eucarestia diviene espressione del fondamento della Chiesa.

Vediamo ora il rapporto tra morte-vita.
Quando si parla dell’Eucarestia si parte dal ricordo della morte di Gesù, mentre la conclusione è sempre escatologica. Il contesto dell’istituzione dell’Eucarestia non può essere separato dalla morte imminente d Gesù, ma al tempo stesso la celebrazione dell’Eucarestia annuncia il banchetto escatologico che suppone la resurrezione d Gesù. Tra inizio ed eschaton vi è il presente, segnato dalla presenza del Risorto. Noi separiamo morte e resurrezione: ma nel mistero pasquale vi è una profonda unità tra questi due aspetti: la morte di Cristo è già eschaton di salvezza, la croce è già gloriosa (cfr. Gv 19,30). I discepoli, facendo memoria, in obbedienza al comando del Signore, entrano nel dinamismo di risurrezione perché il Risorto è presente per dare la vita senza fine.


Passiamo ora alla tradizione patristica.
Nei primi 3 secoli si formano il canone della Scrittura ispirata, il Simbolo Apostolico (in cui vi è la sensibilità occidentale) e la preghiera eucaristica (in cui vi è la sensibilità orientale).
Nel II sec. l’Eucarestia indica l’azione liturgica e i doni (cfr. Padri apostolici). Un’espressione già nota è il rendere grazie eucaristico, che ha 3 aspetti: anamnesi, sacrificio e benedizione.
L’anamnesi, partendo da Didachè, è una lode riconoscente:

-        per la redenzione (storia della salvezza);
-        per la salvezza in Cristo;
-        per il dono di Cristo presente;
-        per il cibo e la bevanda per la vita eterna;
-        per la creazione;
-        per la tensione verso l’unità della Chiesa.

Non si tratta di un semplice ricordo di eventi passati, ma vi è anche il riferimento a Cristo (cosmologico, cristologico, ecclesiologico).
Il sacrificio ha diversi aspetti, declinazioni: vuol dire preghiera, confessione, rendimento di grazie, etc.
La benedizione è il rendere grazie sui doni e la consacrazione di essi. In Ippolito il rendere grazie eucaristico ha 3 aspetti: anamnesis, prosphorà e epiclesis (sui doni e sulla Chiesa). Il sacrificio nel convito diventa comunione con Cristo, nell’eucologia diviene offerta e nella cristologia diviene corpo e sangue di Cristo; la benedizione diviene nel convito martyria, nell’eucologia diviene epiclesi e nella cristologia resurrezione del credente.
In Ignazio di Antiochia l’Eucarestia:

-        causa l’unità della Chiesa (dimensione ecclesiologica);
-        è la carne di Cristo (dimensione cristologica);
-        medicina per vivere in Cristo e antidoto per non morire (dimensione antropologica): a tal proposito è necessaria la comunione nella Chiesa.

Nella prospettiva di Ignazio, secondo Couth, l’Eucarestia è un processo di identificazione con Cristo: tale processo avviene nella communio della Chiesa.

In Giustino si pone il rapporto con il Battesimo e la vita, l’analogia con l’incarnazione e vi è la descrizione della celebrazione eucaristica. Nell’Apologia I vi è il riferimento al Battesimo e alla vita.
Circa l’analogia con l’incarnazione, Cristo è il Verbo di Dio che ha preso la carne e il sangue; l’alimento consacrato è la preghiera fatta al Verbo che diviene corpo e sangue del Verbo incarnato. Vi è un parallelo con l’incarnazione, nella presenza dell’epiclesi al Verbo, preghiera eucaristica in nuce e pneumatologia in nuce. Infine Giustino descrive anche la celebrazione.
Passiamo ora all’Adversus haereses. Ireneo scrive che i cristiani offrono il sacrificio eucaristico non perché Dio ne ha bisogno, ma per ringraziarlo (che significa rendersi conto della sua presenza, sia nell’opera della creazione che in quella della redenzione) e per consacrare le offerte. Ireneo si oppone al dualismo: bisogna rendere grazie per la bontà della creazione; vi è perciò unità tra corpo e spirito: anche l’Eucarestia è composta da un duplice elemento, terreno e celeste.  Questo ha ripercussioni antropologiche: il nostro corpo è nel raggio della salvezza perché nutrito dal corpo di Cristo.
Passiamo alla scuola alessandrina. In essa, impregnata di filosofia platonica, abbiamo l’attenzione allo “spirito”: il Verbo rivela la verità, la cui “conoscenza” esprime la comunione con Dio; abbiamo in tal senso una conseguente svalutazione della materia: il mistero di Cristo si rappresenta nel cuore.
La scuola antiochena e i cappadoci rivelano maggiore attenzione per la “materia”, per cui il Verbo si rivela nella storia: la comunione con Dio è ora partecipazione alla ri-presentazione nella storia del mistero di Cristo. Lo Spirito attualizza la storia salvifica.
Nei padri latini vi è l’attenzione ai doni offerti (il mondo occidentale è molto attento al lato pragmatico), perciò:

-        vi è attenzione alla fisicità, alla concretezza;
-        vi è una sottolineatura giuridica;
-        molta rilevanza ha la presenza di Cristo nelle offerte.

Tertulliano mette in evidenza il carattere sacrificale dell’Eucarestia, che esprime il legame con la croce, come se Cristo morisse di nuovo in croce; l’Eucarestia è sacrificium crucis in forma sacramentale. L’Eucarestia è l’azione che rende presente l’oblazione di Cristo nella comunità: la comunità rivive quella azione partecipandovi in prima persona e venendo trasformata in essa.
Secondo Cipriano, l’Eucarestia non ricorda solo la Pasqua di Cristo ma la rende presente quando la comunità ne fa memoria: la comunione della Chiesa è frutto e presupposto dell’Eucarestia.
Circa gli altri Padri latini, Ambrogio è importante per la dottrina eucaristica, Agostino per la teologia (Trinità, antropologia) e Gregorio per la spiritualità.
Ambrogio scrive il De mysteriis e il De sacramentis: nel primo testo egli scrive che segno sacramento è il corpo e il sangue di Cristo presente, mentre la consecratio è la parola di Cristo ripetuta che realizza la consacrazione; nel De sacramentis, egli riprende nuovamente il concetto di consecratio, parla di sacrificio e del fatto che l’Eucarestia cancella il peccato (tale dottrina sarà poi chiarificata a Trento). Il corpo e il sangue di Cristo sono presenti oggettivamente nel segno sacramentale, e non soggettivamente nella fede di chi partecipa (questa dimensione soggettiva si ha verso la fine del I millennio). La consecratio è l’elemento centrale, non è causata dall’epiclesi al Verbo o da quello allo Spirito Santo, ma è causata dalla ripetizione della parola di Cristo (orizzonte cristocentrico). Per mettere in rilievo questo, Ambrogio fa alcuni esempi biblici di parole efficaci: se è efficace la parola di un profeta come Elia (che fa scendere il fuoco), tanto più lo è efficace la parola di Cristo; fa poi riferimento ad un dato liturgico: se la parola del vescovo nella preghiera è efficace, tanto più quella di Crsto; infine vi è il riferimento al dato cosmologico: se la parola creatrice di Dio è efficace, lo sarà anche quello di Cristo. Il cambiamento causato dalla parola di Cristo non è un cambiamento di significato (per cui si ha una nuova funzione del pane), ma si ha una trasformazione reale: esso non è percepibile all’esterno (non si vede un cambiamento della sostanza). La consecratio è l’elemento centrale nella concezione dell’Eucarestia in Ambrogio; altri temi  sono quelli del sacrificio, per cui l’Eucarestia è il ricordo della morte di Gesù, e la cancellazione dei peccati nell’assumere il sacramento.
Mentre Ambrogio ha una prospettiva liturgica sull’identità del sacramento, Agostino mette in rilievo i soggetti, quello ecclesiale e quello antropologico. Possiamo individuare in Agostino alcune linee sull’Eucarestia: il platonismo agostiniano, la dimensione cristologica, la dimensione ecclesiologica e la dimensione sacrificale; il platonismo agostiniano è centrale per la teologia successiva.
Ad Agostino è applicata una duplice ermeneutica, quella realista, fondata su Aristotele e accettata dai cattolici, e quella simbolica, fondata su Platone e centrale per i protestanti; bisogna stare attenti a non leggere Agostino con una ermeneutica posteriore e predefinita: sarebbe un apriori ideologico. Bisogna sempre leggere Agostino nel suo contesto e nell’orizzonte dei destinatari; bisogna anche tenere presente che di Agostino si è avuto un recupero “recente” (col Vaticano II), in quanto i cattolici dubitavano di Agostino in quanto richiamato spesso dai protestanti. I 2 aspetti, simbolo e realtà, sono oggi visti complementari, senza che vi sia contrapposizione tra immagine e realtà: l’Eucarestia sarebbe in un certo senso simbolo reale. Agostino è difatti sia realista che simbolico: è realista nelle catechesi (quando è pastore), mentre è simbolico nei trattati (quando è teologo); Agostino è talora realista e simbolico nella stessa opera (es. Enarrationes in Psalmos 98). Nella prospettiva realista l’Eucarestia è vero corpo e sangue di Cristo, mentre nella prospettiva simbolica l’Eucarestia è il segno che indica un’altra realtà pneumatica: in Agostino sono presenti entrambe le prospettive.
Circa il platonismo agostiniano, la copia (signum) non è una semplice ombra senza valore rispetto alla realtà (res), ma la forma in cui l’originale si rende storicamente presente. Dunque il signum contiene in un certo modo la res, senza però esaurirla, perché al tempo stesso rimanda ad essa trascendendo il signum: si vede il signum, si comprende la res (“aliud videtur, aliud intelligitur”; da questa frase molto spesso si fa partire una sorta di sottovalutazione dell’ambito liturgico: infatti ad essere importante è la res, che si coglie o con l’intellectus o con l’affectus, mentre poco importante è il signum, al quale ci si interesserà solo nella sua dimensione giuridica, quella che assicurava la validità). A volte Agostino insiste sulla centralità della res rispetto al segno: per questo vi è sia una motivazione cristologica (corpo e sangue di Cristo), sia un motivo ecclesiologico (chi non è in comunione con la Chiesa non riceve Cristo, non basta ricevere il segno: è questa la polemica antidonatista. La realtà può essere sia celeste che terrestre: per Aristotele la realtà è quella terrestre; per Platone la vera realtà è nell’iperuranio (realtà prototipo), mentre l’oggetto terrestre è una semplice immagine, figura, copia; Agostino mette insieme i due aspetti: sono importanti sia la res (la cui importanza è accentuata dall’Agostino teologo) sia il signum (la cui importanza è accentuata dall’Agostino pastore).
Circa la dimensione cristologica, Agostino distingue tra sacramentum tantum, che è il segno esteriore, e la res tantum, che è l’effetto del sacramento: l’obiettivo è mangiare la carne (realismo) e dimorare in Cristo che abita in me (simbolismo).
Circa la dimensione ecclesiologica, fine dell’Eucarestia è mangiare la carne (realismo) ed essere membra del Corpo di Cristo, che è la Chiesa (simbolismo).
Nei testi di Agostino si parla molto spesso della necessità della fede e della necessità che si forgi l’uomo spirituale proprio mediante la fede. Agostino mette in evidenza soprattutto il lato spirituale, sia in ambito antropologico, sia in ambito cristologico, sia in ambito ecclesiologico.

Passiamo all’epoca medievale.
Il Medioevo eucaristico possiamo suddividerlo in 3 momenti: epoca carolingia (Pascasio Radberto e Ratramno), inizio II millennio (Berengario e Lanfranco) e la Scolastica (Tommaso e Bonaventura).
Circa l’epoca carolingia, l’area culturale franco-germanica ha questo orizzonte metafisico: esiste solo ciò che è presente in re, mentre l’immagine, la figura, non ha in sé una vera realtà (come nel platonismo agostiniano); circa l’orizzonte ermeneutico di questa area culturale, la grammatica è fondamentale per capire il testo in quanto è fondamentale la lettera e la Parola la si scopre a partire dall’etimologia (Aristotele, scuola di Antiochia), mentre la retorica è fondamentale per capire il testo in quanto centrale è l’allegoria e la Parola si scopre cogliendo il significato nella frase (Platone, scuola di Alessandria). La domanda centrale nel IX sec. è questa: la presenza di Cristo nell’Eucarestia è vera o simbolica? Nella prospettiva patristica era entrambe (Agostino parla di simbolo reale); ora si hanno 2 posizioni: alla lettera (ermeneutica) corrisponde il realismo materiale (Pascasio Radberto), mentre allo spirito rimanda la posizione simbolista-spiritualista (Ratramno). Pascasio Radberto, abate di Corbie, scrive il De corpore et sanguine Domini: in esso egli afferma che l’Eucarestia è il corpo storico di Gesù, nato da Maria e posto sulla croce; l’Eucarestia sarebbe la ripetizione della passione di Gesù. Ratramno scrive anch’egli un De corpore et sanguine Domini: in esso afferma che la veritas è il corpo di Cristo storico e metastorico (nato da Maria, crocifisso e risorto) mentre l’Eucarestia è spiritualiter il corpo di Cristo.
La disputa viene ripresa nel XI sec.: il realismo viene sostenuto da Lanfranco, mentre il simbolismo spiritualista viene sostenuto da Berengario. Berengario di Tours è magister della scuola di Tour, ex discepolo di Chartres: egli scopre il De corpore et sanguine Domini di Ratramno, attribuendolo a Giovanni Scoto Eriugena; in tal modo l’ermeneutica simbolica acquista autorevolezza. Berengario scrive a Lanfranco, che si trova in un concilio a Roma (1050): dinanzi alla lettera di Berengario, letta pubblicamente, Lanfranco deve esprimersi pubblicamente sul contenuto della lettera; il concilio finisce con lo scomunicare Berengario. Invitato al sinodo di Vercelli per rendere ragione della sua posizione, Berengario non si presenta; nel frattempo, nel sinodo di Roma del 1059, esso si esprime affermando che la presenza nell’Eucarestia è sensualiter (fortemente realista). Contro questo sinodo Berengario scrive lo Scriptum contra Synodum, al quale Lanfranco risponde con il De corpore et sanguine Domini; nel 1079 un nuovo sinodo di Roma parla di presenza substantialiter e di presenza vera (che si distingue ora dal corpo mysticum, che diventa la Chiesa) e mette in evidenza l’aspetto della conversione del pane e del vino in Corpo e Sangue di Cristo.
Per Berengario l’Eucarestia è semplicemente la figura della veritas (che è il corpo storico e metastorico di Cristo); inoltre Berengario estremizza ciò che Agostino scriveva ai donatisti, accentuando l’importanza del soggetto: l’Eucarestia è corpo di Cristo unicamente per l’uomo spirituale (è il soggetto perciò a decidere: assistiamo perciò ad una svolta antropologica in teologia, come era già avvenuto con Abelardo circa la morale e la sottolineatura dell’importanza dell’intenzione).
Per Lanfranco, la sostanza è il Corpo e il Sangue di Cristo, mentre le species (figure esteriori) sono il pane e il vino. Un altro autore, Guitmondo di Aversa, mette in evidenza ancora di più il cambiamento di sostanza.
Progressivamente si iniziò a delineare il termine transustanziazione, inventato da Lanfranco e utilizzato nel Magistero per la prima volta dal Conclio Lateranense IV (1215), sebbene nella sostanza la verità di questo fosse già stata affermata da Gregorio VII nel sinodo romano del 1079. Nel concetto di transustanziazione si afferma che:

-        la presenza di Cristo è una realtà previa alla fede;
-        viene ricucita la frattura tra sacramentum tantum e res sacramenti;
-        Cristo è presente nell’Eucarestia in modo sostanziale, quindi: non ha dimensioni, è immateriale e invisibile, merita l’adorazione.

Nel XX secolo la transustanziazione viene contestata perché:

-        è termine troppo filosofico, per cui sembra piegare la fede ad una visione razionale;
-        vi è una difficoltà di comprensione in una diversa visione concettuale (le scienze naturali non hanno più una prospettiva metafisica).

Il rapporto tra res e signum, tra invisibile e invisibile, è il rapporto tra res tantum, res sacramenti (orizzonte ultimo, Cristo glorioso) e signum tantum, sacramentum, sacramentum tantum: sono i termini della nascente Scolastica. Pietro Lombardo fa una sintesi di tutto questo, aggiungendo anche res et signum e res et sacramentum.
Tommaso e Ugo di S. Vittore operano questa dimensione: il sacramentum tantum di Tommaso (la species di Ugo) è l’elemento visibile; la res et sacramentum (la veritas di Ugo) è l’elemento  visibile/invisibile; la res sacramenti (la virtus di Ugo) è l’elemento invisibile. Il sacramentum tantum è il segno esteriore, le specie visibili, il sacramento in sé e per sé; l’effetto intermedio è l’attualizzazione del sacrificio di Cristo e la presenza reale del suo corpo e del suo sangue; la res sacramenti è il fine del sacramento, la grazia che dona l’incontro col Signore e l’appartenenza alla Chiesa. Il sacrificio attualizzato di Cristo corrisponde all’incontro col Signore, mentre vi è un rapporto anche tra la presenza reale del suo corpo e sangue e l’appartenenza alla Chiesa.
Nel primo millennio vi è un forte legame tra grazia del sacramento e Spirito Santo ed inoltre tra il corpo di Cristo eucaristico e il corpo di Cristo ecclesiale. Nel secondo millennio troviamo una triplice accentuazione: vengono accentuate la res et sacramentum e la res sacramenti, particolarmente la dimensione sacrificale e la dimensione individuale (nasce la devotio moderna); inoltre, nel secondo millennio, il corpo di Cristo eucaristico viene legato alla memoria del sacrificio di Cristo e all’incontro individuale del Signore. Il vero corpo di Cristo è nel primo millennio la Chiesa, mentre nel II millennio è l’Eucarestia; il corpus Christi mysticum, che nel primo millennio era stato l’Eucarestia, diviene ora la Chiesa.
Nel primo millennio il corpo mistico di Cristo è l’Eucarestia, mentre il corpo di Cristo verum è la Chiesa, il cui fine è l’unità della Chiesa. Nel secondo millennio il corpo mistico di Cristo diviene la Chiesa: in questa definizione ci si vuole opporre ad una concezione eccessivamente naturale e giuridica; la definizione corpo di Cristo verum accentua invece la presenza reale del corpo e sangue di Cristo.
La celebrazione dell’Eucarestia è caratterizzata da una prospettiva ieratica della celebrazione: la preghiera eucaristica era in silenzio, la comunione era sotto una specie, la frequenza alla comunione era bassissima (tanto che il Concilio Lateranense IV prescrive la comunione almeno una volta l’anno). Circa la pietà eucaristica, si ha, con Berengario, la negazione della presenza reale; contro questo vengono presi alcuni provvedimenti: si insiste sull’adorazione eucaristica, viene istituita nel 1264 la festa del Corpus Domini, si sottolineano i miracoli eucaristici. Si hanno alcune deviazioni nella pratica cristiana: il vedere l’ostia senza fare la comunione, il sacrificio eucaristico viene svincolato dal sacrificio di Cristo sulla croce, il sacrificio viene visto come un’opera buona da compiere e offrire a Dio; se la Messa è un’azione buona, allora si moltiplicano le Messe e gli altari.

Passiamo ora a vedere Tommaso, che organizza la trattazione secondo lo schema della scienza aristotelica: prima l’essenza, la materia, la forma, gli effetti, poi coloro che lo ricevono e il ministro e solo alla fine il rito.
A cosa sono ordinati i sacramenti della Chiesa? I sacramenti sono per la vita spirituale dell’uomo: vi è una similitudine tra vita corporale e vita spirituale (si nasce in entrambe le vite, si cresce in entrambe, si mangia in entrambe, etc.): l’Eucaristia è l’alimento spirituale, mentre la Confermazione è l’aumento spirituale. Tommaso parla anche dell’Eucarestia come corpus Christi verum: siamo infatti nel II millennio. Essa è anche consummatio della vita spirituale e fine di tutti i sacramenti: mentre il Battesimo è necessario all’inizio della vita spirituale (il Battesimo è porta dei sacramenti), l’Eucarestia la porta a compimento. Inoltre, mentre il Battesimo è il sacramento della fede, l’Eucarestia è sacramentum caritatis, carità che è il vincolo della perfezione.
Secondo Tommaso, l’Eucarestia ha 3 significati:

-        commemorativum passionis (passato). L’Eucarestia è memoriale della passione di Gesù, è il sacrificio dell’oblazione di Gesù ed è compimento ed inclusione dei precedenti sacrifici dell’AT e dell’umanità (Trento criticherà Tommaso su quest’ultimo riferimento ai sacrifici dell’umanità);
-        communionis con Cristo e con la Chiesa (presente);
-        praefigurativum fruitionis Dei (futuro): è anticipazione della beatitudine eterna.

Tommaso afferma che l’Eucarestia è simbolo reale del corpo e del sangue di Cristo; senza la fede, vi è ugualmente corpo di Cristo, ma senza la fede non si godono i frutti dell’Eucarestia.
Nelle qq. 79-81 si parla del sacramento della grazia e dell’uso di questo sacramento che ha per oggetto Cristo Signore; alla q. 82 si parla del ministro del sacramento.

Dopo Tommaso, altro grande nome fu quello di Bonaventura. Nel suo Breviloquium egli descrive benissimo il sacramento dell’Eucarestia (cfr. testo). Bonaventura inoltre riprende il fatto che il Battesimo genera alla grazia, la Confermazione fa crescere e fortifica, l’Eucarestia nutre. Il nutrimento eucaristico è finalizzato alla conservazione della devozione a Dio, dell’amore al prossimo e del diletto interiore: poiché la devozione a Dio si esercita con l’offerta del sacrificio, l’Eucarestia è sacrificium oblationis; poiché l’amore al prossimo si esercita con la comunione ad un unico sacramento, l’Eucarestia è sacrificium communionis; poiché il diletto interiore si esercita con il ristoro del viatico, l’Eucarestia è viaticum refectionis. Quindi 3 sono gli aspetti dell’Eucarestia presenti in Bonaventura:

-        sacrificio: Cristo presente realmente;
-        sacramento: amore fraterno, unità della Chiesa;
-        viatico: ristoro spirituale.

A differenza della devotio moderna, che insisterà sull’affetto, Bonaventura parla di devozione come esito dell’amore (e non dell’affetto).
Se un topo mangiasse l’Eucarestia, per Tommaso il corpo mangerebbe il vero corpo di Cristo, perché gli accidenti del pane, finché restano incorrotti, sono segno della sostanza del corpo di Cristo e, dove si trovano gli accidenti, lì si trova la sostanza del corpo di Cristo. Per Bonaventura invece il topo non mangerebbe il corpo di Cristo: Cristo è nelle specie per un uso unicamente umano; questa è la volontà istitutiva (nella visione francescana è importante la volontà) del memoriale conviviale: la manducazione del topo sarebbe al di fuori di questa volontà istitutiva di Cristo. Tommaso parla dell’oggettività del corpo di Cristo, che è legata alla parola di Cristo, agli accidenti e indipendentemente dalla fede; anche Bonaventura parla dell’oggettività del corpo di Cristo, che però è legata alla volontà di Cristo e all’uso umano (Tommaso insiste sull’intelletto che capisce, Bonaventura sulla volontà che ama).

Nel tardo Medioevo si sviluppano alcune teorie:

-        si parla di trasformazione del pane e del vino, che si dissolvono come delle gocce nell’oceano;
-        si parla anche di consustanziazione (pane e vino restano): sarà la posizione della Riforma;
-        si parla di annichilazione (pane e vino scompaiono);
-        si continua a parlare di transustanziazione (pane e vino rimangono come accidenti): Tommaso parla di una trasformazione degli accidenti, mentre Duns Scoto parla di un’aggiunta (ma l’esito è uguale), nella quale il corpo del Risorto riceve un nuovo esse hic che sostituisce l’essere qui della sostanza del pane e del vino.

I limiti del tardo Medioevo sono questi:

-        orizzonte teologico povero: si parla solo di transustanziazione. Si definisce però questa realtà con una scarsa dimensione biblica e storico-salvifica;
-        vi è uno scarso coinvolgimento dei fedeli, con un’attenzione esclusiva al presbitero;
-        vi è una frammentazione del rapporto Cristo (evento) – Eucarestia (memoriale): si ha un’attenzione al sacrificio a sé stante, visto come un’opera buona compiuta dal sacerdote che celebra e da quanti vi partecipano.

Nel tardo Medioevo abbiamo anche delle negazioni. Wyclif nega l’adorazione eucaristica, l’Eucarestia come sacrificio, la transustanziazione, la validità della celebrazione fatta da un sacerdote indegno; il concilio di Costanza condanna Wyclif.
Giovanni Hus afferma che i laici possono comunicarsi al calice: anche qui Costanza si oppone. Il corpo e il sangue di Cristo sono contenuti nella sua integralità sia sotto la specie del pane sia sotto la specie del vino. Il punto centrale non è che i laici non possono comunicarsi al calice: il punto centrale è che si riteneva che, se ci si accostava al solo pane, ci si accostava unicamente al Corpo (e non al Sangue). La Chiesa risponde che in ogni specie vi è tutto Cristo.

Passiamo ora alla Riforma Protestante.
I presupposti della Riforma sono il sola Scriptura, il sola fide, il sola gratia; essi rifiutano la dimensione sacrificale dell’Eucarestia e la presenza reale: il sacrificio è visto come un’opera e perciò viene rifiutato; inoltre, se c’è già stato un unico sacrificio, come posso affermare che vi sia un altro sacrificio?
Parlando di Lutero, dobbiamo tenere presente che vi è una prima fase (1517-1520), dove egli accoglie la presenza reale in opposizione a Zwingli: la presenza reale è fondata biblicamente sull’istituzione dell’Eucarestia e sul fatto che non ci si può accostare indegnamente (non ci si può accostare indegnamente proprio perché c’è la presenza reale). Notevole è il principio ermeneutico di Lutero: poiché la negazione della presenza reale conduce alla divisione, allora essa deve essere affermata. La presenza reale inoltre si fonda sull’ubiquità: il Cristo glorificato partecipa dell’onnipotenza di Dio; l’obiezione posta da Zwingli era la seguente: come può un corpo terreno essere presente alla destra del Padre e nelle molte celebrazioni? Poiché Cristo partecipa dell’onnipotenza di Dio, questo è possibile.
Lutero insiste sull’importanza della fede nel sacramento: egli si oppone perciò all’ex opere operato, in cui sembra che vi sia un’efficacia sacramentale indipendentemente dalla fede (se il cattolico mette in evidenza il lato oggettivo, il protestante sottolinea quello soggettivo). L’uomo non può limitarsi a togliere il peccato ma occorre la fede, senza la quale l’Eucarestia non ha alcun effetto: la fede è l’elemento che costituisce i sacramenti.
La fede è, per Lutero, l’accoglienza della grazia senza vantare meriti: si è giustificati solo per la fede e non dal sacramento; inoltre, secondo Lutero, non basta togliere il peccato: occorre poi la fede.
Da un punto di vista cristologico, vi è un unico sacerdote (Cristo) e vi è un unico sacrificio (la croce). Nel suo La cattività babilonese Lutero afferma che l’Eucarestia non è un’opera buona da offrire a Dio (l’uomo riceve) e non è nemmeno un sacrificio (propiziatorio o soddisfatorio). L’Eucarestia è invece un dono di Dio per l’uomo e non il contrario: perciò l’Eucarestia non è un sacrificio, sebbene resti la presenza corporale di Cristo pro nobis; ciò che non va giù a Lutero è il fatto che l’uomo possa offrire un sacrificio a Dio. L’Eucarestia presuppone la fede dell’uomo e ottiene la riconciliazione con Dio con il perdono dei peccati.
Lutero si oppone alla transustanziazione, preferendo il termine consustanziazione, volendo indicare la compresenza di due sostanze (pane-vino e carne-sangue): questo in analogia con l’unione ipostatica, per cui la natura umana non è trasformata in quella divina.
La volontà costitutiva di Cristo in ordine all’Eucarestia: si tratta di una unio sacramentalis di actio (liturgica) e di usus (consumazione); quindi l’adorazione eucaristica è idolatria, in quanto in Cristo l’intenzione è di consumarla e non di conservarla. L’Eucarestia è actio liturgica in quanto è ricordo della santa cena e memoria della passione: non è invece rinnovo della santa cena e non è rendere presente l’unico sacrificio di Cristo.

In Zwingli abbiamo invece una forma di platonismo, per cui una realtà materiale manifesta, indica, significa la vera realtà, quella spirituale; da un punto di vista teologico, la redenzione di Cristo è unica e completa, perciò essa non può essere ripetuta. Secondo Zwingli, i sacramento esprimono la fede, dono dello Spirito; l’Eucarestia è un ricordo, un ringraziamento per la redenzione già operata da Cristo, mentre nella consacrazione eucaristica vengono “trasformati” i fedeli e non le specie. Zwingli respinge la transustanziazione e l’ubiquità.
Calvino afferma che la cena è un dono di Dio che deve essere preso e ricevuto con azioni di grazie; si finge che il sacrificio della messa sia un tributo offerto a Dio, che lo riceve da noi come soddisfazione. Calvino è intermedio tra Lutero (che afferma la presenza reale nella sua prima fase) e Zwingli (che parla di presenza simbolica di Cristo, non nel pane): secondo Calvino, Cristo non discende dal cielo, ma ci eleva mediante lo Spirito. Calvino salvaguardia l’unità di Cristo: come può l’umanità di Cristo essere presente in tutte le celebrazioni se essa è alla destra del Padre?

A tutto questo rispose il Concilio di Trento.
Sull’Eucarestia Trento si esprime in 3 sessioni: la XIII, la XXI e la XXII; in queste sessioni vi sono decreti e canoni: nei decreti vi è l’aspetto dogmatico-teologico, mentre nei canoni si ridice l’aspetto  teologico in forma canonica. La sessione XIII parla della presenza reale di Cristo nell’Eucarestia come fatto e come modo; la XXI parla della comunione; la XXII parla del valore sacrificale della Messa.

Nel cap. 1 della sessione XIII parla della presenza reale nell’Eucarestia: dopo la consacrazione del pane e del vino, il Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, è contenuto veramente, realmente e sostanzialmente sotto l’apparenza delle cose sensibili; il can. 1 richiama questa definizione. Sempre il cap. 1 continua: non vi è contraddizione tra il fatto che il Signore risiede nei cieli e il fatto che egli sia presente in mezzo a noi con la sua sostanza; in questo Trento si oppone a Zwingli. Il Figlio è, secondo la natura, sempre alla destra del Padre, mentre in altri luoghi la sua è una presenza sacramentale nella sua sostanza e non è sempre: qui Trento chiarisce molto bene.
Nel cap. 2 si parla delle ragioni dell’istituzione: ricordo dei suoi prodigi, onore della sua memoria, annunzio della sua morte, cibo spirituale delle anime, antidoto per i peccati di ogni giorno e preservazione per peccati mortali. L’Eucarestia perciò non è istituita principalmente per la remissione dei peccati: vale per i peccati veniali, non per quelli mortali.
Al cap. 3 si parla dell’eccellenza dell’Eucarestia. Mentre gli altri sacramenti santificano quando sono ricevuti, nell’Eucarestia è già presente la santità dell’autore prima ancora dell’usus del sacramento. Inoltre si chiarisce bene: per le parole il corpo è sotto la specie del pane e il sangue sotto la specie del vino; per naturale unione e concomitanza, il corpo è anche sotto la specie del vino, il sangue è anche sotto la specie del pane, l’anima sotto entrambe le specie, la divinità nell’unione ipostatica all’umanità (corpo, sangue e anima). Quindi, sotto una specie, è contenuto tanto quanto sotto entrambe.
Al cap. 4 si parla della transustanziazione: con la consacrazione del pane e del vino si opera la conversione di tutta la sostanza del pane/vino nella sostanza del corpo/sangue di Cristo. Questa conversione viene chiamata in modo conveniente transustanziazione: Trento perciò mette in risalto il concetto di “conversione” piuttosto che “transustanziazione”. Si afferma inoltre il fatto della transustanziazione come presenza reale: ma non si dogmatizza la modalità, ovvero il concetto filosofico di transustanziazione.
I successivi capitoli divengono conseguenza di tutto questo: al cap. 5 si parla dell’adorazione eucaristica, il cap. 6 della conservazione delle specie, il cap. 7 della preparazione adeguata, il cap. 8 dell’uso consono; questi capitoli son conseguenza del cap. 4 (su questi capp. v. meglio le slides).

Nella sessione XXI si parla della comunione sotto entrambe le specie. Al cap. 1 si afferma che i laici e i chierici non celebranti non sono obbligati a comunicarsi sotto entrambe le specie: nonostante l’istituzione sia nelle due specie, ciò non significa che i fedeli si debbano accostare ad entrambe le specie; vi è poi il fondamento biblico giovanneo: il limite di Trento è l’uso strumentale della Scrittura.
Il cap. 2 tratta del potere della Chiesa nell’amministrazione del sacramento dell’Eucarestia. La Chiesa ha sempre avuto il potere di stabilire/modificare l’amministrazione dei sacramenti; bisogna tener conto di alcuni criteri: bisogna far salva la sostanza dei sacramenti, vi devono essere gli elementi utili per chi li riceve, vi deve essere la venerazione dei sacramenti, si deve tener conto delle diversità di circostanze, tempi e luoghi. In antichità si distribuiva l’Eucarestia sotto le due specie, ma con il tempo la Chiesa ha approvato la consuetudine di una specie sola: è la Chiesa a decidere come e quanto cambiare a proposito di questo.
Al cap. 3 si afferma che sotto una sola specie si riceve Cristo tutto integro e vero sacramento. Circa il frutto, nessuna grazia necessaria alla salvezza è negata a quelli che ricevono una sola specie.

Nella sessione XXII si affronta il carattere sacrificale della Messa. Nel cap. 1 si parla dell’istituzione del sacrificio della Messa, partendo dall’Antica Alleanza, ovvero dall’insufficienza del sacerdozio levitico: era necessario perciò un altro sacerdote, che conducesse a perfezione quanti dovevano essere santificati. Anche se si sarebbe immolato una sola volta sulla croce, poiché il suo sacerdozio non doveva estinguersi con la morte, il Signore ha lasciato alla Chiesa un sacrificio visibile (come esige la natura umana) con cui venisse reso presente il sacrificio cruento, prolungandone la memoria sino alla fine del mondo e applicando la sua efficacia salvifica alla remissione dei peccati quotidiani. Celebrata la Pasqua antica, Cristo istituì la nuova Pasqua, cioè se stesso, che doveva essere immolato dalla Chiesa per mezzo dei suoi sacerdoti sotto segni visibili, in memoria del suo passaggio da questo mondo al Padre: c’è la memoria antica che diviene ora memoria del sacrificio della croce. L’Eucarestia è offerta pura che non può essere contaminata dall’indegnità o dalla malizia di chi la offre. L’Eucarestia è perfezionamento e compimento di tutti i sacrifici che l’uomo offre (in tutte le religioni, anche naturali, si offrono sacrifici: questo viene fortemente criticato), sia quelli delle religioni naturali che quelli della Legge.
Il cap. 2 afferma che il sacrificio visibile è mezzo di espiazione per vivi e defunti. Questo sacrificio è veramente propiziatorio e per mezzo di esso ci accostiamo a Dio: se contriti e pentiti, possiamo ricevere misericordia (il contriti fa riferimento qui al sacramento della Penitenza: prima dell’Eucarestia vi è la necessità della confessione sacramentale); inoltre tale sacrificio ci fa trovare grazia agli occhi di Dio e ci viene donato l’aiuto per il momento opportuno. Si tratta della stessa vittima e dello stesso sacrificio: a cambiare è solo la modalità del sacrificio (incruento e cruento). I frutti di questa oblazione (cioè quella cruenta) vengono ricevuti in abbondanza per mezzo di questa, incruenta; l’Eucarestia viene offerta non solo per i peccati e le pene, ma anche per coloro che sono morti in Cristo e non sono ancora purificati.
Il can. 1 afferma che nella ciò che si offre è un vero sacrificio; al can. 2 si parla dell’istituzione del sacerdozio, legata alle parole “Fate questo in memoria di me”: il sacerdozio viene istituito perché i sacerdoti possano offrire tale sacrificio. Il can. 3 afferma che il sacrificio della Messa non è offerto solo come lode e ringraziamento né solo come commemorazione della croce, ma è sacrificio propiziatorio, che giova non solo a chi lo riceve.

Nel Decretum super petitione si stabilisce che la comunione sotto le due specie è affidata al papa. Pio IV concede l’indulto del calice ad alcune diocesi tedesche (1564): ma esso non viene accolto dai fedeli in quanto segno di distinzione confessionale, così nel 1584 Gregorio sospende l’indulto di Pio IV.

La Riforma rifiuta la prospettiva sacrificale della Messa: ciò sembra annullare o disprezzare la morte di Cristo in croce e la sua valenza salvifica (non bastava quella?). A questo i cattolici rispondono affermando che vi è un’unità inseparabile tra sacrificio della croce e celebrazione della Messa: vi è identità nell’unico offerente (Cristo) e nell’unica offerta (Cristo), ma vi è una diversità nella modalità; vi è perciò un’unità inseparabile tra sacrificio della croce e celebrazione della Messa. Queste sono le categorie usate da Trento, repraesentatio, memoria, applicatio: la Messa rende presente l’oblazione di Cristo, ne prolunga la memoria nella celebrazione, ne applica l’efficacia salvifica fino all’eschaton. Perciò la Messa non svaluta, non moltiplica, non ripete, non completa l’unico sacrificio della croce. L’Ultima Cena anticipa l’offerta della croce: la Messa rende presente l’unico evento (Ultima cena e croce) senza ripeterlo, ma attualizzandolo in forma sacramentale secondo le 3 categorie.

Passiamo ora all’epoca post-tridentina.
I temi principali di quest’epoca sono la presenza reale e il sacrificio; questi due temi sono elaborati come a sé stanti. Temi poco trattati invece sono l’Eucarestia come convito e il sacerdozio dei fedeli, temi troppo messi in risalto dai protestanti: quindi c’è poco coinvolgimento dei fedeli nella celebrazione (l’importante vi sia la presenza reale e la presenza di un sacerdote che celebri). Si assiste ad un grande sviluppo del culto eucaristico fuori della Messa.
Vengono rielaborate le teorie dell’alto Medioevo. I tomisti cercano di mettere in rilievo l’importanza della transustanziazione, mentre i gesuiti insistono sulla adductio. Dalla fenomenologia religiosa e dall’AT il sacrificio è visto come distruzione totale della vittima: ma questo può essere applicato al Gesù storico sulla croce ma non all’Eucarestia. Suarez afferma che l’Eucarestia è sacrificio in quanto vi è la distruzione della sostanza del pane e del vino nella transustanziazione; Franzelin parla di distruzione apparente di Cristo negli accidenti di pane e vino; Bellarmino parla di distruzione dell’Eucarestia nella masticazione. Con questa impostazione non si giunge a significativi risultati: dal XIX sec., anziché focalizzare l’attenzione sul sacrificio dalla fenomenologia religiosa e dall’AT si precisa il significato unico dell’oblazione di Cristo. Il sacrificio va letto in chiave cristologica (e non fenomenologico): il sacrificio è di Cristo, è l’offerta personale, interiore, vissuta da Gesù sulla croce (il sacrificio eucaristico attualizza il sacrificio di Cristo); il sacrificio eucaristico è l’attualizzazione sacramentale del sacrificio di Cristo in cui Cristo stesso è l’attualizzatore.
Il sacrificio eucaristico rende presente l’unico evento dell’Ultima Cena e della croce: la scuola francese mette in rilievo l’aspetto dell’Ultima Cena, mentre quella inglese quello della croce e della resurrezione (sebbene già Suarez e, prima ancora, Duns Scoto avevano già fatto riferimento al Cristo glorificato). Si rafforza l’idea per cui la Messa non è un sacrificio naturale (a livello fenomenologico), ma sacramentale.
Circa la frequenza eucaristica, dobbiamo tener conto del giansenismo e del pontificato di Pio X. Per il giansenismo solo chi è “perfetto” può accedere alla comunione (si pensi a Pascal e alla sua posizione): ciò comporta una drastica riduzione della frequenza eucaristica. Il decreto Sacra Tridentinus Synoda del 1905 si inserisce in un preciso contesto: in Belgio vi erano delle forti dispute sulla comunione frequente; l’opinione diffusa era quella per la quale, per accostarsi all’Eucarestia, era necessaria l’assenza di peccato veniale. Pio X sviluppa 3 punti: 1) scopo dell’Eucarestia (quotidiana): è la santificazione di tutti i fedeli. L’Eucarestia non è una ricompensa per buona condotta (limite della visione giansenista): essa invece reprime ciò che allontana da Dio, purifica dai peccati veniali e impedisce i peccati mortali; 2) situazione storica: la pietà eucaristica è raffreddata a causa del giansenismo, che consiglia di accostarsi raramente all’Eucarestia; vi era inoltre una preclusione all’Eucarestia per alcuni gruppi (coniugati) e alcuni tipi di lavoro (es. commercianti); 3) disposizioni: Pio X afferma che la comunione può essere ricevuta invece da tutti, purché siano in stato di grazia; il peccato veniale non è impedimento (recupero della prospettiva tridentina).
Nella polemica con i protestanti si era accentuato particolarmente il sacerdozio ministeriale, con poco risalto dato a quello battesimale e all’assemblea che partecipa all’Eucarestia. Il modernismo riprende le tesi protestanti: si contesta il carattere sacrificale della Messa, la presenza reale, il culto eucaristico fuori della Messa. Al modernismo Pio X risponde con il decreto Lamentabili e con l’enciclica Pascendi, in cui ribadisce la dottrina eucaristica nell’orizzonte tomista.
Il movimento liturgico muove da istanze pastorali: i sacramenti non sono solo mezzi oggettivi di comunicazione della grazia (aspetto statico e oggettivante), ma sono inserimento nell’agire personale e salvifico di Cristo. Anche la ricerca esegetica, storico-patristica e storico-liturgica favorisce una rilettura dei sacramenti in chiave storico-salvifica: l’Eucarestia ripresenta ed è memoriale e attuazione del mistero pasquale da partecipare e vivere nella fede.
Odo Casel, con la sua teologia dei misteri, afferma che la salvezza operata da Cristo è un evento (mistero): si comunica la salvezza nel tempo, che perciò è kairos, attraverso l’azione cultuale dell’hodie. Per Casel il mistero non è qualcosa di misterioso, ma l’azione salvifica di Dio nella storia che si ripropone e viene attualizzata in ambito sacramentale. Il sacramento non tanto “produce” grazia applicando al soggetto gli effetti della redenzione ottenuta dalla morte di Cristo: in tal caso il soggetto è passivo, estrinseco rispetto a Cristo; il sacramento invece rende presente il mistero di Cristo che costituisce una relazione con il soggetto il quale partecipa all’agire di Cristo grazie alla celebrazione sacramentale: il soggetto è attivo, relazionale rispetto a Cristo. Grazie a queste idee di Casel, si riuscì a superare poco a poco la separazione tra convito e sacrificio, che dominava la teologia cattolica dal tempo di Trento: dopo Trento si mette sempre più in rilievo l’aspetto sacrificale e meno quello conviviale.
L’enciclica Mediator Dei di Pio XII (1947) si pone sulla scia del Tridentino, accoglie le istanze del Movimento Liturgico e prepara il Vaticano II. Tre sono i temi principali di Mediator Dei:

-        natura del sacrificio eucaristico;
-        partecipazione dei fedeli;
-        comunione eucaristica (a conclusione si parla anche dell’adorazione eucaristica).

L’enciclica richiama le varie presenze di Cristo: nel sacrificio dell’altare, nella persona del ministro, nelle specie eucaristiche, nei sacramenti, nelle lodi e nelle suppliche rivolte a Dio. La liturgia è il culto che il Redentore rende al Padre come capo della Chiesa e, allo stesso tempo, il culto che la società dei fedeli rende al suo e, per mezzo di lui, al Padre; in breve: la liturgia è il culto del corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del capo e delle membra.
Il culto che la Chiesa rende a Dio ha due aspetti: 1) un aspetto esterno, che sottolinea la dimensione sociale; 2) un aspetto interno, che sottolinea la dimensione spirituale (più importante). Non viene accolta la teologia dei misteri di Casel, in cui la liturgia è presenza salvifica della Pasqua nei simboli. L’efficacia della azioni liturgiche in ordine alla grazia è duplice: 1) oggettiva = azione di Cristo nei segni; 2) soggettiva = disposizione dell’anima. Anche la spiritualità presenta questo duplice carattere, oggettiva e soggettiva: non bastano i segni, ma è necessaria una buona disposizione dell’anima.
Circa la natura del sacrificio eucaristico, Pio XII riprende il Concilio di Trento. Circa la partecipazione, si sottolinea l’importanza dell’anima (aspetto soggettivo) e viene auspicato il parallelismo partecipativo (ciò che è importante non è la partecipazione attiva dei fedeli, ma l’importante è che il fedele partecipi col cuore alla stessa “disposizione” del tempo liturgico, anche se faccio altro, recito il rosario per esempio). Circa la comunione eucaristica, si sottolinea l’integrità del sacrificio con la sola comunione del sacerdote: non è necessaria la comunione dei fedeli; viene ribadita l’importanza dell’adorazione eucaristica.
In sintesi:

-        è positiva la prospettiva unitaria del rapporto spiritualità ogettiva e soggettiva;
-        è negativa la sottolineatura della soggettiva;
-        il rito non coincide, ma è parallelo con la devozione;
-        si deve assistere la Messa con comunione solo spirituale;
-        si afferma l’adorazione eucaristica svincolata dalla celebrazione.

Giungiamo ora al Vaticano II, che tocca l’Eucarestia in SC e in LG.
In SC si passa dal rapporto liturgia-ministero ordinato (gerarchicamente) al rapporto liturgia-popolo di Dio (totalità: il prete è parte del popolo di Dio): ciò comporta una maggiore partecipazione dei fedeli all’azione liturgica. La liturgia emerge come ambito in cui la Chiesa si manifesta quale sacramento: è mezzo efficace dell’intima unione con Cristo a cui sono chiamati tutti gli uomini (cfr. SC 2). Rispetto a Mediator Dei, vengono riprese le varie presenze di Cristo, esplicitando però:

-        la liturgia come esercizio del sacerdozio di Cristo (SC 7);
-        la prospettiva storico-salvifica (SC 5).

Viene ripresentata la partecipazione dei fedeli alla liturgia:

-        non più solo la disposizione dell’anima, ma tutto l’uomo;
-        non solo il singolo fedele, ma tutta la comunità;
-        non solo il sacerdote, ma tutta l’assemblea;
-        non solo la comunione spirituale, ma anche sacramentale;
-        non si ascolta soprattutto il cuore, ma anche la Parola.

V. i testi di SC sulle slides.

La salvezza operata da Cristo è un evento (mistero): tale salvezza viene comunicata nel tempo, per cui la storia è storia della salvezza, in quanto il Figlio di Dio ha assunto tutta la storia; ciò avviene mediante l’azione cultuale, che avviene nell’oggi: il culto è actio sacra, actio Dei.
Fondamentale è la formula per ritus et preces (SC 48): il rito non è inteso come ritualismo rubricale che tende a ridurre all’essenziale valido; le preghiere non sono intese come formule magiche che tendono a ridurre all’essenziale valido. L’azione liturgica, invece, per ritus et preces, coinvolge tutto l’uomo, che risponde all’azione di Dio. Tale actio sacra coinvolge tutto l’uomo: conscie (riferimento all’intelletto), pie (riferimento all’affetto) e actuose (partecipazione attiva).
Circa la partecipazione attiva, già il Movimento Liturgico aveva parlato di partecipazione attiva, nonché alcuni documenti magisteriali: Tra le sollecitudini di Pio X (1903), Miserentissimus Redemptor (1928), che sostiene la partecipazione dei fedeli in quanto essi costituiscono un popolo sacerdotale; anche Mediator Dei parla di partecipazione attiva: i fedeli partecipano del sacerdozio di Cristo, per cui partecipano all’offerta del culto eucaristico e offrono se stessi.
Ciò viene ripreso in LG 10, dove si parla del sacerdozio battesimale di tutti i fedeli, chiamati ad offrire in sacrificio spirituale tutte le attività umane del cristiano e ad annunciare i prodigi (dimensione missionaria del Vaticano II); il sacerdozio battesimale ha la triplice dimensione dei tria munera: sacerdotale, profetica e regale. Circa la dimensione sacerdotale, Cristo è il sacerdote che ha offerto se stesso: i fedeli, partecipando al sacerdozio di Cristo, sono chiamati a offrire se stessi, in modo che non vi sia separazione tra vita e culto. Circa la dimensione profetica, Cristo è la profezia, la Parola di Dio: i fedeli, partecipando della profezia di Cristo, devono offrire se stessi e annunciare e testimoniare il Vangelo, in modo che non vi sia separazione tra vita e missione. Circa la dimensione regale, Cristo è re dell’umanità, del cosmo e della storia: i fedeli, partecipando della regalità di Cristo,devono offrire se stessi vivendo da risorti nelle attività che svolgono, in modo che non vi sia separazione tra vita e realtà terrene.
LG 11 mette in evidenza l’unione di Battesimo, Confermazione ed Eucarestia: partecipando al sacrificio eucaristico, offrono a Dio la vittima divina e se stessi con essa; in tal modo tutti compiono la propria parte nell’azione liturgica. Battesimo e Confermazione sono orientati all’Eucarestia, alla quale si partecipa offrendo la vittima divina e se stessi. Affinché poi il sacrificio eucaristico raggiunga la sua piena efficacia pastorale anche nella forma rituale, il Concilio stabilì diverse riforme per le messe con partecipazione di popolo: riforma dell’Ordo missae, maggiore ricchezza biblica, omelia, preghiera dei fedeli, lingua nazionale, comunione sotto le due specie, unità della Messa, concelebrazione. LG 11 ricorda anche che l’Eucarestia è fons et culmen della vita cristiana; la mensa eucaristica esprime al massimo grado la comunione del popolo di Dio: in tal senso l’Eucarestia è sacramento dell’unità.
Se il Battesimo costituisce la porta, solo l’Eucarestia costituisce la pienezza della vita in Cristo (UR 22).

Circa la celebrazione del sacramento, si leggano il Missale Romanum e i suoi praenotanda.
Circa il Magistero, è consigliabile la lettura di Sacramentum caritatis, che è divisa in 3 parti: 1) mistero da credere; 2) mistero da celebrare; 3) mistero da vivere. Positivo è che i 3 aspetti (lex credendi, lex orandi, lex vivendi) siano armonicamente trattati; negativa è la precedenza data alla lex credendi rispetto alla lex orandi. Qui Benedetto XVI insiste molto sulla vita, affermando la necessità di vivere bene sia prima che dopo la celebrazione eucaristica: quest’ultima non ha un effetto magico sulla vita. La celebrazione eucaristica costituisce un aiuto e spinge alla missione: “ite, missa est” è l’invio appunto in missione.

Vediamo alcuni aspetti ecumenici.
Abbiamo alcune convergenze ecumeniche: in ambito cattolico abbiamo l’affermazione della partecipazione dell’intera comunità celebrante (senza svincolare il presbitero, isolandolo: il limite preconciliare era il fatto che la Messa è del prete), realtà affermata anche in ambito luterano (senza svincolare però il fedele, isolandolo dal presbitero e dalla comunità). Inoltre in ambito cattolico abbiamo l’affermazione dell’unità tra sacrificio della croce e sacrificio della Messa: il rischio è quello di svincolare la Messa, finendo col pensare quasi che essa abbia effetti automatici; in ambito luterano invece si nega la possibilità di effetti della Messa: il sacrificio della croce si è compiuto 2000 anni fa, l’Eucarestia è solo un segno.
Circa la questione del presbitero, esso è necessario nella Chiesa cattolica, preferibile nella Riforma. La comunione eucaristica deve esprimere la comunione ecclesiale: perciò se non vi è comunione ecclesiale non vi può essere comunione eucaristica (posizione cattolica). Per la Riforma è fondamentale il rapporto con Cristo, non sono importanti le mediazioni che sono umane: perciò è possibile la comunione anche senza unità ecclesiale. Anche per la Chiesa cattolica è fondamentale il rapporto con Cristo: ma esso si attua concretamente nella storia e con le mediazioni volute e stabilite da Cristo; perciò un segno o un gesto storico deve corrispondere alla realtà oggettiva che significa. Il rapporto con Cristo non perciò solo spirituale.
Si ha nel Vaticano II una riscoperta dell’indole escatologico della Chiesa: viene sottolineata la dimensione pellegrinate, si assume uno sguardo teo-retico sulla storia, si ha un’attenzione all’esperienza storica personale e si afferma che l’unità della Chiesa sarà dono futuro di Dio.
Volendo riassumere le posizioni, l’Eucarestia è segno e causa dell’unità della Chiesa: la posizione cattolica insiste sul segno (se non sono in comunione il segno è falso), mentre la posizione protestante insiste sulla causa (l’Eucarestia spinge all’unità, che però sarà solo futura).

Circa le tematiche, ne vediamo alcune.
Circa la transustanziazione, l’enciclica Humani generis (1950) difende la transustanziazione: la critica a tale concetto in ambito concetto deriva dal concetto d sostanza elaborato dalle scienze fisiche, per le quali sostanza = insieme di atomi; il concetto di transustanziazione sarebbe antiquato, fondato su un antiquato concetto di sostanza. Per cui, secondo questi critici, la presenza reale nell’Eucarestia sarebbe un simbolismo: perciò le specie consacrate sono segni efficaci della presenza di Cristo e della sua unione con i fedeli. Queste critiche partono in ambito olandese e sono sostenute da diversi teologi (v. slides). Vi è in questi autori:

-        il desiderio di superare il legame tra teologia e metafisica sostanzialista;
-        la rilettura esistenziale dei dogmi;
-        la riscoperta del pensiero simbolico;
-        l’introduzione in teologia delle categorie personalistiche.

Si vuole comprendere la presenza reale non per mezzo di categorie ontologico-spaziali ma per mezzo di categorie personali: si ricerca non tanto cosa è l’Eucarestia (lettura sostanzialista), ma a cosa serve (lettura funzionalista); l’essere delle cose si vuole definire a partire dal loro fine o significato. Trattandosi di simboli, con la consacrazione si ha un cambiamento di significato, funzione e fine e non tanto di essenza. Questa visione ha aspetti negativi:

-        la presenza reale è compresa pertanto in un orizzonte non solo puramente intellettuale-razionalista;
-        alla persona viene dato un significato naturale e non estrinseca, che coinvolge la totalità dell’uomo e non solo il suo intelletto;
-        si ha la preoccupazione di fraintendere la transustanziazione con la trasformazione della sostanza chimico-fisica del pane: per cui la transustanziazione è vista come trasformazione a livello di segno (transignificazione o transfinalizzazione).

La transustanziazione è vista come trasformazione a livello:

-        dinamico (non statico-spaziale);
-        di significato (non ontologico);
-        funzionale (per noi e per la nostra salvezza);
-        per un fine (per noi e per la nostra salvezza);
-        relazionale (coinvolge la persona, non estrinseca);
-        personale (esistenziale e non solo intellettuale).

Questi aspetti, portatori di un’istanza positiva, se vengono assolutizzati, rendono inaccettabile la posizione di questi teologi.
La transustanziazione, consiste in 2 forme di trasformazione:

-        soggettiva: il singolo e la comuità, attraverso la celebrazione, conferiscono un nuovo significato all’Eucarestia a cui il singolo e la comunità aderiscono (viene sottovalutato l’aspetto oggetivo);
-        oggettiva: le realtà stessa subisce un cambiamento, indipendentemente dal significato, dalla funzione, dal fine e dall’adesione stabilite dal soggetto e dalla comunità (è questa la posizione tradizionale).

In Mysterium fidei Paolo VI risponde a queste obiezioni, intervenendo nel dibattito sulla transustanziazione. In questa enciclica si sottolinea il rapporto inscindibile tra presenza reale e transustanziazione: parlare di transignificazione o transfinalizzazione è insufficiente, ma si deve parlare anche di transustanziazione.
Vi sono alcuni errori circa l’Eucarestia:

-        insistere sulla ragione di segno sacramentale come se il simbolismo, che tutti ammettono nell’Eucarestia, esprimesse esaurientemente il modo della presenza di Cristo;
-        discutere sul mistero della transustanziazione senza fare cenno alla conversione di tutta la sostanza del pane nel corpo di Cristo, limitandosi a parlare di transignificazione e transfinalizzazione;
-        dopo la celebrazione cessa la presenza di Cristo.

La presenza di Cristo si dice reale non soltanto per esclusione (le altre non sono reali), ma per antonomasia, perché è anche corporale e sostanziale. Dopo la consacrazione, le specie del pane e del vino acquistano un nuovo fine e un nuovo significato; ma lo acquistano in quanto contengono una nuova realtà ontologica.
In conclusione, sulla transustanziazione:

-        necessità della precedenza ontologica su quella funzionale: si corre il rischio di vanificare la prima per la seconda. Il funzionale ha senso solo perché c’è l’ontologico;
-        importanza della dimensione personale-relazionale: nell’Eucarestia si incontra qualcuno, non qualcosa;
-        importanza della visione unitaria tra esse (ontologico) e esse pro nobis (fine).

Una seconda questione è quella dell’Eucarestia come sacrificio.
La salvezza è legata al dono totale con il quale Cristo ha offerto se stesso in tutta la sua esistenza, ma che ha il suo punto culminante sulla croce, in cui la sua offerta è avvenuta una volta per tutte: è mediante  il suo sangue che noi siamo redenti. Attraverso il sangue di Cristo gli uomini sono giustificati, si realizza l’unità tra Giudei e pagani e tra uomini e potenze celesti; al sangue di Cristo gli uomini partecipano bevendo al calice eucaristico. Fondamentale è la relazione con l’AT, dove il sangue è elemento decisivo. Alla dimensione oggettiva della redenzione, in cui si sottolinea il dono di Dio, deve corrispondere la risposta dell’uomo affinché la sua salvezza sia vissuta nella vita: in tal modo, alla venuta escatologica di Cristo, potranno giungere alla pienezza della redenzione coloro che vivono in e per Cristo.
Nel NT, specie in Paolo, si hanno diversi termini per esprimere la nozione di redenzione: riconciliare, rappacificare, riscattare, liberare, espiare, salvare, giustificare, etc. Occorre correggere l’interpretazione giuridica della redenzione, secondo la quale una sostituzione di tipo penale avrebbe dato soddisfazione a Dio per gli oltraggi ricevuti, come se in Gesù Dio avesse voluto castigare tutti i peccatori: sebbene in Is 53 la posizione del servo sia questa, in Cristo la situazione è diversa. La preposizione hyper infatti ha diversi significati:

-        in favore di
-        a causa di
-        in rapporto a
-        è da scartare invece l’interpretazione al posto di.

La morte di Cristo è invece un atto di amore, sia da parte di Gesù che da parte di Dio: tale prospettiva è in continuità con l’AT. Il NT (soprattutto Paolo) preferisce descrivere il senso della morte di Cristo con la formula morire per anziché inserirsi nella prospettiva dell’AT e leggerla in senso cultuale: in questo vi sarebbe la differenza qualitativa tra la morte di Gesù in croce e i sacrifici espiatori; vi è anche distanza con il mondo greco-romano, in cui è presente la formula morire per in cui indica l’accento al soggetto. Le formule di donazione sottolineano, della morte di Gesù, non tanto l’atto eroico, quanto la portata salvifica dell’autoconsegna o della consegna da parte di Dio; il rito dell’espiazione non allude ad un dio irato, ma allude al dono della riconciliazione nel perdono dei peccati.
Nei testi eucaristici si sottolinea il sacrificio personale di Cristo: la morte di Gesù è letta alla luce di Is 53, in cui la morte del servo è espiatrice. L’Eucarestia celebra la donazione che Gesù fa di se stesso al Padre per la nostra salvezza: l’Eucarestia può essere vista come sacrificio. In tal senso, sacrificare non significa dare a Dio qualcosa di nostro, per placarlo o per avere qualcosa in cambio, ma è rispondere all’amore di Dio. L’unico sacrificio è quello di Gesù sulla croce, mentre l’Eucarestia è sacrificio relativo che attualizza sacramentalmente l’unico sacrificio.
C’è stata un riluttanza iniziale ad accogliere la categoria di sacrificio per l’Eucarestia, per timore di riprendere categorie giudaiche e pagane; dal III sec. la prospettiva del sacrificio da applicare all’Eucarestia diventa sempre più presente: l’Eucarestia è celebrazione/memoria della morte in croce di Cristo, unico sacrificio.
Ma l’Eucarestia è sacrificio solo di Cristo o anche dalla Chiesa? La Riforma contesta che l’Eucarestia sia sacrificio anche della Chiesa, mentre Trento difende questa posizione; anche il Vaticano II parla dell’Eucarestia come sacrificio della Chiesa (LG 10-11): l’Eucarestia è il sacrificio di Cristo offerto al Padre, nel quale però i fedeli offrono se stessi partecipando a quel sacrificio. Concludendo, possiamo dire che il sacrificio di Cristo si attua compiendosi nella celebrazione della Chiesa; dall’altra possiamo dire che alla Chiesa viene offerta la reale possibilità di entrare in sintonia con il sacrificio di Cristo, partecipando al sacrificio che Cristo fa di se stesso. La Chiesa perciò offre il sacrificio di Cristo (sacramento) e si offre dal/nel sacrificio di Cristo: questa partecipazione della Chiesa è una partecipazione esistenziale, come ricordato da Benedetto XVI in Sacramentum caritatis.

Passiamo ora a considerare la centralità dell’Eucarestia.
Vi sono 3 motivazioni che ci portano ad affermare la centralità dell’Eucarestia: cristologiche, antropologiche, ecclesiologiche.
Per le motivazioni cristologiche, Tommaso scrive che negli altri sacramenti Cristo è presente con la sua grazia, mentre nell’Eucarestia è presente in persona come salvatore; Trento afferma che l’Eucarestia non solo contiene la santificazione, ma è presente l’autore della santificazione.
Per le motivazioni antropologiche, Tommaso afferma che l’Eucarestia è l’alimento spirituale del credente, operando un’analogia con la vita fisica: il Battesimo è la generazione, la Cresima è l’aumento spirituale, l’Eucarestia è l’alimento. L’Eucarestia è inoltre sacramento della carità, che perciò viene alimentata.
Per le motivazioni ecclesiologiche, Tommaso parla dell’Eucarestia come sacramentum unitatis et caritatis; il Vaticano II parla dell’Eucarestia come fons et culmen della vita e della missione della Chiesa.

Vediamo ora il tema della frequenza della celebrazione eucaristica.
Inizialmente l’Eucarestia veniva celebrata solamente di domenica; dal IV sec. l’Eucarestia si celebra anche al sabato, tranne a Roma e ad Alessandria; nel IV sec. a Gerusalemme la si celebra anche il mercoledì e il venerdì.
Eusebio di Cesarea scrive che l’Eucarestia può essere quotidiana (Demonstratio evangelii) o solo la
Domenica (Commento ai Salmi). A Roma, con papa Damaso, la celebrazione dell’Eucarestia era solo la domenica; con papa Siricio la celebrazione diventa quotidiana, mentre con Innocenzo I l’Eucarestia torna solo di domenica. Nella lettera 54 Agostino scrive che gli usi cambiano a seconda della zona; sia Agostino che Girolamo ci rivelano una prassi liturgica non uniforme.
La Regula Magistri (VI sec.; probabilmente scritta da Benedetto) parla della comunione eucaristica quotidiana e della celebrazione eucaristica solo la domenica; nella Regola di Benedetto si elimina la comunione quotidiana. In Gregorio Magno si parla di celebrazione eucaristica quotidiana: almeno a partire da Gregorio Magno si è sicuri che la celebrazione eucaristica quotidiana è presente a Roma. In epoca carolingia la celebrazione eucaristica quotidiana passa a tutto l’Occidente (solamente nei monasteri, però).
Dal XVIII secolo la celebrazione eucaristica diviene quotidiana in tutto l’Occidente, parrocchie comprese; dal XX-XXI secolo vi è una difficoltà per la celebrazione eucaristica quotidiana, a causa della mancanza di sacerdoti.
Vi è inoltre la prassi ecumenica. Le Chiese ortodosse (parrocchie) celebrano solamente di domenica, mentre i monasteri anche in altri giorni (o tutti i giorni). In ambito protestante, i luterani celebrano solo di domenica, mentre i calvinisti nemmeno tutte le domeniche. Quali soluzioni oggi?

-        frequenza eucaristica solo domenicale con qualche eccezione nei giorni feriali: la motivazione sarebbe ecumenica e per la carenza di sacerdoti;
-        libertà di scelta: la motivazione è storica, dal momento che nei primi secoli la Chiesa non ha una prassi liturgica uniforme;
-        le prassi liturgiche originarie, in cui vi era l’Eucarestia solo di domenica, obbligano l’Eucarestia solo di domenica: anche qui la motivazione è storica.
Contro Boselli, che ammette una pluralità di prassi, Nardin e Benedetto XVI sottolineano l’importanza e la necessità della Eucarestia quotidiana (v. motivazioni).

Circa il culto eucaristico, si afferma al n. 5 del Rito che scopo primario della conservazione dell’Eucarestia è l’amministrazione del viatico; scopi secondari sono la distribuzione della comunione e l’adorazione del Signore presente nel sacramento. Motivazioni teologiche dell’adorazione sono:

-        irrobustimento della fede nella presenza reale;
-        venerazione e adorazione delle sacre specie durante la Messa;
-        esigenza tipicamente medievale di contemplare il Santissimo Sacramento.

Vediamo ora il rapporto tra Eucarestia e iniziazione cristiana.
Nella patristica abbiamo visto che domina la mistagogia; Tommaso parla di sacramenti ordinati all’Eucarestia; Trento parla dell’Eucarestia come la sorgente da cui scaturiscono i sacramenti (fiumi). Da Trento al Vaticano II si assiste alla perdita della visione organica dei sacramenti centrati sull’Eucarestia e la perdita della visione organica dell’iniziazione cristiana.
Il Vaticano II riprende:

-        l’organicità dei sacramenti;
-        la centralità dell’Eucarestia;
-        l’iniziazione cristiana.

Il Vaticano II riprende l’orizzonte ecclesiologico.


  1. IL MINISTERO ORDINATO

Partiamo da una prospettiva fenomenologica.
Il termine sacerdote ha come etimologia il sacer-dare. In diversi contesti socio-culturali, il sacerdote si colloca quale mediatore ufficiale tra la divinità e l’uomo e si pone nel rapporto tra male e bene: il sacerdote vuole togliere il male e invocare il bene. Gli ambiti propri del sacerdote sono 3:

-        cultuale: il centro della vita cultuale è l’immolazione del sacrificio, che presenta diverse sottolineature di significato (espiatorio o propiziatorio) e di modalità (cruento, incruento, persone, animali, etc.)
-        esorcistico: purificare ogni specie di male di cui è colpito l’individuo e la società;
-        oracolare: previsione sul futuro.

Vi è un paradosso nella rilevanza sociale del sacerdozio: talvolta la funzione sacerdotale si allarga a quella sociale, politica, amministrativa; ma talvolta si restringe. A livello cultuale, egli diventa un semplice cerimoniere e a livello magico uno stregone.

Vediamo l’aspetto biblico.
Nel periodo pre-monarchico l’azione sacrificale è compiuta anche da persone che non sono sacerdoti: il sacrificio non è prerogativa esclusiva del sacerdote. Il sacerdote è in relazione all’arca e al santuario (dove troviamo gli oracoli), senza però che vi sia riferimento ai sacrifici. La funzione oracolare può essere vicina al santuario, o anche lontano dal santuario; vi sono delle analogie con altre realtà del Vicino Oriente. La funzione sacrificale (offerta del sacerdote) non è esclusiva e specifica del sacerdote. La funzione oracolare non pone il sacerdote come semplice veggente: l’oracolo è rivelazione della volontà di Dio, in quanto è il sacerdote è in comunione con Dio (l’oracolo non è rivelazione del futuro solamente). Mosè ha un posto fondamentale: egli è il mediatore per eccellenza tra Dio e Israele (in tal senso egli è vero sacerdote, che ha una funzione sacerdotale massima): per questo a Mosè si deve l’investitura sacerdotale dei figli di Aronne.
Nel periodo monarchico il re diviene il principale mediatore tra Dio e il popolo: egli svolge un’azione sacerdotale riducendo tale funzione dei sacerdoti; al sacerdote rimangono importanti funzioni:

-        consultare Dio (funzione oracolare);
-        giudizio sulla congruenza o meno dell’osservanza della Legge da parte del popolo (funzione magisteriale);
-        funzione cultuale (offerta del sacrificio e dell’incenso);
-        successivamente si ha anche la funzione giudiziale, in nuce in Es e Dt e diffusa soprattutto in Ez 44.

Si perde, come si vede, la funzione mediatrice.
Nel post-esilio in Israele assume un valore rilevante la funzione cultuale: il sacerdote ha soprattutto funzioni di ambito cultuale. Emerge il sommo sacerdote, che è al vertice della classe sacerdotale. Scompare invece la funzione oracolare e magisteriale: si accentua invece la sacralità del sacerdote (solo lui è dedito all’azione cultuale) e del rito (minuziosità del rito e purità rituale). L’esercizio del sacerdozio cultuale ha una funzione esclusiva del sacerdote, ma si rivela anche come un esercizio comunitario del sacerdozio (v. sotto).

Passiamo al NT.
Nel NT non vediamo il sacerdozio, ma il ministero, che si declina nei Dodici, negli Apostoli, nei diaconi, nei presbiteri e nei vescovi.
I Dodici sono un gruppo di discepoli chiamati da Gesù prima della Pasqua:

-        gruppo: non è un semplice insieme di persone, ma un gruppo istituito e riconosciuto. Di questo gruppo conosciamo i nomi da elenchi diversi: si inizia sempre con Pietro (che è il capo) e si termina sempre con Giuda (che è il traditore); l’appartenenza al gruppo non implica la fedeltà, che è dono di Dio.;
-        di discepoli: stanno con Gesù, con il quale vi è una relazione ontologica (vite-tralci). Non si tratta di semplici discepoli che seguono Gesù, che è fonte della chiamata, ma Gesù li sceglie e li costituisce come gruppo;
-        chiamati: sono scelti, non si autopropongono (novità del cristianesimo);
-        da Gesù: libera iniziativa di Gesù, che è la fonte (ontologica) della chiamata. Cfr. Mc 3: vi è dunque una fondazione ontologica, che deriva dalla preghiera, ovvero dalla comunione con il Padre nello Spirito (orizzonte trinitario). Vi è un atto creativo di fondazione del gruppo. I discepoli devono stare con Gesù e partecipare alla missione di Gesù, che consiste nel predicare (conversione) e nello scacciare i demoni (Regno): vi è la precedenza dello stare, per cui l’atto creativo del gruppo non è funzionale alla missione (non si tratta di una strategia), ma è la missione ad essere conseguenza dello stare con Gesù;
-        prima della Pasqua: relazione del ministero con il Gesù storico.

L’autorità del gruppo dei Dodici è prepasquale (cfr. Mc 6,6-8.12; Mc 3,12-13) e postpasquale (1Cor 15,3-5). In Mc 6 si evidenzia che il gruppo partecipa della missione di Gesù: la loro autorità sta sulla chiamaata, sul mandato e sul potere dato da Gesù, non sulle loro forze (non prendere il bastone); questi gli aspetti della loro missione:

-        la loro autorità è sopra tutto il male (presenza del Regno);
-        predicazione della conversione;
-        missione comunitaria: vengono mandati a due a due.

In 1Cor 15 si nota l’autorità indiscussa del gruppo dei Dodici con Pietro: si tratta di un passo biblico fondamentale (kerygma), in cui i Dodici sono definiti come testimoni del Risorto.
Il riferimento ai Dodici è l’attestazione della dimensione storica della salvezza:

-        le 12 tribù costituiscono la forma storica del popolo di Dio;
-        rappresentano Israele: si ha dunque continuità con l’AT;
-        valenza escatologica: l’escatologia è compimento della storia (cfr. Mt 19,18).

Gli Apostoli sono i mandati da Gesù: partecipano della sua missione (Mc 6); ma sono anche i testimoni di Gesù: annunciano la sua resurrezione (Lc 24). Il ministero apostolico è permanente: esso rimane dopo la Pasqua, tanto che Giuda viene anche sostituito (permanenza del gruppo); ma il ministero apostolico è anche autorevole: vi è una fondazione cristologico-trinitaria (cfr. Lc 10,16).
La comunità primitiva è riunita attorno all’insegnamento degli Apostoli, nel contesto dell’unione fraterna, della frazione del pane e delle preghiere (cfr. At 2,42).
Paolo è un Apostolo come i Dodici, in quanto è chiamato direttamente da Cristo e da Dio (cfr. Gal 1,1); egli ha un mandato apostolico per l’annuncio del Vangelo (cfr. Rm 1,1), con poteri dati da Cristo (cfr. Rm 1,5) e con possibilità di agire in nome di Cristo (cfr. 2Cor 5,20: il nome ha qui valenza biblica, perciò ha significato di presenza). Paolo agisce con autorità, ufficialmente e pubblicamente, nelle diverse comunità. In Ef 2 gli Apostoli vengono presentati come il fondamento della comunità. In Rm 16,7 gli apostoli sono coloro che sono in Cristo, chiamati da lui.

Per i diaconi il testo fondamentale è At 6: il diaconato nasce da un’istanza sociale, ovvero il servizio alle mense; questo però permette di riflettere sull’identità dei Dodici, che invece devono dedicarsi alla preghiera e al ministero della Parola. Ai diaconi vengono imposte le mani, segno di benedizione e di affidamento del ministero. Sono 7 perché 7 sono i popoli presenti in Canaan (cfr. At 13).
Il diaconato, da servizio alle mense, viene però espresso poi come effettivo servizio alla parola: si pensi a Stefano in At 7 e Filippo in At 8; vi è perciò uno stretto legame tra servizio alle mense e servizio alla Parola. At però non parla di diaconi, ma dei Sette e di diakonia; diacono è usato altre volte nel NT, in Fil e in Tt.
Le qualità dei diaconi sono elencate in 1Tm 3,8-10.12.

I presbiteri rivestono un ruolo molto importante:

-        gli apostoli e gli anziani (presbiteri) sono associati nelle decisioni importanti (At 15);
-        hanno funzione di governo (cfr. At 14);
-        vengono chiamati vescovi (cfr. At 14);
-        vi è un collegio di presbiteri (cfr. 1Tm 4,14);
-        ad essi spetta la direzione (cfr. 1Tm 5,17);
-        criteri nella scelta dei presbiteri (cfr. Tt 1,5-9);
-        necessità che essi diano l’esempio (cfr. 1Pt 5,1-3).

Circa i vescovi:

-        essi non si distinguono nettamente dai presbiteri;
-        hanno il compito della sorveglianza (epi-skepto);
-        in 1Tm 3,1-7 si hanno i criteri nella scelta dei vescovi.


Vediamo ora gli ambiti e i segni del ministero nel NT.
Nel testamento del Signore in Lc 24,44-49:

-        il dato fondamentale è la resurrezione del Signore di Cristo (vv. 44-46);
-        si ha la descrizione del kerygma, con il riferimento alle Scritture, alla resurrezione di Cristo, al perdono dei peccati e all’invito alla metanoia;
-        il ministero è affidato nel nome di Gesù, ai testimoni della resurrezione ed è per tutte le genti;
-        gli incaricati devono essere rivestiti di potenza (dynamis = Spirito Santo) dall’alto, che il Figlio manderà come aveva promesso. Gli apostoli perciò devono restare a Gerusalemme per poi partire da lì.

Vediamo l’ecclesiologia ministeriale in Mt (capp. 14-19). In Mt 16 troviamo la professione di fede e il primato di Pietro: il Signore sceglie la persona e stabilisce il compito in una prospettiva di dono in cui l’orizzonte è ecclesiologico. Gesù sottolinea che bisogna seguirlo sulla croce (forma del ministero) e diventare piccoli. L’attenzione per il fratello che sbaglia è dimostrata mediante la sollecitudine del pastore per la pecora smarrita e nella correzione fraterna. I criteri per riconoscere i veri discepoli del Signore sono:

-        i frutti, ossia dalla loro condotta morale: il compimento si esprime nella realizzazione dell’umanità;
-        obbedienza alla volontà del Signore: l’umanità realizzata si compie nell’obbedienza a Cristo

Passiamo all’imposizione delle mani. Nell’AT essa indica:

-        espressione di benedizione
-        comunione sacrificale
-        trasmissione di incarichi: quest’ultimo sarà l’elemento che guarderemo da vicino. Lo troviamo nella trasmissione di potere da Mosè a Giosuè. Dal II sec. a.C. lo troviamo nell’ordinazione rabbinica con l’imposizione delle mani: questo segno sta ad indicare la continuazione del ministero di Mosè, con la trasmissione della sapienza.

Nel NT l’imposizione delle mani è:

-        espressione di benedizione (sinottici)
-        gesto di guarigione (sinottici e At)
-        dono dello Spirito a chi ha già ricevuto il Battesimo
-        assunzione di persone con incarico pubblico e stabile: essa si esprime in una duplice dimensione: 1) segno concomitante (At); 2) trasmissione del dono di Dio che permette di svolgere l’incarico (Pastorali). Per segno concomitante si guardi ad At 6, in cui gli apostoli pregano e impongono le mani sui sette; in At 13 viene conferito l’incarico a Paolo e Barnaba; in At 14,23 Paolo e Barnaba impongono le mani. Circa la trasmissione del dono di Dio, le Pastorali parlano di un charisma ottenuto dal presbitero e da ravvivare (non ripetere); inoltre si esorta a non aver fretta a imporre le mani. Attraverso l’imposizione delle mani viene ottenuto un dono spirituale (charisma), che è stabile e per la comunità: vi è un rito liturgico germinale con carattere sacramentale (non è solo una cerimonia di investitura.

Vediamo ora le sofferenze presenti nel ministero:

-        per il Vangelo bisogna accettare ogni sofferenza;
-        rinuncia alle richieste della propria famiglia;
-        rinuncia alle ricchezze;
-        rinuncia alla propria vita;
-        (rinuncia) del sostentamento della comunità;
-        (rinuncia) al matrimonio.

Le valenze del ministero nel NT sono 3: ministero fontale, ministero contemporaneo, ministero post-apostolico.
Il ministero fontale è            quello dei Dodici e/o degli Apostoli: la fonte del ministero è Cristo, che però è prolungato da quello dei Dodici e degli Apostoli. Il ministero è perciò di derivazione apostolica: vi è un unico ministero che si articola in vari ministeri, a seconda delle varie situazioni in cui si trovano le Chiese dove si opera. I Dodici e gli Apostoli partecipano (sono fondati nel ministero di Cristo, per cui vi è una continuità tra Cristo pre e post-pasquale e per cui essi sono testimoni del Risorto) e prolungano (si espandono negli altri ministeri, sia contemporanei che postapostolici, in quanto la Chiesa non finisce con gli apostoli) la missione di Cristo. I Dodici e gli Apostoli hanno autorità stabile che viene da Cristo ed è esercitata nel suo nome per 3 fini:

-        annuncio (evangelizzazione);
-        insegnamento (istruzione alla comunità);
-        governo (guida della comunità).

I ministeri contemporanei al ministero dei Dodici e degli Apostoli è quello dei collaboratori degli apostoli nell’annuncio, nell’istruzione e nel governo: si tratta di presbiteri, episcopi, diaconi, profeti, maestri, evangelisti, capi, etc. Appare difficile individuare chiaramente la funzione di questi ministeri, in quanto non c’è la volontà di sistematizzarli, per 2 motivi:

-        gli apostoli svolgono una funzione diretta;
-        vi è una forte tensione escatologica.

Gli apostoli poi trasmettono ad altri la loro triplice funzione: si hanno così i ministeri post-apostolici, rivolti ad una triplice funzione:

-        parola: annuncio (evangelizzazione) e insegnamento (istruzione alla comunità);
-        sacramenti: Battesimo e frazione del pane;
-        carità pastorale: guida e modello della comunità.

La trasmissione di questi ministeri avviene anche attraverso l’imposizione delle mani, che non è solo un segno, ma è anche un dono.

Le dimensioni del ministero  nel NT sono 2:

-        la diakonia, che è denominatore comune dei ministeri;
-        il ministero in ottica sacerdotale.

Ci soffermiamo innanzitutto sulla diakonia.
Per indicare i ministeri, il NT utilizza una terminologia varia, che dipende dalle varie comunità. Tuttavia il denominatore comune che maggiormente lega i compiti del NT (da Gesù ai ministeri post-apostolici)  è la diakonia, ovvero il servizio al servizio: la diakonia infatti presenta una duplice dimensione, cristologica (il servizio) ed ecclesiale (al servizio).
La diakonia di Cristo è fondamento e fonte su cui si innesta ogni altra diakonia cristiana, di cui Cristo è modello: la diakonia cristiana rende presente quella di Cristo, sia nella triplice funzione (parola, sacramenti, carità pastorale) sia nella modalità del dono totale di sé (sofferenza).
Circa la dimensione ecclesiale, nel NT non è espressa una superiorità di dignità dei ministri rispetto agli altri battezzati, ma i ministri sono al servizio della comunità dei battezzati. Infatti nel NT il ministero non è letto né in chiave sacerdotale (come l’AT) né nella chiave del potere civile (come il contesto cultuale extra-biblico). L’orizzonte diaconale del ministero lo situa all’interno della Chiesa, al suo servizio; il ministero non si pone al di sopra o fuori della comunità ecclesiale, ma all’interno di essa, per l’edificazione di essa.

Vediamo ora il ministero in ottica sacerdotale nel NT.
Il sacerdozio greco ed ebraico hanno come elemento fondamentale la mediazione tra divino (sacro) e umano (profano). Il termine ebraico kohen viene tradotto dalla LXX con il termine iereus, che sottolinea l’istanza della mediazione); la LXX invece non usa mai il termine leitourgòs, perchè ha un significato politico e generale prima che cultuale. La relazione tra Dio e l’uomo, nell’AT, si fonda sull’istanza della mediazione: l’umanità è rappresentata da Israele, rappresentato a sua volta dalla tribù di Levi, rappresentata a sua volta dalla famiglia di Aronne, rappresentata dal sommo sacerdote, rappresentato dalla vittima sacrificale, che rappresenta il popolo.
Nel NT non vi è alcun riferimento al sacerdozio di Cristo, con l’eccezione di Eb:

-        Gesù infatti appartiene alla tribù di Giuda, non a quella di Levi;
-        Gesù non ha una missione cultuale, ma profetica;
-        Gesù critica il formalismo sacerdotale;
-        Gesù muore in un contesto di maledizione;
-        Gesù non muore in un ambiente sacro, ma fuori della città santa.

Tuttavia la morte di Cristo viene letta come sacrificio. L’Ultima Cena infatti ha un riferimento al sacrificio:

-        riferisce di “sangue” e “alleanza”;
-        riferimento a Es 24,6-8;
-        la morte di Gesù coincide con l’immolazione dell’agnello (Gv);
-        Paolo parla di Cristo come nostra Pasqua che è stato immolato: Cristo è vittima del sacrificio ed è il compimento dei sacrifici antichi.

La lettera agli Ebrei pone il collegamento tra Cristo vittima e Cristo sacerdote. Pur non provenendo dalla tribù di Levi, il sacerdozio di Cristo è conferito da Dio stesso senza mediazioni e con un inizio assoluto (v. Melchisedek): Cristo trascende il sacerdozio e il sacrificio dell’AT. In tal senso vi è allo stesso tempo continuità e discontinuità con l’AT:

-        continuità: sacerdozio come mediazione;
-        discontinuità: 1) la mediazione di Cristo non si realizza cultualmente (sacrificio distinto dalla croce) ma personalmente (sacrificio coincidente col sacerdote); 2) la mediazione di Cristo non si realizza staccandosi dagli uomini (purificazione ascensionale), ma assimilandosi agli uomini (fino alla croce). Gesù esprime dunque un sacerdozio come offerta di sé: in quanto vero Tempio, è il vero culto ed è pienezza della mediazione tra Dio e l’uomo; in tal senso Cristo (Figlio) è superiore a Mosè (servo).

Il sacerdozio di Cristo legato alla sua offerta sulla croce realizza la pienezza della mediazione, in quanto le due dimensioni che costituiscono la mediazione vengono pienamente realizzate:

-        adesione perfetta alla volontà del Padre;
-        solidarietà fraterna con gli uomini fino alla morte.

Come già detto, il sacerdozio di Cristo si fonda sull’identità tra sacerdote e vittima, che comporta:

-        la passione di Cristo è perfetto sacrificio: la passione di Cristo non è solo un sacrificio, ma è il solo vero sacrificio, perfettamente realizzato;
-        Cristo è vero sacerdote: Cristo non è solo un sacerdote, ma è il solo vero sacerdote, unico mediatore fra Dio e gli uomini;
-        viene eliminata la separazione tra sacro (sacerdote) e profano (offerta), tra culto e vita (in Cristo il culto è la sua vita stessa e viceversa) e tra sacerdote e popolo (in Cristo tutti hanno libero accesso a Dio). Alla luce di questo, anche il culto cristiano deve avere nel mistero pasquale il proprio paradigma: l’offerta esistenziale di tutta la vita è il sacrificio cultuale (cfr. Rm 12,1-2); nonostante questo, l’elemento rituale non viene eliminato, tanto che il NT parla di Battesimo, frazione del pane, imposizione delle mani, etc.: il primato, però, resta all’elemento esistenziale, tanto che il NT applica la terminologia sacrificale all’offerta esistenziale e non all’offerta rituale dell’Eucarestia (cosa che si avrà solo a partire dalla Didaché).

Vediamo ora il sacerdozio dei fedeli. Esso viene affermato solo con 1Pt e Ap ed è in riferimento a Es 19,6, dove si parla di “regno di sacerdoti” (basileion ierateuma): mentre la Bibbia ebraica parla di regno di sacerdoti (insieme di singoli e sovranità assunta solo dai sacerdoti), la LXX parla di “organismo sacerdotale” (corpo unico, connotazione sacerdotale estesa a tutto il popolo).
Il termine ierateuma è coniato dalla LXX, non è usato nel greco classico. Il suffisso –euma esprime la dimensione corporativa del termine, per cui ierateuma indica la “comunità sacerdotale”. Inoltre la presenza di termini come popolo, stirpe, nazione conferma che l’aspetto corporativo-comunitario è quello a cui fa maggiormente riferimento il testo, in cui non si intende dare una dignità particolare ai singoli battezzati in rapporto ai sacerdoti ordinati (la Riforma utilizzò questo passo per esaltare il sacerdozio dei fedeli e screditare quello ordinato) ma si intende esaltare la dignità della Chiesa nel suo insieme. Il sacerdozio dei fedeli non è qualcosa che va vissuto in maniera individualistica, ma si tratta di un sacerdozio posseduto tutti insieme in modo organico.
Circa il sacerdozio come ministero ordinato, manca la terminologia sacerdotale per i ministri, in quanto i ministri cristiani sono molto diversi dai sacerdoti dell’AT (incarico ereditario, mediazione fondata soprattutto cultualmente, purità cultuale, funzione oracolare e didattica) e dai sacerdoti pagani (incarico per elezione o a pagamento, mediazione prevalentemente cultuale, ascesi e apatheia, funzione oracolare e didattica) e inoltre la tematizzazione del sacerdozio di Cristo si ha solo tardi (con Eb). Il ministero cristiano nel NT si colloca nella duplice valenza cristologico-ecclesiologica nell’orizzonte della diakonia. Ma anche se manca il termine, è possibile definire il ministero cristiano in una prospettiva sacerdotale?
Dal III sec., in modo diffuso, i ministri (vescovo e presbiteri) vengono identificati attraverso un vocabolario sacerdotale e il loro ministero descritto come sacerdozio; dal III sec. anche l’Eucarestia viene descritta in modo diffuso come sacrificio. Ma nel NT si parla dei ministri come sacerdoti? Abbiamo 3 passi di riferimento:

-        Fil 2,17: l’impegno dell’Apostolo è descritto nella metafora sacrificale: il sacrificio e l’offerta è la fede suscitata, che viene offerta a Dio da Paolo (sacerdote);
-        Rm 1,9: l’impegno dell’Apostolo è descritto nella metafora sacrificale: il culto è l’annuncio del Vangelo;
-        Rm 15,16: l’impegno dell’Apostolo è descritto nella metafora sacrificale: il culto è l’annuncio del Vangelo, l’offerta sono i pagani, la purità cultuale è dato dallo Spirito Santo.

Le categore sacerdotali del NT sono applicate solo a Cristo e al popolo dei battezzati: il sacerdozio di Cristo è visto come offerta esistenziale (ciò vale anche per i battezzati) e come mediazione (esclusivo di Cristo). I ministeri nel NT sono strumenti di Cristo non delegati o rappresentanti del popolo sacerdotale: essi manifestano la presenza attiva di Cristo mediatore nella vita del credente. Il ministero nel NT è “sacerdotale” ossia a servizio dell’unica mediazione di Cristo. Dunque, mentre il sacerdozio comune si esprime nell’offerta esistenziale, il sacerdozio ministeriale esprime invece soprattutto la manifestazione tangibile dell’unica mediazione di Cristo.
Concludendo, insieme a Castellucci, possiamo dire che nella Chiesa vi sono alcuni che partecipano ministerialmente a quello che Gesù compie per essa. Il ministero istituito da Gesù ed attestato nel NT è dunque quel carisma che, prolungando un aspetto della missione apostolica dei Dodici, si specifica come servizio all’edificazione della comunità con l’autorità e l’esempio che vengono da Gesù morto, risorto e vivente. L’edificazione si esercita nella proclamazione autorevole della Parola di Dio, nella guida pastorale della comunità, nel coordinamento dei carismi di ogni battezzato e nello svolgimento di alcune funzioni liturgiche: il ministero rende così presente l’opera salvifica di Cristo. La teologia del ministero ordinato (come tutta la sacramentaria) sta tra la cristologia e l’ecclesiologia.

Passiamo all’epoca patristica.
Secondo Didachè i ministeri sono o itineranti (apostoli, profeti e maestri) o stabili (vescovi e diaconi); non si parla invece di presbiteri. Gli apostoli sono coloro che fondano continuamente nuove Chiese, i profeti visitano le comunità edificandole con la Parola e l’Eucarestia, i maestri sono figure simili ma meno carismatiche dei profeti; i vescovi e i diaconi presiedono l’Eucarestia domenicale e edificano la comunità come i profeti. Gli apostoli, i profeti e i maestri sono i più importanti, ma i meno descritti; vescovi e diaconi sono meno importanti, ma più descritti. Con la Didaché abbiamo il passaggio dall’evangelizzazione della comunità (la comunità è gestita da ministri itineranti, preoccupati di fondare altre comunità) all’organizzazione della comunità (gestita ora da ministri stabili). In Didaché compare l’Eucarestia come sacrificio: essa è il compimento dei sacrifici dell’AT; il sacerdozio inizia a diventare implicito: vi è un legame tra l’Eucarestia come sacrificio e il ministero come sacerdozio.

Nella Lettera ai Corinzi di Clemente di Roma (96), al cap. 57, si parla di un conflitto tra presbiteri-episcopi, che presiedono la comunità, e parte della comunità (carismatici). Vi è perciò necessità di riportare un ordine nella comunità; perciò egli descrive il ministero cristiano: egli inizia con il linguaggio  e i concetti dell’AT, passando poi per una fondazione trinitario-cristologica e alludendo alla continuità apostolica e facendo riferimento all’AT:

-        iniziando il linguaggio e i concetti dell’AT, Clemente scrive che al sacerdote sono conferiti particolari uffici soprattutto in ambito liturgico, mentre ai laici (il termine laikòs è un’innovazione di Clemente) sono prescritti ordinamenti laici: vi è perciò una implicita distinzione tra vescovi-presbiteri-diaconi e laici;
-        circa la continuità apostolica, Clemente scrive che Dio inviò Cristo, Cristo inviò gli apostoli, gli apostoli stabilirono vescovi e diaconi, scegliendo le primizie (= primi convertiti);
-        Clemente fa riferimento a Es 17 e alla tradizione giudaica: Dio indicò a Mosè la tribù di Aronne come detentrice del sacerdozio. È Dio che stabilisce chi detiene il sacerdozio.

Al cap. 44 Clemente scrive che sono gli apostoli che stabiliscono la presenza dei vescovi e li istituiscono, proprio per evitare conflitti. Si parla di episcopi e presbiteri stabili, che nemmeno il papa può rimuovere. Vi è perciò una fondazione apostolica e una continuità e legittimità di altri illustri uomini; vi è una importante valenza ecclesiale sottolineata da Clemente. Anche in Clemente i termini episcopi e presbiteri sono sinonimi. Il compito di questi uomini sembra essere quello di presidenza dell’assemblea eucaristica; ciò che è importante è che si tratta di un posto stabilito da Dio e, perciò, incontestabile.
Confrontando Didaché e Lettera ai Corinzi:

-        vi è un risalto dato agli apostoli da Clemente;
-        non si menzionano profeti e maestri;
-        si introducono i presbiteri (sinonimi o meno con i vescovi);
-        i compiti sono la guida della comunità (soprattutto questo) e la presidenza dell’assemblea eucaristica, mentre non si parla dell’insegnamento.

La missione è da Dio a Cristo e poi agli apostoli; in seguito la designazione-successione passa dagli apostoli ai vescovi/diaconi e agli altri vescovi/diaconi. Tutto questo sarà ripreso da Ireneo.
L’immagine di Chiesa in Clemente Romano è duplice:

-        gregge, che ha come caratteristica essenziale l’ordine e l’armonia e come esempio fondante l’immagine l’armonia del cosmo;
-        esercito, che ha come caratteristica essenziale i membri con funzione diversa e come esempio fondante l’immagine la gerarchia levitica.

I vescovi/presbiteri sono anche chiamati hegumenoi, stesso termine utilizzato da Clemente per gli ufficiali civili: compito principale del ministero è la guida della comunità.
In Clemente vi è una cristologia “teologica” (missione: Dio manda Cristo) e una ecclesiologia “teologica” (successione: gli apostoli mandano i vescovi/presbiteri): la Chiesa è armonia voluta da Dio, perciò vi deve essere armonia tra i vescovi/presbiteri e i laici. Mentre in Didaché avevamo visto una sacerdotalizzazione implicita del ministero cristiano, in Clemente il ministero del NT viene visto in continuità con il sacerdozio dell’AT, in quanto egli vuole insistere sul ruolo di guida dei ministri: vi è perciò una sacerdotalizzazione esplicita del ministero cristiano. Tuttavia, mentre il compito principale del sacerdote dell’AT era il culto, compito principale devi vescovi/presbiteri è la guida della comunità.

Passiamo a Ignazio di Antiochia. Egli scrive 7 lettere durante il suo viaggio verso il martirio a Roma: il genere letterario è perciò occasionale, sistematico, ricco di immagini, per cui è difficile dare una struttura al pensiero di Ignazio; tuttavia vi è un punto centrale: vi è una forte preoccupazione per l’unità ecclesiale. Si parla allora di monoepiscopato (segno dell’unità del gregge), di presbiterato collegiale, dell’Eucarestia come causa e segno dell’unità, dell’obbedienza al vescovo come segno di unità. Appare dunque chiaramente il modello ministeriale tripartito (vescovo/presbiteri/diaconi), sottolineando però l’episcopato monarchico: Ignazio è la prima attestazione certa del modello ministeriale tripartito. Il vescovo è il pastore della Chiesa locale, i presbiteri sono i collaboratori attorno al vescovo (formano un unico presbiterio), i diaconi svolgono un servizio al vescovo e alla comunità. Questi tengono il posto di: Dio, Padre, Figlio, Cristo (i diaconi solo il posto di Cristo); torna perciò la rappresentanza. I presbiteri tengono il posto degli apostoli (collegio), mentre i diaconi non sono servi né di cibi né di bevande, ma dei misteri di Cristo e della Chiesa.
Il vescovo, pastore della Chiesa locale, rafforza l’unità ecclesiale; fede, culto, vita sono unitarie nella comunità. Il vescovo deve anche proteggere la comunità da eresie, scismi, etc.
Il fatto che il vescovo e/o i presbiteri tengono il posto di Dio, Padre, Figlio, Cristo rimanda ad una fondazione trinitaria (anche se poco pneumatologica) del ministero. Non vi è più un mandato cristologico-apostolico (come Clemente, per il quale Cristo mandava gli apostoli, che mandavano i vescovi), ma una visione più mistica e meno storica (per cui il vescovo “tiene il posto di”): in Clemente si insiste sulla successione apostolica (prospettiva teologico-storica), in Ignazio sulla mediazione apostolica (prospettiva teologico-mistica).
Si formano perciò, lungo il II sec., comunità con episcopato monarchico. Le motivazioni di questo sono di due tipi:

-        teologiche: mantenere l’unità (della fede e del culto);
-        sociologiche: maggiore funzionalità nel gruppo (motivazione troppo risaltata dal Castellucci).

Per Ignazio i presbiteri formano un presbiterio (dimensione comunitaria) e sono coadiutori del e attorno al vescovo; il termine presbyterion può essere tradotto sia come “presbiterio” (Castellucci: si mette in rilievo la collegialità) sia come “presbiterato” (Quacquarelli: ma una teologia del presbitero sembra anacronistica).
Circa l’unità ecclesiale si può dire:

-        l’Eucarestia è causa e segno dell’unità;
-        l’obbedienza al vescovo è segno di unità: i fedeli, i diaconi e i presbiteri devono essere sottomessi al vescovo.

Passiamo a Giustino. Nella I Apologia troviamo la prima descrizione dettagliata della presidenza eucaristica. Il preposto (proestos) della comunità presiede la celebrazione eucaristica; egli:

-        spiega la dottrina (lex credendi);
-        accoglie e consacra le oblate (lex orandi);
-        distribuisce le offerte ai bisognosi (lex vivendi).

Il ministero in Giustino è descritto esplicitamente in ambito liturgico (presiede la celebrazione, esorta e consacra) e in funzioni che dipendono dall’ambito liturgico (distribuisce ai bisognosi quanto raccolto); tuttavia il ministero non è espresso in termini sacerdotali.

Nel suo Adversus haereses (contro gli gnostici di Occidente; in Oriente c’è Origene) Ireneo di Lione parla di una successione apostolica ininterrotta (storica = visibile e verificabile) contro la gnosi, che aveva gerarchie proprie fondate su rivelazioni private e segrete. Ireneo utilizza perciò la prospettiva storica: la prospettiva mistica non poteva essere utilizzata, in quanto utilizzata anche dagli gnostici.
Circa i diaconi, Ireneo chiama diaconi i Sette di At 6; inoltre utilizza il verbo ordinare (assente in At) e non fa riferimento all’imposizione delle mani. In Ireneo:

-        si allude ad una diffusione del monoepiscopato, in opposizione allo gnosticismo;
-        non vi è ministero con riferimento sacerdotale: vi è solo riferimento al sacerdozio comune;
-        non vi è ministero tripartito universalmente;
-        manca attenzione al rito di ordinazione.

Clemente di Alessandria parla dei gradi della Chiesa di quaggiù (vescovi, anziani e diaconi), che sono in certo modo un riflesso della gerarchia angelica. Si ha:

-        una fusione tra i gradi gnostici e il ministero cristiano: il ministro è colui che possiede conoscenza e virtù al massimo grado. Ma mentre per gli gnostici il ministro è il sacerdote-filosofo, per Clemente è colui che eredita il ministero apostolico;
-        una prospettiva tripartita del ministero cristiano (come in Ignazio di Antiochia);
-        un’eredità platonica, ripresa poi dallo Pseudo-Dionigi.

 In C’è salvezza per il ricco? vi è un primo accenno al rito di ordinazione vista come “segno spirituale”.
Nella fase successiva:

-        il modello tripartito viene generalizzato;
-        anche il vocabolario sacerdotale viene generalizzato: in Occidente con Tertulliano e Cipriano, in Oriente con Origene, ritualmente con la Tradizione Apostolica.

Tertulliano introduce il vocabolario sacerdotale. Il vescovo ha la facoltà di battezzare (i presbiteri e i diaconi possono battezzare con l’autorizzazione del vescovo), di perdonare i peccati e di presiedere l’Eucarestia. Poche invece sono le allusioni ai presbiteri, tutte nel contesto del Battesimo. Utilizza anche il linguaggio sacerdotale per i battezzati: come i sacerdoti nell’AT erano unti, così i battezzati nell’unzione post-battesimale. Ormai, in Tertulliano, l’applicazione del vocabolario sacerdotale al ministero cristiano è ormai affermata; vi è una fondazione tipologica di questa applicazione.
Cipriano estende il vocabolario sacerdotale. La triade diventa vescovo, sacerdoti e diaconi. Lo sfondo è l’AT: si applica al sacerdozio cristiano ciò che era proprio del sacerdozio levita. La preoccupazione d Cipriano era storica, ovvero l’unità della Chiesa: ecco perché si insiste sul monoepiscopato e sull’obbedienza al vescovo. Viene inoltre utilizzato il vocabolario dell’ordinazione, con la quale si ammette nel clero: non ci si riferisce al rito con l’imposizione delle mani e il conferimento della grazia.
Anche Origene estende il vocabolario sacerdotale. Egli fa riferimento al sacerdozio comune, appartenente a tutti i cristiani, la cui fondazione teologica è la lettura allegorica del NT; egli parla anche del sacerdozio ministeriale per i ministri cristiani: Origene applica ad essi quanto detto dei sacerdoti dell’AT. I sacrifici dell’AT corrispondono alla parola di Dio che i ministri cristiani insegnano alla Chiesa (lettura allegorica); vi è anche una sacralizzazione del ministro: egli diventa il più bravo, il più dotto, etc.
Passiamo alla Traditio Apostolica, che è un’importantissima fonte liturgica: è il primo documento a riportare il rito di ordinazione di vescovi, presbiteri e diaconi (solo a questi si ha la cheirotonia) e anche di confessori, suddiaconi, vergini, lettori, etc. (verso i quali si ha un riconoscimento pubblico di un ufficio comunitario; katastasis); inoltre la TA riunisce le diverse linee del ministero: la tripartizione, la sacralizzazione, la sacerdotalizzazione.
Nell’ordinazione del vescovo si ha l’imposizione delle mani di altri vescovi, ma è un solo vescovo a pronunciare la preghiera di ordinazione. Nella preghiera di ordinazione del vescovo si possono cogliere 3 elementi: 1) momento fondativo (trinitario-pneumatologico): si dice che Dio Padre ha istituito i sacerdoti perché non mancasse il culto (nell’AT) e si invoca la potenza dello Spirito sovrano, che il Padre ha dato al Figlio e questi agli apostoli, che stanno al posto del tempio in quanto hanno edificato la Chiesa; 2) prescrittivo (compiti del vescovo, spesso assimilato al sommo sacerdote): egli deve pascolare il gregge, esercitare il sacerdozio servendo Dio giorno e notte, offrire i doni, rimettere i peccati, distribuire i compiti secondo la volontà di Dio; 3) momento dossologico (trinitario).
Nell’ordinazione del presbitero si ha l’imposizione delle mani del vescovo e dei presbiteri, mentre solo il vescovo pronuncia la preghiera di ordinazione. Anche in questa preghiera troviamo i 3 momenti precedenti: 1) momento fondativo (trinitario-pneumatologico): Dio Padre ha istituito tramite Mosè i 70 presbiteri e si invoca lo Spiritum gratiae et consilium presbyterii (che ha 2 traduzioni: “Spirito di grazia e di saggezza sacerdotale” o “Spirito del consiglio del presbiterio”); 2) momento prescrittivo (compiti del presbitero): non è presente nessun compito esplicito, ma si riferisce solo a generico “aiuto e governo”; 3) momento dossologico (trinitario).
Nell’ordinazione del diacono si ha l’imposizione delle mani del solo vescovo, che recita la preghiera di ordinazione. Anche questa ha 3 momenti: 1) momento fondativo (trinitario-pneumatologico): Dio Padre ha mandato Cristo per rivelare la sua volontà e si invoca lo Spiritum gratiae tuae et sollecitudinis (“Spirito della tua grazia e dello zelo”); 2) momento prescrittivo (compiti del diacono): egli è a diretto servizio del vescovo, soprattutto in ambito liturgico; 3) momento dossologico (trinitario).
In tutte le ordinazioni vi è dunque un ambito rituale e una preghiera di ordinazione, che ha un momento fondativo (epiclesi), un momento prescrittivo (compiti) e un lessico. Circa l’ordinazione del presbitero, vi sono due tipi di imposizione delle mani: la cheirotonia (che è il gesto sacramentale del vescovo, che impone le mani) e la cheirotesia (che è il gesto di comunione con il quale i presbiteri approvano per alzata di mano).
Nella preghiera di ordinazione nel vescovo si invoca lo Spirito come pneuma heghemonikòn: quest’espressione è già presente in Sal 50, dove indica lo Spirito di obbedienza e di generosità con cui eseguire i comandi di Dio; in Ippolito invece indica lo spirito atto a governare; nel presbitero si invoca lo Spirito di grazia e la saggezza del presbiterio; nel diacono lo Spirito della grazia e dello zelo. Circa i compiti, il vescovo ha moltissimi compiti e dettagliati, mentre quelli del presbitero e del diacono non vengono specificati.
La celebrazione eucaristica è presieduta dal vescovo, attorniato dai presbiteri: non è tipica del presbitero e non è nominata nella sua preghiera di ordinazione; siamo in un contesto in cui abbiamo ancora un cristianesimo cittadino non rurale.
Circa il lessico, il vocabolario sacerdotale è esplicito e ripetuto solo per il vescovo, mentre il presbitero non è chiamato sacerdos. Inizia il distacco tra il clero e i laici, con questa attenzione data al vescovo; si afferma una visione sacrale del sacerdote, visto come creatura celeste e mediatore assoluto della grazia.
Passiamo ora a Gregorio di Nazianzo, per il quale il ministro non è uno strumento nelle mani di Dio, ma trasmette ciò che precedentemente ha vissuto: per il ministro vi è la necessità di essere vicinissimo a Dio (questo fa perdere un po’ la dimensione pastorale), quasi che egli sia un angelo.
Giovanni Crisostomo condivide la stessa linea di Gregorio di Nazianzo e considera lo stato sacerdotale più perfetto dello stato monastico: il monaco infatti fa ascesi per se stesso, il sacerdote è pastore per il popolo. In questa visione sacrale del sacerdote, in cui egli è una creatura celeste ed è mediatore assoluto della grazia, viene dato risalto al peccato che non deve commettere, alla necessità della sua santità, alla sua condizione di essere superiore (angelico) rispetto ai laici. Nello Pseudo-Dionigi, che parla di gradi nell’Ordine, si dà risalto ai gradi alti dell’Ordine, mentre i gradi più bassi sono visti come passaggio; con questo si svaluta sempre più il ruolo dei laici, dai quali ci si distacca sempre più. La spiritualità sacerdotale “angelica” si compone di preghiera e culto, mentre il ministero pastorale viene separato dalla spiritualità.
Girolamo osserva che nel NT non vi è differenza tra presbiteri e vescovi: la differenza sta nel fatto che i vescovi hanno una maggiore autorità, il che non è una disposizione divina (questa concezione andrà avanti fino al Vaticano II); d’altronde l’Eucarestia consacrata da un vescovo o da un presbitero sono uguale.
In Agostino i vescovi e i presbiteri, a causa dell’unzione sacramentali, sono chiamati sacerdoti; tutti i fedeli unti del Signore sono tutti sacerdoti, in quanto membra dell’unico Sacerdote. Vi è un lessico sacerdotale sia per i presbiteri che per i fedeli. In Agostino non c’è angelismo (cristiano con voi) mentre vi è importanza per il ministero pastorale (vescovo per voi). L’episcopato non sacralizza il vescovo (l’episcopato è un lavoro, non una dignità); nemmeno il presbitero è sacralizzato, in quanto egli è semplice strumento di Dio. La condizione ecclesiale (scismatico) o morale del presbitero non influisce sulla validità dei sacramenti; in questo Agostino si oppone a Cipriano e a Donato. La prospettiva pastorale emerge come servizio (portare Dio agli uomini), come officium amoris: dall’esperienza monastica Agostino comprende la funzione ministeriale apostolica del sacerdozio; in Agostino la prospettiva pastorale si inserisce nella communio: senza popolo, il vescovo non può essere tale.
Gregorio Magno opera una sintesi tra Crisostomo e Agostino: il ministro deve essere santo e deve essere a servizio. Ministro santo significa che deve essere un ministro retto in coscienza (non carrierismo), deve avere un comportamento esterno paziente e disponibile, deve avere una formazione interiore (centrale è la lectio divina); deve essere a servizio in quanto vi è un’uguaglianza di natura con i fedeli e in quanto il Verbo entrò nel mondo (in questo senso il ministero pastorale è superiore alla vita monastica).
Ma perché, ad un certo punto, si ha un ministero come sacerdozio? Secondo Schillebeekx, ciò è dovuto alla svolta costantiniana e alla nascita della Chiesa imperiale (modello civile): i ministri assumono il sacerdozio dal paganesimo, con una forte accentuazione cultuale; il celibato è conseguenza, in quanto è funzionale alla purità cultuale. Secondo Grelot, la derivazione è dall’AT (modello biblico): i ministri assumono il sacerdozio dell’AT, nel quale chi presiede il culto è detto sacerdote (inizialmente solo il vescovo). Secondo Tillard, la derivazione è cristologica (modello teologico): Gesù è unico sacerdote del sacrificio pasquale (Eb) e l’Ultima Cena è memoriale di quel sacrificio; chi celebra l’Eucarestia ripresenta gesti e parole di Gesù dell’Ultima Cena, per cui chi presiede l’Eucarestia ripresenta il sacrificio di Cristo sulla croce, per cui viene qualificato come sacerdote. La sacerdotalizzazione del ministero viene vista in Oriente come sacralità del ministro, mentre in Occidente come sacralità del ministero con l’accentuazione del culto (nonostante Agostino avesse detto che il ministero è servizio)
Perché si ha il ministero come sacramento? L’ordinazione è un sacramento? Il sacramento è un rito liturgico di gesti e parole che produce in maniera definitiva un effetto spirituale (carattere, grazia-carisma) in colui che viene ordinato, il quale non è semplice delegato da parte della Chiesa, ma chiamato e fornito da Dio dei doni necessari per il ministero. Secondo Vogel, l’ordinazione non dà il carattere: di esso non si parla né in Oriente né in Occidente (solo dopo Agostino se ne parla). Secondo Lecuyer e Martimort, l’ordinazione dà il carattere, anche se:

-        manca l’esplicita terminologia (se non a partire con Pietro Lombardo a partire dal XII sec.): la terminologia o la statistica non determinano una teologia;
-        per i Padri nell’imposizione delle mani si trasmette una capacità ministeriale che non dipende dalle qualità morali o intellettuali del ministro: il ministro viene compreso come strumento.

Tre dunque sono in definitiva i modelli patristici del ministero: sacrale (mediazione e mistica), cultuale (sacerdote, presiede l’Eucarestia), ministeriale (servizio).

Passiamo ora al Medioevo, in cui si ricomprende la prospettiva patristica, con i suoi 3 modelli. Il modello sacrale viene ripreso dalla spiritualità, quello cultuale dalla dogmatica e quello ministeriale dalla sfera pastorale-giurisdizionale: i presbiteri si occupano prevalentemente dell’ambito cultuale (celebrare l’Eucarestia), mentre i vescovi si occupano della pastorale. Nel Mediovo si assiste però ad una prevalenza dell’ambito cultuale: ma perché prevale il modello cultuale?
Vi è una separazione (già dal IV sec.) tra sacramento e giurisdizione e si assiste ad una ruralizzazione della Chiesa (già nel VI sec.): ciò comporta che i presbiteri non sono più nelle città con il vescovo, ma sono nelle campagne e celebrano lì; l’Eucarestia non è più solo quella del vescovo insieme al presbiterio. Il vescovo tende ad isolarsi nelle città. Il vescovo acquista progressivamente un potere anche a livello civile (non più solo a livello canonico), con l’assunzione di un potere di giurisdizione; il presbiterio invece si frantuma nei singoli presbiteri, che si concentrano nella celebrazione dell’Eucarestia e dei sacramenti.
Nel suo De ecclesiasticis officiis Isidoro di Siviglia raccoglie e sistematizza l’eredità patristica, riprendendo la tripartizione di Ignazio di Antiochia e l’affermazione di Girolamo per cui il vescovo è uguale al presbitero. Tutto questo influenzerà il Medioevo teologico. Per Isidoro gli ordines sono 9, di cui 3 maggiori (episcopato, presbiterato e diaconato) e 6 minori (suddiaconato, salmistato, lettorato, esorcistato, accolitato, ostiariato): gli ordini maggiori sono trasmessi con l’imposizione delle mani e assolvono soprattutto la funzione cultuale; si afferma inoltre che, sebbene abbiano lo stesso grado di sacerdozio, il presbitero è subordinato al vescovo. Gli ordini minori sono trasmessi senza imposizione delle mani ma attraverso la traditio instrumentorum; i compiti degli ordini minori sono di carattere cultuale. Gli ordini di grado maggiore hanno compiti di carattere prevalentemente cultuale: il riferimento biblico non è Cristo o Mosè, ma sono Aronne (vescovo-presbitero) e Levi (diaconato). Come nota Castellucci, il termine ordinatio non si riferisce ancora all’ordinazione sacramentale, ma indica il rito sacro per mezzo del quale si entra a far parte di un determinato grado ministeriale.
Pietro Lombardo dà questa definizione di Ordine: esso è un segno, ossia qualcosa di sacro, attraverso il quale viene trasmesso all’ordinato un potere spirituale e un compito; gli ordini sono detti sacramenti perché nel riceverli viene conferita una realtà sacra, cioè la grazia (ciò riguarda solo gli ordini maggiori). La teologia dell’Ordine tende quindi verso la sacramentalità: l’Ordine non è visto solo come un conferimento di un ruolo ecclesiale attraverso un rito liturgico, ma è un sacramentum, ovvero un rito sacro mediante il quale a chi lo riceve viene conferita una realtà sacra, che ha un effetto spirituale (gratia). Pietro Lombardo nota che l’episcopato non è un Ordine (sacramento): la conferenza episcopale conferisce solo maggiore ampiezza giurisdizionale.
Tommaso afferma che tutti i sacramenti sono ordinati al sacramento dell’Eucarestia: il sacramento dell’Ordine, nello specifico, è ordinato alla consacrazione dell’Eucarestia; poiché il principale atto del sacerdote è quello di consacrare l’Eucarestia, a imprimere il carattere sacerdotale è la consegna del calice all’ordinando da parte del vescovo (si afferma la traditio instrumentorum): si afferma perciò la prospettiva cultuale del sacerdozio. Inoltre, se il sacramento dell’Ordine è ordinato alla consacrazione dell’Eucarestia, non si può parlare di sacramentalità dell’episcopato: il vescovo non consacra di più rispetto ad un sacerdote. Con Tommaso si fissa la dottrina delle 2 potestates, che rimarrà sino al Vaticano II: la potestas ordinis, che è data dall’ordinatio sacerdotalis (data da Dio) e che si riferisce al Corpus Christi verum; la potestas iuridictionis, data dalla missio canonica (data dall’autorità ecclesiastica) e finalizzata al Corpus Christi mysticum. A partire da questa distinzione, Tommaso afferma che il presbitero agisce rispetto al corpo eucaristico di Cristo, mentre il vescovo agisce rispetto al corpo ecclesiale di Cristo: presbitero e vescovo hanno unicamente una differenza di giurisdizione. Il presbitero ha dunque la potestas ordinis sul corpo vero di Cristo; il vescovo ha la potestas iuridictionis sul corpo mistico di Cristo. La separazione dei due ambiti porterà a discutere se l’ordinazione episcopale sia un vero sacramento o solo un solenne conferimento di poteri giurisdizionali.
Volendo fare un paragone tra Ignazio di Antiochia e Tommaso, possiamo dire:

-        Ignazio (I millennio) afferma che l’Eucarestia è al centro: essa è celebrata dal vescovo che presiede la comunità: l’Eucarestia fonda la comunità e il vescovo è il primo ministro dell’Eucarestia. L’episcopato è visto come il sacramento originario dell’Ordine;
-        Tommaso (II millennio) afferma che l’Eucarestia è al centro: essa è celebrata dal singolo presbitero che consacra. L’Eucarestia è “indipendente” dalla comunità e diviene una “questione privata” del presbitero. L’episcopato non viene più considerato un sacramento.

Guardando a tutti gli ordini, Tommaso afferma che tutti gli ordini sono ordinati all’Eucarestia: un ordine è superiore all’altro a seconda che la sua funzione sia più o meno connessa con l’Eucarestia, vista nella sua celebrazione liturgica. In tal modo, gli ordines per Tommaso diventano 7: vengono meno l’episcopato (che riguarda il Corpo di Cristo mistico, a differenza del presbiterato che riguarda il Corpo di Cristo vero) e il salmistato, che non ha alcuna relazione con l’Eucarestia; diaconato, suddiaconato e accolitato sono finalizzati alla distribuzione dell’Eucarestia, mentre gli altri ordini sono riferiti a coloro che ricevono l’Eucarestia. Il diacono infatti legge il Vangelo e distribuisce l’Eucarestia, il suddiacono legge l’epistola e prepara i vasi per contenere l’Eucarestia, l’accolito prepara la materia dell’Eucarestia nelle ampolle (rapporto diretto con l’Eucarestia); l’ostiario allontana chi non può partecipare all’Eucarestia, il lettore istruisce i catecumeni che un giorno parteciperanno all’Eucarestia, l’esorcista allontana l’ossessione diabolica dei credenti (rapporto indiretto con l’Eucarestia). Oggi, i ministeri non sono più visti nell’orizzonti del sacerdozio solamente, ma si fondano sul Battesimo.
Il Concilio Lateranense IV evidenzia che può compiere il sacramento dell’Eucarestia (in cui Cristo sacerdote è anche vittima) unicamente il sacerdote. Qui si mette in evidenza il legame forte tra sacerdote, sacrificio ed Eucarestia, sottolineato dal Tridentino successivamente.
Il Concilio di Firenze afferma che la forma dell’Eucarestia sono le parole con cui il Salvatore l’ha consacrato: il sacerdote consacra in persona Christi (è la prima volta che compare questa espressione).

Passiamo ora alla Riforma.
Sulla posizione di Lutero vi è una diversità di vedute tra i suoi commentatori: secondo Fagerberg, il ministero istituito non pone differenza rispetto ai battezzati, mentre Stein afferma che il ministero istituito pone invece una differenza in quanto i battezzati non possono celebrare l’Eucarestia. In un primo momento (prima del 1530) Lutero insiste sul sacerdozio comune, mentre in un secondo momento (dopo il 1530) Lutero insiste sul sacerdozio istituito, dove il sacerdote è però semplicemente un coordinatore: questo cambiamento si ebbe in risposta alle tendenze anarchiche apparse in alcune settori riformati. L’obiezione principale che Lutero pone è il riferimento al sacrificio eucaristico: non si può infatti offrire un sacrificio a Dio; non accettando l’Eucarestia come sacrificio, egli non accetta nemmeno il presbitero come sacerdote. In Lutero:

-        non vi è distinzione ontologica tra gerarchia e laici: vi è solo una distinzione di ordine;
-        ogni battezzato è sacerdote, vescovo e papa;
-        il ministero ha il compito di guidare la comunità e di predicare;
-        è la comunità stessa (e non un’autorità superiore) a stabilire chi diventa ministro ordinato;
-        l’ordinazione non conferisce una consacrazione, ma solo il diritto di annunciare la Parola e amministrare i sacramenti;
-        tutti i battezzati hanno il medesimo diritto, ma per amore dell’ordine vengono delegate solo alcune persone.

La questione che Trento doveva affrontare era questa: esiste o meno, sulla base delle Scritture, un sacerdozio diverso da quello comune dei battezzati?
Il Concilio di Trento parlò dell’Ordine nella sessione XXIII (1563), sia nei decreti che nei canoni.
Nel cap. 1 si parla dell’istituzione del sacerdozio nel NT: si afferma che sacrificio e sacerdozio per divina disposizione sono talmente congiunti che entrambi sono esistiti sotto ogni legge. Poiché nel NT la Chiesa ha ricevuto il sacrificio eucaristico, si deve confessare che esiste anche un nuovo sacerdozio visibile ed esteriore in cui è stato trasferito l’antico: si deduce perciò il sacerdozio del NT dal carattere sacrificale della Messa, dove si ripresenta il sacrificio della Croce; si pone qui la fondazione cristologica del sacerdozio e la visione del sacerdozio cultuale. Solo in un secondo tempo, invece, si fa riferimento al NT. C’è quindi una fondazione religiosa (tutte le culture) e non biblica del sacerdozio: è questa l’obiezione mossa a Trento da Castellucci; ad essa si può rispondere che:

-        la sessione XXIII sull’Ordine suppone la XXII sull’Eucarestia;
-        si suppone la fondazione biblica dell’Eucarestia;
-        la sessione XXIII prosegue la parte finale del cap. 1 della sessione XXII, dove si diceva che la Legge registra la cultura, ovvero l’esigenza umana della comunione con Dio che si cerca di realizzare con dei sacrifici.

I restanti capitoli, di stampo tomista, ribattono le posizioni della Riforma. Nel cap. 3 si parla della sacramentalità dell’Ordine: dalla Scrittura, dalla tradizione apostolica e dal consenso dei padri appare chiaro che mediante la sacra ordinazione è conferita la grazia. Questo capitolo:

-        evoca il fondamento biblico-patristico;
-        rileva l’ordinazione in parole e in gesti (Vaticano II);
-        ribadisce il conferimento della grazia;
-        non sottolinea la materia e la forma;
-        non si riferisce al rito (imposizione delle mani, consegna degli strumenti);
-        non affronta i diversi gradi di sacramentalità (episcopato e presbiterato).

Come si vede, Trento non affronta problematiche di carattere teologico.
Nel cap. 4 si afferma che col sacramento dell’Ordine viene impresso il carattere, che non può essere cancellato o tolto: qui si condanna la posizione protestante, che riteneva che i ministri ordinati potessero ritornare laici. Pur non essendo l’episcopato un sacramento, i vescovi sono superiori ai sacerdoti. A decidere sulle ordinazioni non decidono né il solo popolo né l’autorità: in caso contrario, non si deve riconoscere queste persone come ministri della Chiesa. I sacerdoti dunque:

-        hanno un potere spirituale specifico che li rende diversi dai laici;
-        hanno un ministero non temporaneo ma permanente;
-        hanno un ministero non solo funzionale alla predicazione e ai sacramenti;
-        non sono costituiti dal popolo o dall’autorità civile;
-        i vescovi sono successori degli apostoli.

I canoni sono invece più mirati rispetto ai capitoli.
Concludendo:

-        l’Ordine Sacro è un sacramento, che conferisce la grazia e il carattere e origina il sacerdozio (cioè celebrare l’Eucarestia);
-        l’Ordine sacro conferisce la grazia e non ha una semplice funzione ordinatrice nella comunità;
-        l’Ordine Sacro conferisce il carattere, ovvero una grazia stabile e non revocabile;
-        rifiutando la concezione dell’Eucarestia come sacrificio, Lutero nega la possibilità di un sacerdozio.

Mentre Lutero esalta e assolutizza il sacerdozio battesimale negando quello ordinato, da Trento al XX sec. il sacerdozio battesimale viene minimizzato e viene esaltato il sacerdozio ordinato. Nell’ambito della terminologia cattolica, si parla anche di sacerdozio battesimale, ma è visto in senso metaforico. Mentre Lutero esalta e assolutizza la predicazione negando l’aspetto sacramentale, da Trento al XX sec. si minimizza la predicazione e si esalta l’aspetto sacramentale: viene esaltato il modello cultuale. La figura pastorale del presbitero viene delineata nei Decreta super reformatione: la figura del sacerdote che si delinea pone al primo posto la celebrazione del sacrificio eucaristico per la comunità; seguono gli altri obblighi: la predicazione (a cui si accenna solo), l’amministrazione dei sacramenti, il buon esempio, l’assistenza ai bisognosi.
L’apporto di Trento è dunque ricco ed apprezzabile, ma contiene un limite: non armonizza il ministero cultuale (assolutizzato) con il ministero pastorale (sebbene già prima di Trento il ministero cultuale era fortemente accentuato). Trattando del ministero cultuale nella parte dogmatica e quello pastorale nella parte giuridica, il concilio mantiene la dicotomia che giungerà fino al Vaticano II, a vedere nell’impegno apostolico del presbitero e del vescovo un elemento accanto alla spiritualità, se non addirittura un’insidia per la sua vita interiore (modello sacrale di Crisostomo).
Il Catechismo tridentino riprende il Concilio e Tommaso; si parla di sacerdozio battesimale definendolo “interiore”: esso viene considerato positivamente. Il sacerdozio ordinato viene chiamato esterno: esso viene presentato nella visione sacrale che vede il sacerdote come intermediario di Dio, angelo; nella visione cultuale che sottolinea la continuità tra sacerdozio naturale, sacerdozio dell’AT e del NT (offerta del sacrificio ora più grande); la materia dell’ordinazione viene vista nella traditio instrumentorum.

Passiamo ora al periodo fra Trento e il Vaticano II.
La dimensione sacrale, connessa alla spiritualità, è prerogativa dei religiosi; la dimensione cultuale, connessa alla dogmatica, è prerogativa dei presbiteri; la dimensione ministeriale, connessa alla pastorale, è prerogativa dei vescovi. La pastorale ha due aspetti: giurisdizionale (vescovi) e spirituale (religiosi). Nascono i seminari diocesani, dove più importante è la formazione riferita al culto, mentre la predicazione e la pastorale vengono dopo.
Vi è l’accentuazione della dimensione cristologica fondata sul carattere, che configura a Cristo: se sono configurato a Cristo non devo entrare nell’ambito pastorale (questo il ragionamento). Il carattere offre una configurazione ontologica (partecipazione al sacerdozio di Cristo) e ministeriale (il sacerdote come alter Christus); tutto questo sempre nella prospettiva sacrale. Il sacerdote, in questa prospettiva, è associato all’incarnazione di Cristo fino all’immolazione di sé; manca però il riferimento storico alla comunità (il presbitero si santifica non insieme alla comunità, ma è lui a donare la sua santità alla comunità) e vi è un riferimento solipsistico del rapporto con Dio.
La partecipazione al sacerdozio di Cristo è riferita unicamente al sacerdote ordinato, in quanto quest’ultimo offre il sacrificio eucaristico. Il sacerdote, in chiave cultuale, rappresenta Cristo davanti alla Chiesa (rappresentare significa non essere uguali a colui che si rappresenta), mentre, in chiave sacrale, il sacerdote ripresenta Cristo davanti alla Chiesa (ripresentare è invece molto di più di rappresentare: il sacerdote è in qualche modo Cristo): in entrambi questi ambiti siamo sempre nell’orizzonte ontologico. Il card. Mercier, che ha avuto un grosso influsso nel XX sec., parla della santità del sacerdote consacrato in funzione pastorale e non contemplativa: l’orizzonte pastorale non è superfluo, ma è legato alla vocazione del presbitero. La configurazione a Cristo in ottica ministeriale è ontologica secondo la prospettiva classica, pastorale secondo Mercier.
Nel Catechismo di Pio X (1905) troviamo la prospettiva cultuale-sacrale; vi è una doppia istituzione e una doppia potestà: l’Ultima Cena dà la potestà sul Corpus Christi verum, la missione pasquale dà la potestà sul Corpus Christi mysticum.
A ridosso del Vaticano II si afferma una teologia dell’episcopato, che è frutto del movimento biblico e patristico: si riscopre la collegialità nel NT (Pietro e i Dodici) e nei primi secoli (papa e vescovi); si riscopre anche il ministero (gerarchia) come diakonia (Congar). Il movimento patristico riscopre l’importanza della Chiesa locale e del vescovo, affiancato da un presbiterio: la Chiesa locale è la Chiesa universale attuata nello spazio e nel tempo dall’Eucarestia quando è presieduta dal vescovo (Congar, Rahner; questa prospettiva è poi ripresa in SC). Il movimento liturgico riscopre l’episcopato come pienezza dell’Ordine: nella Traditio apostolica l’episcopato viene definito come “sommo sacerdozio”. Abbiamo anche una teologia del presbiterato e del diaconato, che ripresenta la prospettiva tomista e tridentina, al cui centro è l’Eucarestia; anche il diaconato è in funzione dell’Eucarestia, non del sacerdozio (Castellucci). Vi è anche una teologia del laicato (Congar): si parla delle 3 potestates di Cristo partecipate ai sacerdoti e ai laici; si supera la dicotomia tra clero nella Chiesa e laicato nel mondo: questa separazione è indebita, secondo Congar.
Nella costituzione apostolica Sacramentum ordinis (1947), Pio XII afferma che la materia del sacramento dell’Ordine è l’imposizione delle mani (non la traditio instrumentorum) e definisce la forma dell’ordinazione episcopale.

Passiamo al Vaticano II. Con esso abbiamo un’ecclesiologia trinitario-missionaria e sacramentaria (il ministero non è solo cultuale, statico, in quanto l’orizzonte è missionario; LG 1); inoltre l’episcopato viene visto come pienezza dell’Ordine (LG 21).
Importante è il cambiamento di esemplare del ministro ordinato. Prima del Vaticano II l’esemplare è il presbitero, in funzione dell’Eucarestia: guardando al presbitero si comprende cosa è il ministero ordinato; con il Vaticano II il modello diviene il vescovo, che svolge il ruolo di annuncio, culto e guida. Il ministro ordinato, per il Vaticano II, è il vescovo, il presbitero e il diacono.
LG 18-27 dà il fondamento teologico all’episcopato, mentre CD ripresenta giuridicamente e pastoralmente il ministero episcopale. Circa LG 18-27, questa la struttura (cfr. dispense). Il n. 21 è molto importante, in quanto parla della sacramentalità dell’episcopato: l’ecclesiologia eucaristica (SC 41) fonda la sacramentalità dell’episcopato, la quale fonda il munus sanctificandi episcopale. SC 41 presenta un’ecclesiologia eucaristica (la Chiesa locale è quella che celebra l’Eucarestia presieduta dal vescovo) e mette in evidenza questi aspetti:

-        il ministero del vescovo non è solo di giurisdizione;
-        la Chiesa locale ha un suo valore ontologico.

LG 21 presente la sacramentalità dell’episcopato: il Vaticano II riprende Trento, ma sostituendo il vescovo al presbitero. La sacramentalità dell’episcopato dà al vescovo gli uffici di santificare, insegnare e governare, a patto che il vescovo sia in comunione col papa e con il collegio episcopale. Si parla inoltre di carattere che viene impresso con la consacrazione episcopale.
Il vescovo non ha autorità vicaria, ma diretta: egli tiene il posto di Cristo (non del papa) e agisce in sua vece. Ma in tal modo non si ha la frantumazione della Chiesa in tante Chiese locali? La collegialità fa salva l’unità della Chiesa, intesa come comunione col papa e con tutti gli altri vescovi: vi è la communio locale, che è eucaristica (SC 41), e una communio catholica.
L’Ordine viene allora ricompreso: il presbitero aveva la potestas di consacrare (visione preconciliare); ora il ministero, la cui figura esemplare è il vescovo, ha il munus (non potestas) di insegnare, santificare, governare. Trento parlava di 2 potestates (ordinis-culto e iurisdictionis-annuncio e guida); per il Vaticano II vi è un’unica fonte data dall’ordinazione (carattere) che si esprime nei 3 munera, il cui esercizio è dato dalla missio canonica, trasformandoli in potestas. Senza missio canonica il munus resta tale: l’annuncio è invalido, il culto illecito, la guida invalida.
La Nota esplicativa previa chiarisce che l’ordinazione dà il carattere e questo porta il munus: mentre la potestas si può esercitare subito con l’ordinazione, il munus invece ha bisogno che l’autorità (il vescovo) allarghi la giurisdizione per esercitare il munus. Per comunione non si deve intendere un vago sentimento, ma una realtà organica, che richiede una forma giuridica e che è allo stesso tempo animata dalla carità.
Il ministero episcopale (LG 24) è un ministero caratterizzato dalla missione, dall’insegnamento, dalla testimonianza e dal servizio; il triplice munus è quello di insegnare, santificare, governare (LG 25-27). In LG 24 l’episcopato viene visto come servizio; inoltre esso gode del triplice munus di insegnare, santificare governare (cfr. LG 25-27). LG 25 afferma che il munus docendi comprende il predicare e l’annunciare: qui il munus docendi viene fondato sul Concilio di Trento, ma l’orizzonte è cristologico-pneumatologico; inoltre Lg 25 è fondato sacramentalmente su LG 21.24. Il Magistero papale è colto all’interno della collegialità dei vescovi (LG 25) e nell’orizzonte dell’infallibilità della Chiesa (LG 12).
LG 26 sottolinea il rapporto Chiesa locale-Eucarestia. La salvezza è legata all’Eucarestia e alla Chiesa: vi è un forte legame tra lex orandi (Eucarestia simbolo di carità) e lex vivendi (communio come unità del corpo mistico).
LG 27 parla del munus di governare: il vescovo non è delegato del papa, ma la sua autorità viene da Cristo; tale autorità è però servizio finalizzato all’edificazione del gregge. Vi è implicito un riferimento al triplice munus, con il riferimento all’edificare, alla verità e alla santità. Inoltre LG 27 riferisce ai vescovi parte di quanto era stato detto del Vaticano I sul papa.
L’episcopato è dunque colto nella successione apostolica e si parla della sua sacramentalità e collegialità. Quale allora la natura del ministero ordinato e del presbiterato? Del presbiterato si parla in LG 28 e in PO.
LG 28 e PO 2 mette in evidenza alcune “catene” di successione: LG 28 presenta una fondazione cristologica del ministero, finalizzato alla missione (del sacerdozio battesimale se ne è già parlato di LG 10-11); PO 2 parte da un orizzonte ecclesiale con riferimento al sacerdozio battesimale e poi termina con la stessa prospettiva di LG 28: dunque PO 2 mette insieme LG 10-11 e LG 28. Sempre in LG 28 il triplice munus, del quale si era parlato per i vescovi, viene applicato al presbitero e si fonda sulla consacrazione (su un dato ontologico, perciò). Infine, sempre in LG 28, il ministero presbiterale è visto in relazione alla mediazione di Cristo, che fonda l’annuncio; la celebrazione dell’Eucarestia viene vista come culmen (SC) e avviene in persona Christi; vi è anche una dimensione contemplativa propria del capo e del pastore.
PO chiarisce la gerarchia del triplice munus: PO 4 parla del munus di insegnare, PO 5 del munus di santificare, PO 6 del munus di governare. Vi è una diversità di priorità a seconda della prospettiva. I tria munera non sono 3 compiti giustapposti, ma 3 prospettive dell’unico ministero fondato nel sacramento dell’Ordine. La fondazione del Vaticano II è sempre ontologica e non giuridica, sebbene la missio canonica resti un elemento fondamentale per l’esercizio della potestà: tuttavia tale esercizio non è altro che l’espressione di quel “potenziale” ontologico che si è ricevuto. Circa la gerarchia fra i tria munera, Castellucci nota che il ministero della predicazione è il primo nell’ambito logico dell’esecuzione, il ministero sacramentale è il primo in ambito ontologico o qualitativo del compimento, il ministero pastorale è il primo nell’ambito quantitativo dell’estensione: tutti i tria munera sono primi, a seconda del punto di vista. I tria munera si richiamano l’uno con l’altro e sono fra loro legati.
In PO si parla per 118 volte di presbite-presbyteri, mentre solo 21 volte si parla di sacerdos: già questa statistica è significativa; parlando di presbiteri al plurale, si vede come il presbitero viene visto all’interno e in relazione con il presbiterio.
Circa il presbyterion, abbiamo due linee interpretative:

-        come presbiterio (Ignazio di Antiochia): presente già nella riflessione antichissa;
-        come presbiterato, cioè la riflessione teologica precisa sull’identità del presbitero, che viene in un secondo momento (da Cipriano al Vaticano II).

LG 29 parla del diaconato. Anche per il diaconato si fa implicitamente riferimento al triplice munus. LG 29 allude anche al ristabilimento del diaconato permanente.
In sintesi, il Vaticano II:

-        ritorna alle fonti bibliche, patristiche, liturgiche;
-        pone un orizzonte diaconale parlando dell’Ordine;
-        si riferisce costantemente al triplice munus;
-        recupera fortemente la dimensione ecclesiologica.


Passiamo ora a parlare della celebrazione del sacramento. Del rito dell’Ordinazione abbiamo 2 edizioni, una del 1968 e una del 1989 (quest’ultima con alcune modifiche): mentre la prima edizione sottolineava forse l’aspetto liturgico, la seconda fa riferimento alla dimensione cristologico-pneumatologico ed inoltre si fa riferimento non solo al culto, ma anche alla dimensione di reggere il popolo. La preghiera dopo la comunione fa anch’essa riferimento al triplice munus.

Circa il Magistero postconciliare, nel 1971 si celebra un Sinodo dei Vescovi sul sacerdozio ministeriale, mentre nel 1990 si celebra un Sinodo sulla formazione dei sacerdoti; inoltre abbiamo le due edizioni del rito di Ordinazione, alcuni documenti della CEI, il CIC e il CCC.
Il Sinodo dei Vescovi fu tenuto in un preciso contesto storico. Il Simposio dei Vescovi Europei a Coira aveva messo in evidenza la crisi di identità del presbitero; similmente vi era stato un documento dei vescovi di lingua tedesca, che aveva affermato che il triplice munus unifica le diverse funzioni del presbitero e legge il ministero del presbiterale alla luce di ciascun munus; vi era stato inoltre un documento della CTI, in cui si parte non dalla Scrittura, ma sull’analisi della situazione, che vede una crisi del presbitero. Il Sinodo riprende questi 3 documenti e risponde alla crisi di identità del presbitero: il documento della CTI costituì l’instrumentum laboris, mentre il documento finale del Sinodo sottolinea la dimensione cristologica.
Si deve parlare di sacerdozio ministeriale o ministero sacerdotale? Molto importanti sono 2 testi di Congar: Teologia del laicato e Ministeri e comunione ecclesiale. In una assemblea di vescovi francesi a Lourdes (1973) si parla di una Chiesa tutta ministeriale: tutta la Chiesa è sacramento di salvezza, ma non tutti devono essere ministri: dunque il riferimento al Battesimo è utile per definire il presbitero?
Secondo Congar parlare di ministero sacerdotale è preferibile al parlare di sacerdozio ministeriale: il sacerdote è ministro del vero sacerdote (sacerdotale) in favore di un popolo sacerdotale. Il sacerdozio battesimale, la rivalutazione del laicato, l’universale chiamata alla santità preparano la riscoperta del ministero laico istituito: ciò porta a Ministeria quaedam.
Secondo mons. Carli, vescovo di Gaeta, è meglio parlare di sacerdozio ministeriale, in quanto ciò significa parlare della natura del presbitero, mentre parlare di ministero sacerdotale significa parlare dell’esercizio del presbitero.
Marsili si sofferma sulle diciture sacerdote e presbitero: sacerdote si riferisce al culto, presbitero alla pastorale.
I vescovi italiani preferiscono la parola pastore.
Il CCC parla del sacerdozio dell’AT, che decade con Cristo: nella liturgia le figure dell’AT prefigurano il ministero ordinato della Nuova Alleanza. Vi è una continuità esegetica reale tra AT e NT, vi è una superiorità ontologica del NT, ma allo stesso tempo vi è una continuità liturgica tra immagini dell’AT e NT (tipologia). Il CCC parla del sacerdozio ministeriale come a servizio del sacerdozio battesimale.
Il Sinodo dei Vescovi del 1990 e la PDV, che è il primo documento a parlare di formazione permanente dei sacerdoti. Nel n.3 si afferma chiaramente che oggetto della questione non è più l’identità del ministero sacerdotale, ma gli aspetti concreti della vita dei sacerdoti (qualità di vita).  La fondazione cristologica era già stata vista nel Sinodo del 1970. Il n. 12 afferma che ogni identità cristiana, compresa quella del sacerdote e del suo ministero, è all’interno del mistero della Chiesa. Sempre il n. 12 afferma che il riferimento alla Chiesa è necessario (riferimento ecclesiologico si ha a partire dal Vaticano II) nella definizione dell’identità del presbitero, in quanto la Chiesa è essenzialmente relativa a Gesù Cristo. Il n. 16 afferma che il presbitero è servitore della Chiesa mistero in quanto attua i segni ecclesiali e sacramentali della presenza di Cristo Risorto; è servitore della Chiesa comunione perché costruisce l’unità della comunità ecclesiale; è infine servitore della Chiesa missione, perché rende la comunità annunciatrice e testimone del Vangelo. Abbiamo dunque una fondazione cristologica nell’orizzonte ecclesiologico.
Il n. 22 dice che il sacerdote è chiamato ad essere immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa: egli deve rivivere l’amore di Cristo sposo nei riguardi della Chiesa. Al n. 23, parlando di Cristo capo e pastore, il documento sembra già dimenticare la dimensione sponsale; la carità pastorale è partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo: essa fonda la spiritualità sacerdotale. La carità pastorale è il dono di sé, il totale dono di sé alla Chiesa, ad immagine e in condivisione con il dono di Cristo. Questa carità pastorale costituisce il principio interiore e dinamico capace di unificare le molteplici attività del sacerdote: essa deve unificare la vita interiore e le tante azioni; solo la concentrazione di ogni istante e di ogni gesto attorno alla scelta fondamentale e qualificante di “dare la vita per il gregge” può garantire questa unità vitale. Lo Spirito Santo è fonte di santità e appello alla santificazione, non solo perché configura il sacerdote a Cristo capo e pastore, ma anche perché anima e vivifica la sua esistenza quotidiana.
Il n. 31 ricorda la Chiesa particolare come valore spirituale del presbitero: questo non è un fatto unicamente organizzativo, ma vi è un valore ecclesiologico; l’incardinazione non si esaurisce in un vincolo puramente giuridico, ma comporta anche una serie di atteggiamenti e scelte spirituali e pastorali che conferiscono una fisionomia specifica alla figura vocazionale del presbitero.
In sintesi, in PDV troviamo:

-        importanza della formazione iniziale e permanente nella prospettiva fondativa e spirituale;
-        fondazione cristologica nell’orizzonte ecclesiologico;
-        la carità pastorale fonda la spiritualità sacerdotale (in un orizzonte cristologico in chiave agapico-sponsale);
-        l’Ordine è fonte di santità nell’esercizio del triplice munus;
-        la Chiesa locale fonda la dimensione storica della spiritualità sacerdotale.

Passiamo a parlare del diaconato.
Fondamentale è il documento di Paolo VI Sacrum diaconatum ordinem (1967): si parla dell’instaurazione del diaconato permanente, del carattere (dal quale deriva la sacramentalità del diaconato), mentre LG 29 era stato più sobrio. Altro documento è Ad Pascendum di Paolo VI (1972), in cui si richiama l’obbligo del celibato e il diaconato permanente come ordine intermedio tra gerarchia superiore e il resto del popolo di Dio. Interessante è anche il documento della CTI, IL diaconato: evoluzione e prospettive (2003): questo documento parla delle diaconesse. Esse non compiono nulla di ciò che fanno i presbiteri e i diaconi, ma vigila le porte e assiste i presbiteri in occasione del Battesimo delle donne, per ragioni di decenza. La diaconessa non avrà accesso né all’altare né ad alcun ministero liturgico: tale ministero non era inteso come il semplice equivalente femminile del diaconato maschile. Di conseguenza le diaconesse devono essere considerate laiche sul piano storico. Dunque il motivo storico non può fondare un eventuale diaconato femminile; il documento, però, non esclude la possibilità futura che si possa estendere il diaconato alle donne: ma ciò non può avvenire per il motivo storico; in ogni caso decisivo è l’intervento dell’autorità ecclesiastica.
LG 29 afferma che i diaconi stanno ad un grado inferiore della gerarchia, ai quali sono imposte le mani non per il sacerdozio, ma per il servizio. Tale diaconia si esprime nella liturgia, nella predicazione e nella carità.
Nel CJC del 1983, ai cann. 1008-1009, si lasciava intendere che il diaconato si esercita nella persona di Cristo capo: non vi sarebbe più nessuna differenza tra vescovo, presbitero e diacono. Il CCC del 1992, al n. 1581, presentava lo stesso problema; il CCC del 1998 ritorna invece ad ispirarsi a LG 29: solo il vescovo e il presbitero agiscono nella persona di Cristo capo. Nel 2009 è stato adeguato anche il CJC, modificando i can. 1008-1009.

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