CRISTOLOGIA
DALLA PROCLAMAZIONE
ALLA STORIA:
GESÙ AGLI INIZI
DELLA CRISTOLOGIA
INTRODUZIONE
- l’inizio della cristologia, come discorso di fede su
Gesù come Cristo, prende il via dalla Chiesa, comunità di salvezza che confessa
la presenza dell’evento cristologico, in essa, vivente ed operante.
- il ‘vangelo’, o ‘buon annuncio’ proclamazione di
salvezza
- nella lettura ecclesiale di questo testo (Mc), risuona,
nel presente delle comunità cristiane, la parola permanente del Cristo stesso.
- Marco non parla di Gesù usando i tempi del passato
storico (aoristo), bensì usando il tempo presente (centocinquantuno casi) – di
una convinzione (přesvědčení) profonda – la inalterabile (neměnný) presenza del
Cristo vivente che ora convoca la sua Chiesa rivolgendole la sua parola.
- l’affermazione dell’orizzonte presente del
vangelo-proclamazione non elimina l’anamnesi della storia prepasquale di Gesù
di Nazaret – questo presente dell’annuncio ecclesiale circa il Cristo Signore e
Salvatore, è la continuazione reale del messaggio stesso del Gesù annunciante.
- il passato è ritrovato mediante il presente, ma il
presente cristiano è compreso nella sua verità attuale solo alla luce di quel
passato che penetra nell’oggi o la genera: così si stabiliscono la unità e la
differenza che caratterizzano la proclamazione cristiana in quanto annunzio e
celebrazione della salvezza proveniente da quel Signore celeste che è lo stesso
Gesù di Nazaret, crocifisso.
- rivolgersi al suo passato nell’anamnesi: non già per
crearlo, ma per evocarlo come sua fonte e per renderlo attuale nel presente
della Chiesa.
- era necessario salvare il passato di Gesù e la sua
giudaicità come inizio di quell’evento storico definitivo di salvezza
perdurante (trvat) di salvezza perdurante nel
protrarsi dell’era cristiana nel passaggio alle ulteriori generazioni.
- per la
Chiesa il Gesù del passato vive e la memoria è funzionale in
rapporto a questa presenza. Il momento dell’approccio storico al Gesù terreno,
non può essere condotto quindi con un metodo storico che ignori la
particolarità letteraria di quelle fonti.
- una tale radicalismo critico, partendo dal preconcetto
che la conoscenza di Gesù come personaggio della storia non abbia interesse per
la fede, finisce col negare che questo Gesù sia stato veramente alle origini
della cristologia, la quale invece sarebbe nata dal kerigma pasquale e non
dalla esistenza di Gesù giudeo.
- si deve mostrare piuttosto la continuità tra
l’esperienza di Gesù e l’esperienza cristiana.
- l’approccio storico del primo momento della cristologia
pone il problema del rapporto tra la realtà prepasquale di Gesù di Nazaret e
l’evento della usa risurrezione.
- se è vero che la cristologia della Chiesa trova nella
presenza attuale e viva del Risorto la sua culla, è anche vero che questa
presenza è sempre veduta come il momento finale della storia reale di Gesù di
Nazaret – la prima predicazione annuncia il Risorto-Esaltato a partire dal suo
ministero terreste.
- nella fede e predicazione della Chiesa apostolica, il
tempo del Gesù intenerante e la sua glorificazione non sono più ormai che i due
aspetti di un unico mistero che possono essere menzionati distintamente e
successivamente, ma sempre inseparabilmente.
- l’essenziale non si trova tanto nel punto di partenza
quanto nel punto centrale, il mistero pasquale, la persona del Risorto.
- la storia di Gesù non è pienamente compresa che nella
luce della fede pasquale, il reciproco non è meno vero: il movimento del
kerigma presuppone sempre la conoscenza del Gesù storico.
- il kerigma del Risorto richiede un contesto – segreto
che, rivelato a pasqua, è presente in Lui fin dal primo momento della sua
esistenza terrena.
- la verità trova la sua credibilità non solo
nell’accadimento di un fatto, ma nella significazione e nella potenza salvifica
che esso possiede.
- l’unità delle Scritture si realizza intorno alle
promesse ricevute dai patriarchi ed amplificate dai profeti, poi intorno
all’attesa del regno di Dio e del Messia annunciato. Ora, sono queste promesse
e queste attese che trovano il loro compimento in Gesù, Messia e Figlio di Dio.
GESÙ DI NAZARET
NELL’ORIZZONTE
DELLE ATTESE
GIUDAICHE
- il cammino storico verso l’immagine di Gesù di Nazaret
non può essere compiuto prescindendo dalla considerazione dell’ambiente
giudaico, nel quale tale immagine acquista i suoi contorni.
- essa si stagli sullo sfondo delle speranze giudaiche –
la ‘continuità’, anche la ‘novità’ dell’evento compiutosi in Gesù di Nazaret.
- le attese di Israele non solo come il fatto marginale
(okrajový) di una singola cultura ed ‘epoca storica’, ma come speranza
rappresentativa in rapporto alla interna comunità umana.
I. LE SPERANZE MESSIANICHE DI
ISRAELE
- M. Buber – la speranza della realizzazione del regno
universale di Dio è il proton e l’eschaton di Israele.
- esiste in Israele una esperienza della regalità divina
che riassume in sé gli aspetti fondamentali della sua vita religiosa e sociale
e che possono raggrupparsi intorno a tre temi:
- la
conoscenza del vero Dio.
-
l’esperienza della sua volontà di salvezza.
- le
mediazioni attraverso le quali Dio realizza il suo proposito universale di
salvezza.
a) la rivelazione
del vero Dio
- la caratteristica della esperienza di fede di Israele è
quella di un Dio che si pone lui stesso alla ricerca dell’uomo, mostrandosi
così a lui vicino.
- l’unico Dio in Israele appare nello stesso tempo un Dio
‘presente’, ‘operante’ come Signore della creazione e della storia.
- l’idea della regalità divina assomma in sé due aspetti
della esperienza di Dio
-
quello celeste e trascendente della sua signoria.
-
quello della sua regalità cosmica e storica.
- in nome di Dio JHWH è la confessione di una tale fede.
b) promessa ed
alleanza
- la ricerca dell’uomo da parte di Dio trova la sua prima
espressione nella vocazione di Abramo (Gn 12,1-3) e nella promessa di dargli
una discendenza che costituirà un popolo particolare che in lui sarà benedetto.
- Dio liberà questo popolo da ogni schiavitù, gli farà
dono della terra promessa e trasmetterà le sue leggi.
- l’alleanza trova una traduzione eccellente nel tema
della regalità divina.
- i segni (arca, tenda del convegno) esprimono la «dimora
regale di Dio tra il suo popolo».
- questa realtà della regalità come alleanza è vissuta
nella storia di Israele con vicende drammatiche – l’infedeltà del popolo e la
fedeltà di Dio che vincerà l’infedeltà degli uomini.
- Dio concluderà con Israele una alleanza nuova, perpetua
ed indissolubile (nerozlučný).
- i profeti sono testimoni priviligati della fedeltà di
Dio che vincerà sulla infedeltà dell’uomo, trasformando radicalmente il suo
cuore, per cui l’amore e l’indulgenza senza limiti di Dio avrebbero trionfato
nella storia umana.
- tutti i popoli della terra saranno chiamati a
partecipare alla salvezza offerta dal Dio di Israele nella città santa restaurata
per cui da Sion la legge e la giustizia raggiungeranno i confini della terra.
c) le mediazioni
salvifiche
- un aspetto imprescindibile (nutný) dell’operare di Dio
nella storia è quello della mediazione.
- Dio non opera da solo, ma coinvolge l’uomo come persona
libera nell’adempimento dei suoi disegni.
- tra le
principali figure umane mediatrici vanno ricordate anzitutto quella di
Abramo e di Mosè, che si colloca nel cuore del rapporto di alleanza tra Israele
e Dio.
- questi assolve (plnit) però
una mediazione che non si limita al presente, ma si proietta, quasi come una
costante, nei tempi futuri, secondo la promessa del Deuteronomio 18,15.18.
- all’epoca dello stabilirsi di Israele nella terra di
Canaan e della traslazione dell’arca sulla colina di Sion, la speranza della
regalità di Dio assunse un particolare splendore unendo insieme alla dimensione
cultuale dell’acclamazione Jahve melek quella della presenza terrestre di
questa regalità ‘attraverso’ il re d’Israele, che regna in nome di Dio.
- Israele aspetta il nuovo re, discendente di Davide (2
Sam 7,1-17) – la figura di un ‘ideale mediatore’, Messia-Re
- sempre più il messianismo regale dinastico tendeva ad
evolversi in un messianismo regale profetico – profezie di Isaia – l’Emmanuel
(7,10-17), Re-Messia escatologica (11,1-5) con la sua caratteristica – avrebbe
‘il dono dello Spirito’ che avrebbe fatto di lui l’Unto per eccellenza.
- mediazione viene anche dai ‘sacerdoti leviti’ che
avevano ereditato dai mediatori delle origini la ‘funzione oracolare’ che
veniva definita, come compito primario, nella consultazione di JHWH e nella
istruzione della Torah.
- mediante la loro funzione cultuale essi contribuivano
alla santificazione della comunità di Israele.
- il sacerdote era l’uomo della Torah, depositario ed
interprete di una scienza proveniente da Dio, ma mediante una rivelazione
passata, trasmessa attraverso i canali umani della tradizione e della prassi.
- in questo la mediazione sacerdotale aveva i suoi limiti
nella misura in cui si distaccava dalle altre funzioni mediatrici come quella
‘profetica’.
- la sua importanza nella storia religiosa di Israele ha
avuto anche la mediazione del profetismo.
- il profeta era l’uomo della parola, portavoce di Dio
nella immediatezza del presente, quindi strumento di una rivelazione attuale di
Dio.
- il profeta è presente in tutti i momenti critici della
storia di Israele per denunciare le infedeltà del popolo e dei suoi capi
politici e religiosi.
- il profeta annunciava vera conversione del cuore di
Israele che avrebbe consentito a Lui di rivelare pienamente il suo disegno di
salvezza.
- la rivelazione profetica preparava pedagogicamente la
vittoria dell’amore di Dio sulla condizione peccatrice degli uomini.
- il ruolo di mediazione profetico-messianica è rappresentato
del Deutero-Isaia, dalla figura del ‘Servo di JHWH’
- nel periodo post-esilico lo sviluppo del senso
escatologico della speranza del regno determina una tappa importante con la
letteratura apocalittica in cui l’orizzonte delle speranze escatologiche si
distacca dal piano della storia terrestre aggiungendo una dimensione metastorica alla speranza
profetica, la speranza di un mondo trasfigurato, totalmente nuovo, una
creazione nuova in un nuovo eone.
- regno in cui regneranno pace, giustizia, santità,
assenza di dolori.
- la figura messianica del ‘Figlio dell’Uomo’ che
riceverà da Dio il regno, regno eterno, perfetto ed universale.
- le potenze che
non hanno alcun carattere di divinità concorrenziali rispetto all’Unico Dio
– lo Spirito, forza che presiede alla creazione ed al suo continuo
rinnovamento.
- operando per la liberazione del popolo suscitando
(vyvolat) le gesti dei giudici, discendendo sui re, sul Servitore, per farne
dei veri mediatori del Regno di Dio nel mondo.
- è lo Spirito che illumina ed ispira l’intelligenza
profetica del presente storico.
- lo Spirito che risorgerà dalla morte e soprattutto nel
suo operare nel suo cuore come principio di vita morale.
- anche la
Parola , come lo Spirito assume talora (občas) dei tratti
personali: essa occupa un posto nei cieli, nella bocca e nel cuore di Israele,
è inviata sulla terra dal trono regale di Dio e ritorna a Dio dopo aver operato
i suoi disegni.
- specie nella letteratura sapienziale emerge la stretta
unione tra la Parola
e lo Spirito: la Sapienza
personificata che prelude letterariamente l’interpretazione cristologica
paolina e giovannea con l’idea del ‘Cristo Logos’.
d) le attese di
Israele nel quadro della storia universale
- la differenza profonda della concezione biblica della
‘regalità’ delle forme di epifania del potere in voga (rozmach) nell’ambiente culturale greco-romano del tempo ed in
altre epoche successive.
- la concezione della regalità e della ‘giustizia regale’
di Dio nella tradizione di Israele si esprime come azione a difesa dei deboli,
dei poveri.
- la regalità di Dio appare nella Bibbia come una
signoria inalienabile (nezadatelný) di natura liberante, che non asserve
(podrobit), ma esalta l’uomo indifeso e ne fa un protagonista nella storia di
salvezza.
- l’intervento regale divino, infatti, non è solo
un’azione a difesa dei deboli, per la realizzazione della giustizia, della
pace, della libertà come beni esclusivamente umani.
- la novità assoluta delle concezioni religiose di
Israele sta in un intervento di Dio nel mondo che no è solo di natura creativa,
ma ‘autocomunicativa’ per cui attraverso la Parola e lo Spirito Dio si dona all’uomo in una
comunione di amicizia divenendo partecipe ‘personalmente’ della storia umana.
II. IL COMPIMENTO DELLE ATTESE DI
ISRAELE
IN GESÙ DI NAZARET
- la fisionomia storica di Gesù di Nazaret è
rintracciabile (objevit) attraverso l’anamnesi di coloro
che furono i testimoni accreditati (pověřený) e vissero in comunione con il
Maestro fin dalla usa vita prepasquale.
- indissociabile (nerozlučný) dalla luce della pasqua e pentecoste, questa anamnesi la si ritrova
condensata (zhustit) nella prima catechesi apostolica – Atti 10,37-42.
- nei discorsi apostolici, l’annuncio del Cristo Messia,
crocifisso e risuscitato è inquadrato nel contesto giudaico della sua vita
pubblica di cui la missione di Giovanni Battista e l’uccisione sulla croce
appaiono i due poli che ne delimitano il “tempo terreno”.
- nei vangeli non si cerca la “cronologia” ma piuttosto
sono organizzati intorno a dei “temi”.
- due aree tipografiche – dalla Galilea alla Giudea –
Galilea, l’aera incolta (nevzdělaný) – gli uomini hanno ricevuto meglio il
messaggio di speranza per i poveri.
a) Gesù ed il
movimento penitenziale del Battista
- Paolo nelle sue testimonianze della prassi battesimale
della Chiesa apostolica non parla della prassi del Battista e dei suoi seguenti
– dal silenzio viene la distanza rispetto all’antico battesimo d’acqua
–l’abluzione di purità (rito di perdono del tempio) sostituito del battesimo di Battista.
- il battesimo cristiano era divenuto un rito di aggregazione
(připojení) al popolo della nuova alleanza
per il suo inserimento (včlenění) in Cristo, nel mistero della sua morte e
risurrezione.
- battesimo di Giovanni – battesimo di acqua, battesimo
di Cristo – battesimo nello Spirito.
- il movimento
del Battista va confrontato anzitutto con quelli religioso del suo tempo e del
suo ambiente
- il suo messaggio in realtà fa risuonare nel suo centro
l’annuncio della ‘imminenza del giudizio di Dio’, tanto che egli potrebbe
denominarsi ‘profeta del giudizio’.
- gli attacchi del Battista ai farisei e sadducei
sembrano riecheggiare certe invettive del Qumran contro il giudaismo ufficiale.
- le più profonde analogie del messaggio del Battista
alla luce della tradizione evangelica sembrano ritrovarsi nelle classiche
affermazioni del profetismo che annunciava la venuta di JHWH e che avrebbe
condannato il male
- annuncio del giudizio escatologico era congiunta nel
messaggio del Battista all’annuncio della venuta del profeta escatologico, del
Messia come ‘il più forte’ che avrebbe iniziato l’opera di ripulitura di
Israele.
- la predicazione di Giovanni indicava nella
‘conversione’ (metanoia) l’unica via per sfuggire (vyvarovat se) al giudizio
d’ira.
- il rito di immersione nell’acqua era il segno – Mc 1,5
– i giudei andavano al battesimo di Giovanni «confessando i loro peccati».
- i battisti radicalizzavano l’intuizione universalistica
dei farisei per cui il messaggio di salvezza si rivolgeva alle folle del
‘popolo del paese’, ai poveri e piccoli, ai ‘pecatori’.
- non solo va notato questo senso universalistico della
salvezza, ma anche il suo valore aggregativo (přidružený), per cui mentre i
riti di abluzioni di purità operavano una separazione, il rito battista
richiamava l’idea di unificazione.
- convertirsi voleva dire allora ‘farsi cambiare da Dio’.
- l’immersione (ponoření) era
diversa dalle abluzioni di purità farisaiche nei quali l’individuo si
autoemmergeva.
- qui il gesto viene amministrato: era Giovanni che
battezzava e si era da lui battezzati.
- nel NT il verbo battezzare-immergere è sempre attivo o
passivo e mai medio-riflessivo.
- è importante per definire a sua volta le origini del
ministero di Gesù di Nazaret.
- la figura messianica di Gesù emerge anzitutto
nell’immediato contesto dell’ambiente battista di Giovanni per poi delinearsi
ulteriormente nel seguito della vita del profeta galileo.
- analogie e differenza tra il movimento Battista e Gesù:
- ascetismo – Gesù non è un asceta del deserto. Egli viene dalla
Galilea e collocandosi nella comunità dei penitenti – un messia solidale con i
peccatori, che prende su di sé le loro miserie.
- una messia che chiede il
battessimo scandalizzava Giovanni che secondo l’ecclesiale si rifiutava di
battezzare Gesù.
- se Giovanni era l’asceta del
deserto Gesù di Nazaret, mangiava e beva al di fuori di ogni tabù alimentare, e
non chiunque, mostrandosi amico dei pubblicani e peccatori.
- il Battista ed i suoi discepoli
digiunavano, Gesù ed i suoi discepoli erano sempre in festa.
- la salvezza irrompeva non dalle
opere dell’uomo (severe regole ascetiche, purità), ma dall’intervento
misericordioso di Dio.
- Battista ha alloggiato nel
deserto, Gesù in Galilea, in mezzo alla folla.
- Giovanni con il
suo ascetismo ricorda i profeti, come Elia.
- il compimento
delle attese messianiche trova espressione nell’episodio del battesimo di Gesù
a cui la tradizione sinottica e la prima predicazione apostolica attribuivano
molta importanza.
- Gesù supera l’attività del Battista trasformandola in
una predicazione pubblica fatta di gesti di misericordia, di guarigione
dell’anima e del corpo.
- il racconto evangelico del battesimo di Gesù possiede
la caratteristica di una ‘teofania apocalittica’ introdotta dall’ «apertura dei
cieli» ed incentrata nella «voce del cielo» che indica non solo la sua origine
divina, ma anche il carattere ultimo, escatologico della rivelazione di Dio che
in tale evento si compie.
- Cristo è proclamato come ‘Figlio, il diletto’ – è una
rivelazione di Dio impersonata nel Figlio dell’amore del Padre.
- questa proclamazione spiega anche il senso della
visione dello Spirito e di Colui che è il termine della rivelazione stessa.
- la visione dello Spirito che discende su Gesù e vi
riposa stabilmente indica l’adempimento delle antiche profezie sullo Spirito
santo ed il Messia – l’Unto del Signore, portatore per eccellenza dello
Spirito.
- la teofania battesimale, rivela proletticamente il
significato cristologico e pneumatologico dell’evento della missione pubblica
di Gesù di Nazaret.
b) Gesù di Nazaret,
il tempio e la Legge
- Gesù mostra la usa gravitazione non solo nell’ambito
degli ambienti battisti, ma anche in quello di altri ambienti religiosi del suo
tempo, specialmente farisaici.
- Gesù di Nazaret viene considerato vicino ai rabbi di
tendenza farisaica.
- si deve tener conto dalla incidenza di quella tensione
e rifiuto che si era andata maturando nel cristianesimo del primo secolo
rispetto al giudaismo e viceversa.
- questi, nel periodo posteriore alla distruzione del
tempio erano ormai soprattutto i farisei – presentati con ‘l’immagini dei
nemici’.
- sono presentati anche con ‘immagine ostile’ (nepřátelský), quale oppositori per eccellenza di Gesù e del
vangelo.
- il fariseismo era un significativo movimento di pietà
religiosa dedicandosi ad una osservanza piuttosto rigorosa delle regole
stabilite dagli scribi di loro tendenza.
- i farisei insieme con gli esseni, erano il migliore
esempio di santità prodotto alla società del tempo di Gesù: essi praticavano
rigorosamente le abluzioni rituali delle mani e la obbedienza alla Legge per
cui tendevano a santificare il quotidiano.
- non si deve pensare che i farisei siano stati i
principali nemici di Gesù. Questi si debbono ricercare nell’ambiente
sacerdotale del ‘partito sadduceo’.
- il ‘partito sadduceo’ aveva assunto un ruolo
determinante nella ricostruzione della comunità post-esilica (539 a .C.) ed al tempo di Gesù
poteva considerarsi il vero detentore (nositel) del
potere della nazione ebraica.
- mentre in Marco non si parla di farisei nel corso del
racconto della passione, le trame ordite (osnovat zápletku) e portate con
determinazione a compimento contro Gesù provengono dai sommi sacerdoti, dagli
anziani e scribi.
- Gesù, per il giudaismo semplicemente un laico, era ben
più a contatto con il movimento farisaico.
- l’atteggiamento
di Gesù dinanzi al tempio
- il tempio che era il cuore del culto giudaico, il luogo
per eccellenza dell’esercizio del potere religioso del partito sadducei, non
era mai stato oggetto di avversione da parte del fariseismo.
- l’affermazione che il vero culto consiste nell’onorare
Dio non con offerte e sacrifici, ma con la purezza dell’anima e della fede pia,
trovava riscontro in testimonianze numerose.
- rimaneva però dominante il consenso fondamentale alla
istituzione del tempi.
- la situazione si presentava diversa dopo il 70 quando
il giudaismo rabbinico no si identificava più ormai con il fariseismo
dell’epoca di Gesù.
- il silenzio massiccio (mohutný) dei testi cristiani nei confronti dell’intero sistema
cultuale ebraico, mostra la gravità della frattura che si era andata ormai
verificando.
- il vecchio tempio è adempiuto nel nuovo che è la comunità
cristiana, edificio spirituale dei nuovi tempi.
- questa situazione ecclesiale si riflette specialmente
ne quarto vangelo, dove la distruzione del sistema sacrificale del tempio è
annunciata all’inizio (Gv 2,13-22).
- tra i dati importanti sul rapporto tra Gesù ed il
tempio sono:
- l’episodio
della cacciata dei venditori dal tempio
- il discorso
escatologico di Mc 13
- ed il
particolare della rottura del velo del tempio nel momento della morte di Gesù.
- la presenza dei venditori delle vittime sacrificali,
nell’atrio dei gentili, era perfettamente legale e conforme alle esigenze del
culto.
- il gesto di Gesù non era funzionale alla difesa della
sacralità del luogo santo ed in vista della sua purificazione.
- la cacciata dei venditori dal tempio appare come il
segno di un compimento escatologico.
- il testo si richiama alle parole profetiche in cui si
annuncia il ‘tempio escatologico’:
- che sarà libero da ogni
traffico materiale (Zc),
- e diventerà un tempio nuovo,
che non avrà mura di cinta, perché sarà luogo di preghiera aperto per tutti i
popoli (Is).
- alla luce di questi testi profetici il comportamento di
Gesù indica l’avvento del ‘tempio nuovo’.
- nel quarto evangelo il nuovo tempio allude (narážet) con chiarezza la tempio corpo di Gesù.
- nel momento della morte di Cristo la rottura del velo
del tempio mostra si può dire l’adempimento di queste parole.
- nella risurrezione, sorgerà il vero tempio
indistruttibile che è il Cristo risorto, tempio «non fatto da mani di uomo».
- in tale capitolo di Marco sembra che secondo la critica
vadano attentamente distinti i due motivi originari:
-
quello della distruzione,
-
quello della sua profanazione.
- il discorso escatologico di Marco parla della sua
profanazione – la profezia della fine che coinciderà non con un evento di
distruzione, ma con una venuta trionfante.
- il discorso escatologico di Marco è in prospettiva
positiva – non c’è in questa venuta né scena di giudizio, né separazione di
buoni e di cattivi, né condanna, né proclamazione di sentenza vendicativa nei
confronti dei malvagi.
- la profanazione che tocca proprio l’altare degli
olocausti diverrà un segno della venuta trionfante del Figlio dell’uomo e del
popolo dei santi.
- l’atteggiamento
di Gesù dinanzi alla Legge
- il rapporto con la Legge.
- dopo le rotture determinate dalle pressioni eccessive
delle comunità giudeo-cristiane, la posizione della Chiesa poteva meglio
discernere le continuità ed i superamenti delle due economie.
- la Legge
per Israele era il luogo della manifestazione della volontà di Dio fondamento
di quella osservanza con cui il popolo della promessa rispondeva alla elezione
divina.
- Thorah è un termine molto ricco ed ampio, più di quello
che evoca la parola Legge.
- esso coinvolge tutta la storia di salvezza, tutta
l’opera di Dio – così tutto il pentateuco è una Thorah.
- la salvezza ‘mediante la Thorah ’ no esprime solo le
esigenze poste dal diritto alla felicità per l’al di là, ma è il dono che il
Dio di Mosè fa di un organismo vivo e strutturato in mezzo alle nazioni.
- a partire dall’esilio babilonese la legge scritta
diveniva normativa.
- l’opera degli scribi aveva il compito di tutelare ed
attualizzare la legge in rapporto ai nuovi tempi, ed alle situazioni del
popolo.
- secondo la teologia rabbinica la Legge scritta e la sua
interpretazione orale erano egualmente obbligatorie.
- questione – il rapporto tra giudaismo e chiesa, tra le
due economie, i due testamenti – due risposte fondamentali
- una, più conservatrice, secondo la quale Gesù non avrebbe fatto altro che
comprendere in maniera più interiore la legge stessa, assumendo
fondamentalmente l’atteggiamento di un rabbi ed evidenziando, come attitudine
(náklonost) di novità rispetto agli scribi del tempo, quel risveglio del
carisma profetico tendente ad evidenziare la volontà di Dio all’interno della
legge scritta – Gesù sarebbe piuttosto un servitore della Thorah.
- una seconda indirizzo interpretativo tende invece a sottolineare una
posizione di Gesù dinanzi alla Legge in termini di totale frattura, non solo
rispetto alla tradizione orale, ma anche rispetto alla legge scritta ed allo
stesso AT in generale, per cui egli avrebbe annunciato un tale messaggio su
Dio, una nuova morale che non sarebbe più legata alla Thorah – la rivoluzione
operata da Gesù, legato al sistema della legge, mediante una prassi
scardinatrice del sistema stabilito e dei suoi valori – Gesù come il
rivoluzionario del suo tempo.
- né l’uno, né l’altro atteggiamento sono veramente
sufficienti ad esprimere l’autenticità storica del comportamento di Gesù verso la Legge – continuità con
discontinuità – ci sono entrambe prospettive.
- Marco accentua la distanza tra Gesù e la Legge , mentre in Matteo il
vocabolario legalista è molto presente e la Legge resta valida anche nel minimo jota, onde
Gesù, il Maestro che come nuovo Mosè dà la nuova Thorah, è insieme colui che
ribadisce la validità dell’antica Thorah in base al noto asserto: «non sono
venuto ad abolire, ma a portare a compimento» (Mt 5,17).
- l’atteggiamento di Gesù di Nazaret dinanzi alla Legge
bisogna avere presente:
- da un lato i diversi significati assunti dalla Thorah come
rivelazione del volere di santità da parte di Dio e come interpretazione.
- dall’altro la vera novità introdotta dalla venuta di Gesù e dalla
sua predicazione profetica sulla rivelazione del volere del Padre.
- la ‘sovrana autorità di Gesù’ per cui la usa persona,
la sua parola ed il suo comportamento costituiscono ormai la ‘nuova Legge’ in
cui confluisce l’antica Thorah scritta ed orale.
- nelle sue affermazioni e nei gesti che dettano legge,
egli non cerca alcuna convalidazione nella Thorah o nella tradizione orale, né
cita la scrittura come autorità per giustificare i suoi asserti.
- il modo di parlare e d agire di Gesù di Nazaret rivela
che Egli non ha ricevuto la
Legge , ma parla a nome proprio e la usa parola porta a
termine la rivelazione della volontà di Dio, realizzando il compimento in modo
insuperabile della Legge antica.
- l’adempimento
della Legge antica non va considerato come un effetto letterario
- potremmo dire che nella lettera non c’è nulla di
cambiato nella Thorah e che il suo superamento è piuttosto legato alla persona
stessa di Gesù.
- nella persona di Gesù si rivela il nuovo volto di Dio
come Amore nel quale Legge antica trova la sua massima concretazione
cristologico-trinitaria e la sua unificazione.
- un terzo
aspetto di novità nel rapporto tra Gesù e la Legge
- Gesù non parla ed opera in nome di altri come facevano gli scribi e gli stessi profeti, ma
egli si riferisce per illustrarne il senso.
- con la sua venuta, il tempo presente è pieno di
salvezza, in esso Gesù è la chiave della sua comprensione, perché in lui si
rileva la volontà divina, e la
Legge trova il suo compimento.
- i casi di conflitto:
- le interpretazione della Legge
circa il sabato – il saboto è per l’uomo.
- la controversia sul ‘puro e
l’inpuro’ – richiama il principio della obbedienza interiore ribadito dai
profeti.
- il regime di tolleranza
riguardo al divorzio – ricorda che secondo la volontà divini ‘al principio non
era così’.
- non si tratta propriamente di un conflitto con la Thorah , quanto con la sua
interpretazione orale.
- Egli porta la
Legge al superamento-adempimento che si compie nell’ora
presente ad opera della sua persona.
- rivela il volto nuovo del sacro come «spazio di
salvezza in cui Dio nel suo Figlio si avvicina misericordiosamente all’uomo
sollevandolo dal peccato e consentendogli di accogliere il suo dono di amore
nell’intimo della stessa profanità della vita».
- in tutti questi casi l’atteggiamento di Gesù no è
quello di un riformista restauratore della Thorah: è molto di più. - Egli
instaura una nuova economia di amore in cui l’uomo sarà fedele a Dio per il
fatto che l’amore stesso del Cristo, che viene dal Padre, penetra nel cuore
dell’uomo per mezzo dello Spirito, rendendo l’uomo capace di amare come Dio
stesso ama.
- in Gesù di Nazaret si compie la Legge come espressione
suprema della volontà divina, «volontà di santità» dell’uomo.
- il dono della legge si sarebbe compiuto nella
rivelazione definitiva escatologica del ‘nome’ di Dio.
- il vero originario comportamento di Gesù riguarda il
compimento in Lui della Legge antica, perché in Lui la rivelazione escatologica
della santità di Dio si adempie.
c) Gesù di Nazaret
ed i movimenti rivoluzionari del suo tempo
- il rapporto di Gesù con il movimento zelota tendenze
nazionaliste, diretto ad instaurare lo stato giudaico di diritto contro Roma.
- fede e politica si sarebbero congiunte convergendo
sulla necessità dell’uso della forza per instaurare un cambiamento radicale
dell’orientamento sociale in Palestina.
- la parola ‘zelota’ mai intravedere in nessun caso, nel
periodo anteriore e contemporaneo all’epoca di Gesù di Nazaret, un’attività
rivoluzionaria come noi oggi intendiamo.
- ‘zelo’ è piuttosto riferito alla osservanza della
Legge.
- non appare che gli zeloti, al tempo di Gesù, avessero
acuto delle mire politiche di resistenza armata contro i Romani.
In scena, secondo G. Flavio, molto tardi, sotto il
governo di Felice i ‘zeloti’ rivoluzionari entrano (50-60 d.C.).
- degli zeloti al tempo di Gesù era diretto non a fini
politici, bensì religiosi: contro i giudei infedeli alla legge di Mosè.
- dall’anno 68 d.C. gli zeloti, insieme ad altri
movimenti passarono alla lotta armata contro i Romani.
- Gesù ha chiamato tra i discepoli almeno uno zeloto, ma
è possibile che ci sono stati più, anche se le sue concezioni del messianismo
erano diverse dalle idee circolanti nel suo ambiente.
- le tentazioni di Gesù di ricevere questa concezione di
Messia – un momento culminante fu il tentativo in questo senso avvenuto dopo la
moltiplicazione dei pani.
- si deve notare la distanza di Gesù da ogni messianismo
fondato sulla instaurazione violenta della liberazione dell’uomo.
- la strategia zelota era strettamente nazionalista tendente
a purificare Israele nell’ambito però degli antichi sistemi del debito e della
impurità.
- l’atteggiamento dominante del messianismo di Gesù
emergente dalla testimonianza evangelica è caratterizzato dal rifiuto di ogni
ricorso alla violenza derivante dalle suggestioni sia del potere dominante
oppressivo, sia da eventuali moti rivoluzionari – rifiutato da Gesù storia
della passione.
- il motivo del rifiuto della violenza come metodo
efficace di liberazione dell’uomo – la violenza, in realtà non è veramente
innovatrice.
- la violenza non è pertanto veramente rivoluzionaria, ma
potremmo dire, reazionaria.
- la novità del comportamento di Gesù rispetto ai
movimenti rivoluzionari di ogni tempo, sta nel rendere presente il regno di Dio
come lo spazio nuovo, che apre all’uomo, già adesso nel mondo una reale
possibilità di libertà.
- Gesù assume l’amore come metodo di lotta.
- Dio ama ciascuno – l’uomo non può essere oggetto di
sfruttamento (vykořisťovaní) neppure oggetto di odio.
GESÙ DI NAZARET,
PROFETA DEL REGNO E FIGLIO DELL’UOMO
- per la visione di fede del NT, Gesù di Nazaret, «nato da donna, nato sotto la Legge » è venuto nella
«pienezza dei tempi».
- la venuta di Cristo, che anticipa l’evento escatologico
del Regno e lo rende già adesso operante a rendere il tempo ormai compiuto.
I. GESÙ DI NAZARET, IL PROFETA
DEL REGNO
- la prima domanda che ci si pone è come la comunità
giudeo-cristiane ed ellenico-cristiane che proclamavano Gesù come Messia e
Signore, anno ricordato retrospettivamente il profeta prepasquale.
- il titolo di profeta non è attribuito a Cristo nel NT,
fuori degli evangeli.
- le prime tradizioni cristiane riguardo all’attribuzione
di questo titolo a Gesù in riferimento al Battista e ad Elia.
- per gli evangeli è la folla che ritiene che Gesù sia un
profeta, mentre i discepoli non lo dicono mai e Gesù sembra solo accennarlo in
maniera indiretta.
- essa non dipende solo dal rispetto della situazione
prepasquale della usa esistenza storica, ma anche da una situazione della
riflessione cristologica della fede post-pasquale documentata dal NT nella
quale appare che «la persona e l’agire di Gesù in uno stadio anteriore della
tradizione fu descritta ricorrendo a questa rappresentazione (cioè del profeta
escatologico)», ma «in seguito fu cancellata e ricoperta dalle espressioni
cristologiche posteriori».
- alle queste tradizioni cristiane hanno evoluto una
cristologia del profeta proprio a partire dalle loro origini giudaiche.
a) messianismo e
profetismo
- il termine messia (da meshiah, in greco christo), nato
in ambiente regale, designa un re che riceve la sua forza dal Signore Dio e
partecipa della santità e sacralità di Dio stesso.
- il rito di unzione dell’olio in occasione della
intronizzazione del re, lo metteva a servizio della divinità – i testi biblici
uniscono una penetrazione della persona dell’unto da parte dello Spirito di Dio
(ruah).
- già all’epoca di David non era più tanto il monarca che
appariva agli occhi del popolo come rivestito della potenza di Dio.
- il messianismo incomincia a rivolgersi più verso una
discendenza futura che sul presente (2 Sam 7).
- l’unto del futuro reggerà un regno messianico
caratterizzato da una certa durata terrestre (mille anni).
- nella epoca del Gesù queste attese della venuta di un
figlio di David erano utopica.
- l’appellativo di ‘Figlio di David’ suonava come un
titolo di potere.
- il Messia non va identificato semplicemente come Figlio
di David. È il punto di vista sempre più dominante nella riflessione
neotestamentaria in cui l’origine davidaci ‘secondo la carne’ si stabilisce
quasi in opposizione alla origine ‘secondo lo Spirito’.
- diversa era la concezione del profeta escatologico
atteso per gli ultimi tempi, che avrebbe inaugurato il giudizio escatologico di
dio e l’ingresso del regno di Dio.
- quale era questa l’attesa nel tempo di Gesù? – l’utopia
di una radicale svolta religiosa nella storia propria del profetismo con le
aspirazioni nazionalistiche di una liberazione.
b) Gesù il profeta
del Regno
- anche se Gesù non si è mai attribuito il titolo di
profeta, dall’anamnesi della prima comunità giudaico-cristiana la quale trova
il suo luogo fondamentale nel test del battesimo.
- esso ci rivela il profondo legame tra movimento
battista e profezia: i battisti, come i profeti escatologici, predicavano
l’urgenza dei tempi.
- in questa anamnesi si sottolinea la sua profonda
differenza rispetto ai profeti del suo tempo: tale differenza si rivela
anzitutto attraverso la polemica di Gesù.
- il secondo aspetto più importante della sua anamnesi
ecclesiale – rapporto personale tra Gesù e l’anticipazione del regno
escatologico e dell’atteggiamento da assumere dinanzi al Regno che viene.
- dall’altro, si tratta di avere presente il legame tra
profetismo e sofferenza-martirio – nella tradizione comune di Matteo-Luca.
- la fisionomia profetica nella concezione di Gesù
richiama un motivo del martirio – non più quello di gloria.
- si annunciava l’avvento di un profeta simile a Mosè nel
suo ruolo di giudice e anche di Elia, del suo ritorno che avrebbe segnato la
fine dei tempi.
- il rapporto della venuta del profeta escatologico come
mediatore per l’imminenza del Regno porta ad illuminare storicamente la figura
di Gesù come il profeta che introduce i tempi nuovi.
- Gesù è come Elia e come Mosè, profeta di un nuovo Sinai
sul quale Dio proclama: «ascoltatelo».
c) le
caratteristiche del messaggio del Regno nella predicazione di Gesù
- il tema della prima predicazione di Gesù in Galilea è
riassunto da Marco 1,15 con le parole: «il tempo è compiuto, il Regno di Dio si
è avvicinato. Convertitevi e credete al vangelo».
- negli evangeli l’espressione è molto usata.
- l’annuncio del Regno è stato «l’oggetto proprio e
specifico della predicazione di Gesù di Nazaret».
- questo fenomeno letterario ci porta già a percepire la
novità di un evento storico che ne è alla base. Non solo appare nuova infatti
la ricorrenza della espressione, ma anche lo sviluppo del suo significato che
essa assume nell’uso degli evangeli e che possiamo così delineare:
- prima di tutto va osservata la
novità del significato escatologico della predicazione del Regno da parte
di Gesù.
- il giudaismo per regno di Dio intendeva l’attuale sua
sovranità su Israele.
- esso non connota alcuna idea di localizzazione interna
o esterna – non si può dire eccolo qui o eccolo là, ma è tra di voi (Lc
17,20-21).
- il Regno è un dono puramente gratuito di Dio, un bene
che è offerto all’uomo e che lui non può con le sue forze costringere a venire,
né affrettarne (uspíšit) i giorni.
- nei sinottici tale espressione assume un significato
prettamente escatologico designando essenzialmente la sua realtà finale.
- l’aspetto più nuovo dell’annuncio di Gesù sta in quella
che possiamo chiamare la attualità escatologica, con un linguaggio di
prossimità temporale di un evento immanente.
- la
dimensione teologico-cristologica di questo Regno che viene.
- nella problematica attuale sul rapporto tra l’annuncio
escatologico e l’urgenza dell’appello etico della predicazione di Gesù la
migliore soluzione (řešení) è quella di rispettare e
collegare le due dimensioni del messaggio del Regno:
- quella escatologica –
riguardante la signoria di Dio,
- e quella teologica – concernete
la sua paternità.
- il messaggio di Gesù appare nuovo non in quanto
annuncio imminente di una fine, ma in quanto annuncio anticipatore della nuova
era che si apre proprio con la venuta della sua persona.
- la novità dell’avvento del regno escatologico nella
parola e nell’opera di Gesù, che appare come signoria di un amore senza limiti,
come libertà sovrana di un Dio che perdona gratuitamente i debiti ai suoi figli
è fondata proprio sulla manifestazione del Padre.
- è l’era della ‘grazia’ del Regno che viene come offerta
di amicizia, di comunione personale che il Padre offre facendosi vicino ai
piccoli.
- questa caratteristica teologico-escatologica del Regno
nella predicazione di Gesù si concentra ancora nella usa nota ‘cristologica’
che richiama l’attenzione sulla figura storica e singolare di Gesù sulla
importanza della sua Persona e della sua vita per l’annuncio del messaggio
stesso escatologico e teologico.
- se il Regno viene, se il nome del Padre è rivelato agli
uomini, è perché la persona di Gesù, il Figlio è presente nella storia e porta
a compimento la rivelazione del Padre.
- qui si tocca il punto più nodale della novità
teologico-escatologica del messaggio di Gesù sull’avvento del regno di Dio – la
rivelazione del nome del Padre non deriva dalle attese escatologiche già
presente nella vita religiosa di Israele, ma deriva da una ‘fonte originale’ –
quella della persona del Figlio.
- è perché il Figlio è venuto e si rende presente
‘nell’oggi’ della storia che il Padre può essere rivelato ed il Regno viene
nella sua forma di perdono e di salvezza.
- così, è la persona di Gesù che rende Dio-Padre
‘prossimo al mondo’.
- così la sua persona dalla fisionomia filiale diviene il
principio ermeneutico dell’annuncio stesso del Regno.
- la dimensione
soteriologica
- l’avvento del Regno inaugurato da Gesù pone apertamente
in evidenza di fatto, il condono del peccato.
- nel tardo giudaismo i movimenti penitenziali portavano
l’israelita ad una acuta coscienza del peccato ed alle esigenza di conversione.
- la teologia rabbinica dal canto suo, non identificava
la ‘salvezza’ con il regno di Dio – la remissione del peccato non coincideva
con la venuta del Regno.
- nella predicazione del Regno da parte di Gesù,
scompaiono gli accenti di vendetta, mentre emergono primariamente le “parole di
grazia”.
- l’ora presente del Regno coincide con un’ora di grazia,
che è il Regno stesso.
d) i segni della
venuta del Regno nel ministero profetico di Gesù
- si tratta di un
triplice dato: i segni taumaturgici, i gesti di riconciliazione, la prassi
parabolica.
Gesù esorcista e
taumaturgo
- il dato notevolmente presente nella narrazione
sinottica trova un ampio consenso esegetico su due punti particolari:
- Gesù è stato veramente
considerato un esorcista ed un taumaturgo dai suoi contemporanei,
- questi gesti significativi sono
essenzialmente legati all’annuncio del regno di Dio.
- l’esperienza del popolo d’Israele con Dio, che si
manifesta nella sua potenza
- la prima grande esperienza del
meraviglioso si compie nel luogo della storia dell’esodo – la ‘mano forte’ ed
il ‘braccio teso’ di Dio.
- più ancora l’opera meravigliosa
di Dio si mostra nella rivelazione del Sinai – entra in comunicazione diretta
con il suo popolo rivelandogli la sua volontà.
La lettura profetica vede nei
fatti meravigliosi del passato la garanzia del presente e del futuro: «JHWH è
vivente».
- in questa prospettiva il Dio di Israele, Signore della
storia, è anche il dio del meraviglioso.
- ogni evento in cui JHWH manifesta la sua grandezza e
potenza è nel senso più ampio della parola ‘opera mirabile’.
- nella rivelazione c’è una gradualità ed una distinzione
– dalla manifestazione della presenza creatrice di Dio si passa infatti alla
manifestazione più personale del Dio amante e liberatore.
- in genere si tende a riconoscere quasi unanimemente il
valore storico dell’attività globale di Gesù come esorcista e guaritore.
- il richiamo al miracolo, non prende il via dal presente
delle comunità cristiane pasquali e della predicazione apostolica se non nella
considerazione che tale annuncio avviene con parole ed opere, con la potenza di
segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito.
- Gesù ha annunciato il Regno non solo in parole, ma con
gesti potenti, tangibili, che erano come la concretizzazione e visualizzazione
del suo stesso annuncio.
- il miracolo nel ministero di Gesù non va considerato come
semplice conferma esteriore delle sue parole, quanto come dimensione intrinseca
del regno di Dio che viene.
- il messaggio del Regno ed i miracoli formano una realtà
globale tanto da poter definire il miracolo stesso come ‘segno del regno di Dio
in atto’.
- a comunità cristiana rievoca i miracoli della esistenza
storica di Gesù come segno anticipatore di quella sua missione con cui egli ha
inaugurato questa vittoria di Dio su tutti i limiti che schiavizzano
l’esistenza dell’uomo.
- parlare di miracolo significa parlare dell’agire
cristiano.
- nel racconto evangelico egli fa memoria dei miracoli
del maestro per tradurre il sento stesso della sua pratica liberatrice.
- l’esperienza di pasqua con la vittoria escatologica del
Cristo Signore sul dolore e sulla morte aveva fatto comprendere il significato
nuovo e singolare dell’opera intrapresa da Gesù di Nazaret già al principio della sua predicazione ed
instaurazione del Regno in Galilea.
- l’esorcista giudeo del primo secolo esercitava la sua
pratica ‘in nome’ di un altro, mentre Gesù li compie nel proprio nome.
- questo carattere si minifesta anche in tutti gli altri
segni miracolosi.
- Israele era stato testimone dei mirabilia Dei
compiutisi attraverso Mosé, Elia, Eliseo – era solo Dio a compiere i segni straordinari.
- nella storia di Gesù la sua persona appare invece
investita di autorità divina. È lui stesso operatore dei prodigi.
- negli altri miracoli è sempre l’opera salvifica di
cristo che si esprime nel segno potente – così i segni divengono essi stessi
una rivelazione parlante di Gesù e nelle parole autorivelatrici di Gesù sono
resi ancor più visibili nel loro carattere di ‘segno’.
- i miracoli che nei sinottici sono ‘segni del regno di
Dio in atto’, nel quarto evangelo mostrano visibilmente gli attribuiti
soteriologici della persona di Cristo.
- gli uomini sono andati nel sabato nella sinagoga per
ricordare le grande cose che ha fatto Dio.
- rispetto a questo ambiente sinagogale vanno menzionati
negli evangeli soprattutto i miracoli escatologici che rievocano le antiche
meraviglie, come pure quelli che richiamano gli annunci profetici come in
Isaia.
- l’importanza di questa rilevanza escatologica dei
miracoli del vangelo sta non solo nel valore messianico, essa si trova anche
nel fatto che i miracoli del vangelo
sono il segno della nuova creazione, di una nuova comunicazione di Dio nel
mondo che non solo salva l’uomo, ma gli offre una sua particolare amicizia
personale.
I gesti di
riconciliazione
- l’importanza dell’agire di Gesù di Nazaret appare nella
anamnesi evangelica espresso non solo nei gesti di potenza taumaturgica, ma
anche e particolarmente in quelli di riconciliazione.
- la Croce
del risorto era il luogo per eccellenza in cui la comunità delle origini viveva
l’esperienza esaltante e gioiosa del perdono del peccato e quella della
universale riconciliazione del cosmo e dei popoli.
- dalla questa esperienza la comunità apostolica racconta
i gesti del ministero terrestre di Gesù come quelli che inauguravano l’era
nuova del perdono escatologico.
- l’avvento del Regno inaugurato dal profeta galileo si
manifesta proprio nell’opera di riconciliazione.
- il primo fatto fondamentale che costituisce un grande
segno di riconciliazione è la convocazione dei discepoli intorno a Gesù in
comunità – è Gesù che anzitutto sceglie e chiama e non il discepolo.
- all’epoca di Gesù c’era tutta una serie di tentativi
per realizzare una convocazione.
- le promesse, alla costituzione del ‘resto santo’ di
Israele che si sarebbe salvato.
- un particolare esempio del tentativo di ricostituzione
del ‘resto santo’ si compiava nella comunità monastica di Qumran.
- il movimento battista costituiva un esempio diverso di
convocazione di un resto santo intorno alla persona del battezzatore, non come
un ‘resto chiuso’ bensì aperto.
- in questo modo si anticipava quella convocazione
escatologica di un ‘popolo umile e povero’.
- l’azione di convocazione comunitaria compiuta da Gesù
non è stata caratterizzata da nessun processo di segregazione. Egli chiama a
raccoglie intorno a sé in comunità.
- la novità del comportamento di Gesù, nella convocazione
in comunità dei discepoli – Gesù chiama ed offre la sua amicizia prima ancora
che l’uomo possa concepire il pentimento ed accoglie in comunità di mensa
pubblicani e peccatori.
- con questa prassi conviviale egli testimoniava
l’offerta illimitata della grazia di riconciliazione.
- il compito della comunità è quello della missione
diretta sia all’Israele storico, disperso, sia al mondo pagano.
- il gruppo rivela così una forza dinamica di espansione.
- la comunità che si fonda intorno a Gesù è allora il
segno per eccellenza della presenza efficace del Regno.
- è un ‘segno anticipatore’ della perfetta comunità
escatologica del Regno nella sua fase di compimento ultimo.
- la tradizione sinottica rileva tra i primi gesti del
comportamento di Gesù quello della concessione del perdono del peccato.
- il ministero di Gesù costituiva una forte provocazione
nella società religiosa del suo tempo.
- egli invitava tutti a riconoscersi peccatori
insolvibili dinanzi a Dio, offriva il perdono dei peccati.
La prassi
parabolica
- alcuni hanno oggi mostrato il nesso profondo, nella
narrazione evangelica, tra i miracoli e le parabole.
- un medesimo operatore, Gesù, è all’origine dei miracoli
e delle parabole:
- i primi sono ‘opere compiute’ (opere
somatiche)
- le seconde
sono ‘opere dette’ (narrate).
- i miracoli e le parabole espongono le due dimensioni
dell’agire:
- quella del
‘fare
- quella del
‘dire’.
- se i miracoli sono azioni di contenuto simbolico, che
appartengono al ‘fare pragmatico’, le parabole sono ‘eventi del linguaggio’ che
appartengono al ‘fare conoscitivo’.
- così il linguaggio delle parabole è un ‘evento’ in due
sensi:
- esso
introduce nella situazione una nuova possibilità reale,
- costringe
l’ascoltatore ad una decisione.
- il racconto parabolico nei sinottici è la forma
privilegiata dell’annuncio del Regno che esercita la sua forza innovatrice
attraverso una ‘parola-racconto’.
- le parabole possono considerarsi «l’elemento più
caratteristico dell’insegnamento di Gesù, quale ci è tramandato dagli
evangeli».
- esse riflettono proprio sul piano letterario le prassi
di Gesù.
- Gesù non ha usato le parabole come strumento pedagogico
e didattico in ausilio di genti culturalmente incapaci di recepire un
insegnamento troppo astratto ed elevato.
- il linguaggio parabolico di Gesù, più che essere
determinato dalla povertà intellettuale degli uditori appare situato meglio
storicamente in un contesto o situazione di dissenso aperto o velato con il suo
modo d’agire.
- con il linguaggio parabolico Gesù narra una storia in
cui il punto di dissenso è velato, mentre l’attenzione è richiamata dal
confronto di due comportamenti dei quali l’uno rappresenta il punto di vista
dell’interlocutore e l’altro quello di Gesù.
- costringendo, col racconto di una parabola, i suoi
ascoltatori a prendere una decisione, Gesù offre loro la possibilità di
compiere la conversione della loro esistenza, di guadagnare una ‘nuova vita’.
- nell’accostarsi al racconto delle parabole evangeliche
bisogna fare attenzione all’orizzonte della Chiesa post-pasquale ed ai problemi
riguardanti la sua situazione di vita.
- si deve notare l’importanza delle parabole per quanto
riguarda il fatto che esse traducono con un linguaggio di prassi la ricchezza
inesauribile (nevyčerpatelný) del messaggio del regno
annunciato da Gesù.
- le parabole sono eventi linguistici appartenti ad un
“fare conoscitivo” – è una forma retorica
- allegoria – parlare altrimenti, un altro modo – egli è
come un leone
- metafora – parlare oltre – c’è un’unione, una
sovrapposizione, una identificazione fra i due termini – egli è un leone.
II. GESÙ DI NAZARET, IL FIGLIO
DELL’UOMO
- la ‘persona’ di Gesù suscita la domanda: chi è costui?
- il suo comportamento fa saltare la sua possibile
classificazione nelle categorie e modelli conosciuti nel giudaismo (rabbi,
profeta).
- nel materiale evangelico, risale nei detti di Gesù una
presenza massiccia di una attribuzione come ‘Figlio dell’uomo’ che in un certo
modo tematizza l’affermazione di quella ‘cristologia indiretta’.
- secondo un primo orientamento più tradizionale,
massimalista, tutti i logia del Figlio dell’uomo sarebbero autentici – per cui
Gesù stesso avrebbe adoperato questa espressione nella linea di Dan 7,13
evocando in tal modo il suo avvento finale e la sua preesistenza archetipa.
- l’affermazione di altri – tutti questi logia sarebbero
in autentici letterariamente e storicamente in quanto essi sarebbero il frutto
di una tradizione midraschica sulla glorificazione del Risorto alla luce di Dan
7,13.
- una posizione intermedia – l’espressione ‘Figlio
dell’uomo’ sarebbe autentica solo nei logia escatologica in riferimento diretto
a Dan 7,13.
- questa espressione pertanto rifletterebbe
originariamente una certa identificazione tra Gesù stesso ed il Figlio
dell’uomo futuro, annunciando che dopo la morte sarebbe stato lui stesso il
Figlio dell’uomo nella gloria.
Il ‘Figlio
dell’uomo’ nel mondo palestinese
- essa nell’ambito aramaico può designare o un uomo
qualsiasi (qualcuno, un certo uomo), oppure potrebbe indicare, in casi
piuttosto rari, un sostitutivo dell’io o del tu (un uomo come me, come te).
- il testo etiopico delle parabole di Enoch, in cui
l’espressione ‘Figlio dell’uomo’ è usata come titolo messianico e come
predicato, il resto della letteratura giudaica anteriore al secondo secolo
della nostra era, ha usato questa espressione come una connotazione speciale
per evocare l’uomo nella sua grandezza archetipa ed il messia futuro.
- Dan 7,13 – qui, in realtà, il ‘Figlio dell’uomo’
secondo la spiegazione che ne dà il v.27 che lo identifica al ‘popolo dei
santi’, cioè Israele, non indica l’intronizzazione di un re umano.
- H. Cazalles – si tratta di un simbolo collettivo con
insieme una connotazione individuale aperto ad una possibile utilizzazione
messianica.
- il Perrot – l’espressione ‘come figli degli uomini’
evochi l’uomo nella sua autenticità originale.
- in altri scritti giudaici – era in voga una certa
adamologia secondo cui ‘il Figlio dell’uomo’ sarebbe l’uomo primordiale, Adamo,
creato da Dio nella sua grandezza originaria di ‘immagine perfetta di Dio’ e
dalla quale sarebbe caduto con il peccato ed alla quale tenderebbe a risalire.
- questa risalita della umanità avrebbe, secondo IV Esdra
13,2-3 attraverso proprio la venuta del Figlio dell’uomo, l’Adamo autentico,
l’uomo primordiale.
- con l’espressione ‘Figlio dell’uomo’ il giudaismo
anteriore al secondo secolo evocava l’uomo nella sua grandezza archetipa ed
anche il messia futuro.
Il Figlio dell’uomo
nell’uso delle comunità apostolica
- la cristologia delle comunità cristiane del primo
secolo è l’assenza della espressione ‘Figlio dell’uomo’.
- nelle lettere paoline non compare mai.
- nel resto del NT l’espressione in questione appare solo
in Atti 7,56 ed in alcuni passi della Apocalisse.
- la cristologia del NT sembra testimoniare piuttosto il
passaggio della espressione centrale, per gli evangeli, di ‘Figlio dell’uomo’,
al titolo dogmatico per eccellenza della Chiesa apostolica, del Cristo come ‘Figlio
di Dio’.
- va anche considerato che per i pagano-cristiani, Figlio
dell’uomo era inintelligibile; la sua trasformazione in Figlio di Dio è dunque
portata apparire sempre più necessaria.
- la tradizione sinottica presenta l’espressione allo
stato più arcaico.
- è necessario però premettere alcune brevi
considerazioni riguardo al modo con cui l’espressione in questione viene
utilizzata.
- la prima cosa notevole è che tutti i passi contenenti
il termine ‘Figlio dell’uomo’ appartengono ai detti di Gesù – è solo lui che
adopera questa espressione.
- si deve notare ancora
che questa espressione appare sempre come il soggetto di un verbo di
azione e mai come predicato o come attributo.
- l’espressione si presenta in terza persona (‘Figlio
dell’uomo’), implicando con ci un certo distanziamento tra il Gesù terrestre e
la sua condizione futura di Figlio dell’uomo.
Il Figlio
dell’uomo negli evangeli sinottici
- importante è ora considerare l’uso della espressione
‘Figlio dell’uomo’ nel materiale sinottico nel quale si trova il maggio numero
dei casi che ci interessano.
- tali risonanze emergono nella divisione dei passi in
tre gruppi.
- nel primo si collocano le
citazioni riguardanti la condizione terrestre del Figlio dell’uomo.
- nel secondo si collocano quelle
del Figlio dell’uomo di fronte alla sofferenza e morte, nella prospettiva della
risurrezione.
- nel terzo il Figlio dell’uomo
appare come figura escatologica nella sua realtà celeste.
- riguarda le citazioni del primo gruppo, se si
eccettuano due citazioni di Marco in cui il Figlio dell’uomo rivendica un
potere eccezionale (ha l’autorità di perdonare…) le altre citazioni appaiono
legate ad un certo ‘anti-potere’.
- le citazioni del secondo gruppo si collocano nella
prospettiva però del futuro della passione e morte e della risurrezione.
- in tali passi, il Figlio dell’uomo non è soggetto di
azione, ma di passione.
- nel terzo gruppo: nella gloria, il Figlio dell’uomo
‘avrà potere’ ed agirà.
- insomma, si può dire che l’espressione di ‘Figlio
dell’uomo’ esprime negli evangeli sinottici, l’Io di Gesù nel suo rapporto con
l’anti-potere o con il potere.
Il Figlio
dell’uomo nel quarto evangelo
- uso ecclesiastico di Figlio dell’uomo in un’epoca
tardiva con evidenti segno di sviluppo teologico.
- il quarto evangelo non propone una teologia del ‘Figlio
dell’uomo’ parallela a quella del ‘Figlio di Dio’.
- i logia del quarto evangelo si integrano pienamente con
la cristologia del Figlio di Dio.
- nei logia del quarto evangelo ha un notevole risalto
l’idea della incarnazione ed il ritorno pasquale, manifestando così il mistero
della ‘origine celeste’ di Gesù.
- il Figlio dell’uomo non è qui il misterioso personaggio
apocalittico che viene ‘sulle nubi del cielo’, quanto ‘colui che è disceso dal
cielo’.
- ed è perché è disceso ‘dal cielo’ che egli è il Figlio
dell’uomo ed ha il potere di giudicare e per questo può ‘risalire al cielo’ là
ove era prima.
- si deve notare che a differenza dei sinottici,
l’espressione ‘Figlio dell’uomo’ nel quarto evangelo non annuncia una futura
parusia.
- così, nel quarto evangelo e più ancora nella
Apocalisse, il Figlio dell’uomo appare un vero e proprio titolo cristologico
congiunto essenzialmente con la cristologia dell’era apostolica.
Il Figlio
dell’uomo e la storia terrena di Gesù
- l’espressione ‘Figlio dell’uomo’ già nel giudaismo era
portatrice di un certo significato protologico ed escatologico.
- l’espressione è apparsa sommamente adatta ad esprimere
il significato della persona e del ministero di Gesù di Nazaret.
- se non si può negare l’esistenza di una arcaica
cristologica del Figlio dell’uomo rimane il fatto inspiegabile per cui essa
viene usata solo nei detti di Gesù e non negli appellativi dei discepoli e dei
contemporanei.
- è possibili sostenere seriamente che l’uso di questo appellativo
sia dovuto originariamente a Gesù stesso.
GESÙ, IL PADRE E LO
SPIRITO
- fondamentale per lo studio della anamnesi del Gesù
prepasquale è il rapporto tra Gesù e Dio che tocca il cuore del mistero della
sua persona.
- questa, come già è apparso, agisce con la stessa
autorità di Dio, parla come la sua stessa bocca, agisce come il suo stesso
braccio potente.
- essa si colloca con tutta la sua straordinaria autorità
divina, dinanzi al Dio che chiama costantemente suo Padre e mostra un singolare
ed unico rapporto allo Spirito.
I. PATERNITÀ E FILIAZIONE DIVINA
NEL GIUDAISMO
E NELLA COMUNITÀ CRISTIANA PRIMITIVA
- nell’ambiente ellenistico si parlasse di figli degli
dei e della loro generazione – ambiente mitologicamente.
- la formula ellenistica della filiazione divina, di
carattere mitico serviva a rendere comprensibile ed accettabile la loro
autorità in Oriente, come una loro forza di legittimazione.
- queste concezioni mitologiche ellenistiche non possono
considerarsi alla base dell’appellativo e della concezione di fede sul Cristo
come Figlio di Dio.
Bisogna avere presenti questi due ambienti (quello
ellenistico e quello giudaico) religiosi per poter definire meglio l’esperienza
del tutto originale del rapporto di Gesù di Nazaret con Dio.
Il giudaismo
- la concezione dominate di Dio era espressa dal termine
‘Signore’.
- il termine ‘Padre’ compare piuttosto raramente.
- espressi attraverso questo linguaggio che designava la
divinità nella sua autorità assoluta ed intangibile e nella sua pietà misericordiosa
verso i suoi figli.
- li luogo della esperienza della filiazione di Israele,
dinanzi al ‘Dio Padre’ è quello dell’intervento storico-salvifico di Dio
compiutosi nell’esodo – Israele e la propria ‘elezione’ a ‘popolo primogenito’
di Dio – questo è preso dall’illunimismo.
- l’idea di paternità-filiazione appare possedere insieme
una connotazione storico-salvifica e ‘collettiva’.
- la paternità divina nell’AT non è la fonte della
meditazione di Israele su Dio.
- l’esperienza riligiosa di Israele va da JHWH al Padre e
non dal Padre a JHWH.
- il Dio-Padre riassume in sé le qualità di autorità e di
amorevolezza che si esplicano attraverso una lunga storia – fondamentalmente
archeologica, la paternità divina diviene così escatologica.
- nel giudaismo palestinese del tempo di Gesù,
l’appellativo di Padre rivolto a Dio era tutt’altro che di uso corrente, una
certa tendenza all’uso popolare della espressione «il Padre celeste».
- propriamente e prevalentemente Dio era considerato solo
il Padre dei giusti e la paternità divina era solo correlativa all’opera
meritoria (záslužný).
- nel giudaismo palestinese prevaleva la formulazione
liturgica collettiva della invocazione comunitaria: ‘abinu-malkenu’ (Padre
nostro, nostro re).
La comunità
cristiane
- le novità profonde – si usava l’attribuzione di Padre
come titolo dominante per indicare ‘Dio’ (o Theos), ma anche per indicare il
rapporto tra Gesù e Dio – reinterpretato dalla teologia cristiana alla luce
dell’evento di pasqua, l’escatologia apocalittica del Figlio dell’uomo e la
concezione del Figlio inteso non come titolo di dignità, ma come ‘servizio’
(Figlio = Servo) e missione esplicata nella obbedienza.
- nel cristianesimo primitivo, questa attribuzione
cristologica era legata anche alla stessa nuova esperienza religiosa vissuta
dai cristiani nel loro rapporto filiale a Dio chiamato Padre.
II. GESÙ E IL PADRE NELLA
TRADIZIONE EVANGELICA
- nell’evangelo appare che l’idea di Dio ‘Signore’ di cui
gli uomini sono servitori e debitori non è tramontata.
- la sovranità di Dio rimane fondamentale, come resta
fondamentale l’atteggiamento di illimitata obbedienza dell’uomo dinanzi a Lui.
- tuttavia il dato nuovo è l’importanza che assume nella
letteratura evangelica la designazione di ‘Padre’ nei confronti di Dio fino
alla letteratura del quarto evangelo in cui ‘il Padre’ è la definizione
abituale di Dio in bocca a Gesù.
- a) per quanto riguarda il
parlare di Gesù riguardo a Dio come Padre, gli strati più antichi della
tradizione sinottica comprendono undici passi che si raggruppano in tre serie:
- quelli che parlano di Dio come
Padre senza pronome personale,
- quelli che riferiscono
l’espressione, ‘il Padre vostro’ riferita ai discepoli, mai agli estranei,
- quelli che parlano del ‘Padre
mio’ – questo gruppo di passi, è importante perché non ha paralleli nella
letteratura rabbinica e rivela la singolarità del rapporto tra Gesù e Dio.
b) per quanto riguarda i logia
concernenti l’uso della invocazione a Dio come Padre nelle preghiere di Gesù – Gesù invoca Dio come Padre in tutte le
preghiere.
- questo uso era profondamente
radicato – Gesù stesso era principio di questa tradizione.
- Jeremias ha mostrato con validi
argomenti che il termine abba costituisce il fondo aramaico di tutte le
invocazioni a Dio nelle preghiere di Gesù (soltanto MC 14,36 ha accanto Padre il
termina aramaico Abba).
- il nuovo stile di preghiera –
l’assenza del termine aramaico abba nelle preghiere del giudaismo, sia quelle
fissate dalla prassi liturgica
III. LE CARATTERISTICHE NUOVE DEL
RAPPORTO FILIALE TRA GESÙ ED IL PADRE
- termine Abba è strettamente familiare. Ha suonato nelle
bocche dei bambini verso il suo Padre, nelle bocce degli adulti ha avuto un
tono strettamente confidenziale.
- era impensabile usare tale appellativo nella preghiera.
a) il modo di pregare di Gesù
infrange una prima barriere dominante nel mondo delle religioni – quella che
distingue nettamente il sacro dal profano – abba – uso profano.
- la religiosità
filiale di Gesù coinvolge tutta la sua vita umana – si colloca al centro della
sua esistenza.
b) il modo di pregare di Gesù
trascende anche quelli verticali tra l’uomo e Dio.
- il rapporto tra Gesù ed il
Padre non è sviluppato all’interno della esperienza storica della comunità di
Israele.
- per rivolgersi al Padre, Gesù
non dice ma ‘Padre nostro’ includendosi nel ‘noi’ ma solo ‘Padre mio’.
- l’abba rivela che la
straordinaria familiarità di Gesù con Dio infrange le distanze tra creatura e
creatore
c) cerchiamo ora di cogliere
alcuni aspetti propri di questa ‘esperienza filiale’ di Gesù di Nazaret.
1) - questa
esperienza filiale si riferisce al Padre come origine del suo essere personale,
della sua missione, della sua potestà.
- Gesù appare come
un uomo che esperisce e vive il suo rapporto di origine alla pari nella
dignità.
- l’origine dal
Padre, vissuta come comunicazione profonda e totale della conoscenza di Lui è
garanzia di verità e di autorità della missione di Figlio.
2) – un secondo
aspetto dell’atteggiamento filiale di Gesù nei confronti del Dio-Padre rivelato
dai logia evangelici è quello costituito dalla reciprocità dell’amore.
- l’attitudine di
Dio verso il suo popolo è prevalentemente espressa con i termini di ‘bontà’,
‘fedeltà’, ‘giustizia’ e il vocabolario dell’amore (NT).
- nella vita di Gesù
si coglie l’espressione dell’amore senza limiti del Padre che si effonde verso
il mondo attraverso il suo Figlio diletto e che trova nel Figlio una risposta
totale, grata e fedele.
3) l’essere ‘dal
Padre’ e l’essere ‘per il Padre’, nell’amore, che costituisce il cuore della
esperienza religiosa di Gesù appare come espressione di illimitatezza dello
stesso amore paterno.
- la reciprocità di
amore che sta nel cuore della esperienza filiale di Gesù è caratterizzata dalla
manifestazione imperiosa del volere del Padre che si manifesta nel piano
storico della vita di Gesù, come esigenza concreta di bere il calice della
passione e morte.
- la volontà del
Padre è ‘la legge del Figlio’.
- nelle Getsemani
egli si dona a Dio, in tutto ciò che egli è si accoglie in un altro, egli non è
niente fuori di comunicazione reciproca che Dio fa di se stesso nell’amore.
- il Padre è il
principio ed il termine della esistenza del Figlio.
4) - se la preghiera
dell’abba esprime la via singolare ed unica propria di Gesù di Nazaret è pur
vero che Gesù ha insegnato ai discepoli a pregare dicendo ‘Padre nostro’ nello
Spirito del ‘Padre mio’.
- invocare il Padre
è ‘formare la Chiesa ’:
chi chiama Dio Padre, scopre che ha dei fratelli.
IV. IL RAPPORTO TRA GESÙ DI
NAZARET E LO SPIRITO
- l’esperienza della sovrabbondanza del dono dello
Spirito nella Chiesa costituisce uno dei dati ampiamente documentati dal NT che
è posto in riferimento all’evento pasquale.
- la prima catechesi apostolica negli Atti afferma che
questo Gesù era stato «unto di Spirito santo e di potenza» (AT 10,38).
- gli evangeli testimoniano un rapporto singolare tra
Gesù e lo Spirito.
- la lettura cristiana delle origini ha potuto cogliere
il mistero dello stesso Spirito nella vita storica di Gesù.
l’esperienza
dello Spirito in Israele
- si deve avere presente che in mezzo ai suoi molteplici
significati, lo Spirito è prima di tutto prerogativa (přednostní práno) per eccellenza di Dio, suo mediatore di rivelazione e di
creazione insieme alla Parola.
- la ruah, nell’AT, non definisce astrattamente Dio,
quanto relativamente: ‘Dio rivolto verso la creazione’.
- tuttavia, per lo Spirito, Dio si rende presente con
un’azione che non si confonde con l’impulso che essa genera – è una presenza
sperimentale, ma inalienabile
(nezcizitelný).
- nell’AT lo Spirito non si identifica mai con il
Dio-Padre, e la teologia dell’AT non ha ma i collegato il modo di comprendere
Dio come Padre con il ruolo dello Spirito il quale non aveva mai assunto una
fisionomia personale.
- esso esprimeva piuttosto la stessa forza dinamica con
cui Dio opera nel mondo.
- per quanto riguarda poi il Messia che era annunciato
come ‘uomo della ruah’, il giudaismo non aveva mai pensato che la effusione
pneumatica nella comunità messianica, nell’era escatologica, avvenisse
attraverso lui.
- il pensiero dominante del giudaismo ortodosso riteneva
che in israele, lo Spirito fosse estinto.
- da morte degli ultimi scrittori Dio non parlava più al
suo popolo attraverso la sua voce, ma solo attraverso l’eco della sua Parola.
- questa idea rifletteva la coscienza di Israele di
essere lontano da Dio.
- tempo senza Spirito è tempo posto sotto il giudizio:
Dio tace.
è necessario ora
considerare la anamnesi del Signore risorto come profeta escatologico
peregrinante ed operante nel suo ministero terrestre nella virtù dello Spirito
- il battesimo di Gesù associa alla dignità di Figlio di
Dio e di Messia escatologico, l’intervento dello Spirito su di lui – scena
narrativa che apre un’era nuova di irruzione dello Spirito sopra Messia e la
comunità del nuovo Israele.
- ci mostra che questo Messia è Signore dello Spirito in
quanto può comunicarlo ‘battezzando nello Spirito santo’ (Mc).
- in questo contesto di nuova manifestazione dello
Spirito, tutto il ministero di Gesù è rievocato dalle narrazioni evangeliche
come una missione compiuta nella forza dello Spirito santo.
- essa appare un ulteriore dato teologico della fede
della chiesa che vuole mostrare come Gesù di Nazaret non fosse un Figlio
adottato e ricolmato di Spirito, perché questo Spirito ha operato nella sua
stessa concezione.
- nato dallo Spirito santo, egli era Figlio
dell’Altissimo fin dagli inizi della sua esistenza terrena.
- a questi dati pneumatologici degli inizi fanno
riscontro nella tradizione evangelica diversi accenni con cui si richiama
questa presenza dello Spirito santo nella vita di Gesù – l’epistola delle
tentazioni soprattutto nella redazione lucana – tutto il suo ministero
profetico è sotto l’azione dello Spirito.
- si collocano alcuni logia di Gesù nella sua coscienza
circa il suo personale rapporto con lo Spirito.
- essi sono:
- il logion
della bestemmia contro lo Spirito santo riferito dalla triplice testimonianza
sinottica,
- quello della
promessa del dono dello Spirito ai testimoni di Cristo nella persecuzione.
- l’importanza di questi detti di Gesù strettamente
congiunti alla sua azione instauratrice del Regno sta nel fatto che essi
testimoniano quanto la tradizione apostolica annunciava della sua persona e del
suo ministero terrestre la presenza del regno di Dio.
- pertanto, rifiutare la sua missione profetica
significava rifiutare la concessione escatologica del perdono di Dio e quindi
bestemmiare contro l’opera della grazia (peccato contro lo Spirito).
Appare
necessario evidenziare alcuni aspetti caratteristici di novità circa il
rapporto tra Gesù e lo Spirito
- l’esperienza nuova dello Spirito si colloca nel quadro
del rapporto unico e singolare tra Gesù ed il Padre.
- è proprio nel quadro di un essenziale rapporto tra Gesù
ed il Padre che lo Spirito assume un ruolo personale proprio.
- Gesù appare come il Messia che ‘dona lo Spirito’ – in
un certo modo lo Spirito gli appartiene.
- Gesù non è un carismatico ‘soggetto’ allo Spirito.
- lo Spirito di Cristo non è una mera funzione
cristologica, ed assoggettato a Cristo.
- mentre nell’AT si ignorava il rapporto tra Dio come
Spirito e Dio come Padre, nel linguaggio di Gesù, lo Spirito è chiamato anche
‘Spirito del Padre’ e lo Spirito è donato ‘dal Padre’ (Gv).
- Gesù dice che lo Spirito è suo, ma anche che non è
solamente suo, perché è ‘originariamente’ dal Padre.
- questo duplice linguaggio di Gesù ci pone dinanzi alla
considerazione dello Spirito no più come una semplice funzione ‘creatrice’ e
‘manifestatrice’ dell’unico Dio.
- ormai, lo Spirito acquista un volto personale divino:
situato nel dialogo inter-personale tra Gesù ed il Padre.
- la personalità dello Spirito emerge solo sul piano del
rapporto inter-personale tra Gesù ed il Padre, come ‘il noi personale’ della
loro esistenza.
- così, possiamo dire che lo Spirito è ‘persona
comunitaria’ un ‘noi-persona’, nel quale il Padre ed il Figlio vivono la loro
profonda comunione.
- lo Spirito santo, possiamo dire, costituisce la
«personalizzazione extatica del noi» dell’amore del Padre e del Figlio.
- lo Spirito non è solamente il ‘noi persona’ in cui si
chiude il circolo della vita trinitaria, ma è anche il ‘noi persona’ in cui tale
vita si effonde illimitatamente.
- conclusione: il
rapporto vissuto tra Gesù ed il Padre, come pure il rapporto vissuto tra Gesù e
lo Spirito, manifesta il mistero teologico della persona di Gesù che la
cristologia ecclesiale apostolica e post-apostolica espliciterà nelle grandi
affermazioni dei titoli cristologici e nelle esplicitazioni trinitarie.
L’ANAMNESI DELLA
CROCE E DELLA RISURREZIONE
- ci dice che se un primo stadio della Tradizione
evangelica andava prendendo corpo già prima di pasqua, tali ricordi storici,
conservati dai primi testimoni.
- non si deve pensare che l’approccio fondamentale alla
cristologia possa giungere ad un racconto giudaico-cristiano precedente ad ogni
interpretazione ecclesiale.
- nel linguaggio narrativo erano già apparse all’inizio
della tradizione cristiana.
- queste linee si distinguono da quella sezione (úsek)
narrativa della vita prepasquale di Gesù che precede come una introduzione, la
storia della passione.
- la prima sezione narrativa ha un carattere più
discontinuo, più catechetico ed introduttivo.
- invece il racconto della passione, a partire
dall’arresto di Gesù si presenta con alcuni tratti biografici e con una
concatenazione dei fatti che fa pensare ad una lectio continua.
- nella concezione biblica il ‘ricordare’ non è
semplicemente un atto intenzionale-mentale, spesso esprime piuttosto un
‘agire’: così il ricordarsi da parte di Dio del suo popolo, comporta
l’intervenire concretamente in suo favore.
- memoria ed azione sono come due versanti, interiore ed
esteriore, del rapporto che unisce Dio e l’uomo.
I. LA CENA CRISTIANA :
LUOGO DELL’ANAMNESI ECCLESIALE
- la ‘cena del Signore’ è luogo per eccellenza del culto
di lode e della anamnesi cristiana.
- la prassi della cena nella Chiesa apostolica è un agire
cultuale nel quale i primi cristiani celebravano con gioia l’intervento
liberatore di Dio dalla morte, del suo servo Gesù, intervento che li
introduceva nel regno escatologico.
- in essa dominava la gioia escatologica e l’attesa del
ritorno del Signore: Maranatha.
- questa celebrazione di lode che si riferiva
immediatamente alla ‘memoria’ del passato della croce e della risurrezione,
richiamava però il ‘fare memoria’ della cena pasquale di Gesù stesso, nei suoi
gesti sul pane e sul calice.
- tra le molteplici forme di banchetti in uso nel
giudaismo al tempo di Gesù – la cena pasquale (che si teneva in casa) e durante
la quale si mangiava l’agnello immolato nel tempio, erano in vigore altri
banchetti di comunione – nei testi di Qumran – si festeggiava il rinnovamento
della alleanza.
- alcuni gruppi organizzavano banchetti riservati in cui
da un lato essi scoprivano la loro unità separandosi dagli impuri.
- nella prassi della cena cristiana la comunità si
distingueva per la varietà dei commensali, quanto al rango sociale e per
l’aiuto diretto ai partecipanti più poveri.
- duplice valore di comunione e di servizio di carità –
vivere insieme e dare da mangiare agli affamati.
- si trattava del pane e del calice del Signore.
- si trattava di un’azione liturgica per cui la comunità
rievocando la sua morte, si riuniva nell’attesa del suo ritorno – così il pasto
cristiano si collocava tra la memoria della croce e la prognosi della parusia.
- negli Atti c’è l’espressione della ‘frazione del pane’.
- l’atto della frazione del pane, che comportava la
benedizione divina, metteva in relazione con Gesù di Nazaret, nella sua prassi
dell’ultima cena.
- nella loro celebrazione della cena i primi cristiani si
congiungono a Cristo non solo mediante l’azione liturgica della frazione del
pane e delle preghiere, ma anche mediante l’ascolto della parola apostolica (la
vita e le opere del Signore risorto, la parola dei testimoni) e l’impegno della
vita fraterna.
- oltre all’ascolto della parola apostolica, eucaristico
indicato da Luca con il termine koinonia, da Paolo con diakonia, koinonia,
leiturgia è quello del servizio fraterno per cui i primi cristiani venivano in
soccorso ai più sprovveduti (nepřipravený).
- nella prassi eucaristica si fondevano insieme il culto
e l’esistenza: la frazione del pane collega insieme al passato di Gesù ed al
suo presente in Dio.
- la cena cristiana che unisce in sé il ricordo storico e
l’attività cultuale della lode e del ringraziamento nella struttura di un pasto
è il luogo per eccellenza in cui confluiscono e da cui partono le tradizioni
che rievocano la cena del Signore.
- lo studio delle tradizioni dell’ultima cena di Gesù
rivela l’esistenza di due tradizioni:
- una cultuale – intende
collegare la prassi cultuale cristiana con quella di Gesù stesso.
- di carattere ‘testamentario’ –
si stabilisce l’unità tra la prassi del servizio della carità della comunità
cristiana e la prassi di amore di Gesù.
- la tradizione detta cultuale tende non tanto a riferire
un episodio biografico, ma a fondare nella prassi della cena di Gesù il culto
stesso cristiano – ‘un racconto liturgico su sfondo storico’.
- tradizione cultuale è legata ai due gesti fondamentali
della cena cristiana (spezzare il pane e bere il calice).
- due orientamenti:
- l’uno ‘antiocheno’ – sembra sottolineare
maggiormente il ‘dono personale’ di Gesù e riflette una ‘teologia della
alleanza’ – ha carattere propriamente cultuale.
- l’altro ‘marciano’ –
orientamento si presenta più immediatamente liturgico e vede in Gesù il
compimento dei sacrifici rituali ebraici.
- i primi cristiani celebravano con gioia l’evento di
liberazione di Gesù dalla morte ed il suo ingresso nel regno escatologico
riunendosi in un pasto di lode.
- il sentimento dominante nella celebrazione della
‘frazione del pane’ era la manifestazione della gioia escatologica.
- però in esso affluivano anche i ricordi del recente
passato.
- alla luce di Geremia 31,31 – bevendo il calice, i
discepoli compresero che erano entrati nella alleanza inaugurata dalla morte di
Gesù, realizzando la unità con lui e tra loro.
- aveva inizio la tradizione della ‘antiochena’
(Paolo/Luca).
- tradizione marciana risaliva alla memoria della
alleanza di Mosè sul Sinai, caratterizzata dall’essere ‘sacrificio di
comunione’.
- così la cena cristiana diveniva, insieme, ‘sacrificio
di lode’ e ‘memoria della alleanza nuova’.
- l’altra tradizione della cena caratterizzata dalla
forma testamentaria, non incentrata nei gesti eucaristici, ricorda invece il
testamento di amore di Gesù ai discepoli.
- essa trova riscontro non solo nel quarto evangelo, ma
anche in vestigia (stopa) sparse (rozptýlený) nella tradizione sinottica ove rievoca il ‘servizio di
Gesù’ e rileva un orientamento escatologico.
- il culto è messo in rapporto alla esistenza di carità
che caratterizza l’essere cristiani.
II. DALL’ANAMNESI DELLA CENA A
QUELLA DELLA
PASSIONE, MORTE E RISURREZIONE DI
GESÙ
- la cena eucaristica è il luogo per eccellenza in cui i
ricordi passati delle gesta di Gesù, profeta martire, sono stati rievocati alla
luce della esperienza pasquale e penetrati da questa esperienza.
- come testimonia Paolo il mangiare il pane e bere il
calice del Signore è strettamente congiunto con l’annuncio della sua morte
finché egli venga.
- la cena cristiana che è la cena del Risorto tra i suoi
non avviene senza l’anamnesi della sua morte.
- la cena di Gesù è situata all’inizio della prima parte
del racconto, di quella che è chiamata ‘la passione segreta’.
a) il Getsemani
- il momento culminante della ‘passione segreta’ è
costituito dall’episodio del Getsemani, dominato dalla preghiera di Gesù nella
imminenza della morte.
- il nucleo storico del fatto sembra imporsi: chi avrebbe
potuto inventare che il Signore della gloria sarebbe passato attraverso lo
spavento, la tentazione, l’angoscia?
- l’episodio si colloca in un contesto estremamente
scomodo (nepohodlný) per la comunità post-pasquale, contesto che rivela lo
scandalo di tutti, il rinnegamento di Pietro, la tentazione di Gesù – per
questo è il racconto vero.
- dall’arresto iniziava la storia della ‘passione
pubblica’.
- l’episodio si può dunque considerare sostanzialmente
storico nel senso che esso racconta l’ultimo combattimento di Gesù dinanzi al
suo destino prima che iniziasse la serie implacabile degli avvenimenti: egli
non è fuggito, come i suoi discepoli, ma è rimasto fedele al Padre.
- una duplice traccia di tradizione:
- la prima dominata dal tema
dell’ora e di carattere cristologico, ci presenta Gesù che giunto al Getsemani
si separa dai discepoli, viene colpito dallo sgomento e dalla angoscia fa bendo
a terra e pregando perché, se possibile, passi da lui l’ora – qui il testo
riferisce l’attitudine di Gesù che nella preghiera resta fedele al Padre
dinanzi alla morte.
- la seconda tradizione richiama
l’attenzione sui discepoli che sono invitati a pregare per non essere travolti
nella tentazione.
- la tradizione lucana sottolinea soprattutto questo
secondo indirizzo di tradizione.
- la migliore chiave di interpretazione del racconto è
quella che cerca di evidenziare i poli fondamentali che risaltano nelle due
diverse redazioni.
- in una tale lettura si rivelano i due assi:
- uno che lega Gesù ed il Padre,
- l’altro che lega Gesù ed i
discepoli.
- i due assi si incrociano proiettando sulla morte che è
nello sfondo, un duplice significato.
- uno secondo cui essa è, per
Gesù, l’accogliere il volere del Padre, nel suo silenzio.
- l’altro significato si proietta
sui discepoli, nel loro sonno, nella loro non-lotta e non-vigilanza.
- il significato della scena del Getsemani è stato spesso
oggetto di spiegazioni che non rispettano, in verità, l’esatta interpretazione
del testo evangelico, ma vi sovrappongono categorie di lettura estranee.
- per altri l’angoscia del Getsemani viene veduta come
l’introduzione di quell’abbandono della croce che mostra in Gesù il prototipo
delle esperienze mistiche.
- altri infine vorrebbero spiegare il Getsemani
attraverso la teologia paolina del ‘Cristo fatto peccato per noi’, come
esperienza della condizione peccatrice della umanità.
- il racconto che chiude la sezione della passione
segreta, anticipa i motivi che ispirano la narrazione della passione pubblica:
tra di essi, anzitutto, il motivo cultuale che traduce in preghiera i diversi
momenti drammatici della esistenza credente cercando in essa il sostegno nella
prova.
- l’angoscia di Gesù riassume la tradizione della
angoscia del giusto nella sofferenza secondo la tradizione di fede dell’AT.
- la speranza diviene allora un abbandono totale alla
volontà del Padre che realizza il suo disegno misterioso nella morte stessa di Gesù.
- altro motivo emergente nella preghiera del Getsemani è
quello del richiamo alla storia biblica della angoscia dei profeti come Giona,
Elia, Geremia, il Servo, che mostra anche il senso diverso dell’angoscia di
Gesù.
- nella angoscia di Gesù è che essa non si manifesta
nella richiesta di rinunzia alla missione, ma di liberazione del calice.
- il racconto mostra il modo con cui Gesù, nella
preghiera, ha superato eroicamente la prova, assume nel secondo indirizzo
accenti certamente parentetici nell’invito tramandato alle generazioni
cristiane di essere perseveranti nella ‘vigilanza e nella preghiera’ per non
essere travolti nella prova.
b) il processo
- la importanza del processo sta perciò nell’evidenziare
una componente storico-sociale dell’avvenimento della croce.
- il processo di Gesù ha una importanza notevole per una
‘comprensione storica’ dell’avvenimento in questione, mostrando in esso la
grandezza della dignità di Gesù, il suo infinito amore, dinanzi alla malvagità
degli uomini.
- essa appare preoccupata di mostrare il nesso tra
predicazione di Gesù, la sua prassi innovatrice religiosa.
- la trama della narrazione, diversa nella redazione
sinottica e nella redazione del quarto evangelo, presenta l’avvenimento in due
momenti:
- quelli
dinanzi alle autorità giudaiche.
- del racconto riguardante il
trasferimento di Gesù dinanzi alle autorità ufficiali del giudaismo del tempo,
la sua storicità viene assodata (shrnut)
dalla unanime
affermazione.
- i problemi nascono sul
significato giuridico di quella seduta (schůze) nella situazione politica della
Palestina di allora.
- il vero problema sul modo con
cui esso viene narrato dai sinottici e, diversamente, dal quarto evangelo
- per il racconto sinottico,
sulla linea di Marco, la seduta dinanzi al sinedrio assume un alto valore
significativo: essa comprende l’introduzione dei falsi testimoni,
l’interrogatorio del sommo Sacerdote, e la risposta solenne di Gesù, che
costituisce il vertice (vrchol) della narrazione, e quindi la sua
condanna per bestemmia.
- il racconto sinottico della
seduta del processo giudaico, mette in grande evidenza l’autoaffermazione di
Gesù come ‘Cristo’, in senso divino, attraverso la utilizzazione
dell’accostamento di due passi veterotestamentari (Sal 110,1; Dn 7,13) che
nella loro unità danno un forte accento di trascendenza al messianismo di Gesù,
veduto in una prospettiva escatologica.
- una grande inclusione tra i due
temi fondamentali del processo (il tempio e l’autoaffermazione messianica di
Gesù) ed i due dati corrispondenti nella narrazione della morte (la rottura del
velo del tempio e la professione di fede del centurione).
- le preoccupazioni dei
rappresentati ufficiali del giudaismo erano dovute non solo a motivi dogmatici
ed e preoccupazioni religiose. In realtà la missione di predicazione del Regno
da parte di Gesù implicava un radicale mutamento dell’ordinamento cultuale e
sociale del suo ambiente dovuto alla caduta di certe posizioni di privilegio.
- quello
dinanzi alla autorità romana nella Palestina del tempo.
- nella redazione del quarto
evangelo, non si parla di una seduta del sinedrio, ma del trasferimento di Gesù
dinanzi ad Anna, del suo interrogatorio sopra i discepoli e la sua dottrina,
del rifiuto di rispondere da parte di Gesù.
- la differenza tra il racconto
sinottico e quello del quarto evangelo può essere spiegata verosimilmente in
ragione del diverso piano redazionale di Mc e del quarto evangelo.
- il dibattito tra Gesù ed il
giudaismo ufficiale si sarebbe svolto già prima del processo, per cui aveva già
ricevuto l’accusa di bestemmia e stava per essere lapidato.
- il vero momento
dell’avvenimento del processo di Gesù è costituito quindi dalla seduta dinanzi
al governatore romano.
- questa seconda tappa del
processo mostra il suo asse dominante intorno alla attribuzione di ‘Re’.
- mentre nei sinottici Gesù dice
soltanto ‘tu lo dici’ il quarto evangelo introduce nella scena in questione
elementi molto più ampi e soprattutto teologici.
- in realtà è Lui il Giudice
degli uomini e del mondo – il narratore tende a mostrare che colui che è
giudicato è in realtà il giudice.
- il racconto del processo
evidenzia contraddizione in cui il potere politico riconosce ripetutamente
l’innocenza di Gesù, ma sempre segue un oltraggio (urážka).
- per evidenziarle la sua dignità
regale – coronazione di spine, veste di porpora, parole di saluto ‘Ave Re dei
giudei’ – Gesù, investito ed intronizzato come re riceve i primi omaggi (hold).
- questo seguono altre due
momenti culminanti – quello dell’ecce Homo e quello che costituisce si può dire
la scena decisiva con l’insediamento di Gesù al Gabbatha – le indicazioni di
luogo, di giorno e di ora servono a sottolineare la solennità del momento che
capovolge la sostanza politica del processo di Gesù – Pilato proclamò ‘ecco il
vostro Re’ – Gesù è proclamato Re al Lithostrotos.
c) la crocifissione
- il momento culminante di tutta la storia della passione
e potremmo anche dire di tutta la narrazione evangelica, è quello della morte
di Gesù sulla croce.
- Marco evidenzia la solennità del momento della morte di
Gesù attraverso la nota stilistica del grande grido che accompagna la parola
dell’inizio del salmo 22 e che si ripete al momento dello spirare e la
confessione di fede del centurione circa l’identità del Crocifisso come ‘Figlio
di Dio.
- un contesto narrativo ricco di segni: quello delle
tenebre.
- che precede il momento della morte di Gesù: quello
dello squarciarsi in due del velo del tempio.
- Matteo arricchisce la narrazione anche con altri elementi
come il terremoto, la rottura dei sepolcri e la risurrezione dei giusti, come
pure la loro apparizione in Gerusalemme.
- tutti i sinottici evidenziano la presenza di una
comunità di credenti.
- esso ci mostra chiaramente il carattere di un testo a cui
interessa non il fare una cronaca dei fatti, ma fare emergere al oro
significazione religiosa.
- l’elemento delle tenebre tende a mostrare il carattere
universale ed apocalittico della morte di Gesù.
- per i sinottici il giorno in cui Gesù muore è dunque il
grande giorno di HHWH, giorno di instaurazione decisiva del Regno.
- questi elementi apocalittici sottolineano da in primo
punto di vista il carattere definitivo dell’ora della morte di Gesù come
avvenimento finale della storia: rottura del ‘velo del tempio’ senso indicativo
della ‘fine del tempio’ come epicentro dell’anticipo culto di alleanza nel
sangue.
- ma questa chiave interpretativa dei segni apocalittici
che accompagnano il morire di Gesù deve tener conto anche della prospettiva
apocalittica cristiana che annuncia l’avvento di un mondo nuovo il quale sorge
proprio nella morte di Cristo.
- questo evento escatologico porta a compimento
l’instaurazione del Regno predicato ed anticipato nella missione di Gesù.
- esso appare come l’evento della grazia aperta a tutti.
- la risposta di Gesù al ladro è come una rettifica della
sua speranza incentrata sulla fine dei tempi (Parusia) e perciò imperfetta ed
insufficiente: proprio perché, ormai, la morte di Gesù sul Calvario è la Parusia.
- «Eloì, Eloì, lamà sabachtani» – la parola precede il
momento in cui Gesù, con forte grido, spirò.
- questa parola di Gesù in croce non deve essere
interpretata secondo un registro psicologico, bensì teologico.
- essa vuole esprimere il significato della morte di
Gesù.
- un suo duplice significato:
- proclama Gesù abbandonato, il
che vuol dire, secondo il senso biblico, che Dio non è venuto in soccorso del
suo Figlio in estrema difficoltà.
- dall’altro lato, mentre Gesù
resta senza soccorso, lancia il suo grido al suo Dio, non chiamato qui Padre.
- si esprime la usa confidenza (mio Dio) che testimonia
però la certezza che il suo Dio conduce il gioco.
- il grido è un appello che proclama la presenza di Colui
che sembra assente.
- inizio della citazione del salmo 22, nel quadro
d’insieme del salmo stesso secondo gli usi giudaici poteva essere citato dal
primo versetto.
- il grido di Gesù che parte dalla notte cupa
dell’abbandono, annuncia, che il giorno nuovo incomincia con il giudizio di
salvezza dei giusti e la loro risurrezione.
- confessione di fede del centurione pagano. In esso si
può scorgere il momento culminate che partendo dal primo versetto (Mc 1,1:
‘vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio’) fino all’ultimo (‘veramente questo
uomo era Figlio di Dio’: 15,39), è come una grande inclusione.
- Gesù può essere conosciuto nella fede come Figlio di
Dio, solo nella contemplazione della croce.
- gli altri sinottici o legandola ai fenomeni accaduti o
modulandola nel riconoscimento della giustizia di Gesù.
- bisogna anche considerare l’identità dell’uomo – è un
pagano.
- nel momento in cui il velo del tempio si infrange ed in
cui la religione giudaica deve aprirsi, il mondo pagano professa la sua fede in
Cristo – è l’aurora dell’accesso dei pagani alla salvezza.
- diversi luoghi del salmo in questione sono richiamati
durante il racconto della crocifissione.
- qui Dio si manifesta nel contesto di un dialogo che è
orientato alla lode: l’uomo sofferente sa che Dio risponde.
- i due momenti salienti del racconto di Marco si
ricollegano nell’unico schema di grido di angoscia e di lode.
- in Marco lo schema apocalittico che mostra Gesù morente
totalmente solo, rinnegato dai discepoli, senza alcun soccorso miracoloso di
Dio avrebbe potuto lasciare fraintendere il grido di abbandono come grido di
disperazione.
- lo schema della lamentazione, probabilmente
preesistente al quadro apocalittico, sottolinea invece di più il carattere di
una morte pienamente confidente nella certezza della risposta trionfante del
Padre.
- Luca da parte sua sottolinea nella morte di Gesù la
sorte del Giusto martire che si abbandona a Dio utilizzando le parole del salmo
31,6.
- Gesù è il tipo per eccellenza del Giusto sofferente che
sconvolga in sé il dolore dei giusti perseguitati di tutti i tempi.
- l’ipotesi della invocazione ‘Elì’atta’ (mio Dio sei tu)
che potrebbe facilmente essere fraintesa per ‘Elia,ta’ (Elia viene). Tale
parola di preghiera «mio Dio, sei Tu» ricorre molte volte nella Bibbia, proprio
nei salmi di lamentazione (22; 31; 63; 118; 140) per esprimere un grido di
estrema confidenza in Dio.
- non si può ignorare che tutta l’esperienza religiosa di
Gesù, anche nell’angoscia del Getsemani, è incentrata nell’abba, in un rapporto
strettamente filiale.
- questo porta a ritenere che ‘l’Elì atta’ esprima sulle labbra
di Gesù non solo la preghiera del giusto sofferente, ma quella del Figlio che
invoca il Padre.
- il quarto evangelo nella sua anamnesi della morte di
Gesù offre un quadro diverso da quello sinottico.
- l’ora del morire di Cristo porta a consumazione la usa
opera di rivelazione attraverso il dono delle sue parole supreme e del dono
dello Spirito.
- la narrazione della morte nel quarto evangelo comprende
la sezione 19,16-37 composta di cinque pericopi che compongono altrettante
unità letterarie diverse, legate però tra loro da un nesso continuo che porta
gli episodi a convergere verso il momento culminante della narrazione nella
parola ‘è compiuto’ che introduce il reclinare il capo donando lo Spirito.
- la Madre
di Gesù è designata da Gesù morente come la Donna dei tempi messianici, la Nuova Eva , figlia
escatologica di Sion, Madre di tutti i credenti – colei che partecipa
maternamente all’opera soteriologica della salvezza dei cristiani.
- in questo contesto la persona del discepolo assume la
personificazione del discepolo perfetto, del vero fedele di Cristo affidato
alla Donna-Chiesa.
- il momento del morire di Gesù si differenzia dalla
narrazione sinottica che riferisce la bestemmia dei passanti, la derisione dei
sacerdoti, gli insulti dei ladri, le tenebre squarciate dal grande grido che
accompagna l’ultima parola dello spirare di Gesù.
- la menzione della sete e dello spirare di Gesù che
seguono, sono collegati a loro volta a quanto è affermato dalle parole
precedenti ‘tutto è compiuto’.
- nella narrazione di Giovanni la sete di Gesù ha nel
contesto del quarto evangelo il suo giusto punto di lettura.
- nei passi in cui si parla della sete di Gesù, si
manifesta il suo desiderio di dare ‘l’acqua viva’, quindi, la sete reale di
Gesù è il segno espressivo di un suo profondo desiderio interiore.
- al momento della sete di Gesù, segue il suo morire,
introdotto non da un grande grido, come nei sinottici, ma dalla parola finale
‘è compiuto’.
- a conclusione del racconto della morte di Gesù, il
quarto evangelo non riferisce l’episodio sinottico della conversione del
centurione, ma quello del colpo di lancia e del sangue ed acqua.
- il duplice dato del racconto abbastanza ampio, nel suo
aspetto negativo (ciò che i soldati non fecero) e positivo (ciò che essi fecero).
- la verità della testimonianza sta qui non solo nel dato
di una storia documentaria riferita, ma anche in quel ‘mistero’ che è la realtà
interiore del fatto che il testimone ha colto in un ‘atto di vedere’.
- quale il mistero di questo episodio riguardante la
non-rottura delle gambe ed il colpo di lancia con la conseguente fuoriuscita di
sangue e dell’acqua? – Gesù Crocifisso è il vero Agnello pasquale (Es), tema
cristologico propriamente giovanneo; Egli è la fonte escatologica zampillante
per la casa di Davide (Zc).
- esso sottolinea la forza vivificante della morte di
Gesù, dovuta al dono dell’acqua viva dello Spirito.
- nell’ora della passione e morte si manifesta la potenza
salvifica dell’opera di Gesù per la fecondità del dono dello Spirito alla comunità
messianica, dono che viene accolto dagli uomini credenti.
III. L’ESPERIENZA E L’ANNUNCIO
DEL RISORTO
- l’esperienza e l’annuncio del Risorto è il luogo
fondamentale in cui vive la
Chiesa.
- l’anamnesi storica di Gesù prepasquale – solo
attraverso questo ‘fare memoria’ è possibile comprendere il senso della
presenza in lei del Risorto, è anche vero che solo partendo dall’incontro
presente con il Risorto la
Chiesa può operare l’atto della anamnesi della cui ricchezza
vive nella continuità e nella distanza dal proprio passato intorno a Gesù
Nazareno crocifisso.
- nella prassi della cena cristiana la comunità di fede
vive della ‘presenza’ del Risorto in lei.
- la cena del Signore risorto è il luogo della conoscenza
della sua ‘presenza’.
- nella cena del Signore si perpetua anche la
testimonianza di coloro che dopo lo scandalo della croce sono stati scelti dal
Risorto negli incontri pasquali – da essa parte la fede, il culto, la
predicazione cristiana dell’evento pasquale.
- apologetica – essa appariva diretta primariamente ad
una funzione dimostrativa, quale decisiva conferma della verità della
rivelazione di Cristo ‘legato divino’.
- il limite della ricerca apologetica appare oggi
soprattutto per la sua eccessiva pretesa ‘oggettivizzante’ dell’avvenimento
della risurrezione di Gesù di Nazaret, come un avvenimento puramente
intra-storico raggiungibile nel suo in sé attraverso una semplice indagine
critica di tipo storico positivo.
- in questo modo si perpetuava la deprecabile frattura
tra la storia e la fede, il problema del rapporto tra ‘fatto’ e ‘significato’
raggiunge nel caso specifico della risurrezione di Gesù il punto più critico.
- non si possa negare la ‘realtà storica’ della
risurrezione di Gesù.
- la esperienza della personale risurrezione di Cristo è
infatti un fenomeno di incontro che, toccando la sfera autenticamente umana,
però la trascende.
- ciò va affermato anzitutto sul piano della sua
sperimentabilità immediata, per cui la conoscenza del Risorto era accessibile
non a chiunque, ma solo a dei ‘testimoni privilegiati’ il che vuol dire che
essa era possibile solo attraverso una ‘rivelazione’ del Risorto e quindi
dipendente dalla sua volontà gratuita di manifestarsi.
- non è possibile, allora, una ricerca storica neutra
sulla risurrezione: la sua notizia è verificabile solo per via di
‘testimonianza’ di coloro che lo hanno ‘visto’ ed ‘hanno creduto’.
- ‘Gesù Cristo è risorto’ – è vero che questa asserzione
riguardante un avvenimento che sta alla radice della fede e la trascende.
- non è separabile dalla esperienza insieme storica e di
fede dei testimoni a cui presta ascolto e da cui dipende la fede della chiesa
intera.
- Pannenberg – la risurrezione di Gesù di Nazaret non può
essere considerata storica ‘direttamente’, ma solo ‘indirettamente’.
- il più importante di questi segni è considerato oggi
proprio la fede e predicazione dei discepoli.
- è necessario ammettere che la fede pasquale è stata
suscitata da una causa esterna all’atto stesso di fede dei discepoli.
- va poi aggiunto anche il segno del sepolcro vuoto – la
notizia della tomba vuota è un dato reale mai smentito dal giudaismo che ne ha
dato una versione calunniosa (pomlouvačný), ma non ne ha mai messo in
discussione la verità.
a) la certezza
della fede e della predicazione apostolica sulla risurrezione di Gesù di
Nazaret
- il NT documenta la convinzione dei testimoni pasquali
di avere incontrato ‘personalmente’ Gesù vivente.
- la prima forma di tradizione la si ritrova in 1 Cor
9,1-2 ove l’apostolo afferma di ‘aver caduto Gesù’ con una formula
personalizzata («io l’ho visto»).
- certezza emerge non solo in queste testimonianze più
dirette, ma anche in molte altre affermazioni del NT come nelle formule
kerigmatiche nelle quali si proclama l’evento del risuscitamento di Gesù di
Nazaret, di cui Dio, il Padre, è l’autore.
- la certezza della risurrezione appare anche negli inni,
che celebrano la gloria e l’esaltazione del Risorto in una prospettiva di
salvezza e signoria universale cosmica di Gesù Cristo.
- quali caratteri manifesta questa esperienza della
risurrezione di Gesù Cristo documentata dalla testimonianza di Paolo?
- possiamo cogliere i seguenti tratti comuni strutturali:
il suo carattere
‘oggettivo’ in quanto esperienza di qualcuno che si impone con la usa
presenza reale e di fronte al quale il ‘vedere’ del testimone si colloca in una
situazione di ‘passività’.
- così Paolo ricorda di essere stato ‘attinto (conquistato)
da Cristo’ (Fil 3,12).
Altro carattere di questa esperienza è quello di un ‘vedere’, non riducibile ad una
mera esperienza interiore: esso tocca la totalità dell’essere del
testimone, nella sua stessa realtà corporea e sensibile.
- è chiaro che l’incontro con il Risuscitato implica
l’inizio di una più profonda ed intima conoscenza di Gesù come Signore e
Cristo, una vera e propria rivelazione di Lui.
- gli incontri pasquali non sono stati un semplice
rivedere vivo, dopo la morte, colui che i discepoli avevano conosciuto prima
(il Gesù terrestre), ma sono stati un vedere in modo nuovo il mistero di colui,
che essi avevano solo imperfettamente conosciuto prima.
- le manifestazioni del Risorto sono perciò giustamente
chiamate ‘cristofanie’.
- tali ‘cristofanie’sono comprendenti anche il ‘vedere’
con gli occhi del corpo, il ‘sentire’, il ‘toccare’.
Coinvolto in tutto il suo essere, il testimone della rivelazione del Risorto, viene profondamente
trasformato, rinnovato nella sua vita.
b) i racconti
pasquali
- il racconto che rievoca gli avvenimenti del giorno di
pasqua mediante una duplice tradizione narrativa: quella delle apparizioni e
quella della tomba vuota.
- la tradizione preevangelica si contentò da principio,
di testimoniare il fatto delle apparizioni; solo più tardi sentì il bisogno di
descriverle.
- questa descrizione che non solo documenta il fatto, ma
ne esprime anche il senso, è dunque posteriore rispetto alla asserzione che
ricorda il fatto stesso e che appena accenna al suo senso.
- le apparizioni documentano una fede.
Le apparizioni
del Risorto
- nell’insieme della testimonianza evangelica emergono
otto racconti di apparizioni di cui cinque riguardano i testimoni ufficiali,
cioè gli apostoli riuniti, e tre riservate a persone singole o piccoli gruppi.
- delle prime, due sono localizzate in Galilea e le altre
in Gerusalemme.
- viene notata l’importanza dei due diversi riferimenti
geografici: Galilea e Gerusalemme.
- le ‘apparizioni gerosolimitane’ mostrano uno schema
narrativo caratterizzato da una struttura a tre elementi, comprendente:
- l’iniziativa del Risorto – si manifesta non tanto nella sua
‘gloria’, ma nella sua ‘familiarità’.
- riconoscimento del Risorto – il momento centrale dello schema – i
discepoli riconoscono in colui che è apparso lo stesso Gesù di Nazaret che
hanno conosciuto in vita e che è stato crocifisso.
- i testimoni, infatti, potevano
anche dubitare – mostrano che il Risorto è lo stesso Gesù terreno crocifisso,
dall’altro mostrano che egli appartiene ormai ad un altro mondo.
- processo di riconoscimento
appare legato nei racconti, non solo alla manifestazione visiva, ma anche e
particolarmente a quella uditiva.
- dal riconoscimento del Risorto
scaturisce anche un terzo elemento dello schema narrativo in questione –
la missione dei testimoni – essi saranno non solo testimoni di un passato
avvenimento, ma di una presenza permanente del Risorto.
- la triplice struttura delle narrazioni delle
apparizioni gerosolimitane si muove secondo uno schema temporale: «per
l’iniziativa, il Risuscitato rinnova continuamente il presente del discepolo
che è invitato ad assumere il passato nella persona di Gesù di Nazaret, e
questo gli dona di costruire l’avvenire della Chiesa».
- la tradizione galilaica presenta una struttura
letteraria diversa dalla precedente.
- in essa l’apparizione del Risorto sottolinea l’imporsi
della sua presenza che incute adorazione e porge i suoi comandi.
- Matteo esprime che ormai il Figlio dell’uomo esaltato
ha instaurato la fase finale del Regno e governa la storia degli uomini.
- confrontando le due tradizioni si può dire che i
racconti gerosolimitani sottolineano di più la realtà del Risorto come colui
che si risveglia dalla morte, mostrandosi ‘vivente’, ai discepoli, nella sua
identità con la sua realtà terrestre, ma insieme mostrando la usa nuova
condizione oltre la morte.
- per quanto riguarda la tradizione galilaica, essa
sembra fare leva sulla cristologia della esaltazione: il Risorto appare in
tutta la trascendenza dell’Esaltato alla destra di Dio.
- essa non sottolinea tanto i contatti fisici con il
Risorto e risponde meno alle preoccupazioni del riconoscimento e del realismo,
tende invece a rilevare ‘la signoria di Gesù’.
- queste due accentuazioni delle tradizioni pasquali si
completano reciprocamente.
- le due tradizioni narrative attestano degli avvenimenti
decisivi per la comunità apostolica: in essi infatti non solo i discepoli hanno
avuto la certezza che Gesù di Nazaret è risuscitato trionfando sulla morte e
sulla ignominia della condanna, in tali incontri essi ‘riconoscendo’ il Maestro
risorto hanno più profondamente compreso il suo passato, il senso della sua
morte.
- le apparizioni, quindi, sono delle vere e proprie
‘cristofanie’ in cui si è operata una più totale e profonda rivelazione della
identità di Gesù come Cristo e Signore e come tali hanno aperto ai testimoni la
via della missione e della testimonianza per il futuro della Chiesa.
Il sepolcro
vuoto
- il racconto sul sepolcro vuoto ha avuto molta
importanza nello sviluppo dell’indirizzo apologetico della teologia della
risurrezione.
- constatato e constatabile da tutti, anche dai giudei
increduli.
- il sepolcro vuoto veniva così a costituire l’argomento
principale, la ‘prova’ per eccellenza della verità della risurrezione di Gesù.
- la ‘realtà’ del fatto testimoniato dai racconti
evangelici possiamo affermare che, da molteplici indizi, il fatto era ben
conosciuto da questa tradizione e che d’altra parte esso doveva essere
necessariamente presupposto dal momento che la predicazione della risurrezione
di Gesù di Nazaret, avrebbe trovato nel contesto dell’ambiente gerosolimitano
obiezioni decisive ed insuperabili se non si fosse saputo che il sepolcro di
Gesù era stato trovato vuoto.
- si può ritenere tuttavia abbastanza solidamente che il
quadro di origine della tradizione della tomba di Mc 16,1-8 richiama un dato
storico in un contesto di anamnesi cultuale: quello di una comunità in festa
che crede e confessa che il crocifisso è stato risuscitato.
- è la fede della risurrezione che illumina il senso del
fatto.
- un racconto apologetico avrebbe dovuto dare ben più
spazio alla ispezione del sepolcro vuoto e non avrebbe avuto interesse a
mettere in scena delle donne annunciatrici del messaggio di risurrezione, dato
il poco conto che le accreditava nell’ambiente giudaico.
- nella descrizione dettagliata, nella redazione del
quarto evangelo, del ruolo assunto dalla persona di Pietro e dell’altro
discepolo, il racconto sembra suggerire un intento apologetico: l’ordine
esistente nel sepolcro indica che la scomparsa del corpo di Gesù non è stata il
fatto frettoloso di un rapimento che avrebbe lasciato disordine e confusione e
certamente non avrebbe lasciato le bende.
- ci viene attestato con sicurezza un dato reale: il
sepolcro di Gesù di Nazaret fu trovato aperto e vuoto.
- il sepolcro vuoto acquista in questo contesto il valore
di un ‘segno’ che corrobora in modo umano-storico il valore della fede
pasquale: la pietra rovesciata (převrátit)
ha un significato di
vittoria sulla morte.
- Gesù è uscito dal sepolcro totalmente libero da tutte
le contingenze materiali, da tutto ciò che aveva rapporto con la morte.
- il valore di ‘segno’ è la migliore spiegazione del
senso di questa notizia storica: un segno visibile, controllabile, lasciato nel
mondo da un evento metastorico ed escatologico.
- il sepolcro vuoto indica che la sua persona incarnata e
la sua vita è sottratta ormai da ogni controllo degli uomini, così some è
sfuggita alla prigionia dello sheol – il suo mistero è nascosto nel mondo di
Dio.
DALLA STORIA
ALLA PROCLAMAZIONE:
IL CRISTO
ANNUNCIATO DALLA CHIESA
INTRODUZIONE
- dopo il momento fondamentale di carattere più
storico-narrativo seguendo l’anamnesi ecclesiale, si propone di seguire lo
sviluppo dell’annuncio dell’evento cristologico di salvezza nella storia
presente e futura della Chiesa, evento che è perennemente vivo e continua a
parlare in essa.
- il vangelo è infatti una proclamazione da parte della
Chiesa del Cristo vivente, che ricorda fedelmente, la proclamazione da parte
della Chiesa del Cristo vivente, che ricorda fedelmente, la proclamazione del
Gesù stesso terrestre.
- si proietta verso lo sviluppo della predicazione e
della fede cristologica della Chiesa nel tempo, passando attraverso la storia e
le culture degli uomini.
- nella Chiesa vive, non solo la memoria fedele dei fatti
e dei detti di Gesù, ma si opera anche la comprensione autentica di quei fatti
e di quei detti nella progressiva penetrazione della loro verità ad opera dello
Spirito.
- la fede e la predicazione cristiana sono la sua fedele
comprensione ed annuncio.
- si tratta di seguire lo sviluppo genetico dalla fede
cristologica della Chiesa partendo dal principio normativo del ‘primato della
Scrittura’.
- la ‘cristologia del NT’, in un discorso cristologico,
deve avere un ruolo normativo.
- la
Scrittura non è l’unica via attraverso la quale la Chiesa stessa comunica con
la realtà dell’evento storico originario della parola di Dio incarnata in Gesù
Cristo.
- nella Chiesa c’è anche una tradizione post-biblica che
si fonde in unità con la
Scrittura e Tradizione per la quale si garantisce la
continuità tra la fede attuale della Chiesa e la predicazione e fede
apostolica.
- la
Scrittura è come la finestra attraverso la quale la Chiesa spinge il suo
sguardo verso l’evento originario della rivelazione.
- la
Tradizione post-biblica consente di poter cogliere la prassi
della vita di fede e di culto, la letteratura dei Padri, il sensus fidei del
popolo cristiano, il significato pieno della stessa Scrittura.
- il circolo ermeneutico unisce Scrittura e tradizione
post-biblica.
E NELLA
PREDICAZIONE DELLA CHIESA NEL NT
- nell’avvenimento della risurrezione di Cristo
Crocifisso si compie la storia di Gesù di Nazaret e si apre il cammino della
fede e della predicazione della Chiesa.
- la risurrezione di Cristo è il centro ed il fondamento
dello sviluppo della cristologia del NT.
- questa nella sua unità presenta una certa varietà e
pluralità.
- la confessione e l’annuncio del ‘Crocifisso-Risorto’ è
il cuore del messaggio della Chiesa del NT.
I. LA RISURREZIONE DI
CRISTO CROCIRISSO CENTRO E FONDAMENTO DELLA CRISTOLOGIA DEL NT
- l’evento centrale da cui parte ogni cristologia del NT
e che costituisce il nucleo originario del kerigma cristiano è la
morte-risurrezione-glorificazione di Gesù di Nazaret.
- allora è difficile parlare della cristologia più antica
del NT.
a) la risurrezione
di Cristo come punto di partenza della fede cristologica del Nuovo Testamento
- i racconti pasquali delle apparizioni costituiscono
delle ‘cristofanie’ in cui i discepoli hanno potuto penetrare più profondamente
nel ministero di Gesù di Nazaret, come Cristo, Signore e Figlio di Dio.
- la fede dei discepoli in Gesù era già stata fondata
prima di pasqua, ma questa fede era una fede cristologica ancora implicita,
legata al tempo del segreto messianico.
- vita terrena di Gesù, il quadro del ministero terrestre
era essenziale anche per comprendere la vera identità del Risorto.
- la stessa fede pasquale trova fondamento e ragione
nella esistenza e nel comportamento del Gesù terrestre ma solo alla luce della
risurrezione e del dono dello Spirito che ai discepoli è apparso con assoluta
chiarezza che quel Gesù Crocifisso era il Messia di Dio.
- la fede in Cristo deve considerare che essa ha preso
inizio con l’evento della risurrezione del Crocifisso, ma chi vuol comprendere
storicamente questa fede, e non mitologicamente, deve altrettanto considerare
che tale fede ha il suo primo fondamento già nell’atteggiamento storico di
Gesù.
- non troviamo nel NT enunciati astratti sulla
risurrezione di Gesù, ma forme concrete come «Dio ha risuscitato Gesù» e di ciò
«noi siamo testimoni» (At 2,32; 3,15; 5,31-32; 10,40).
- la più antica predicazione della risurrezione è
predicazione di testimonianza, la confessione «Gesù è risorto» appartiene
all’avvenimento veduto.
- nel NT l’unico evento della risurrezione è espresso da
una moltitudine di linguaggi quali quello di ‘risurrezione e vita’, quello di
‘esaltazione’, ‘glorificazione’, ‘elevazione’.
- essi utilizzano vari assi semantici come ‘morte-vita’,
‘umiliazione-esaltazione’, ‘terra-cielo’.
- così, attraverso il linguaggio di risurrezione dai
morti, che nella forma più arcaica si presenta nel passivo, come ‘risuscitato
da Dio’, la testimonianza di fede e la predicazione degli apostoli tendeva non
solo ad affermare che «questo Gesù di Nazaret è tornato in vita», ma che Gesù è
risuscitato escatologica che era attesa da Israele per la fine dei tempi o
meglio, oltre gli eoni presenti terresti.
- ‘esaltazione’, ‘glorificazione’ – esso proclama che il
Risorto, superando il mondo terrestre, accede alla sfera di Dio, partecipe
della ‘gloria di Dio’ (il Padre).
- questa sua risurrezione viene celebrata non come una
semplice rivivificazione o restaurazione della vita biologico-terrestre, ma
come una vita nuova in condizione di ‘Signore’ celeste.
b) la risurrezione
di Cristo come compimento della croce e come evento cristologico-pneumatologico
- la risurrezione di Cristo non è solo la manifestazione
della gloria del pre-esistente, non è solo l’epifania dell’eterno, ma anche la
‘gloria del Crocifisso’ che esprime la eternizzazione dell’amore offerente.
- Cristo si è offerto a Dio in virtù di quello Spirito
eterno, del quale egli era già unto ed in forza del quale egli possedeva
l’eterno sacerdozio.
- la risurrezione compie dunque l’eternizzazione e
l’efficacia perenne della croce come avvenimento in Gesù di Nazaret, in quanto,
per la potenza dello Spirito, essa compie la pienezza storica della sua
oblazione di amore, del suo culto perfetto al Padre.
- ma la risurrezione è veduta nella cristologia del NT
anche come il luogo da cui promana la donazione dello Spirito ai credenti.
- la pentecoste è la consumazione dell’avvenimento
soteriologica della pasqua.
- i molteplici dati teologici dell’evento della
risurrezione si possono organizzare in tre linee fondamentali:
Il Cristo Risorto, per il dono dello Spirito genera la fede pasquale.
- il IV evangelo vede il dono
dello Spirito da parte del Risorto.
- così nel c. 20,19-23 il dono
pasquale del Risorto, in questo evidenzia anche il compimento delle parole di
promessa (cc. 14-16).
Il Cristo Risorto per il dono dello Spirito inizia la nuova creazione.
- è il punto di vista di Paolo
che non parla di una pentecoste come avvenimento accaduto in una particolare
circostanza cronologica, ma in tutto ciò che afferma circa l’azione
soteriologica del Risorto e degli effetti operati nell’uomo e nel mondo, si
manifesta l’opera dello Spirito.
- tutta la vita cristiana appare
come ‘vita nello Spirito’.
La risurrezione ed il dono dello Spirito nella pentecoste.
- è la linea della narrazione
lucana – segue una prospettiva diacronica.
- il dono dello Spirito al
cinquantesimo giorno dopo pasqua in coincidenza della pentecoste giudaica, se
mostra in esso un dono di Cristo che adempie la usa pasqua.
- il loro cominciare a parlare
‘lingue diverse’ indica appunto la qualità profetica dell’evento pentecostale.
- il carisma della pentecoste
genera sia la capacità della lettura profetica, del discernimento degli
interventi salvifici di Dio nella storia, sia la preghiera esultante che
proclama le magnificenze di Dio.
- così Luca vuole mostrare nella
pentecoste del cenacolo la forza e l’audacia dello spirito missionario che
porta al mondo il messaggio del Signore esaltato.
- il segno delle lingue indica la
cattolicità della testimonianza.
c) la risurrezione
di Cristo e l’unità della cristologia del NT
- la cristologia del NT non possiede l’aspetto di una
dottrina uniforme e conclusa, cioè «come un sistema chiuso della rivelazione
che sia anche tale nelle sue conseguenze».
- essa, resta aperta a diversi modi di intelligenza e di
sviluppo, tanto che si potrebbe affermare che la «presentazione della dottrina
neotestamentaria consiste in un certo numero di frammenti teologici assai
disparati per contenuti e per forme».
- questa pluralità di visioni teologiche che pongono in
luce i diversi aspetti dell’evento cristologico salvifico, può essere considerata
come l’espressione di una comprensione di fede del mistero cristiano compiuta
sotto l’azione dello Spirito.
- si pone anzitutto il problema della sua unità – la
domanda – è possibile una norma unitaria nella molteplicità delle espressioni
cristologiche neotestamentarie?
- non si può negare una certa continuità se non altro per
il fatto che i diversi redattori dei libri del NT si riconoscono credenti in
Cristo.
- l’unità della cristologia del NT è una unità che si può
raggiungere all’interno della sola Scrittura, che si possa considerare come
l’espressione normativa ed unitaria di tutta la varietà delle formule
neotestamentarie?
- prima di considerare lo studio della genesi e dello
sviluppo della cristologia antica, come pure quello della sua pluralità di
modelli rappresentativi procedendo allo studio del testo nel NT solo attraverso
il punto di visto letterario, si giunge più ad una visione della molteplicità
degli schemi rappresentativi, che non alla prospettiva unitaria di un modello
unico universalmente accettato e vincolante.
- se si vuole parlare della unità della cristologia
neotestamentaria bisogna essere chiari sul fatto che essa non può essere
trovata alla superficie dei testi, ma richiede la riflessione su quei
fondamenti su cui poggiano e sono costruite le varianti asserzioni
cristologiche che le rendono ‘fondamentalmente’ possibili e ne permettono la
raccolta in unità.
- il problema della unità della cristologia si connette
con quello della unità teologica di tutto il NT.
- l’unità del NT è un riflesso della unità della Chiesa
gerarchica del II secolo… la quale riconosce i singoli scritti con le loro
teologie di diverso tipo come appartenenti alla ‘Scrittura’.
- l’unità della cristologia del NT, unità che non
contraddice la varietà e la pluralità dei molteplici punti di vista, trova la
sua norma nel fondamentale atto di fede con cui la ‘Chiesa una, soggetto del
credo’, proclama la verità del Cristo attraverso le molteplici espressioni
linguistiche.
- la
Chiesa stessa può essere considerata come ‘principio’ della
cristologia post-pasquale, l’unità originata dalla parola-realtà di Gesù di
Nazaret, crocifisso e risorto, Parola accolta nella fede della comunità
apostolica.
- essa non è l’unità della lettera scritta, ma è la
ricchezza dell’evento stesso accolto nella comunità di fede.
- l’unità della cristologia è data dalla Chiesa come
«soggetto di fede conglobante» i quale «si fonda sulla confessione di Gesù
Cristo morto e risorto, che essa annuncia e celebra nella potenza dello Spirito
santo».
- l’unità della cristologia del NT è una prospettiva di
fede ecclesiale che professa ed annuncia il fondamento ‘oggettivo’ di tutta la
cristologia stessa: ‘la risurrezione di Cristo crocifisso’.
d) la fede della
Chiesa primitiva nel Cristo Crocifisso Risorto
e la usa espressione nelle tradizioni
cristologici preletterarie
- ‘kerigma’ – comprende annuncio e narrazione.
- ha il carattere di messaggio
missionario che risuona in ambienti non ancora cristiani, giudei o ellenistici
– è un l’annuncio o proclamazione di un evento e la narrazione del passato
storico di questo evento.
- il primo aspetto del messaggio
riguarda la presenza vivente del Signore Gesù Cristo, crocifisso e glorificato,
nella comunità apostolica, l’annuncio esprime la fede e la testimonianza che il
Risorto vive e che i credenti ricevono già adesso la salvezza attraverso la
fede in Lui.
- il kerigma partendo
dall’esperienza presente della gloria del Risorto, risuscitato dal Padre e che
nella potenza dello Spirito dona salvezza.
- al centro del kerigma campeggia
(tábořit) l’evento della
croce-risurrezione-pentecoste.
- così la predicazione
missionaria va anzitutto verso la storia terrena del Salvatore esaltato.
- l’annuncio kerigmatico passa
dunque attraverso la forma della narrazione storica.
- ‘omologia (comprende la confessione e proclamazione
liturgica della fede).
- si compie propriamente in un
ambiente già cristiano è una tradizione cristologica che si esprime in diverse
forme di cui la più semplice e la più diffusa è l’omologia o ‘confessione
pubblica’, da cui hanno avuto origine il credo e gli inni cristologici.
- si articola intorno a dei
titoli cristologici dominanti ed intorno all’evento centrale salvifico della
croce-risurrezione.
- queste ultime si presentano sia
in formule semplici in cui si professa la sola ‘risurrezione’ di Gesù come atto
compiuto dal Padre o la sola morte come avvenimento salvifico, sia in formule
doppie in cui si professa o proclama che Gesù è morto ed è risorto.
- gli ‘inni’ celebrano il dramma
dell’evento soteriologico della pasqua nello schema
dell’abbassamento-esaltazione, e proclamano la vittoria di Cristo sulle potenze
cosmiche.
- una caratteristica essenziale
della prospettiva soteriologica comune agli inni è la prospettiva della
universalità della salvezza, della mediazione creatrice del Cristo e del suo
dominio sugli uomini e sul mondo terrestre e celeste.
- il loro ambiente vitale è la
celebrazione liturgica – cena, luogo di anamnesi della vita terrena di Gesù e
luogo in cui la fede nella sua presenza salvifica nell’evento della
morte-risurrezione alimenta (živit)
la speranza della
sua venuta futura.
- anche la prassi battesimale ha
il suo influsso come mostra Paolo parlando di tale prassi come partecipazione
al mistero della morte-risurrezione del Salvatore e come emerge in Matteo 28,19 in cui l’evento cristologico
è evocato in un quadro dogmatico trinitario.
- le diverse forme con cui il
mistero di Cristo viene proclamato kerigmaticamente, confessato e celebrato,
non solo mostrano che il Signore viene sentito come vivo e presente nella
Chiesa, come suo Salvatore, ma appare che Egli è il centro ed il punto di
partenza di tutte le diverse tradizioni.
II. L’EVENTO DEL
CROCIFISSO-RISORTO AL FONDAMENTO
DELLO SVILUPPO DEI DIVERSI
MODELLI
RAPPRESENTATIVI DELLA CRISTOLOGIA
DEL NT
- la prima cosa importane è di chiarificare il senso di
‘modello cristologico’ nell’ambito della teologia del NT, il problema di un
certo loro sviluppo e quello del significato della loro varietà ed unità.
- elemento nuovo di esperienza del mistero affonda le sue
radici già prima di pasqua, nella vita terrestre del Salvatore, ma si è
maturato successivamente nell’evento della risurrezione del Crocifisso ed
approfondito nei diversi ambienti di vita della prima comunità cristiana.
- la esperienza nuova del Cristo sviluppatasi attraverso
la sovrabbondanza del dono dello Spirito trascende per sé ogni modello e
linguaggio.
a) ipotesi dello
sviluppo dei modelli cristologici
in rapporto all’impianto del cristianesimo in
ambienti culturali diversi
- lo studio dei modelli cristologici ha seguito in una
serie di saggi ed opera di Casey, Hahn, Kremer, Fuller la tendenza ad
illustrare il cammino della cristologia del NT come un passaggio dallo stadio
della comunità cristiana palestinese a quello della diaspora ellenistica e
della comunità pagano-ellenistica.
- il passaggio sarebbe stato il seguente: dopo
l’esistenza storica di Gesù che sarebbe stata caratterizzata da una
‘cristologia implicita’, l’esperienza di fede pasquale dei discepoli si sarebbe
andata esplicitando in una ‘cristologia’ caratterizzata da diverse fasi o
modelli.
All’inizio, la presenza nelle comunità
cristiane dei giudei convertiti, giudei palestinesi di lingua aramaica, avrebbe
segnato il sopravvento di una ‘cristologia palestinese’ in cui predominavano la
risurrezione e la parusia ed i titoli cristologici, connessi con la morte e
risurrezione (Servo Ebed, Signore Mar) e con la parusia (Messia Masiah, Figlio
dell’Uomo Barnasha, Signore Marana).
- la comunità palestinese avrebbe così veduto nella
risurrezione solo un anticipo della venuta finale escatologica, vivendo
totalmente protesa verso il futuro avvento del Cristo nella parusia.
- nel primo periodo, secondo Hahn, l’invocazione ‘vieni
Signore’ (Maran atha) non era diretta al ‘Signore presente ed esaltato, vivente
in cielo’ bensì al solo Signore della fine dei tempi.
Un secondo
stadio di sviluppo
- dal modello della diaspora ellenistica, nel quale
avrebbe giocato un ruolo notevole l’esperienza del ritardo della parusia,
insieme per vedere nella ‘risurrezione-ascensione’ di Gesù non più solo un
annuncio del suo ritorno parusiaco alla fine dei tempi, ma un ingresso, già
adesso, nella gloria celeste: la sua intronizzazione alla destra del Padre ed
il suo attuale esercizio di regalità.
- in questo modello cristologica verrebbero a profilarsi
tre momenti della cristologia (risurrezione, esaltazione, parusia) con
l’utilizzazione, oltre al titolo di Figlio dell’uomo, di quello di Figlio di
Dio, mentre i titoli di Signore e di Cristo non si riferirebbero più solo alla
parusia, ma alla condizione esaltata presente di Cristo.
Un terzo stadio
di sviluppo della cristologia del NT
- sarebbe quello riflettente la cristologia delle
comunità cristiane ‘pagano-ellenistiche’.
- la cristologia delle comunità pagano-ellenistiche si
sarebbe evoluta evidenziando nel titolo stesso di Kyrios la natura e la dignità
divina del Risorto e non solamente la usa ‘funzione regale’ che Gesù sarebbe
stato chiamato ad esercitare alla fine dei tempi.
- giungendo alla idea della ‘preesistenza’ soprattutto
nei concetti di Logos e di ‘Figlio di Dio’.
- il kerigma cristologico avrebbe sempre più evidenziato
i suoi aspetti universalistici e cosmici richiamando così l’importanza
dell’agire di Cristo preesistente già nella prima creazione.
- l’idea della glorificazione celeste di Gesù nel momento
di pasqua risale già alle origini del cristianesimo, nella stessa prima
comunità di Gerusalemme e non è affatto una forma successiva e derivata da una
fede parusiaca iniziale.
- si giunge persino da parte di alcuni ad invertire le
posizioni di Hahn, Fuller affermando una idea originaria di esaltazione senza
ancora un’attesa della parusia.
- Schnackenburg – la risposta di Gesù al sommo Sacerdote
faccia astrazione dall’evento parusiaco ed esprima solo la concezione della sua
prossima esaltazione pasquale, mentre la attesa della parusia sarebbe nata solo
nella chiesa delle origini è un errore.
- l’evento di pasqua realizza infatti in Colui che è
‘morto e risorto’ la sua associazione alla sovranità di Dio e costituisce,
insieme, il fondamento e l’anticipazione del futuro che deve venire con la
parusia.
b) i principali
modelli rappresentativi della cristologia del NT
- è possibile ipotizzare una distinzione in modelli a due
o tre stadi.
Risurrezione/parusia
- non è concepibile una cristologia della comunità
post-pasquale senza attesa della parusia.
- il culto cristiano, mentre alimentava (živit) la fede nel Cristo risorto, presente nella comunità
pasquale, ravvivava (oživit) continuamente la speranza del suo ritorno, come
documenta l’invocazione aramaica Maran atha.
- essa presuppone «la concezione di esaltazione nel senso
di celeste insediamento nella carica, di un attuale essere del Signore o di una
esaltazione quindi in una posizione sovrana».
- l’esaltazione appare particolarmente e importante nella
comunità primitiva in quanto esprime la presenza attiva post-pasquale del
Signore risorto che agisce e si comunica.
- l’esaltazione sarebbe quindi, la ‘pietra angolare della
cristologia neotestamentaria’ senza per questo lasciar cadere il passato terreno
di Gesù ed il suo futuro come Figlio dell’uomo.
Un secondo
modello a
due stadi è quello sorto ancore nell’ambiente giudeo-palestinese di cui ci sono
varie tracce sparse nel NT e che collega la risurrezione-esaltazione
di Cristo con la precedente vita terrestre culminante nella morte – si tratta del modello cristologico
‘secondo la carne-secondo lo spirito’.
- si tratta di formule di confessione che evidenziano
tonalità diverse, ma insistono sullo stesso asse ‘carne-spirito’ per designare
due stadi diversi, come segnati dalla cesura morte-risurrezione.
- in Rm 1,3 il Cristo proclamato ‘Figlio di Dio’ è
considerato in due stadi di esistenza:
- il primo (secondo la carne)
appare connesso alla generazione carnale (dalla stirpe di David) per cui Cristo
è Figlio di David.
-
la formula è certamente prepaolina.
- il secondo (secondo lo spirito
‘di santificazione’: espressione arcaica per indicare l’ambito divino della
santità) esprime il cambiamento della condizione iniziale attraverso il
risuscitamento.
- non si parla qui né di preesistenza, né di
incarnazione, ma si afferma che se Gesù Cristo è già Messia dalla nascita.
- in 1 Pt
3,18 si ritrovano due momenti dell’evento pasquale considerano però nella sua
unità: la morte dovuta ai peccati e la risurrezione dovuta alla forza dello
spirito per cui il Cristo ha potuto trasformare quello che era un giudizio di
condanna delle generazioni incredule del tempo di Noè in giudizio di salvezza.
- si può dire che l’esperienza di pasqua da un lato e
l’ambiente giudeo-cristiano dall’altro sono le due prospettive che predominano
in esso culminando nei titoli di Figlio di David, Signore, Figlio di Dio.
Un terzo modello a due stadi è quello articolato
intorno ad Is 52-53 con il tema della umiliazione-esaltazione
del Servo sofferente che riecheggia il tema sapienziale della passione
del Giusto.
- almeno nel suo inizio esso trovi della corrispondenza
nell’ambiente liturgico giudeo-palestinese, anche se per la contrapposizione
tra servità umana e maestà divina entrano concezioni ellenistico-pagane, il che
fa pensare che esso sia stato coltivato soprattutto nel culto delle comunità
cristiane ellenistico-giudaiche o ellenistico-pagane.
- nello sviluppo ulteriore della cristologia si vanno
delineando dei modelli a tre stadi che sottolineano una cristologia più
evoluta.
- il modello sapienziale in cui ai due stadi
(esaltazione/parusia; carne/spirito; morte/risurrezione;
umiliazione/esaltazione) si aggiunge lo stadio della ‘pre-esistenza’.
- questo trova la sua fondazione nella rilettura
cristologica della letteratura sapienziale ed apocalittica.
- l’Asia minore e particolarmente Efeso sembra sia stato
l’epicentro di questa cristologia tendente a celebrare non solo le origini
eterni di Cristo, ma anche la sua presenza operante nell’opera creatrice ed il
suo ruolo nella seconda creazione – appare affermato nella proclamazione innica
a partire dalla considerazione del Cristo come ‘Primogenito dei morti’, centro
della nuova creazione.
- nella sua risurrezione ed innalzamento egli ha riunito
di nuovo le due sfere prima separate del cielo e della terra, operando una
riconciliazione ed una pace cosmica.
- Cristo andava operando nella preesistenze come
‘Primogenito della prima creazione’.
- la prospettiva sapienziale del Cristo pre-esistente appare
anche nell’inno cristologico del IV Evangelo che si articola intorno all’idea
del Cristo Logos.
- esso conteneva già l’idea di preesistenza della Parola
presso Dio, rilevandone così l’identità divina, ma insieme affermando che tutte
le opre della creazione sono state compiute attraverso la ‘Parola’.
- quello che colpisce è che questo inno non parla di tre
stadi della esistenza di Cristo ma solo di due (pre-esistenza e incarnazione),
manca l’innalzamento.
- parlando infatti, della visione della ‘gloria’, esso
richiama la prospettiva pasquale, essendo nel IV Evangelo la ‘gloria’
l’attributo, per eccellenza dell’ora pasquale del Cristo.
- formula di benedizione, l’apertura della lettera agli
Efesini (Ef 1,3-23).
- la preesistenza
di Cristo è qui veduta soprattutto nel suo quadro ecclesiologico per cui Cristo
è al centro del mysterion (vv. 9-10) riguardante il proposito divino di
salvezza sia dei giudei che dei pagani.
- l’idea dominante di questa benedizione è l’unità del
disegno divino, costituita dalla ‘ricapitolazione’ di tutti gli esseri in
Cristo.
- il migliore commento di questa parola sta nei vv. 21-23
dello stesso brano in cui Cristo è collocato al sommo di tutto come ‘Capo della
Chiesa’.
- il rapporto tra Cristo ed il mondo è mediatizzato dalla
Chiesa: è nella Chiesa, infatti che la pienezza della vita derivante dal Cristo
profluisce.
- tuttavia la vocazione della chiesa è di estendersi a
tutto l’universo che Cristo vuole ricolmare della sua pienezza
- tre stadi della preesistenza, la risurrezione considerate
come un evento globale di ‘rivelazione’ della gloria del Padre, del suo
progetto segreto.
- tipico nella cristologia epifanica delle pastorali è
l’uso del titolo di Sotér ed il suo programma salvifico per cui accanto alla
funzione ‘giustificatrice’ della grazia emerge quella ‘educatrice’, per cui la
predicazione del perdono dei peccati, della vita morale come dono di grazia,
assume accenti razionali, individuali, pedagogici.
- alla tradizione del sacerdozio – efficacia salvifica
espiatorio-sacrificale del mistero della morte risurrezione di Cristo.
- emerge chiaramente il modello sacerdotale nello schema
sacrificale della liturgia del kippur.
- il titolo cristologico che domina è quello del Cristo
sommo Sacerdote che a partire dalla sua pre-esistenza compie l’atto supremo
della rivelazione già iniziato, nella parola nei tempi antichi ed offre, quale
Mediatore della nuova alleanza.
- il modello mutuando lo schema rabbinico dei due Adami
in riferimento ai due racconti della creazione dell’uomo, è utilizzato da Paolo
per far luce sull’Adamo vero, l’Uomo celeste, Cristo, partendo dalla
prospettiva della risurrezione in cui egli appare come uomo vivificante.
- esso si innesta sulla esperienza della redenzione
inaugurata dalla croce e risurrezione di Gesù, dalla sua obbedienza e dal suo
trionfo di risurrezione, per cui il credente è iniziato ad una nuova umanità,
che ritrova e supera il suo originario di ‘immagine di Dio’.
III. L’EVENTO DEL
CROCIFISSO-RISORTO
AL CENTRO DEI TITOLI CRISTOLOGICI
- rischiareremo in breve rassegna i principali titoli
della cristologia del NT.
a) il Servitore e
l’Agnello
- Gesù non si è mai attribuito questo titolo, almeno
esplicitamente.
- nella cristologia paolina esso emerge solo là ove Paolo
è testimone ed anche modesto di una tradizione kerigmatica ricevuto.
- diverso peso assume, invece, il titolo nella prima
lettera di Pietro, apparendo che egli dava abitualmente a Cristo questa
attribuzione con chiaro riferimento al quarto canto di Isaia.
- possiamo dire che l’allusione più formale al Servo
nella letteratura giovannea è l’immagine dell’Agnello che evolve una vera e
propria cristologia neotestamentaria sul Cristo Servo, sia nel IV ev. che,
soprattutto, nell’Apocalisse.
- nell’Apocalisse la visione dell’Agnello immolato mostra
però con altrettanta efficacia la condizione trionfante di questo Agnello,
descritto in piedi, in mezzo al trono, per indicare appunto la usa condizione
vivente di Risorto
b) il Figlio
dell’uomo
- mostra pure il punto di vista di una rilettura
ecclesiale post-pasquale.
- la cristologia del NT sembra testimoniare piuttosto il
passaggio dal titolo centrale per la cristologia di Gesù, il ‘Figlio
dell’uomo’, al titolo dogmatico per eccellenza della Chiesa apostolica del
Cristo ‘Figlio di Dio’ attraverso un certo influsso del primo sul secondo.
- nel contesto giovanneo essi risentono poco delle idee
apocalittiche giudeo-palestinesi; si inseriscono piuttosto nel quadro della
dottrina dogmatica del Figlio del Padre, colui che è disceso dal cielo e per
questo vi può risalire.
- la ampia utilizzazione dell’Apocalisse.
c) Cristo e Signore
- sono titoli che occupano un posto ben più notevole
nella cristologia della Chiesa apostolica post-pasquale.
- essi evidenziano la situazione della predicazione
pasquale – Gesù di Nazaret, ucciso dai giudei ed esaltato dal Padre, è
collocato nella condizione di Messia e Signore escatologico, detentore della
sovranità cosmica divina, mediante la risurrezione dai morti (At 2,32-36).
- mentre negli evangeli l’appellativo ‘Cristo’ è usato
molto moderatamente, nel resto del NT esso assume una importanza particolare
diventando il ‘titolo per eccellenza’ che tende ad inglobare in sé le altre
idee cristologiche del NT.
- nel cristianesimo primitivo il titolo di ‘Cristo’ subisce
però uno sviluppo semantico: esso perde il suo carattere terrestre-regale ed
indica soprattutto Colui che adempiendo nella sua morte il piano divino è stato
intronizzato mediante la risurrezione dai morti – una vera e propria
‘professione di fede’ (Gesù è il Cristo).
- essa proclamava il compimento escatologico delle
promesse messianiche in Gesù di Nazaret, nella sua risurrezione-esaltazione.
- in riferimento al passato di Israele, come suo
compimento e superamento: Gesù è il Cristo, in quanto fine del tempo.
- ancora più fondamentale e diffuso nel NT è il titolo di
‘Signore’ che meglio di ogni altro proclama l’elevazione di Gesù alla destra di
Dio e la sua presenza vivente nella Chiesa.
- non si può separare ‘risurrezione’ ed ‘intronizzazione’
quale ‘Signore’.
- l’attesa non era la causa, ma conseguenza della fede
nella risurrezione di Cristo.
- la
Chiesa delle origini ha invocato Gesù risorto come Signore
presente ed ha alimentato l’aspirazione alla sua venuta finale (1Cor 16,22).
- W. Kramer offre i diversi aspetti con cui il titolo
compare nella cristologia del NT.
a) – il
significato come ‘grido di acclamazione’ legato al culto.
- l’invocazione ‘il Signore è
Gesù sottolinea meno l’atto con cui egli è divenuto Signore per il
risuscitamento e di più lo stato attuale della sua condizione di gloria.
b) – la preposizione dia
/mediante/ (in Paolo per ben 26) – la ‘mediazione soteriologica’ del Cristo.
c) – quello dato che si riscontra
nelle formule che parlano in termini di ‘un solo Signore’ e che si connettono a
quelle antiche dell’Unico Dio.
- questo dato teologico completa
quello della mediazione: Cristo non è un qualsiasi mediatore, né solo una via
di passaggio, oltre il quale, si accede al Padre; Cristo è l’unico Mediatore,
nel quale si accede al Padre.
- annunciando Gesù come Cristo, la Chiesa apostolica guarda
soprattutto al passato che vede come sfociare e compiersi nell’evento presente
della sua venuta, morte e risurrezione.
- il titolo di ‘Cristo’ lo designa nella sua missione
salvifica.
- Gesù come ‘Signore’ la Chiesa apostolica guarda al
presente ed al futuro.
- come ‘Signore’ è intronizzato già attualmente ed
esercita in atto la sua signoria nel mondo e nella Chiesa.
d) Figlio di Dio
- rispetto al titolo di Signoria, quello di ‘Figlio di Dio’
è meno diffuso nel NT, ma non meno importante.
- importante è la genesi di questo titolo ecclesiale –
esso appare legato agli ambienti palestinesi ed alle tradizioni religiose
giudaiche.
- esso non mette in evidenza la ‘gloria’, e ‘potenza’ del
Figlio, quanto la sua ‘obbedienza’ ed umiltà più conforme ad Is 53.
- l’espressione ‘Figlio di Dio’ può avere un duplice
significato:
- da un lato il titolo indicava
un senso di filialità come partecipazione alla dignità ed al potere regale di
Dio.
- dall’altro esso, in senso
assoluto, evoca l’idea di Figlio come Servo.
- l’uso del titolo ‘Figlio’ nel NT si carica ancora dl
senso nuovo assunto nella esperienza filiale di Gesù.
- Figlio di Dio nel linguaggio cristiano vuol dire più
propriamente ‘Figlio (divino) del Dio-Padre’.
- il primo orizzonte in cui compare l’uso del titolo di
‘Figlio di Dio’ è proprio quello parusiaco e della risurrezione.
- un secondo orizzonte è quello sacrificale in cui essere
Figlio mette in evidenza il suo ‘essere inviato’ in vista della croce in cui
risplende la sua obbedienza per la sua venuta nella carne, mediante il suo
Spirito suscita l’affiliazione dei credenti.
- il senso del titolo ‘Figlio di Dio’ assume una
rilevanza trinitaria: che comprende la missione dal Padre, l’umiliazione della
croce, l’intronizzazione della risurrezione, l’opera dello Spirito nella
filiazione dei credenti.
e) Sommo Sacerdote
- è nella lettera agli Ebrei che questo titolo è
dominante nel contesto del modello cristologico sacerdotale.
- la novità del titolo – nel caso di cristo la ‘persona’
assorbe in sé la totalità del ruolo: Egli è ‘Sacerdote in Persona’ (persona del
sacerdote – i Leviti), in senso assoluto, definitivo ed unico.
- passando nel santuario celeste, una volta per sempre,
con il proprio sangue, fondando una redenzione eterna.
IV. PROSPETTIVE DI SINTESI DELLA
CRISTOLOGIA DEL NT
- dalla sovrabbondante esperienza di salvezza per cui i
credenti, nella Chiesa, vivono già nel presente escatologico per la potenza
redentrice del Risorto.
- i credenti verificano la singolarità, l’ampiezza, la
profondità dell’opera salvifica di Gesù di Nazaret, esaltato da Dio, donatore
dello Spirito.
- essi esperiscono il ‘già adesso’ dell’eschaton e la
tensione dinamica del ‘non-ancora’ della parusia.
- la cristologia del NT va quindi considerata partendo
dalla comprensione del ‘presente’ di salvezza, come ‘presente escatologico’.
- ben presto l’importanza della storia si andava
affermando su due fronti nella cristologia del NT:
a) – si imponeva l’esigenza di superare ogni rischio di
ridurre il Signore celeste, glorificato nello Pneuma, ad un semplice
personaggio mitico, ad una figura disincarnata.
- la stessa vita terrena appariva
già una ‘epifania’, una ‘parusia’ anticipata.
- in questo richiamo al passato
terrestre specialmente, la storia della passione e lo scandalo della croce
venivano ad essere illuminati sotto molti punti di vista, come i diversi
modelli esaminati ci hanno proposto.
- il sangue di Cristo non è
concepito come prezzo di riscatto (cenu výkupného), quanto mezzo (střed) di
comunione, ‘segno di amore’.
- di qui, l’idea della croce come
sacrificio supera il materialismo dei riti antichi e pone in evidenza
soprattutto gli atti interiori di ‘obbedienza’ ed ‘oblazione’.
- preghiera sacerdotale del IV
evangelo, c. 17 pone l’accento sui due termini culminanti che sono la
‘rivelazione del nome del Padre’ e l’ingresso di Gesù nella dimora celeste’ –
l’ora della croce costituisce qui la somma teofania trinitaria del Cristo che
rivela se stesso rivelando il nome del Padre verso cui ‘va’ la sua vita.
b) – la fede pasquale offriva non solo la certezza e la
gioia di vivere nei tempi escatologici della salvezza, ma alimentava anche la
speranza dell’ultimo avvento di Cristo Signore – esso è concepito come il
compimento di quell’unico processo escatologico unitario, iniziato con la
venuta della incarnazione del Figlio di Dio, prolungato nella sua espansione
nel tempo della Chiesa per l’opera della trasmissione della Parola e per la
potenza dello Spirito.
- l’accento proprio della
realizzazione escatologica è dovuto nel quarto evangelo soprattutto al notevole
grado di ‘concentrazione cristologica’.
- anche nella Apocalisse domina
l’orizzonte realizzato della escatologia.
- la soteriologia pasquale e la prospettiva parusiaca non
lasciavano nell’ombra l’identità della persona di Cristo: la contemplazione
della gloria del Crocifisso esaltato come Signore è stata piuttosto il luogo in
cui la Chiesa
apostolica ha sempre più profondamente penetrato il mistero del suo essere.
- l’affermazione protologica della ‘pre-esistenza’ non è
stata però il frutto di un processo di astrazione e deduzione.
- né la semplice conseguenza di un connubio con un
particolare ambiente culturale – in tal caso il linguaggio della pre-esistenza
denuncerebbe un regresso dalla soteriologia alla ontologia.
- in realtà l’affermazione dell’essere pre-esistente di
Cristo è compiuta non spingendo lo sguardo indietro, ma avanti: è la posizione
a cui Cristo perviene nella sua risurrezione che rivela pienamente ‘chi egli è’
ed ‘era’ personalmente: il Figlio di Dio Unigenito presso il Padre.
- la gloria del Crocifisso-Riosrto non era che un
irraggiamento della gloria del Pre-esistente.
- il NT nella sua cristologia più evoluta ci presenta
come due stadi di esistenza del Cristo: quello ‘pre-esistente’ (protologico) –
come punto di partenza del progetto imperscrutabile divino, riguardante la
libera e gratuita intenzione rivelatrice.
- la vita eterna del Cristo Logos pre-esistente presso il
Padre è quindi la ragione della possibilità stessa di questa vista di
autocomunicarsi nella temporalità della prima e della seconda creazione.
- nel secondo stadio di esistenza, il piano di Dio
concretamente si attua nel Cristo.
- tale attuazione incomincia a realizzarsi all’alba dei
tempi con la prima creazione del mondo e dell’uomo, e nel suscitare la storia
di Israele, per raggiungere nella pienezza dei tempi la sua venuta personale
nella carne, nell’evento salvifico pasquale e nella parusia finale.
- la cristologia del NT vede l’essere preesistente di
Cristo in un quadro trinitario
- la pre-esistenza non può astrarre dal rapporto allo
Spirito il quale appare anche nella teologia dell’AT e del NT come intimamente
legato nella prima e nella seconda creazione all’opera della Parola.
- a partire dalla idea della pre-esistenza la cristologia
del NT ha potuto operare una rilettura dell’evento storico cristologico nella
sua globalità come il ‘farsi carne’ della Parola eterna.
- non c’è incarnazione senza evento pasquale, momento
culminante dello stesso processo integrale di incarnazione.
- l’unità tra l’incarnazione intesa come ‘passaggio del
Verbo nella esistenza umana’ ed il ‘passaggio di Cristo dal mondo al Padre’ si
concentra proprio nell’ora pasquale che per il quarto evangelo non è solo un
fatto cronologicamente ultimo della vita di Gesù, ma un centro di prospettiva
dinamico.
- e per questo l’incarnazione è una epifania della
gloria.
- Giovanni non vede l’incarnazione come una sola
struttura statica di unione del divino con l’umano fuori del dinamismo
dell’evento in cui essa si realizza.
DELLA CHIESA
DELL’ERA PATRISTICA
- la peculiarità (zvláštnost) del pensiero dei Padri, ‘pastori e teologi’ è costituita dalla costante
attenzione alla promozione della fede nelle comunità cristiane, alla missione
evangelizzatrice e catechetica, al dialogo con le culture del tempo per
spianare la via all’annuncio del Cristo.
- l’orizzonte dominante del loro pensiero è una
soteriologia incentrata cristologicamente nell’evento di pasqua in cui
‘l’eschaton’ già si attualizza pur lasciando aperto il cammino della storia
verso la parusia.
- la loro costante attenzione è rivolta al vissuto della
esperienza cristiana nella fede e nella ‘mistagogia sacramentale’.
- il pensiero cristologico dei Padri – la centralità
della croce e della risurrezione di Cristo per cui la loro cristologia è di
carattere soteriologico.
- la cristologia patristica si sarebbe poi
progressivamente spostata verso l’ontologia, passando dal linguaggio degli eventi
(passione, morte, risurrezione, parusia) a quello delle essenze (sostanze,
nature, persona), dal modello originario giudaico centrato sullo schema biblico
dei due tempi (abbassamento/esaltazione) al modello greco della incarnazione.
- tali concezioni circa la stessa idea di incarnazione
nei Padri greci rivela che in essi non esiste alcun decentramento soteriologico
in quanto nella cristologia patristica, l’incarnazione non è mai considerata
astrattamente dal mistero della pasqua.
- essa è veduta prevalentemente come un ‘evento’ in cui
la ‘discesa’ del Verbo, tra noi, raggiunge il suo compimento nella umiliazione
della croce e porta a termine il piano di economia di elevazione dell’uomo
nella gloria della risurrezione.
- per i Padri greci l’incarnazione non è redentrice solo
come processo fisico di unione delle nature, perché tale processo è veduto
essenzialmente legato agli avvenimenti storici in cui esso si è realizzato.
- il nostro studio sulla cristologia patristica si
muoverà perciò dalla considerazione del suo orizzonte dominante: quello della
soteriologia pasquale ed escatologica che permea tutto l’universo mentale della
riflessione dei Padri (cristologia soteriologica), per considerare poi il
movimento di questa cristologia che tende a stabilire il suo rapporto personale
con il padre e con lo Spirito (cristologia trinitaria), passando poi alla
considerazione fondamentale e globale della loro riflessione sull’evento
cristologico della incarnazione.
I. LA CRISTOLOGIA DEI
PADRI: TRA SOTERIOLOGIA PASQUALE
ED ESCATOLOGIA
- il problema dei ‘modelli interpretativi’ con cui i
Padri hanno espresso il significato ed il valore dell’avvenimento salvifico
della croce e della risurrezione.
- dall’inizio, la passione e la morte di Cristo, vengono
considerate come realtà strettamente unite con la risurrezione.
- i Padri non conoscono una theologia crucis opposta o
indipendente da una theologia gloriae.
- la croce è, al contrario, sempre veduta come ‘segno
luminoso’ di vittoria, la ‘croce gloriosa’.
- in Oriente la croce è veduta essenzialmente congiunta
con la creazione, con l’incarnazione, la risurrezione.
- la nota dominante di questa cristologia
soteriologico-pasquale non sta primariamente nella remissione del peccato,
quanto nella rinascita della nuova creatura in Cristo.
- tra i modelli interpretativi di questa visione unitaria
dell’evento cristologico pasquale hanno predominato per un certo tempo due
grandi teorie:
- quella detta psicologico-morale
o soggettiva – sviluppava l’intuizione parentetica di 1 Pt 2,21 secondo cui Cristo
patì per noi «lasciandoci un esempio» perché noi potessimo seguire le sue orme.
- quella ‘teoria oggettiva’ o
‘teoria latina’ – tenderebbe a spiegare la salvezza dalla croce mediante un
cambiamento oggettivo dell’uomo (Agostino), mediante la soddisfazione vicaria
(Anselmo, Tommaso).
- il pensiero dei Padri si sarebbe, secondo Aulen,
evoluto secondo quella tipizzazione soteriologica, incentrata nella
cristologia, passando dal modello soteriologico dominante del ‘Christus Victor’
a quello del ‘Christus Victima’ per giungere pio ancora più tardivamente a
quello del ‘Christus exemplar’.
a) i modelli
comprensivi della soteriologia pasquale
- alcune idee fondamentali.
Il Cristo
illuminatore ed educatore dell’uomo
- una delle idee più antiche della soteriologia
patristica, che affonda le radici anzitutto nelle concezioni soteriologiche del
NT, è quella della salvezza per via di illuminazione.
- si tratta di una visione della soteriologia che mette
l’accento sul dono della ‘conoscenza nuova’, di tipo sapienziale.
- è nella contemplazione progressiva della Luce-Verità
che l’uomo dolorosamente si purifica e si libera dalle tenebre dell’errore ed
accede alla immortalità.
- nello sviluppo di queste idee originariamente bibliche
il pensiero dei Padri utilizza però una importante concezione culturale greca:
il modello ‘paideutico’.
- l’uomo porta in sé, quale microcosmo, l’immagine
normativa ed il fine della paideia che deve essere così fatta sprigionare dalla
sua intimità.
- l’interpretazione della salvezza intesa come paideia
Christi.
- il punto di vista patristico sottolinea l’azione divina
di grazia e l’opera redentrice di Cristo che eleva l’uomo liberandolo non dal
cosmo materiale, ma dalle potenze malefiche.
Christus Victor
- la salvezza nella croce e nella risurrezione come
conquista.
- il modello della salvezza come intervento liberatore di
Dio che riconcilia a sé il mondo liberando gli uomini dalla schiavitù delle
potenze avverse mediante una lotta ed una vittoria operata dall’avvento del
Cristo.
- questo modello evidenzia in modo particolare l’evento
pasquale.
- questo modello sarebbe stato dominante all’inizio
dell’era patristica e poi sarebbero cesso per una certa diffidenza e timore di
infiltrazione dualistiche – il dramma di salvezza in un sorta di campo di
battaglia tra forze avverse.
- l’opera di redenzione compiuta da Gesù non è stata mai
concepita dai Padri come il pagamento di un prezzo a Satana, bensì come il suo
spodestamento e debollamento. L’evento della croce è il segno più importante
della potenza e sovranità di Cristo.
- Melitone di Sardi – omelia sulla pasqua – Cristo
vincendo con la sua morte le potenze dell’Ade e di Satana, ed elevando l’uomo
con la sua risurrezione dalle profondità delle tenebre alle altezze del cielo,
realizza il trionfo di Dio.
- questa lotta vittoriosa di Cristo su Satana e l’impero
della morte è veduta non solo in prospettiva terrestre, ma anche
ultraterrestre: la sua vittoria ha un ripercussione nel mondo dei morti,
attraverso il motivo del descensus.
- il combattimento di Cristo non è veduto tanto come una
lotta diretta contro le potenze esteriori di schiavitù dell’uomo, quanto come
un’azione di liberazione diretta verso l’uomo in se stesso, sollevandolo dalla
schiavitù interiore attraverso la ‘persuasione’ che proviene dall’esempio di
obbedienza della sua morte.
Il Cristo
‘agnello immolato’
- la salvezza nella pasqua come espiazione (smíření) sacrificale.
- ciò che prevale negli scritti dei Padri e nella loro
soteriologia è meno il ruolo espiatorio (smírčí) esercitato da Cristo nella sua
morte, rispetto alla importanza di ciò che egli ci ha ‘rivelato’ e ‘donato’:
una scienza nuova, l’immortalità.
- tuttavia l’aspetto sacrificale della croce non è del
tutto assente.
- soprattutto con Giustino comincia ad affermarsi il
modello sacrificale della croce per la remissione dei peccati.
- Origene parla apertamente del valore sacrificale
espiatorio della redenzione di Cristo, quale Agnello che toglie il peccato del
mondo, ma soprattutto nelle opere esegetiche a commento della Scrittura.
- è stato soprattutto ad opera di Tertulliano che il
linguaggio di soddisfazione comincia a prendere piede in occidente, applicato
anzitutto alla penitenza sacramentale.
- con Cipriano inizia in modo più aperto e sistematico il
discorso sacrificale sulla passione e morte di Cristo in connessione con l’idea
del sacrificio eucaristico.
- il contributo principale viene però tra la fine del
quarto secolo e gli inizi del quinto presentato da Agostino, nel quadro della
dottrina sulla mediazione di Cristo, nel quale l’umanità è ‘rappresentata’
perché inclusa.
Filantropia
divina
- in particolare merita attenzione su questo aspetto il
pensiero di Massimo Confessore che riassume il motivo fondamentale della
carità, mostrando come il triduo pasquale sia la cifra escatologica di quella
divinizzazione che si consuma nella introduzione dell’uomo al mistero della
carità trinitaria.
- il motivo dell’amore è per i Padri, il principio
animatore dell’intera opera redentrice compiuta da Cristo nell’evento pasquale.
- in questa opera si realizza non solo il ‘ritorno
dell’uomo’ alla sua condizione originaria di ‘immagine di Dio’, ma quella sua
penetrazione nella vita della divina carità, per cui egli viene ‘divinizzato’
ed accede alla ‘immortalità’.
b) la parusia del
Cristo nel pensiero patristico
- la prospettiva escatologica nei Padri:
- l’idea della
anticipazione nella storia presente dell’evento escatologico futuro
- particolarmente la lettera di
Barnaba sottolinea la presenza del Cristo glorioso conferiscendo i doni dello
Spirito, consentendo già la partecipazione al mondo eterno che avrà inizio in
un futuro prossimo.
- Ignazio vede la realtà presente
ripiena dell’evento escatologico realizzato con la venuta storica di Gesù il
cui evangelo è «la consumazione della immortalità».
- Ignazio sembra che sia stato il
primo a collegare la vita storica di Gesù con l’idea della parusia.
- prima lettera di Clemente evidenzia l’anticipazione
della escatologia in particolare nella
sorte dell’uomo dopo la morte, anteriormente ad un giudizio collettivo
finale.
- Clemente, parlando del martirio
di Pietro e Paolo afferma che nel momento del loro transito sono andati
direttamente nel «luogo santo», nella compagnia dei santi martiri, «resi
perfetti nella carità».
- Alcuni Padri (Giustino, Ireneo,
Tertulliano) vedono una tale retribuzione solo ‘iniziale’, in attesa della
risurrezione finale, lasciando come fatto eccezionale la situazione dei
martiri.
- nell’area del dialogo tra giudei e cristiani, Giustino,
per primo, evidenzia, una teologia
delle due parusie.
- una gloriosa ed una umile.
- Giustino afferma che essa
avverrà a Gerusalemme, che sarà ricostruita ed ove Cristo regnerà per ‘mille
anni’
- per Ireneo nella vita di cristo
si adempie la ‘parusia storica’ consistente nel fatto che in essa Dio si fa
‘visibile’ e ‘palpabile’ realizzando l’unità perduta dell’universo.
- la parusia non è tanto un
dispiegamento di gloria, quanto una teofania immediata di Dio.
- egli però vede anche nella
seconda parusia il compimento definitivo dell’intera creazione e della storia.
- nella escatologia patristica
più antica risuonano due motivazioni in proposito: il rinvio è in vista della
nuova creazione, esso è legato al tempo di penitenza offerto alla umanità.
- la
risurrezione corporea degli uomini ed il dono ed essi della ‘incorruttibilità’
ed ‘immortalità’
- Giustino affermava una
risurrezione nel millennio in rapporto ad Ap 20,3.
- Ireneo è stato il principale
portatore di questo orientamento.
- lui ha fatto una escatologia
anti-platonica.
- Ireneo rileva l’importanza
della risurrezione come momento escatologico della salvezza di tutto l’uomo a
cui segue il millennio del soggiorno dei giusti sulla terra ed il giudizio
finale come ultimo atto dell’opera redentrice di Cristo.
- se la carne dell’uomo non
avesse la capacità di essere redenta, il Verbo di Dio non si sarebbe mai fatto
carne
- la tendenza
spiritualizzatrice di Origine, come tendenza critica alla escatologia
asiatica la quale faceva del corpo umano un elemento capitale della antropologia
e della escatologia.
- la tendenza a spiritualizzare
l’interpretazione del linguaggio escatologico dalle follie millenarie
letteralistiche.
- la contemplazione parusiaca
inizierà dalla morte.
- tutte le cose saranno
nuovamente sottomesse a Dio, che sarà di nuovo in tutti, come al principio.
- la risurrezione escatologica di
tutti gli uomini, anche in maniera piuttosto spiritualizzata.
- Agostino riprende la
prospettiva storico-universale della escatologia.
- per lui, la realtà visibile
della Civitas terrena è la figura dell’evento invisibile del Regno che viene
nella Civitas Dei.
- l’escatologia di Agostino è
dominata più che dal settoriale e categoriale, dalla concezione universale
dell’eschaton.
- egli vede il giudizio di Dio
sulla storia come una costante che l’attraversa interamente e che si esplica in
modo permanente – esso realizza già la ‘parusia’ del Cristo.
- questa parusia immanente alla
storia, però, non resterà perennemente invisibile, ma avrà una sua
manifestazione finale nella quale si vedrà risplendere il Cristo «uomo
perfetto, capo e corpo».
- la ‘parusia’ sarà quindi
insieme un evento cristologico ed ecclesiologico che porterà a compimento il
processo della storia della salvezza introducendo l’uomo nello stadio finale
della ‘vita eterna’.
II. LA DIMENSIONE TRINITARIA
DELLA CRISTOLOGIA DEI PADRI
IL CRISTO ‘PRE-ESISTENTE’
- una adeguata conoscenza del mistero della persona di
Gesù non può essere che strutturalmente trinitaria.
- risalire, a partire dal luogo pasquale, alla realtà del
‘Cristo preesistente’.
- si tratta infatti non di un tornare indietro, ma di un
salire in altro, verso il mistero eterno della trascendenza di Dio trino e
questa risalita consente di raggiungere proprio quel progetto originario
(mysterion) da cui è scaturita l’ecconomia salvifica temporale.
- la protologia cristologica è correlativa alla
escatologia e viceversa.
a) il punto di
vista economico della identità trinitaria di Cristo
nel quadro degli
ambienti culturali giudeo e greco
- in un ambiente dominato da un rigido monoteismo che nel
‘giudeo-cristianesimo’ spingeva ad identificare il Dio unico con il Padre, il
collocamente in rapporto a lui di Gesù di Nazaret, crocifisso ed esaltato,
diveniva problematico.
- la tendenza a mettere il Cristo nel numero dei profeti
e degli uomini particolarmente favoriti da Dio – Gesù di Nazaret è il ‘figlio’
adottato dal Padre, lo speciale ‘inviato’ del Padre.
- Cristo nel senso de ‘eletto’ da Dio, ‘vero profeta’,
creato ‘come uno degli arcangeli’ (cristologia angelomorfica).
- teologia giudaica è l’adozionismo che vedeva in Gesù un
semplice uomo che aveva ricevuto da Dio una particolare vocazione indicata
dallo Pneuma che Dio fece scendere su di lui al momento del battesimo.
- nelle cerchie ellenistiche appariva impossibile pensare
un ingresso di Dio nella storia e nel dramma della sofferenza dell’uomo. Di qui
le posizioni ‘docete’ e ‘gnostiche’, la distanza tra Dio ed il mondo, per
salvaguardare la trascendenza di Dio.
- il pensiero dei Padri apostolici afferma generalmente
la ‘pre-esitenza di Cristo’ ed il suo ruolo nella creazione e redenzione sulla
linea dei luoghi paolini e giovannei.
- una spinta verso un progresso del pensiero patristico
trinitario veniva dagli apologisti del II secolo (Giustino, Taziano, Atenagora,
Teofilio d’Antiochia) con la loro Logos-cristologia che stabiliva un ponte tra
il prologo di Giovanni, i dati dell’AT sulla Parola di Dio e la Sapienza e le
speculazioni ellenistiche che nel Logos avevano elaborato un concetto
universalistico.
- per essi il Cristo pre-esistente è il pensiero o la
mente del Padre in quanto si manifesta e rivela nella creazione.
- essi distinguevano tra ‘Logos immanente’ e ‘Logos
pronunziato o espresso’.
- la preesistenza del Cristo-Verbo presso il Padre non
era però chiaramente intesa come un ‘esistere personale.
- il Logos è veduto così come agente del Padre nella
creazione e nella rivelazione.
- Giustino e la sua teoria dei ‘semi del Verbo’.
b) il contributo
della riflessione di Tertulliano ed Origene nel terzo secolo
- del terzo secolo si rifugiavano ‘nel monarchianismo’
negando la tripersonalità di Dio e facendo del Logos una sola modalità diversa
del Padre (modalismo), si andava affermando una vera dimensione trinitaria
dell’essere personale di Cristo pre-esistente con il pensiero di Ippolito e
Tertulliano in Occidente ed Origene in Oriente.
- Ippolito sosteneva che accanto al Padre c’era ‘un
altro’ (heteros), una seconda persona (prosopon).
- Tertulliano è il primo ad affermare che la Divinità è una “Trinità”
e che i tre possono essere contati.
- ma dovevano inaugurare un linguaggio più preciso
nell’affermare che l’unità dei Tre è nella ‘sostanza’, cioè una sola realtà
(unum) che non è unità numerica (unus), né una sola persona.
- si andava affermando la pluralità personale.
- Origene – tentativo di interpretazione della fede
crsitologico-trinitaria sul piano ontologico attraverso l’ausilio dell’idea di
‘generazione eterna’.
- Origene rigettava il subordinazionismo cosmologico che
vedeva l’origine del Figlio legata alla temporalità ed al processo gnostico di
emanazione.
c) dal
subordinazionismo ariano alle affermazioni dogmatiche di Nicea
- quarto secolo – la ‘crisi esemplare’ della fede nel
Cristo pre-esistente – lo ha portato Ario.
- in lui si adempie il compimento processo de ellenizzazione
del ‘kerigma cristiano’.
- pensare in termini autentici il monoteismo rivelato ed
il tripersonalismo di Dio.
- l’assoluto sostanza in cui si incarnava il monoteismo
medio-platonico tendeva ad una affermazione dell’Uno che lasciava problematica
l’esistenza dei molti.
- l’annuncio dell’unico Dio rischiava continuamente di
essere legato all’accettazione dell’unicum romanum imperium.
- Ario era portato inevitabilmente a deformare il kerigma
originario, identificando il Padre, non-generato e non-fatto, con il Dio
assoluto ed unico, incompatibile con il mondo.
- al Logos non restava più alcuno spazio proprio nella
stessa sfera di Dio; esso era ricondotto ad una posizione intermedia tra Dio ed
il mondo, ma sempre come inferiore al Padre.
- egli era considerato come ‘mediatore cosmologico’.
- la posizione di Ario, partiva invece dalla immagine
dell’Assoluto-Dio elaborata dalla filosofia neo-platonica.
d) l’affermazione
dogmatica di Nicea
- il Concilio di Nicea aveva unicamente l’intento di
affermare l’identità della fede cristologico-trinitaria nel contesto dei
problemi e del linguaggio della sua epoca.
- il suo testo si presenta come un symbolum fidei che
afferma che l’unico Dio è Padre, ma è anche il solo Signore, Gesù Cristo,
Figlio di Dio che si trova, così, sullo stesso piano del Padre.
- il Concilio di Nicea dissolve l’ambiguità (nejasný) del vocabolario che identificava il divino con il
‘non-generato’, considerato questo, come sinonimo di ‘non-creato’.
- Nicea, distinguendo il termine ‘generato’ da quello
‘creato’, apre la via ad una affermazione divina del Cristo pre-esistente: il
concetto ‘monoteistico’ di impronta (otisk) greca che insisteva (naléhavý)
sulla unità numerico-quantitativa viene infranto (zlomit).
- la fede cristiana professa delle ‘alterità’ e
distinzioni all’interno dell’Unico Dio, che è, insieme, Padre e Figlio.
- nel simbolo niceno, l’affermazione esplicita
dell’essere del Cristo pre-esistente «dalla sostanza del Padre» e del suo
essere «consostanziale a lui».
- è la prima volta che si introduce un termine
specificamente greco (sostanza; consostanziale) nel simbolo apostolico.
- rimane aperta la questione se nella mente del Concilio,
l’identità di sostanza vada intesa come identità numerica.
- il salvaguardare l’identità divina del Cristo
pre-esistente, garantisce l’evento di salvezza per cui l’uomo può accedere al
Padre come figlio, nel Figlio.
e) dalla
riflessione teologica dei Padri Cappadoci al Concilio Costantinopolitano
- le affermazioni di Nicea lasciavano ancora la via aperta
ad ulteriori precisazioni: permaneva una ambiguità di linguaggio circa il
termine ‘sostanza’ (ousia) che veniva usato ancora come sinonimo di sussistenza o ‘persona’ (upostasij).
- posizione modalista di Sabellio e Montano – parlare di
ipostasi distinte pensavano ad una caduta nel politeismo.
- la fede nello SS era ribadita a Nicea ripetendo
letteralmente le parole del simbolo apostolico: «credo… nello SS» senza altre
aggiunte.
- il profondamento viene con i Padri Cappadoci e i
Concillii Costantinopolitano I (381) e II (553).
- già dal Sinodo di Alessandria (362) si andava
affermando con la formula «tre ipostasi, una sostanza».
- Padri Cappadoci – l’accento posto sulle ‘persone
divine’ – «l’intera ed invariata sostanza comune, non essendo composta, e identica
all’intero ed identico essere di ciascuna persona (…) l’individualità è solo la
maniera in cui la sostanza identica si presenta oggettivamente in ciascuna
delle persone».
- il contributo cappadoce fu soprattutto nella
chiarificazione del concetto di persona – la ‘persona’ un ‘modo di essere’.
- la distinzione tra sostanza e persona.
- ogni persona divina è unica ed esse non possono essere
addizionate.
- il contributo dei Cappadoci fu decisivo per
l’avanzamento della comprensione di fede sulla unità sostanziale trinitaria di
Dio che trovò la sua codificazione nel Concilio Costantinopolitano I (381), il
quale confessa un’unica divinità e sostanza, per cui il Padre, il Figlio e lo
Spirito godono dello stesso onore, dignità e potere e sono in tre perfette
ipostasi o persone.
- lo Spirito è anch’egli Signore e deve essere adorato
insieme (syn) con il Padre ed il Figlio.
- questo Concilio non dice nulla sul rapporto tra Figlio
e Spirito.
- la frase ‘dal Padre’ (ek tou Patros) non esclude un
ruolo di mediazione del Figlio nella processione dello Spirito
f) dalla
riflessione cristologico-trinitaria agostiniana al Concilio Costantinopolitano
- le persone si distinguono ad invicem non secundum
subsistentiam, sed secundum relationem (De Trinit.)
- «in divinis omnia sunt idem, ubi non obviat relationis
oppositio».
- il punto di vista agostiniano permette di prendere
coscienza, più che nei Padri orientali, della ‘coesione intima’ del rapporto
trinitario delle persone, della ‘correlazione’ delle ipostasi in ‘comunione’
descritta spesso nei Padri orientali come ‘giustapposizione’.
- in Agostino l’unità tra il Figlio ed il Padre non è
solo questione di ‘sostanza’ (consostanzialità), ma è anche ‘correlazione di
persone’ è unità di ‘comunione’ in cui il rapporto inter-personale non si
annulla.
- esprime, per la prima volta, una idea – la Santa Trinità come
Amore.
- questo suo linguaggio non fa che tradurre, quanto Paolo
confessa in 1 Cor 8,6; Rm 11,36; Ef 4,5-6. La Trinità è confessata a
partire dalla unità del Padre da cui procedono un solo Figlio ed un solo
Spirito, nella indivisione della stessa unica deità.
g) ultimi sviluppi
del pensiero patristico sul rapporto trinitario tra il Cristo e lo Spirito
- nell’ambito della patrologia greca un contribuito
all’approfondimento del rapporto tra Cristo e lo Spirito era stato dato
anzitutto da Atanasio.
- come l’unità del Figlio con il Padre implica, nella
linea di Nicea, la sua origine a partire da lui, così la stessa unità dello
Spirito in rapporto al Figlio indica una origine in rapporto al Figlio.
- i Padri Cappadoci affermavano che lo Spirito è insieme
di Dio (Padre) ed è di Cristo, per cui procede dal Padre e riceve dal Figlio.
- lo Spirito santo viene «dal Padre per mezzo (dia) del
Figlio».
- Cristo glorificato dona lo Spirito, risale al contesto
trinitario immanente in cui lo Spirito procede ‘dal Padre’, ‘per il Figlio’.
- l’Oriente cristiano è costantemente preoccupato di
salvaguardare la supremazia del Padre, origine unica della divinità dello
Spirito che è garantita dal suo ‘procedere dal Padre’.
- partendo da Gv 16,13 Agostino asserisce che solo nello
Spirito il Padre ed il Figlio non si distinguono, in quanto egli è lo Spirito
dei due; Spirito del Padre (Mt 10,20; Rm 8,11) e Spirito del Figlio (Gal 4,6;
Rm 8,9).
- lo Spirito dunque è comune al Padre ed al Figlio, è
loro santità comune, loro amore, loro unità.
- egli deve perciò procedere da entrambi, ma
principaliter dal Padre.
- in questa inter-comunione di amore si rivela lo Spirito
che scaturisce da questo ritorno del Figlio al Padre, nell’amore.
- la speculazione greca si pone ad un primo stadio di
elaborazione a cui segue la riflessione latina.
- entrambe le prospettive, prima della crisi ariana,
vedevano in Dio soprattutto il Padre.
- ma dopo l’eresia ariana si tende a distinguere il punto
di vista della sostanza da quello delle persone.
- orientale mette maggiormente in evidenza la supremazia
del Padre, quale origine unica della Trinità e vede scaturire da questa fonte
il Figlio e per lui, lo Spirito, ‘nel quale’ la vita divina si apre al mondo ed
alla storia.
- latino sottolinea maggiormente, con l’unità, la
immanenza della vita trinitaria attraverso un modello rappresentativo
simmetrico, per cui nella vita trinitaria il Figlio, nato eternamente dal
Padre, si rivolge a lui in una unità di amore come un unico principio da cui
scaturisce lo Spirito, nel quale, per così dire, si chiude il circolo della
vita trinitaria.
III. IL SIGNIFICATO DELL’EVENTO
CRISTOLOGICO
DELLA INCARNAZIONE
Il contributo della riflessione cristologica
dei Padre
e le affermazioni dogmatiche
della Chiesa antica
- l’evento pasquale come un momento culminante di un
processo globale: l’incarnazione.
- contro l’eresie si trattava proprio di salvaguardare,
attraverso i diversi aspetti del realismo della incarnazione, il realismo della
salvezza dell’uomo secondo l’assioma fondamentale: «non può essere salvato se
non ciò che è assunto».
a) l’incarnazione
del Logos: avvenimento salvifico e struttura ontologica
- altri caratteri delle prime immagini post-bibliche di
Gesù furono quelli popolari o addirittura volgari sparsi negli ambienti incolti
di cui danno testimonianza il Pastore di Erma, la Lettera di Barnaba, la
seconda Lettera di Clemente, i Libri Sibillini.
- i scritti apocrifici portavano la immagine mitica della
incarnazione.
- incontro tra leggenda e realtà.
- il realismo dell’evento cristologico, mettendo in
evidenza la verità della nascita, del comportamento umano, della passione,
della morte e della risurrezione di Gesù.
- l’incarnazione è veduta come un evento che si colloca
nel quadro della economia divina di salvezza, per cui «Cristo è il Signore» che
ha «veramente portato la nostra carne» ed è divenuto perfettamente uomo.
- nel pieno sviluppo del secondo secolo bisogna notare
soprattutto l’apporto della riflessione degli apologisti per l’avvento della
cristologia del Logos.
- la ‘cristologia di Giustino’ – in dialogo con il
giudaismo sottolinea il carattere di
evento della incarnazione, a partire dalla creazione per culminare nella incarnazione
in cui si realizza la massima presenza tra gli uomini per ricondurli a Dio.
- utilizzando l’idea del ‘Logos seminale? Vede in tutta
la storia umana la presenza sotto forma di semi del Verbo che già permea gli
uomini fino alla storia di Gesù.
- la concezione più rappresentative di Ireneo – la sua
idea di ‘ricapitolazione’ per cui Cristo riprende e riassume in sé tutta
l’umanità.
- l’incarnazione ne è l’evento culminante per cui Cristo
è salus quoniam caro.
- tra la creazione e la fine del mondo sta al centro
l’evento Cristo.
- Cristo, nascendo, assume una economia di corporeità in
cui si associano nascita e passione come un unico movimento per cui il Verbo si
fa passibilis homo.
- la glorificazione corporea in cui culmina l’elevazione
dell’uomo-carne.
- nella storia di Gesù si adempie e compendia la storia
del mondo.
- il terzo secolo è un periodo caratterizzato da un più
consapevole sviluppo della riflessione erudita della teologia dei Padri in
dialogo col monoteismo giudaico e greco.
- riflessione di Ippolito – una duplice accentuazione
nella incarnazione:
- una più biblica – economia
divina (Contra Noetum) – pre-esistenza ed incarnazione attraverso una via
discendente ed ascendente: Logos e sarx sono i due poli intorno a cui il suo
pensiero di natura più kerigmatica oscilla con l’affermazione Cristo è ‘uomo
perfetto’.
- una seconda concezione della
incarnazione – la prospettiva è più universalistica su di un piano più
cosmologico e storico, come pure antropologico – linguaggio stoico.
- l’idea di incarnazione viene nel terzo secolo dal
pensiero di Tertulliano ed Origene.
- il primo fonda il realismo unitario della incarnazione
sulla idea di ‘persona’ con espressioni che sembrano anticipare il linguaggio
dogmatico della Chiesa.
- a Tertulliano non interessa ancora spiegare l’unità
della divinità e della umanità di Cristo, quanto di affermare, contro Prassea,
il fatto di questa sua unità.
- non possedeva ancora la vera formula cristologica della
incarnazione (una persona, due nature).
- contro il monarchianismo era portato a sottolineare
l’unità concreta di un solo Cristo.
- contro lo gnosticismo il realismo umano di Cristo nella
sua ‘carne reale’.
- la scuola di Alessandria con Clemente ed Origene – in
essi l’idea della incarnazione come evento è tutt’altro che tramontata.
- la sua forte tendenza alla spiritualizzazione della
carne a motivo della sua unità con il Logos lo porta ad offuscare la
distinzione chiara tra Logos ed anima umana di Cristo.
- l’anima ormai è il Logos l’unico interiore, principio
fisico che tutto domina.
- l’anima umana nella incarnazione sembra senza più
alcuna importanza teologica e soteriologica.
- Origene – per lui l’incarnazione è un evento che si
colloca nel quadro dell’opera del Logos nel cosmo e nella storia dell’umanità.
- egli spinge la sua riflessione sul mistero stesso della
unione del Logos con la natura di Cristo.
- è mediante l’anima che avviene l’unione del Logos alla
carne.
- è l’anima soprattutto, per lui, che unita al Verbo in
maniera unica ed inseparabile, penetrata dal Verbo, come il ferro dal fuoco.
- attraverso l’anima, l’umanità del Cristo è come un
filtro attraverso il quale la divinità si comunica secondo le capacità
recettive dell’uomo.
- gli apporti di Origene sono stati importanti per la
difesa del ruolo dell’anima umana di Cristo nella incarnazione.
- la dottrina di Origene secondo la quale Cristo aveva
assunto un’anima umana, era divenuta un ostacolo per un certo numero di uomini.
- nel quarto secolo il pensiero patristico va evolvendo
sempre più una riflessione sulla struttura della incarnazione attraverso il
modello ‘Verbo-Carne’ (Logos-Sarx) – Eusebio di Cesarea ignoravano l’anima di
Cristo soppiantata dal Logos, che avrebbe preso un corpo umano come un suo
vestito, un suo strumento: l’incarnazione era pensata in questo contesto, non
come un vero evento di umanizzazione del Logos, quanto una sua teofania
mediante la sola carne umana.
- l’arianesimo si avvaleva (využít) esso stesso di questo modello ai fini trinitari.
- al contrario la struttura ‘Verbo-carne’ veniva
utilizzata da Atanasio.
- la cristologia ariana sulla negazione dell’anima umana
di Cristo, respingeva l’immagine ariana di Cristo, come un uomo semplicemente
ordinario.
- Atanasio – la incarnazione soprattutto come un evento
in cui emergono due momenti che corrispondono a due stadi del Verbo, due
condizioni successive: il suo essere presso il Padre, il suo prendere carne per
noi dalla Vergine Maria, divenendo uomo.
- appropriarsi della seconda condizione senza perdere la
prima.
- l’idea del Deus immutabilis applicata trinitariamente
al Logos immutabilis portava Atanasio a pensare che l’incarnazione come evento
del divenire carne del Logos voleva dire solo l’assumere una nuova condizione
di esistenza nella quale però egli non era coinvolto nell’intimo
dell’avvenimento storico.
- Verbo-carne – prospettiva antiariana.
- da
questo cresce la eresia di Apollinare di Laodicea (310-390), amico e coadiutore
di Atanasio.
- nel suo tentativo di spiegare l’unità reale dell’evento
della incarnazione, a difesa della verità della nostra redenzione, egli
utilizzava rigorosamente il ‘modello antropologico stoico-alessandriono’.
- in tale modello, l’uomo è uno per sintesi di natura,
indicando per natura non una essenza astratta, statica, ma ‘l’essere dotato di
un proprio movimento’.
- l’Incarnato è ‘una unità composta in forma umana’. E
cioè: una sola natura composta di Divinità impassibile e di carne passibile.
- «una sola natura incarnata del Verbo Divino».
- il Verbo come principio animatore e motore di ogni suo
movimento vitale.
- in pratica Apollinare riduceva l’unità di persona ad
unità di natura.
- affermare che il «Verbo si è fatto carne» voleva dire
per Apollinare che esso si è unito alla carne come lo spirito umano è unito al
suo corpo.
- per Apollinare il Verbo non pativa, perché il Logos
glorificava e divinizzava questa carne che era sottratta così alle condizioni
di corruttibilità terrestre: Cristo era l’uomo celeste, fuori delle condizioni
umane.
- il sistema apollinarista fu respinto dal sinodo di
Alessandria del 362 e più chiaramente dall’intervento di Papa Damaso (375) nel
sinodo di Roma del 377, con la conferma del Conc. Costantinopolitano I (381).
- l’integrità della umanità di Gesù costituiva ormai un
dato dogmatico fondamentale, come la consostanzialità del Figlio con il Padre e
chiarificava un aspetto dell’evento della incarnazione.
- al grosso problema del come intendere il rapporto della
duplice integrità umana e divina del Cristo nella unità dell’evento di
incarnazione.
- i Padri Cappadoci contributo con il concetto di
‘persona’ in teologia trinitaria, non avevano di fatto utilizzato questa
categoria nella cristologia.
- ‘comunicazione delle proprietà’ (parlavano così di ‘Dio
crocifisso’ e di ‘Maria Madre di Dio’).
- Gregorio di Nissa sottolineava di più l’aspetto
diofisita.
- l’unità del divino e dell’umano era da lui affermata
sia con l’idea di ‘mescolanza’ che attraverso il linguaggio, talora adoperato
di ‘una persona’, mentre nel parlare dell’azione divinizzatrice del Logos nella
umanità di Gesù, Gregorio si differenzia notevolmente dalla concezione
apollinarista dell’uomo celeste.
- ‘Verbo-Uomo’ (Logos Anthropos).
- Origene; Paolo di Samosata,
vescovo di Antiochia, agli inizi del quarto secolo con Eustazio di Antiochia
(+336), poi con Marcello d’Ancira (+374).
- con Teodoro di Mopsuestia che
iniziava una vera riflessione sulla struttura della incarnazione sulla base
dello schema ‘Verbo-Uomo’
- egli, parla dell’evento di
incarnazione, con il linguaggio di ‘assunzione dell’uomo’, sottolineando una chiara distinzione dio-fisita per porre l’accento
sulla integrità umana dell’uomo assunto.
- restava problematiche però l’unità reale
tra il Verbo e l’uomo assunto.
- in
Occidente – Ilario, Ambrogio, il sinodo di Roma, Agostino.
- l’evento della incarnazione
culminante nella pasqua del Signore.
- egli raggiungeva una
formulazione definitiva del linguaggio latino vedendo confluire la dualità
delle sostanze nella unità della persona: «accedit homo Deo et fit una
persona».
- il quarto secolo ci offre un apporto importante nello
sviluppo della teologia della incarnazione.
- ad Alessandria la cristologia atanasiana aveva il suo
seguito in quella di Cirillo che egli sviluppava in prospettiva antiariana,
preoccupato piuttosto di salvaguardare la immutabilità del Logos.
- la sua preoccupazione antiariana lo portava meno ad
evitare espressioni che sottolineavano l’unità con formule come ‘una natura’
che egli considerava equivalente a ‘una persona’ o addirittura con espressioni
quali «unica natura incarnata del Dio Logos» che egli usava credendola di
Atanasio.
- lo portava ad affermare vigorosamente l’unità
ontologica dell’Incarnato, giustificando pienamente sia il titolo di Madre di
Dio, sia l’attribuzione delle proprietà umane da parte del Verbo (comunicazione
degli idiomi).
- Cirillo – l’unità reale del Cristo, Verbo-carne.
- lui premeva difendere da un lato la distinzione
ontologica, di due ‘elementi’ o due ‘oggetti’, ma dall’altro egli affermava che
questa dualità, nel Verbo incarnato, era sostenuta dalla unità di un medesimo
soggetto.
- il metodo di Nestorio (vescovo di Costantinopoli dal
428) – la preoccupazione di pensare la tradizione di fede attraverso un più rigido
predominio delle categorie culturali, nel caso, della analisi stoica del
concreto.
- per questo, là ove la tradizione di fede proclamava
l’evento della incarnazione del Logos come il divenire carne della Parola da
Maria, Madre di Dio e l’evento della sua passione come ‘sofferenza di Dio’.
- Nestorio commise l’errore «di voler arrestare una
evoluzione kerigmatica».
- la preoccupazione della riflessione cristologica di
Nestorio era dominata dall’intento anti-ariano e dal tentativo ariano di fare
del titolo di ‘Maria Theotokos’ un motivo per negare la divinità di Cristo,
egli rifiutava ‘comunicazione degli
idiomi’.
- Nestorio finiva con l’indebolire l’unità reale del
Cristo riducendola ad una unione più o meno morale che egli chiamava synapheia
anziché énosis che metteva in evidenza un principio volontario.
- la impossibilità di fondare l’unità reale del Cristo
restando solo sul piano delle nature-sostanze ed anche il difetto degli
strumenti filosofici dell’analisi del concreto di cui egli disponeva, mutuandoli
dalla filosofia stoica.
- così l’integrità delle due sostanze lo portava sul
piano concreto a parlare di due ‘soggetti’ o due ‘concreti’ che confluivano in
un unico ‘prosopon di unione’, ovvero, una unità che si realizzava attraverso
una compensazione dei due soggetti.
IL CONCILIO DI
EFESO (431)
- il suo centro di attenzione era il contenuto dogmatico
dell’incarnazione, compromesso dalla eresia nestoriana.
- il suo valore, per la storia della fede, anche se non
emise alcuna formula dogmatica, sta in un «insieme di elementi che fanno
formula».
- il primo di tali lamenti era il
riconoscimento del valore normativo, per la fede, di Nicea, il cui simbolo
offriva la formula cristologica che faceva autorità e non era che una
ripresentazione della stessa fede apostolica della Chiesa primitiva.
- il secondo elemento importante
era il riconoscimento, come conforme alla fede, della seconda lettera di
Cirillo a Nestorio con la usa affermazione sulla unità del Cristo «secondo
l’hypostasis».
- il terzo elemento concerne
propriamente il metodo adottato dai Padri di Efeso.
- è chiaro anzitutto che nel simbolo niceno
l’incarnazione evidenzia il punto di vista dell’evento.
- la proclamazione della identica formula di fede
cristologica di Nicea non va considerata come una semplice ripetizione
letterale del passato.
- sia a Nicea che ad Efeso si poneva il problema
teologico della cristologia – il rapporto tra Gesù e Dio.
- ci si chiedeva se Gesù di Nazaret fosse Figlio di Dio.
- il movimento di pensiero appare discendente (al
contrario a Nicea) – ci si chiede in che modo il Figlio di Dio è divenuto uomo,
Gesù.
- a partire dall’alto: si parte, in realtà, non dall’uomo
Gesù, ma dal Verbo di Dio che si incarna secondo Gv 1,14.
- il movimento della riflessione patristico-dogmatica – a
livello kerigmatico si muove a partire dal basso (esperienza storica di Gesù di
Nazaret) per salire verso l’alto (glorificazione, pre-esistenza) e poi si muove
dall’alto (pre-esistenza del Logos) per ridiscendere verso il basso
(incarnazione).
- in Efeso restava qualche incertezza per quanto riguarda
la distinzione tra ‘natura’ (physis) e ‘persona’ (hypostasis), termini che la
lettera di Cirillo usava talora indiscriminatamente (‘secondo l’ipostasi’ usato
come equivalente di ‘secondo natura’).
- si deve dare rilievo all’atto di unione del 433, come
momento complementare, avvenuto tra Giovanni di Antiochia e Cirillo, in cui,
con concessioni reciproche si giungeva alla affermazione reale della unità di
Cristo ed alla distinzione delle nature, all’accettazione del titolo di ‘Madre
di Dio’ e del linguaggio della sola persona.
- 8. 12. 448 Flavio - «Confesso che Nostro Signore era
‘di due nature’ prima della unione, ma dopo l’unione confesso ‘una sola
natura’».
- la posizione eretica di Eutiche si manifestava nel
sinodo imperiale di Efeso (449) chiamato da Papa Leone «ladrocinio di Efeso».
- nonostante ciò si andava aprendo il varco verso un
nuovo intervento dogmatico chiarificatore per la fede cristologica della
incarnazione – in questo senso fu determinante la Lettera dogmatica del papa
Leone Magno al Vescovo di Costantinopoli Flaviano (Tomus ad Flavianum – 13. 6.
449) con il suo chiaro contenuto cristologico sulla unità reale del Cristo,
nella unica persona, e la dualità e comunicazione delle proprietà.
IL CONCILIO DI
CALCEDONIA (451)
- la struttura letteraria ed il significato della formula
cristologico-dogmatica di Calcedonia nel suo contesto si deve notare che essa
si presenta, nella terza parte del documento conciliare, come un simbolo di
fede che ha un carattere kerigmatico – esso proclama la fede nell’incarnazione
come un ‘evento’.
- Calcedonia si trova in linea con Nicea, il cui primato
viene riconfermato.
- la fedeltà verso Nicea si esprime in un nuovo atto di
interpretazione di quel Concilio che si rivela attraverso quella precisazione
della struttura dell’evento della incarnazione che ne garantisse la verità
salvifica.
- i Padri di Calcedonia «seguono una tradizione e
vogliono portarla un po’ più lontano, nella sua attualità».
- prima parte – domina la proclamazione della
incarnazione-evento in termini simbolico-kerigmatici – la fede di Nicea aveva
proclamato sulla identità divina del Cristo.
- il Concilio professa la fede nel Cristo partendo dalla
unità ed all’interno della unità, esso pone la distinzione e la dualità divina
ed umana.
- l’accento sulla interezza umana (di anima razionale e
corpo) è come un’eco delle polemiche del tempo che minacciavano tale
completezza.
- l’atto di una ‘nuova interpretazione’ avviene
soprattutto nella ‘seconda parte’ della formula dogmatica di Calcedonia.
- questa seconda parte della formula esprime in modo
diverso, ma equivalente, la stessa realtà dell’‘evento’ della incarnazione
precisandone però le componenti strutturali.
- per Calcedonia il piano della persona-ipostasi è quello
dell’unico Cristo.
- in questa unità di persona Calcedonia pone la
distinzione o dualità (non dualismo) dell’umano e del divino, delle proprietà
umane e divine.
- nel dogma cristologico di Calcedonia l’essere della
persona esprime ormai un significato ed una qualità ontologica distinta dalla
natura-sostanza.
- il pensiero di fede cristologica di Calcedonia consente
di salvaguardare la irriducibile differenza distinzione tra l’uomo e Dio,
espressa attraverso le parole «senza confusione» (contro Eutiche) e «senza
cambiamento» (contro Apollinare), pur affermando la più intima e profonda
unione che si possa pensare tra uomo e Dio, espressa attraverso la coppia di
parole «senza divisione», «senza separazione» (contro Nestorio).
- il pensiero cristiano è riuscito a trovare il giusto
mezzo tra monismo e dualismo, tra pura trascendenza divina ed immanenza.
- il Dogma di Calcedonia ha incontrato nel nostro tempo
diversi problemi interpretativi.
- Già al tempo stesso del Consilio era sorto il problema se
la formula cristologica, nella sua seconda parte, fosse stata compilata troppo
aristotelicamente e non kerigmaticamente.
- obiezioni hanno contagiato anche ambienti cattolici che
ritengono la formula dogmatica di Calcedonia una espressione troppo statica del
mistero cristiano, «una interpretazione, che mette l’accento non sull’evento e
la storia, ma sull’essere».
- ora si deve considerare che non ogni ‘ellenizzazione’,
‘romanizzazione’ e ‘germanizzazione’ sono in sé corruzioni del cristianesimo.
- ogni cultura è un orizzonte legittimo di espansione e
penetrazione del messaggio, per cui la Parola di Dio ci obbliga a superare quel
fondamentalismo biblico che si riduce ad un fissismo letterario.
- nel necessario processo di ‘inculturazione’, che
risponde al permanente incarnarsi della parola eterna, in forza della novità ed
originalità derivante dalla sua tradizione di fede, il linguaggio cristiano
deve necessariamente procurarsi degli spazi propri, utilizzando e modificando,
laddove necessario, le categorie e le strutture linguistiche per renderle
adatte ad esprimere il mistero della salvezza che esso annuncia.
- la considerazione che ogni decreto conciliare in un
tempo di crisi in cui il senso autentico della fede è minacciato, è un
documento regolatore che no si aggiunge al testo fondatore normativo della
Scrittura, ma l’interpreta ed attualizza in una situazione nuova.
- intenzione anti-eretica non ha solo una funzione
negativa: essa, negando, afferma un limita invalicabile per l’ortodossia, che è
insieme una acquisizione irreversibile.
- in questa sua funzione antieretica la formula dogmatica
ha infatti un valore assoluto e definitivo circa gli errori cristologici.
- Calcedonia – il suo testo mostra che la fedeltà alla
Tradizione non è mera ripetizione letterale dei testi anteriori.
- questa chiarificazione non va intesa come un processo
analettico di carattere filosofico-teologico, ma come atto interpretativo
compiuto alla luce dello Spirito che conduce la Chiesa alla ‘verità tutta
intera’.
- da Calcedonia al II
Concilio Costantinopolitano: la cristologia del sesto secolo.
- il Concilio di Calcedonia non aveva realizzato l’unità
in oriente.
- l’imperatore teologi Giustiniano cercò di recuperare i
monofisiti mettendo in evidenza l’accordo di Calcedoni con il linguaggio e la
dottrina di Cirillo – tendenza denominata ‘neo-calcedonianesimo’.
- essa ha trovato il suo momento principale nel Concilio
Costantinopolitano II (553), riconosciuto come autentica interpretazione di
Calcedonia dai Papi (Virgilio, Pelagio).
- il detto Concilio dà una esegesi autorevole della
definizione cristologica di Calcedonia grazie ad una chiarificazione maturata
nel passare degli anni.
- il Concilio Costantinopolitano II offre un apporto
ermeneutico rispetto a Calcedonia anzitutto nel mostrarci una verifica tra la
sua formula dogmatica e la
Scrittura ; esso indica la verità delle affermazioni concrete
scritturistiche sulla origine umana e divina del Cristo e sul realismo della
passione del Logos.
- tale Concilio ci offre ancora un importante apporto
ermeneutico rispetto a Calcedoni, attraverso il contributo di riflessione di
Leonzio di Bisanzio e di Leonzio di Gerusalemme, mediante l’idea della
condizione anypostatica della umanità di Cristo nella persona del Verbo.
- la unione del Verbo alla umanità ‘secondo composizione’
(kata synthesis) o ‘secondo sussistenza’ (kata hypostasin).
- la persona del Verbo si è autenticamente umanizzata nel
suo atto di essere persona il ‘soggetto ultimo’ di tutte le azioni e passioni
del Cristo è ormai, non più il Verbo solo, ma il Verbo umanizzato.
- in Gesù, il Figlio di Dio è divenuto, in ragione della
incarnazione, una persona (divina) umanizzata, ha vissuto in maniera
autenticamente umana le sua esistenza individuale e sociale; ha vissuto il suo
essere persona, nel modo umano del divenire, del crescere.
- Gesù no è stato ‘una sola persona divina’ che si è
rivestita esternamente di una livrea umana, come nascondendosi dietro
l’umanità.
- verso il Concilio
Costantinopolitano III (680-681)
- malgrado le chiarificazioni del Concilio
Costantinopolitano II, molte fazioni monofisite restavano recalcitranti.
- tali frange eterodosse portava nel secolo VII ad un
tentativo di compromesso – esse confessassero due nature distinte in Cristo
mettendo l’accento sul Verbo quale ‘soggetto unico operante’ e ‘volente’,
‘unico principio di azione’.
- il monofisismo minacciava di spostarsi dal piano delle
nature al piano delle operazioni.
- Severo di Antiochia credeva di poter affermare
conseguenzialmente che siccome in Cristo c’è una sola persona divina, non può
non esserci che un solo principio divino di attività, un solo unico agente e
volente.
- Severo si interessava all’unica attività di Cristo
(monoenergetismo) – in Cristo c’è un solo principio divino di attività: così l’umanità
era svuotata dinamicamente ed assorbita dal divino.
- in Cristo si poteva parlare di dualistà di voleri
voluti (thelémata), ma di un solo volere volente (thélesis).
- Severo affermava questa unità perfetta di operazione
come ‘attività ipostatica’.
- il problema – mancava la distinzione tra alterità e
contrarietà – se si ammetteva un volere altro si pensava facilmente ad un
volere contrario.
- il Papa Martino I attraverso l’intervento magisteriale
del Sinodo romano del 649 affermava che «Cristo voleva umanamente la nostra
salvezza».
- la difesa della volontà umana di Gesù costò cara a
Massimo Confessore ed a Martino I che patirono la loro agonia dietro le
persecuzioni imperiali.
- Concilio Costantinopolitano III applicò alle volontà ed
operazioni di Cristo i quattro avverbi calcedonesi affermando che «annunciamo
in lui due naturali volontà, due naturali operazioni, indivisamente,
immutabilmente, inseparabilmente, inconfusamente (…) e due naturali volontà no
contrarie (…).
- così, nella unione personale, la volontà umana, non è
soppressa, ma salvaguardata.
- il Concilio non afferma alcun parallelismo di tale
agire umano rispetto al volere divino, bensì la sua soggezione e perfetta
comunione a questo volere.
- spesso il problema della due volontà e stato affrontato
nella esegesi del Getsemani solo a livello di tensione tra volere umano e
divino nel Cristo.
- nel dato evangelico circa la preghiera del Getsemani,
la distinzione delle volontà non si pone.
- c’è predomina l’orizzonte del rapporto tra Gesù ed il
Padre: il volere divino appare, infatti, anzitutto come volere del Padre che ha
inviato il Figlio.
- così il rapporto tra le due volontà si pone
concretamente, nell’ambito del rapporto inter-personale tra il Padre ed il
Figlio incarnato.
- la volontà divina del Figlio che è lo stesso volere
divino del Padre, che egli riceve come suo, dal Padre, è vissuta dallo stesso
Figlio, sul piano della incarnazione, come volontà umana soggetta in tutto al
Padre.
- la volontà divina, come appello di amore perfetto è un
volere liberante.
b) l’evento
cristologica della incarnazione nella maternità divina di Maria
- il pensiero dei Padri non ha effettuato una sintesi tra
la maternità della Chiesa, nata dalla croce ed il ruolo di Maria Madre dei
credenti.
- sia Giustino che Ireneo aprono il discorso teologico
sulla maternità di Maria incominciandolo dal suo agire personale di ‘fede’
nella parola di Dio, per cui tale atto di fede di Maria acquista un valore
universale: non solo genera il Verbo (nel cuore prima che nel corpo), ma
diviene causa di salvezza per l’intero genere umano.
- scorso mariologico, cioè, appare strutturalmente
ecclesiologico: la Chiesa
è veduta alla luce di Maria e viceversa, specialmente per ciò che riguarda la
‘maternità’ – il grembo di Maria è così il grembo della Chiesa che rigenera gli
uomini a Dio (Ireneo).
- in un secondo momento ‘svolta individuale’: la Vergine Maria da
tipo teologico della Chiesa viene considerata nella sua santa individualistà
soprattutto nella sua fondamentale relazione alla ‘persona’ di Cristo.
- le accentuazioni proprie della fede della Chiesa del
IV-V secolo, ribadite da quelle del VI-VIII secolo, definiscono il ruolo
materno di Maria nell’ambito strettamente cristologico ponendo la sua persona
in riferimento di reale maternità rispetto alla persona di Cristo.
- potremmo dire nel senso del Concilio Costantinopolitano
II – Maria è la Madre
del Logos divino in quanto in ‘lei si umanizza’.
c) l’evento della
incarnazione nella sua funzione salvifica universale
- l’opera della creazione si evolve nella storia della
redenzione in cui il Verbo e lo Spirito operano insieme per la realizzazione
della salvezza universale dell’uomo.
- per Atanasio, Gregorio di Nissa (in oriente), Ilario ed
Agostino (in occidente), l’incarnazione è un evento che coinvolge l’umanità
intera, per cui in Cristo, in un certo modo, l’intera natura è assunta.
- il Verbo, assumendo la natura umana come grandezza
collettiva, avrebbe in qualche modo assunto tutta l’umanità.
- il Cristo è Capo di tutta l’umanità per la pienezza
dello Spirito che egli ci dona facendo di tutti i credenti un solo Corpo.
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