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Tuesday, March 4, 2014

CHRISTOLOGIA- II

CRISTOLOGIA



DALLA PROCLAMAZIONE ALLA STORIA:
GESÙ AGLI INIZI DELLA CRISTOLOGIA


INTRODUZIONE

- l’inizio della cristologia, come discorso di fede su Gesù come Cristo, prende il via dalla Chiesa, comunità di salvezza che confessa la presenza dell’evento cristologico, in essa, vivente ed operante.
- il ‘vangelo’, o ‘buon annuncio’ proclamazione di salvezza
- nella lettura ecclesiale di questo testo (Mc), risuona, nel presente delle comunità cristiane, la parola permanente del Cristo stesso.
- Marco non parla di Gesù usando i tempi del passato storico (aoristo), bensì usando il tempo presente (centocinquantuno casi) – di una convinzione (přesvědčení) profonda – la inalterabile (neměnný) presenza del Cristo vivente che ora convoca la sua Chiesa rivolgendole la sua parola.
- l’affermazione dell’orizzonte presente del vangelo-proclamazione non elimina l’anamnesi della storia prepasquale di Gesù di Nazaret – questo presente dell’annuncio ecclesiale circa il Cristo Signore e Salvatore, è la continuazione reale del messaggio stesso del Gesù annunciante.
- il passato è ritrovato mediante il presente, ma il presente cristiano è compreso nella sua verità attuale solo alla luce di quel passato che penetra nell’oggi o la genera: così si stabiliscono la unità e la differenza che caratterizzano la proclamazione cristiana in quanto annunzio e celebrazione della salvezza proveniente da quel Signore celeste che è lo stesso Gesù di Nazaret, crocifisso.
- rivolgersi al suo passato nell’anamnesi: non già per crearlo, ma per evocarlo come sua fonte e per renderlo attuale nel presente della Chiesa.
- era necessario salvare il passato di Gesù e la sua giudaicità come inizio di quell’evento storico definitivo di salvezza perdurante (trvat) di salvezza perdurante nel protrarsi dell’era cristiana nel passaggio alle ulteriori generazioni.
- per la Chiesa il Gesù del passato vive e la memoria è funzionale in rapporto a questa presenza. Il momento dell’approccio storico al Gesù terreno, non può essere condotto quindi con un metodo storico che ignori la particolarità letteraria di quelle fonti.
- una tale radicalismo critico, partendo dal preconcetto che la conoscenza di Gesù come personaggio della storia non abbia interesse per la fede, finisce col negare che questo Gesù sia stato veramente alle origini della cristologia, la quale invece sarebbe nata dal kerigma pasquale e non dalla esistenza di Gesù giudeo.
- si deve mostrare piuttosto la continuità tra l’esperienza di Gesù e l’esperienza cristiana.
- l’approccio storico del primo momento della cristologia pone il problema del rapporto tra la realtà prepasquale di Gesù di Nazaret e l’evento della usa risurrezione.
- se è vero che la cristologia della Chiesa trova nella presenza attuale e viva del Risorto la sua culla, è anche vero che questa presenza è sempre veduta come il momento finale della storia reale di Gesù di Nazaret – la prima predicazione annuncia il Risorto-Esaltato a partire dal suo ministero terreste.
- nella fede e predicazione della Chiesa apostolica, il tempo del Gesù intenerante e la sua glorificazione non sono più ormai che i due aspetti di un unico mistero che possono essere menzionati distintamente e successivamente, ma sempre inseparabilmente.
- l’essenziale non si trova tanto nel punto di partenza quanto nel punto centrale, il mistero pasquale, la persona del Risorto.
- la storia di Gesù non è pienamente compresa che nella luce della fede pasquale, il reciproco non è meno vero: il movimento del kerigma presuppone sempre la conoscenza del Gesù storico.
- il kerigma del Risorto richiede un contesto – segreto che, rivelato a pasqua, è presente in Lui fin dal primo momento della sua esistenza terrena.
- la verità trova la sua credibilità non solo nell’accadimento di un fatto, ma nella significazione e nella potenza salvifica che esso possiede.
- l’unità delle Scritture si realizza intorno alle promesse ricevute dai patriarchi ed amplificate dai profeti, poi intorno all’attesa del regno di Dio e del Messia annunciato. Ora, sono queste promesse e queste attese che trovano il loro compimento in Gesù, Messia e Figlio di Dio.




GESÙ DI NAZARET NELL’ORIZZONTE
DELLE ATTESE GIUDAICHE

- il cammino storico verso l’immagine di Gesù di Nazaret non può essere compiuto prescindendo dalla considerazione dell’ambiente giudaico, nel quale tale immagine acquista i suoi contorni.
- essa si stagli sullo sfondo delle speranze giudaiche – la ‘continuità’, anche la ‘novità’ dell’evento compiutosi in Gesù di Nazaret.
- le attese di Israele non solo come il fatto marginale (okrajový) di una singola cultura ed ‘epoca storica’, ma come speranza rappresentativa in rapporto alla interna comunità umana.


I. LE SPERANZE MESSIANICHE DI ISRAELE

- M. Buber – la speranza della realizzazione del regno universale di Dio è il proton e l’eschaton di Israele.
- esiste in Israele una esperienza della regalità divina che riassume in sé gli aspetti fondamentali della sua vita religiosa e sociale e che possono raggrupparsi intorno a tre temi:
                - la conoscenza del vero Dio.
                - l’esperienza della sua volontà di salvezza.
                - le mediazioni attraverso le quali Dio realizza il suo proposito universale di salvezza.

a) la rivelazione del vero Dio
- la caratteristica della esperienza di fede di Israele è quella di un Dio che si pone lui stesso alla ricerca dell’uomo, mostrandosi così a lui vicino.
- l’unico Dio in Israele appare nello stesso tempo un Dio ‘presente’, ‘operante’ come Signore della creazione e della storia.
- l’idea della regalità divina assomma in sé due aspetti della esperienza di Dio
                - quello celeste e trascendente della sua signoria.
                - quello della sua regalità cosmica e storica.
- in nome di Dio JHWH è la confessione di una tale fede.

b) promessa ed alleanza
- la ricerca dell’uomo da parte di Dio trova la sua prima espressione nella vocazione di Abramo (Gn 12,1-3) e nella promessa di dargli una discendenza che costituirà un popolo particolare che in lui sarà benedetto.
- Dio liberà questo popolo da ogni schiavitù, gli farà dono della terra promessa e trasmetterà le sue leggi.
- l’alleanza trova una traduzione eccellente nel tema della regalità divina.
- i segni (arca, tenda del convegno) esprimono la «dimora regale di Dio tra il suo popolo».
- questa realtà della regalità come alleanza è vissuta nella storia di Israele con vicende drammatiche – l’infedeltà del popolo e la fedeltà di Dio che vincerà l’infedeltà degli uomini.
- Dio concluderà con Israele una alleanza nuova, perpetua ed indissolubile (nerozlučný).
- i profeti sono testimoni priviligati della fedeltà di Dio che vincerà sulla infedeltà dell’uomo, trasformando radicalmente il suo cuore, per cui l’amore e l’indulgenza senza limiti di Dio avrebbero trionfato nella storia umana.
- tutti i popoli della terra saranno chiamati a partecipare alla salvezza offerta dal Dio di Israele nella città santa restaurata per cui da Sion la legge e la giustizia raggiungeranno i confini della terra.

c) le mediazioni salvifiche
- un aspetto imprescindibile (nutný) dell’operare di Dio nella storia è quello della mediazione.
- Dio non opera da solo, ma coinvolge l’uomo come persona libera nell’adempimento dei suoi disegni.
- tra le principali figure umane mediatrici vanno ricordate anzitutto quella di Abramo e di Mosè, che si colloca nel cuore del rapporto di alleanza tra Israele e Dio.
- questi assolve (plnit) però una mediazione che non si limita al presente, ma si proietta, quasi come una costante, nei tempi futuri, secondo la promessa del Deuteronomio 18,15.18.
- all’epoca dello stabilirsi di Israele nella terra di Canaan e della traslazione dell’arca sulla colina di Sion, la speranza della regalità di Dio assunse un particolare splendore unendo insieme alla dimensione cultuale dell’acclamazione Jahve melek quella della presenza terrestre di questa regalità ‘attraverso’ il re d’Israele, che regna in nome di Dio.
- Israele aspetta il nuovo re, discendente di Davide (2 Sam 7,1-17) – la figura di un ‘ideale mediatore’, Messia-Re
- sempre più il messianismo regale dinastico tendeva ad evolversi in un messianismo regale profetico – profezie di Isaia – l’Emmanuel (7,10-17), Re-Messia escatologica (11,1-5) con la sua caratteristica – avrebbe ‘il dono dello Spirito’ che avrebbe fatto di lui l’Unto per eccellenza.
- mediazione viene anche dai ‘sacerdoti leviti’ che avevano ereditato dai mediatori delle origini la ‘funzione oracolare’ che veniva definita, come compito primario, nella consultazione di JHWH e nella istruzione della Torah.
- mediante la loro funzione cultuale essi contribuivano alla santificazione della comunità di Israele.
- il sacerdote era l’uomo della Torah, depositario ed interprete di una scienza proveniente da Dio, ma mediante una rivelazione passata, trasmessa attraverso i canali umani della tradizione e della prassi.
- in questo la mediazione sacerdotale aveva i suoi limiti nella misura in cui si distaccava dalle altre funzioni mediatrici come quella ‘profetica’.
- la sua importanza nella storia religiosa di Israele ha avuto anche la mediazione del profetismo.
- il profeta era l’uomo della parola, portavoce di Dio nella immediatezza del presente, quindi strumento di una rivelazione attuale di Dio.
- il profeta è presente in tutti i momenti critici della storia di Israele per denunciare le infedeltà del popolo e dei suoi capi politici e religiosi.
- il profeta annunciava vera conversione del cuore di Israele che avrebbe consentito a Lui di rivelare pienamente il suo disegno di salvezza.
- la rivelazione profetica preparava pedagogicamente la vittoria dell’amore di Dio sulla condizione peccatrice degli uomini.
- il ruolo di mediazione profetico-messianica è rappresentato del Deutero-Isaia, dalla figura del ‘Servo di JHWH’
- nel periodo post-esilico lo sviluppo del senso escatologico della speranza del regno determina una tappa importante con la letteratura apocalittica in cui l’orizzonte delle speranze escatologiche si distacca dal piano della storia terrestre aggiungendo una  dimensione metastorica alla speranza profetica, la speranza di un mondo trasfigurato, totalmente nuovo, una creazione nuova in un nuovo eone.
- regno in cui regneranno pace, giustizia, santità, assenza di dolori.
- la figura messianica del ‘Figlio dell’Uomo’ che riceverà da Dio il regno, regno eterno, perfetto ed universale.
- le potenze che non hanno alcun carattere di divinità concorrenziali rispetto all’Unico Dio – lo Spirito, forza che presiede alla creazione ed al suo continuo rinnovamento.
- operando per la liberazione del popolo suscitando (vyvolat) le gesti dei giudici, discendendo sui re, sul Servitore, per farne dei veri mediatori del Regno di Dio nel mondo.
- è lo Spirito che illumina ed ispira l’intelligenza profetica del presente storico.
- lo Spirito che risorgerà dalla morte e soprattutto nel suo operare nel suo cuore come principio di vita morale.
- anche la Parola, come lo Spirito assume talora (občas) dei tratti personali: essa occupa un posto nei cieli, nella bocca e nel cuore di Israele, è inviata sulla terra dal trono regale di Dio e ritorna a Dio dopo aver operato i suoi disegni.
- specie nella letteratura sapienziale emerge la stretta unione tra la Parola e lo Spirito: la Sapienza personificata che prelude letterariamente l’interpretazione cristologica paolina e giovannea con l’idea del ‘Cristo Logos’.

d) le attese di Israele nel quadro della storia universale
- la differenza profonda della concezione biblica della ‘regalità’ delle forme di epifania del potere in voga (rozmach) nell’ambiente culturale greco-romano del tempo ed in altre epoche successive.
- la concezione della regalità e della ‘giustizia regale’ di Dio nella tradizione di Israele si esprime come azione a difesa dei deboli, dei poveri.
- la regalità di Dio appare nella Bibbia come una signoria inalienabile (nezadatelný) di natura liberante, che non asserve (podrobit), ma esalta l’uomo indifeso e ne fa un protagonista nella storia di salvezza.
- l’intervento regale divino, infatti, non è solo un’azione a difesa dei deboli, per la realizzazione della giustizia, della pace, della libertà come beni esclusivamente umani.
- la novità assoluta delle concezioni religiose di Israele sta in un intervento di Dio nel mondo che no è solo di natura creativa, ma ‘autocomunicativa’ per cui attraverso la Parola e lo Spirito Dio si dona all’uomo in una comunione di amicizia divenendo partecipe ‘personalmente’ della storia umana.


II. IL COMPIMENTO DELLE ATTESE DI ISRAELE
IN GESÙ DI NAZARET

- la fisionomia storica di Gesù di Nazaret è rintracciabile (objevit) attraverso l’anamnesi di coloro che furono i testimoni accreditati (pověřený) e vissero in comunione con il Maestro fin dalla usa vita prepasquale.
- indissociabile (nerozlučný) dalla luce della pasqua e pentecoste, questa anamnesi la si ritrova condensata (zhustit) nella prima catechesi apostolica – Atti 10,37-42.
- nei discorsi apostolici, l’annuncio del Cristo Messia, crocifisso e risuscitato è inquadrato nel contesto giudaico della sua vita pubblica di cui la missione di Giovanni Battista e l’uccisione sulla croce appaiono i due poli che ne delimitano il “tempo terreno”.
- nei vangeli non si cerca la “cronologia” ma piuttosto sono organizzati intorno a dei “temi”.
- due aree tipografiche – dalla Galilea alla Giudea – Galilea, l’aera incolta (nevzdělaný) – gli uomini hanno ricevuto meglio il messaggio di speranza per i poveri.

a) Gesù ed il movimento penitenziale del Battista
- Paolo nelle sue testimonianze della prassi battesimale della Chiesa apostolica non parla della prassi del Battista e dei suoi seguenti – dal silenzio viene la distanza rispetto all’antico battesimo d’acqua –l’abluzione di purità (rito di perdono del tempio)  sostituito del battesimo di Battista.
- il battesimo cristiano era divenuto un rito di aggregazione (připojení) al popolo della nuova alleanza per il suo inserimento (včlenění) in Cristo, nel mistero della sua morte e risurrezione.
- battesimo di Giovanni – battesimo di acqua, battesimo di Cristo – battesimo nello Spirito.
- il movimento del Battista va confrontato anzitutto con quelli religioso del suo tempo e del suo ambiente
- il suo messaggio in realtà fa risuonare nel suo centro l’annuncio della ‘imminenza del giudizio di Dio’, tanto che egli potrebbe denominarsi ‘profeta del giudizio’.
- gli attacchi del Battista ai farisei e sadducei sembrano riecheggiare certe invettive del Qumran contro il giudaismo ufficiale.
- le più profonde analogie del messaggio del Battista alla luce della tradizione evangelica sembrano ritrovarsi nelle classiche affermazioni del profetismo che annunciava la venuta di JHWH e che avrebbe condannato il male
- annuncio del giudizio escatologico era congiunta nel messaggio del Battista all’annuncio della venuta del profeta escatologico, del Messia come ‘il più forte’ che avrebbe iniziato l’opera di ripulitura di Israele.
- la predicazione di Giovanni indicava nella ‘conversione’ (metanoia) l’unica via per sfuggire (vyvarovat se) al giudizio d’ira.
- il rito di immersione nell’acqua era il segno – Mc 1,5 – i giudei andavano al battesimo di Giovanni «confessando i loro peccati».
- i battisti radicalizzavano l’intuizione universalistica dei farisei per cui il messaggio di salvezza si rivolgeva alle folle del ‘popolo del paese’, ai poveri e piccoli, ai ‘pecatori’.
- non solo va notato questo senso universalistico della salvezza, ma anche il suo valore aggregativo (přidružený), per cui mentre i riti di abluzioni di purità operavano una separazione, il rito battista richiamava l’idea di unificazione.
- convertirsi voleva dire allora ‘farsi cambiare da Dio’.
- l’immersione (ponoření) era diversa dalle abluzioni di purità farisaiche nei quali l’individuo si autoemmergeva.
- qui il gesto viene amministrato: era Giovanni che battezzava e si era da lui battezzati.
- nel NT il verbo battezzare-immergere è sempre attivo o passivo e mai medio-riflessivo.
- è importante per definire a sua volta le origini del ministero di Gesù di Nazaret.
- la figura messianica di Gesù emerge anzitutto nell’immediato contesto dell’ambiente battista di Giovanni per poi delinearsi ulteriormente nel seguito della vita del profeta galileo.
- analogie e differenza tra il movimento Battista e Gesù:
- ascetismo – Gesù non è un asceta del deserto. Egli viene dalla Galilea e collocandosi nella comunità dei penitenti – un messia solidale con i peccatori, che prende su di sé le loro miserie.
- una messia che chiede il battessimo scandalizzava Giovanni che secondo l’ecclesiale si rifiutava di battezzare Gesù.
- se Giovanni era l’asceta del deserto Gesù di Nazaret, mangiava e beva al di fuori di ogni tabù alimentare, e non chiunque, mostrandosi amico dei pubblicani e peccatori.
- il Battista ed i suoi discepoli digiunavano, Gesù ed i suoi discepoli erano sempre in festa.
- la salvezza irrompeva non dalle opere dell’uomo (severe regole ascetiche, purità), ma dall’intervento misericordioso di Dio.
- Battista ha alloggiato nel deserto, Gesù in Galilea, in mezzo alla folla.
- Giovanni con il suo ascetismo ricorda i profeti, come Elia.
- il compimento delle attese messianiche trova espressione nell’episodio del battesimo di Gesù a cui la tradizione sinottica e la prima predicazione apostolica attribuivano molta importanza.
- Gesù supera l’attività del Battista trasformandola in una predicazione pubblica fatta di gesti di misericordia, di guarigione dell’anima e del corpo.
- il racconto evangelico del battesimo di Gesù possiede la caratteristica di una ‘teofania apocalittica’ introdotta dall’ «apertura dei cieli» ed incentrata nella «voce del cielo» che indica non solo la sua origine divina, ma anche il carattere ultimo, escatologico della rivelazione di Dio che in tale evento si compie.
- Cristo è proclamato come ‘Figlio, il diletto’ – è una rivelazione di Dio impersonata nel Figlio dell’amore del Padre.
- questa proclamazione spiega anche il senso della visione dello Spirito e di Colui che è il termine della rivelazione stessa.
- la visione dello Spirito che discende su Gesù e vi riposa stabilmente indica l’adempimento delle antiche profezie sullo Spirito santo ed il Messia – l’Unto del Signore, portatore per eccellenza dello Spirito.
- la teofania battesimale, rivela proletticamente il significato cristologico e pneumatologico dell’evento della missione pubblica di Gesù di Nazaret.

b) Gesù di Nazaret, il tempio e la Legge
- Gesù mostra la usa gravitazione non solo nell’ambito degli ambienti battisti, ma anche in quello di altri ambienti religiosi del suo tempo, specialmente farisaici.
- Gesù di Nazaret viene considerato vicino ai rabbi di tendenza farisaica.
- si deve tener conto dalla incidenza di quella tensione e rifiuto che si era andata maturando nel cristianesimo del primo secolo rispetto al giudaismo e viceversa.
- questi, nel periodo posteriore alla distruzione del tempio erano ormai soprattutto i farisei – presentati con ‘l’immagini dei nemici’.
- sono presentati anche con ‘immagine ostile’ (nepřátelský), quale oppositori per eccellenza di Gesù e del vangelo.
- il fariseismo era un significativo movimento di pietà religiosa dedicandosi ad una osservanza piuttosto rigorosa delle regole stabilite dagli scribi di loro tendenza.
- i farisei insieme con gli esseni, erano il migliore esempio di santità prodotto alla società del tempo di Gesù: essi praticavano rigorosamente le abluzioni rituali delle mani e la obbedienza alla Legge per cui tendevano a santificare il quotidiano.
- non si deve pensare che i farisei siano stati i principali nemici di Gesù. Questi si debbono ricercare nell’ambiente sacerdotale del ‘partito sadduceo’.
- il ‘partito sadduceo’ aveva assunto un ruolo determinante nella ricostruzione della comunità post-esilica (539 a.C.) ed al tempo di Gesù poteva considerarsi il vero detentore (nositel) del potere della nazione ebraica.
- mentre in Marco non si parla di farisei nel corso del racconto della passione, le trame ordite (osnovat zápletku) e portate con determinazione a compimento contro Gesù provengono dai sommi sacerdoti, dagli anziani e scribi.
- Gesù, per il giudaismo semplicemente un laico, era ben più a contatto con il movimento farisaico.
- l’atteggiamento di Gesù dinanzi al tempio
- il tempio che era il cuore del culto giudaico, il luogo per eccellenza dell’esercizio del potere religioso del partito sadducei, non era mai stato oggetto di avversione da parte del fariseismo.
- l’affermazione che il vero culto consiste nell’onorare Dio non con offerte e sacrifici, ma con la purezza dell’anima e della fede pia, trovava riscontro in testimonianze numerose.
- rimaneva però dominante il consenso fondamentale alla istituzione del tempi.
- la situazione si presentava diversa dopo il 70 quando il giudaismo rabbinico no si identificava più ormai con il fariseismo dell’epoca di Gesù.
- il silenzio massiccio (mohutný) dei testi cristiani nei confronti dell’intero sistema cultuale ebraico, mostra la gravità della frattura che si era andata ormai verificando.
- il vecchio tempio è adempiuto nel nuovo che è la comunità cristiana, edificio spirituale dei nuovi tempi.
- questa situazione ecclesiale si riflette specialmente ne quarto vangelo, dove la distruzione del sistema sacrificale del tempio è annunciata all’inizio (Gv 2,13-22).
- tra i dati importanti sul rapporto tra Gesù ed il tempio sono:
     - l’episodio della cacciata dei venditori dal tempio
     - il discorso escatologico di Mc 13
     - ed il particolare della rottura del velo del tempio nel momento della morte di Gesù.
- la presenza dei venditori delle vittime sacrificali, nell’atrio dei gentili, era perfettamente legale e conforme alle esigenze del culto.
- il gesto di Gesù non era funzionale alla difesa della sacralità del luogo santo ed in vista della sua purificazione.
- la cacciata dei venditori dal tempio appare come il segno di un compimento escatologico.
- il testo si richiama alle parole profetiche in cui si annuncia il ‘tempio escatologico’:
- che sarà libero da ogni traffico materiale (Zc),
- e diventerà un tempio nuovo, che non avrà mura di cinta, perché sarà luogo di preghiera aperto per tutti i popoli (Is).
- alla luce di questi testi profetici il comportamento di Gesù indica l’avvento del ‘tempio nuovo’.
- nel quarto evangelo il nuovo tempio allude (narážet) con chiarezza la tempio corpo di Gesù.
- nel momento della morte di Cristo la rottura del velo del tempio mostra si può dire l’adempimento di queste parole.
- nella risurrezione, sorgerà il vero tempio indistruttibile che è il Cristo risorto, tempio «non fatto da mani di uomo».
- in tale capitolo di Marco sembra che secondo la critica vadano attentamente distinti i due motivi originari:
                - quello della distruzione,
                - quello della sua profanazione.
- il discorso escatologico di Marco parla della sua profanazione – la profezia della fine che coinciderà non con un evento di distruzione, ma con una venuta trionfante.
- il discorso escatologico di Marco è in prospettiva positiva – non c’è in questa venuta né scena di giudizio, né separazione di buoni e di cattivi, né condanna, né proclamazione di sentenza vendicativa nei confronti dei malvagi.
- la profanazione che tocca proprio l’altare degli olocausti diverrà un segno della venuta trionfante del Figlio dell’uomo e del popolo dei santi.
- l’atteggiamento di Gesù dinanzi alla Legge
- il rapporto con la Legge.
- dopo le rotture determinate dalle pressioni eccessive delle comunità giudeo-cristiane, la posizione della Chiesa poteva meglio discernere le continuità ed i superamenti delle due economie.
- la Legge per Israele era il luogo della manifestazione della volontà di Dio fondamento di quella osservanza con cui il popolo della promessa rispondeva alla elezione divina.
- Thorah è un termine molto ricco ed ampio, più di quello che evoca la parola Legge.
- esso coinvolge tutta la storia di salvezza, tutta l’opera di Dio – così tutto il pentateuco è una Thorah.
- la salvezza ‘mediante la Thorah’ no esprime solo le esigenze poste dal diritto alla felicità per l’al di là, ma è il dono che il Dio di Mosè fa di un organismo vivo e strutturato in mezzo alle nazioni.
- a partire dall’esilio babilonese la legge scritta diveniva normativa.
- l’opera degli scribi aveva il compito di tutelare ed attualizzare la legge in rapporto ai nuovi tempi, ed alle situazioni del popolo.
- secondo la teologia rabbinica la Legge scritta e la sua interpretazione orale erano egualmente obbligatorie.
- questione – il rapporto tra giudaismo e chiesa, tra le due economie, i due testamenti – due risposte fondamentali
- una, più conservatrice, secondo la quale Gesù non avrebbe fatto altro che comprendere in maniera più interiore la legge stessa, assumendo fondamentalmente l’atteggiamento di un rabbi ed evidenziando, come attitudine (náklonost) di novità rispetto agli scribi del tempo, quel risveglio del carisma profetico tendente ad evidenziare la volontà di Dio all’interno della legge scritta – Gesù sarebbe piuttosto un servitore della Thorah.
- una seconda indirizzo interpretativo tende invece a sottolineare una posizione di Gesù dinanzi alla Legge in termini di totale frattura, non solo rispetto alla tradizione orale, ma anche rispetto alla legge scritta ed allo stesso AT in generale, per cui egli avrebbe annunciato un tale messaggio su Dio, una nuova morale che non sarebbe più legata alla Thorah – la rivoluzione operata da Gesù, legato al sistema della legge, mediante una prassi scardinatrice del sistema stabilito e dei suoi valori – Gesù come il rivoluzionario del suo tempo.
- né l’uno, né l’altro atteggiamento sono veramente sufficienti ad esprimere l’autenticità storica del comportamento di Gesù verso la Legge – continuità con discontinuità – ci sono entrambe prospettive.
- Marco accentua la distanza tra Gesù e la Legge, mentre in Matteo il vocabolario legalista è molto presente e la Legge resta valida anche nel minimo jota, onde Gesù, il Maestro che come nuovo Mosè dà la nuova Thorah, è insieme colui che ribadisce la validità dell’antica Thorah in base al noto asserto: «non sono venuto ad abolire, ma a portare a compimento» (Mt 5,17).
- l’atteggiamento di Gesù di Nazaret dinanzi alla Legge bisogna avere presente:
- da un lato i diversi significati assunti dalla Thorah come rivelazione del volere di santità da parte di Dio e come interpretazione.
- dall’altro la vera novità introdotta dalla venuta di Gesù e dalla sua predicazione profetica sulla rivelazione del volere del Padre.
- la ‘sovrana autorità di Gesù’ per cui la usa persona, la sua parola ed il suo comportamento costituiscono ormai la ‘nuova Legge’ in cui confluisce l’antica Thorah scritta ed orale.
- nelle sue affermazioni e nei gesti che dettano legge, egli non cerca alcuna convalidazione nella Thorah o nella tradizione orale, né cita la scrittura come autorità per giustificare i suoi asserti.
- il modo di parlare e d agire di Gesù di Nazaret rivela che Egli non ha ricevuto la Legge, ma parla a nome proprio e la usa parola porta a termine la rivelazione della volontà di Dio, realizzando il compimento in modo insuperabile della Legge antica.
- l’adempimento della Legge antica non va considerato come un effetto letterario
- potremmo dire che nella lettera non c’è nulla di cambiato nella Thorah e che il suo superamento è piuttosto legato alla persona stessa di Gesù.
- nella persona di Gesù si rivela il nuovo volto di Dio come Amore nel quale Legge antica trova la sua massima concretazione cristologico-trinitaria e la sua unificazione.
- un terzo aspetto di novità nel rapporto tra Gesù e la Legge
- Gesù non parla ed opera in nome di altri come facevano gli scribi e gli stessi profeti, ma egli si riferisce per illustrarne il senso.
- con la sua venuta, il tempo presente è pieno di salvezza, in esso Gesù è la chiave della sua comprensione, perché in lui si rileva la volontà divina, e la Legge trova il suo compimento.
- i casi di conflitto:
- le interpretazione della Legge circa il sabato – il saboto è per l’uomo.
- la controversia sul ‘puro e l’inpuro’ – richiama il principio della obbedienza interiore ribadito dai profeti.
- il regime di tolleranza riguardo al divorzio – ricorda che secondo la volontà divini ‘al principio non era così’.
- non si tratta propriamente di un conflitto con la Thorah, quanto con la sua interpretazione orale.
- Egli porta la Legge al superamento-adempimento che si compie nell’ora presente ad opera della sua persona.
- rivela il volto nuovo del sacro come «spazio di salvezza in cui Dio nel suo Figlio si avvicina misericordiosamente all’uomo sollevandolo dal peccato e consentendogli di accogliere il suo dono di amore nell’intimo della stessa profanità della vita».
- in tutti questi casi l’atteggiamento di Gesù no è quello di un riformista restauratore della Thorah: è molto di più. - Egli instaura una nuova economia di amore in cui l’uomo sarà fedele a Dio per il fatto che l’amore stesso del Cristo, che viene dal Padre, penetra nel cuore dell’uomo per mezzo dello Spirito, rendendo l’uomo capace di amare come Dio stesso ama.
- in Gesù di Nazaret si compie la Legge come espressione suprema della volontà divina, «volontà di santità» dell’uomo.
- il dono della legge si sarebbe compiuto nella rivelazione definitiva escatologica del ‘nome’ di Dio.
- il vero originario comportamento di Gesù riguarda il compimento in Lui della Legge antica, perché in Lui la rivelazione escatologica della santità di Dio si adempie.

c) Gesù di Nazaret ed i movimenti rivoluzionari del suo tempo
- il rapporto di Gesù con il movimento zelota tendenze nazionaliste, diretto ad instaurare lo stato giudaico di diritto contro Roma.
- fede e politica si sarebbero congiunte convergendo sulla necessità dell’uso della forza per instaurare un cambiamento radicale dell’orientamento sociale in Palestina.
- la parola ‘zelota’ mai intravedere in nessun caso, nel periodo anteriore e contemporaneo all’epoca di Gesù di Nazaret, un’attività rivoluzionaria come noi oggi intendiamo.
- ‘zelo’ è piuttosto riferito alla osservanza della Legge.
- non appare che gli zeloti, al tempo di Gesù, avessero acuto delle mire politiche di resistenza armata contro i Romani.
In scena, secondo G. Flavio, molto tardi, sotto il governo di Felice i ‘zeloti’ rivoluzionari entrano (50-60 d.C.).
- degli zeloti al tempo di Gesù era diretto non a fini politici, bensì religiosi: contro i giudei infedeli alla legge di Mosè.
- dall’anno 68 d.C. gli zeloti, insieme ad altri movimenti passarono alla lotta armata contro i Romani.
- Gesù ha chiamato tra i discepoli almeno uno zeloto, ma è possibile che ci sono stati più, anche se le sue concezioni del messianismo erano diverse dalle idee circolanti nel suo ambiente.
- le tentazioni di Gesù di ricevere questa concezione di Messia – un momento culminante fu il tentativo in questo senso avvenuto dopo la moltiplicazione dei pani.
- si deve notare la distanza di Gesù da ogni messianismo fondato sulla instaurazione violenta della liberazione dell’uomo.
- la strategia zelota era strettamente nazionalista tendente a purificare Israele nell’ambito però degli antichi sistemi del debito e della impurità.
- l’atteggiamento dominante del messianismo di Gesù emergente dalla testimonianza evangelica è caratterizzato dal rifiuto di ogni ricorso alla violenza derivante dalle suggestioni sia del potere dominante oppressivo, sia da eventuali moti rivoluzionari – rifiutato da Gesù storia della passione.
- il motivo del rifiuto della violenza come metodo efficace di liberazione dell’uomo – la violenza, in realtà non è veramente innovatrice.
- la violenza non è pertanto veramente rivoluzionaria, ma potremmo dire, reazionaria.
- la novità del comportamento di Gesù rispetto ai movimenti rivoluzionari di ogni tempo, sta nel rendere presente il regno di Dio come lo spazio nuovo, che apre all’uomo, già adesso nel mondo una reale possibilità di libertà.
- Gesù assume l’amore come metodo di lotta.
- Dio ama ciascuno – l’uomo non può essere oggetto di sfruttamento (vykořisťovaní) neppure oggetto di odio.





GESÙ DI NAZARET,
 PROFETA DEL REGNO E FIGLIO DELL’UOMO

- per la visione di fede del NT, Gesù di Nazaret, «nato da donna, nato sotto la Legge» è venuto nella «pienezza dei tempi».
- la venuta di Cristo, che anticipa l’evento escatologico del Regno e lo rende già adesso operante a rendere il tempo ormai compiuto.


I. GESÙ DI NAZARET, IL PROFETA DEL REGNO

- la prima domanda che ci si pone è come la comunità giudeo-cristiane ed ellenico-cristiane che proclamavano Gesù come Messia e Signore, anno ricordato retrospettivamente il profeta prepasquale.
- il titolo di profeta non è attribuito a Cristo nel NT, fuori degli evangeli.
- le prime tradizioni cristiane riguardo all’attribuzione di questo titolo a Gesù in riferimento al Battista e ad Elia.
- per gli evangeli è la folla che ritiene che Gesù sia un profeta, mentre i discepoli non lo dicono mai e Gesù sembra solo accennarlo in maniera indiretta.
- essa non dipende solo dal rispetto della situazione prepasquale della usa esistenza storica, ma anche da una situazione della riflessione cristologica della fede post-pasquale documentata dal NT nella quale appare che «la persona e l’agire di Gesù in uno stadio anteriore della tradizione fu descritta ricorrendo a questa rappresentazione (cioè del profeta escatologico)», ma «in seguito fu cancellata e ricoperta dalle espressioni cristologiche posteriori».
- alle queste tradizioni cristiane hanno evoluto una cristologia del profeta proprio a partire dalle loro origini giudaiche.

a) messianismo e profetismo
- il termine messia (da meshiah, in greco christo), nato in ambiente regale, designa un re che riceve la sua forza dal Signore Dio e partecipa della santità e sacralità di Dio stesso.
- il rito di unzione dell’olio in occasione della intronizzazione del re, lo metteva a servizio della divinità – i testi biblici uniscono una penetrazione della persona dell’unto da parte dello Spirito di Dio (ruah).
- già all’epoca di David non era più tanto il monarca che appariva agli occhi del popolo come rivestito della potenza di Dio.
- il messianismo incomincia a rivolgersi più verso una discendenza futura che sul presente (2 Sam 7).
- l’unto del futuro reggerà un regno messianico caratterizzato da una certa durata terrestre (mille anni).
- nella epoca del Gesù queste attese della venuta di un figlio di David erano utopica.
- l’appellativo di ‘Figlio di David’ suonava come un titolo di potere.
- il Messia non va identificato semplicemente come Figlio di David. È il punto di vista sempre più dominante nella riflessione neotestamentaria in cui l’origine davidaci ‘secondo la carne’ si stabilisce quasi in opposizione alla origine ‘secondo lo Spirito’.
- diversa era la concezione del profeta escatologico atteso per gli ultimi tempi, che avrebbe inaugurato il giudizio escatologico di dio e l’ingresso del regno di Dio.
- quale era questa l’attesa nel tempo di Gesù? – l’utopia di una radicale svolta religiosa nella storia propria del profetismo con le aspirazioni nazionalistiche di una liberazione.

b) Gesù il profeta del Regno
- anche se Gesù non si è mai attribuito il titolo di profeta, dall’anamnesi della prima comunità giudaico-cristiana la quale trova il suo luogo fondamentale nel test del battesimo.
- esso ci rivela il profondo legame tra movimento battista e profezia: i battisti, come i profeti escatologici, predicavano l’urgenza dei tempi.
- in questa anamnesi si sottolinea la sua profonda differenza rispetto ai profeti del suo tempo: tale differenza si rivela anzitutto attraverso la polemica di Gesù.
- il secondo aspetto più importante della sua anamnesi ecclesiale – rapporto personale tra Gesù e l’anticipazione del regno escatologico e dell’atteggiamento da assumere dinanzi al Regno che viene.
- dall’altro, si tratta di avere presente il legame tra profetismo e sofferenza-martirio – nella tradizione comune di Matteo-Luca.
- la fisionomia profetica nella concezione di Gesù richiama un motivo del martirio – non più quello di gloria.
- si annunciava l’avvento di un profeta simile a Mosè nel suo ruolo di giudice e anche di Elia, del suo ritorno che avrebbe segnato la fine dei tempi.
- il rapporto della venuta del profeta escatologico come mediatore per l’imminenza del Regno porta ad illuminare storicamente la figura di Gesù come il profeta che introduce i tempi nuovi.
- Gesù è come Elia e come Mosè, profeta di un nuovo Sinai sul quale Dio proclama: «ascoltatelo».

c) le caratteristiche del messaggio del Regno nella predicazione di Gesù
- il tema della prima predicazione di Gesù in Galilea è riassunto da Marco 1,15 con le parole: «il tempo è compiuto, il Regno di Dio si è avvicinato. Convertitevi e credete al vangelo».
- negli evangeli l’espressione è molto usata.
- l’annuncio del Regno è stato «l’oggetto proprio e specifico della predicazione di Gesù di Nazaret».
- questo fenomeno letterario ci porta già a percepire la novità di un evento storico che ne è alla base. Non solo appare nuova infatti la ricorrenza della espressione, ma anche lo sviluppo del suo significato che essa assume nell’uso degli evangeli e che possiamo così delineare:
- prima di tutto va osservata la novità del significato escatologico della predicazione del Regno da parte di Gesù.
- il giudaismo per regno di Dio intendeva l’attuale sua sovranità su Israele.
- esso non connota alcuna idea di localizzazione interna o esterna – non si può dire eccolo qui o eccolo là, ma è tra di voi (Lc 17,20-21).
- il Regno è un dono puramente gratuito di Dio, un bene che è offerto all’uomo e che lui non può con le sue forze costringere a venire, né affrettarne (uspíšit) i giorni.
- nei sinottici tale espressione assume un significato prettamente escatologico designando essenzialmente la sua realtà finale.
- l’aspetto più nuovo dell’annuncio di Gesù sta in quella che possiamo chiamare la attualità escatologica, con un linguaggio di prossimità temporale di un evento immanente.
     - la dimensione teologico-cristologica di questo Regno che viene.
- nella problematica attuale sul rapporto tra l’annuncio escatologico e l’urgenza dell’appello etico della predicazione di Gesù la migliore soluzione (řešení) è quella di rispettare e collegare le due dimensioni del messaggio del Regno:
- quella escatologica – riguardante la signoria di Dio,
- e quella teologica – concernete la sua paternità.
- il messaggio di Gesù appare nuovo non in quanto annuncio imminente di una fine, ma in quanto annuncio anticipatore della nuova era che si apre proprio con la venuta della sua persona.
- la novità dell’avvento del regno escatologico nella parola e nell’opera di Gesù, che appare come signoria di un amore senza limiti, come libertà sovrana di un Dio che perdona gratuitamente i debiti ai suoi figli è fondata proprio sulla manifestazione del Padre.
- è l’era della ‘grazia’ del Regno che viene come offerta di amicizia, di comunione personale che il Padre offre facendosi vicino ai piccoli.
- questa caratteristica teologico-escatologica del Regno nella predicazione di Gesù si concentra ancora nella usa nota ‘cristologica’ che richiama l’attenzione sulla figura storica e singolare di Gesù sulla importanza della sua Persona e della sua vita per l’annuncio del messaggio stesso escatologico e teologico.
- se il Regno viene, se il nome del Padre è rivelato agli uomini, è perché la persona di Gesù, il Figlio è presente nella storia e porta a compimento la rivelazione del Padre.
- qui si tocca il punto più nodale della novità teologico-escatologica del messaggio di Gesù sull’avvento del regno di Dio – la rivelazione del nome del Padre non deriva dalle attese escatologiche già presente nella vita religiosa di Israele, ma deriva da una ‘fonte originale’ – quella della persona del Figlio.
- è perché il Figlio è venuto e si rende presente ‘nell’oggi’ della storia che il Padre può essere rivelato ed il Regno viene nella sua forma di perdono e di salvezza.
- così, è la persona di Gesù che rende Dio-Padre ‘prossimo al mondo’.
- così la sua persona dalla fisionomia filiale diviene il principio ermeneutico dell’annuncio stesso del Regno.
     - la dimensione soteriologica
- l’avvento del Regno inaugurato da Gesù pone apertamente in evidenza di fatto, il condono del peccato.
- nel tardo giudaismo i movimenti penitenziali portavano l’israelita ad una acuta coscienza del peccato ed alle esigenza di conversione.
- la teologia rabbinica dal canto suo, non identificava la ‘salvezza’ con il regno di Dio – la remissione del peccato non coincideva con la venuta del Regno.
- nella predicazione del Regno da parte di Gesù, scompaiono gli accenti di vendetta, mentre emergono primariamente le “parole di grazia”.
- l’ora presente del Regno coincide con un’ora di grazia, che è il Regno stesso.

d) i segni della venuta del Regno nel ministero profetico di Gesù
-  si tratta di un triplice dato: i segni taumaturgici, i gesti di riconciliazione, la prassi parabolica.
Gesù esorcista e taumaturgo
- il dato notevolmente presente nella narrazione sinottica trova un ampio consenso esegetico su due punti particolari:
- Gesù è stato veramente considerato un esorcista ed un taumaturgo dai suoi contemporanei,
- questi gesti significativi sono essenzialmente legati all’annuncio del regno di Dio.
- l’esperienza del popolo d’Israele con Dio, che si manifesta nella sua potenza
- la prima grande esperienza del meraviglioso si compie nel luogo della storia dell’esodo – la ‘mano forte’ ed il ‘braccio teso’ di Dio.
- più ancora l’opera meravigliosa di Dio si mostra nella rivelazione del Sinai – entra in comunicazione diretta con il suo popolo rivelandogli la sua volontà.
La lettura profetica vede nei fatti meravigliosi del passato la garanzia del presente e del futuro: «JHWH è vivente».
- in questa prospettiva il Dio di Israele, Signore della storia, è anche il dio del meraviglioso.
- ogni evento in cui JHWH manifesta la sua grandezza e potenza è nel senso più ampio della parola ‘opera mirabile’.
- nella rivelazione c’è una gradualità ed una distinzione – dalla manifestazione della presenza creatrice di Dio si passa infatti alla manifestazione più personale del Dio amante e liberatore.
- in genere si tende a riconoscere quasi unanimemente il valore storico dell’attività globale di Gesù come esorcista e guaritore.
- il richiamo al miracolo, non prende il via dal presente delle comunità cristiane pasquali e della predicazione apostolica se non nella considerazione che tale annuncio avviene con parole ed opere, con la potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito.
- Gesù ha annunciato il Regno non solo in parole, ma con gesti potenti, tangibili, che erano come la concretizzazione e visualizzazione del suo stesso annuncio.
- il miracolo nel ministero di Gesù non va considerato come semplice conferma esteriore delle sue parole, quanto come dimensione intrinseca del regno di Dio che viene.
- il messaggio del Regno ed i miracoli formano una realtà globale tanto da poter definire il miracolo stesso come ‘segno del regno di Dio in atto’.
- a comunità cristiana rievoca i miracoli della esistenza storica di Gesù come segno anticipatore di quella sua missione con cui egli ha inaugurato questa vittoria di Dio su tutti i limiti che schiavizzano l’esistenza dell’uomo.
- parlare di miracolo significa parlare dell’agire cristiano.
- nel racconto evangelico egli fa memoria dei miracoli del maestro per tradurre il sento stesso della sua pratica liberatrice.
- l’esperienza di pasqua con la vittoria escatologica del Cristo Signore sul dolore e sulla morte aveva fatto comprendere il significato nuovo e singolare dell’opera intrapresa da Gesù di Nazaret già al  principio della sua predicazione ed instaurazione del Regno in Galilea.
- l’esorcista giudeo del primo secolo esercitava la sua pratica ‘in nome’ di un altro, mentre Gesù li compie nel proprio nome.
- questo carattere si minifesta anche in tutti gli altri segni miracolosi.
- Israele era stato testimone dei mirabilia Dei compiutisi attraverso Mosé, Elia, Eliseo – era solo Dio a compiere i segni straordinari.
- nella storia di Gesù la sua persona appare invece investita di autorità divina. È lui stesso operatore dei prodigi.
- negli altri miracoli è sempre l’opera salvifica di cristo che si esprime nel segno potente – così i segni divengono essi stessi una rivelazione parlante di Gesù e nelle parole autorivelatrici di Gesù sono resi ancor più visibili nel loro carattere di ‘segno’.
- i miracoli che nei sinottici sono ‘segni del regno di Dio in atto’, nel quarto evangelo mostrano visibilmente gli attribuiti soteriologici della persona di Cristo.
- gli uomini sono andati nel sabato nella sinagoga per ricordare le grande cose che ha fatto Dio.
- rispetto a questo ambiente sinagogale vanno menzionati negli evangeli soprattutto i miracoli escatologici che rievocano le antiche meraviglie, come pure quelli che richiamano gli annunci profetici come in Isaia.
- l’importanza di questa rilevanza escatologica dei miracoli del vangelo sta non solo nel valore messianico, essa si trova anche nel fatto  che i miracoli del vangelo sono il segno della nuova creazione, di una nuova comunicazione di Dio nel mondo che non solo salva l’uomo, ma gli offre una sua particolare amicizia personale.
I gesti di riconciliazione
- l’importanza dell’agire di Gesù di Nazaret appare nella anamnesi evangelica espresso non solo nei gesti di potenza taumaturgica, ma anche e particolarmente in quelli di riconciliazione.
- la Croce del risorto era il luogo per eccellenza in cui la comunità delle origini viveva l’esperienza esaltante e gioiosa del perdono del peccato e quella della universale riconciliazione del cosmo e dei popoli.
- dalla questa esperienza la comunità apostolica racconta i gesti del ministero terrestre di Gesù come quelli che inauguravano l’era nuova del perdono escatologico.
- l’avvento del Regno inaugurato dal profeta galileo si manifesta proprio nell’opera di riconciliazione.
- il primo fatto fondamentale che costituisce un grande segno di riconciliazione è la convocazione dei discepoli intorno a Gesù in comunità – è Gesù che anzitutto sceglie e chiama e non il discepolo.
- all’epoca di Gesù c’era tutta una serie di tentativi per realizzare una convocazione.
- le promesse, alla costituzione del ‘resto santo’ di Israele che si sarebbe salvato.
- un particolare esempio del tentativo di ricostituzione del ‘resto santo’ si compiava nella comunità monastica di Qumran.
- il movimento battista costituiva un esempio diverso di convocazione di un resto santo intorno alla persona del battezzatore, non come un ‘resto chiuso’ bensì aperto.
- in questo modo si anticipava quella convocazione escatologica di un ‘popolo umile e povero’.
- l’azione di convocazione comunitaria compiuta da Gesù non è stata caratterizzata da nessun processo di segregazione. Egli chiama a raccoglie intorno a sé in comunità.
- la novità del comportamento di Gesù, nella convocazione in comunità dei discepoli – Gesù chiama ed offre la sua amicizia prima ancora che l’uomo possa concepire il pentimento ed accoglie in comunità di mensa pubblicani e peccatori.
- con questa prassi conviviale egli testimoniava l’offerta illimitata della grazia di riconciliazione.
- il compito della comunità è quello della missione diretta sia all’Israele storico, disperso, sia al mondo pagano.
- il gruppo rivela così una forza dinamica di espansione.
- la comunità che si fonda intorno a Gesù è allora il segno per eccellenza della presenza efficace del Regno.
- è un ‘segno anticipatore’ della perfetta comunità escatologica del Regno nella sua fase di compimento ultimo.
- la tradizione sinottica rileva tra i primi gesti del comportamento di Gesù quello della concessione del perdono del peccato.
- il ministero di Gesù costituiva una forte provocazione nella società religiosa del suo tempo.
- egli invitava tutti a riconoscersi peccatori insolvibili dinanzi a Dio, offriva il perdono dei peccati.
La prassi parabolica
- alcuni hanno oggi mostrato il nesso profondo, nella narrazione evangelica, tra i miracoli e le parabole.
- un medesimo operatore, Gesù, è all’origine dei miracoli e delle parabole:
     - i primi sono ‘opere compiute’ (opere somatiche)
     - le seconde sono ‘opere dette’ (narrate).
- i miracoli e le parabole espongono le due dimensioni dell’agire:
     - quella del ‘fare
     - quella del ‘dire’.
- se i miracoli sono azioni di contenuto simbolico, che appartengono al ‘fare pragmatico’, le parabole sono ‘eventi del linguaggio’ che appartengono al ‘fare conoscitivo’.
- così il linguaggio delle parabole è un ‘evento’ in due sensi:
     - esso introduce nella situazione una nuova possibilità reale,
     - costringe l’ascoltatore ad una decisione.
- il racconto parabolico nei sinottici è la forma privilegiata dell’annuncio del Regno che esercita la sua forza innovatrice attraverso una ‘parola-racconto’.
- le parabole possono considerarsi «l’elemento più caratteristico dell’insegnamento di Gesù, quale ci è tramandato dagli evangeli».
- esse riflettono proprio sul piano letterario le prassi di Gesù.
- Gesù non ha usato le parabole come strumento pedagogico e didattico in ausilio di genti culturalmente incapaci di recepire un insegnamento troppo astratto ed elevato.
- il linguaggio parabolico di Gesù, più che essere determinato dalla povertà intellettuale degli uditori appare situato meglio storicamente in un contesto o situazione di dissenso aperto o velato con il suo modo d’agire.
- con il linguaggio parabolico Gesù narra una storia in cui il punto di dissenso è velato, mentre l’attenzione è richiamata dal confronto di due comportamenti dei quali l’uno rappresenta il punto di vista dell’interlocutore e l’altro quello di Gesù.
- costringendo, col racconto di una parabola, i suoi ascoltatori a prendere una decisione, Gesù offre loro la possibilità di compiere la conversione della loro esistenza, di guadagnare una ‘nuova vita’.
- nell’accostarsi al racconto delle parabole evangeliche bisogna fare attenzione all’orizzonte della Chiesa post-pasquale ed ai problemi riguardanti la sua situazione di vita.
- si deve notare l’importanza delle parabole per quanto riguarda il fatto che esse traducono con un linguaggio di prassi la ricchezza inesauribile (nevyčerpatelný) del messaggio del regno annunciato da Gesù.
- le parabole sono eventi linguistici appartenti ad un “fare conoscitivo” – è una forma retorica
- allegoria – parlare altrimenti, un altro modo – egli è come un leone
- metafora – parlare oltre – c’è un’unione, una sovrapposizione, una identificazione fra i due termini – egli è un leone.

II. GESÙ DI NAZARET, IL FIGLIO DELL’UOMO

- la ‘persona’ di Gesù suscita la domanda: chi è costui?
- il suo comportamento fa saltare la sua possibile classificazione nelle categorie e modelli conosciuti nel giudaismo (rabbi, profeta).
- nel materiale evangelico, risale nei detti di Gesù una presenza massiccia di una attribuzione come ‘Figlio dell’uomo’ che in un certo modo tematizza l’affermazione di quella ‘cristologia indiretta’.
- secondo un primo orientamento più tradizionale, massimalista, tutti i logia del Figlio dell’uomo sarebbero autentici – per cui Gesù stesso avrebbe adoperato questa espressione nella linea di Dan 7,13 evocando in tal modo il suo avvento finale e la sua preesistenza archetipa.
- l’affermazione di altri – tutti questi logia sarebbero in autentici letterariamente e storicamente in quanto essi sarebbero il frutto di una tradizione midraschica sulla glorificazione del Risorto alla luce di Dan 7,13.
- una posizione intermedia – l’espressione ‘Figlio dell’uomo’ sarebbe autentica solo nei logia escatologica in riferimento diretto a Dan 7,13.
- questa espressione pertanto rifletterebbe originariamente una certa identificazione tra Gesù stesso ed il Figlio dell’uomo futuro, annunciando che dopo la morte sarebbe stato lui stesso il Figlio dell’uomo nella gloria.
Il ‘Figlio dell’uomo’ nel mondo palestinese
- essa nell’ambito aramaico può designare o un uomo qualsiasi (qualcuno, un certo uomo), oppure potrebbe indicare, in casi piuttosto rari, un sostitutivo dell’io o del tu (un uomo come me, come te).
- il testo etiopico delle parabole di Enoch, in cui l’espressione ‘Figlio dell’uomo’ è usata come titolo messianico e come predicato, il resto della letteratura giudaica anteriore al secondo secolo della nostra era, ha usato questa espressione come una connotazione speciale per evocare l’uomo nella sua grandezza archetipa ed il messia futuro.
- Dan 7,13 – qui, in realtà, il ‘Figlio dell’uomo’ secondo la spiegazione che ne dà il v.27 che lo identifica al ‘popolo dei santi’, cioè Israele, non indica l’intronizzazione di un re umano.
- H. Cazalles – si tratta di un simbolo collettivo con insieme una connotazione individuale aperto ad una possibile utilizzazione messianica.
- il Perrot – l’espressione ‘come figli degli uomini’ evochi l’uomo nella sua autenticità originale.
- in altri scritti giudaici – era in voga una certa adamologia secondo cui ‘il Figlio dell’uomo’ sarebbe l’uomo primordiale, Adamo, creato da Dio nella sua grandezza originaria di ‘immagine perfetta di Dio’ e dalla quale sarebbe caduto con il peccato ed alla quale tenderebbe a risalire.
- questa risalita della umanità avrebbe, secondo IV Esdra 13,2-3 attraverso proprio la venuta del Figlio dell’uomo, l’Adamo autentico, l’uomo primordiale.
- con l’espressione ‘Figlio dell’uomo’ il giudaismo anteriore al secondo secolo evocava l’uomo nella sua grandezza archetipa ed anche il messia futuro.
Il Figlio dell’uomo nell’uso delle comunità apostolica
- la cristologia delle comunità cristiane del primo secolo è l’assenza della espressione ‘Figlio dell’uomo’.
- nelle lettere paoline non compare mai.
- nel resto del NT l’espressione in questione appare solo in Atti 7,56 ed in alcuni passi della Apocalisse.
- la cristologia del NT sembra testimoniare piuttosto il passaggio della espressione centrale, per gli evangeli, di ‘Figlio dell’uomo’, al titolo dogmatico per eccellenza della Chiesa apostolica, del Cristo come ‘Figlio di Dio’.
- va anche considerato che per i pagano-cristiani, Figlio dell’uomo era inintelligibile; la sua trasformazione in Figlio di Dio è dunque portata apparire sempre più necessaria.
- la tradizione sinottica presenta l’espressione allo stato più arcaico.
- è necessario però premettere alcune brevi considerazioni riguardo al modo con cui l’espressione in questione viene utilizzata.
- la prima cosa notevole è che tutti i passi contenenti il termine ‘Figlio dell’uomo’ appartengono ai detti di Gesù – è solo lui che adopera questa espressione.
- si deve notare ancora  che questa espressione appare sempre come il soggetto di un verbo di azione e mai come predicato o come attributo.
- l’espressione si presenta in terza persona (‘Figlio dell’uomo’), implicando con ci un certo distanziamento tra il Gesù terrestre e la sua condizione futura di Figlio dell’uomo.
Il Figlio dell’uomo negli evangeli sinottici
- importante è ora considerare l’uso della espressione ‘Figlio dell’uomo’ nel materiale sinottico nel quale si trova il maggio numero dei casi che ci interessano.
- tali risonanze emergono nella divisione dei passi in tre gruppi.
- nel primo si collocano le citazioni riguardanti la condizione terrestre del Figlio dell’uomo.
- nel secondo si collocano quelle del Figlio dell’uomo di fronte alla sofferenza e morte, nella prospettiva della risurrezione.
- nel terzo il Figlio dell’uomo appare come figura escatologica nella sua realtà celeste.
- riguarda le citazioni del primo gruppo, se si eccettuano due citazioni di Marco in cui il Figlio dell’uomo rivendica un potere eccezionale (ha l’autorità di perdonare…) le altre citazioni appaiono legate ad un certo ‘anti-potere’.
- le citazioni del secondo gruppo si collocano nella prospettiva però del futuro della passione e morte e della risurrezione.
- in tali passi, il Figlio dell’uomo non è soggetto di azione, ma di passione.
- nel terzo gruppo: nella gloria, il Figlio dell’uomo ‘avrà potere’ ed agirà.
- insomma, si può dire che l’espressione di ‘Figlio dell’uomo’ esprime negli evangeli sinottici, l’Io di Gesù nel suo rapporto con l’anti-potere o con il potere.
Il Figlio dell’uomo nel quarto evangelo
- uso ecclesiastico di Figlio dell’uomo in un’epoca tardiva con evidenti segno di sviluppo teologico.
- il quarto evangelo non propone una teologia del ‘Figlio dell’uomo’ parallela a quella del ‘Figlio di Dio’.
- i logia del quarto evangelo si integrano pienamente con la cristologia del Figlio di Dio.
- nei logia del quarto evangelo ha un notevole risalto l’idea della incarnazione ed il ritorno pasquale, manifestando così il mistero della ‘origine celeste’ di Gesù.
- il Figlio dell’uomo non è qui il misterioso personaggio apocalittico che viene ‘sulle nubi del cielo’, quanto ‘colui che è disceso dal cielo’.
- ed è perché è disceso ‘dal cielo’ che egli è il Figlio dell’uomo ed ha il potere di giudicare e per questo può ‘risalire al cielo’ là ove era prima.
- si deve notare che a differenza dei sinottici, l’espressione ‘Figlio dell’uomo’ nel quarto evangelo non annuncia una futura parusia.
- così, nel quarto evangelo e più ancora nella Apocalisse, il Figlio dell’uomo appare un vero e proprio titolo cristologico congiunto essenzialmente con la cristologia dell’era apostolica.
Il Figlio dell’uomo e la storia terrena di Gesù
- l’espressione ‘Figlio dell’uomo’ già nel giudaismo era portatrice di un certo significato protologico ed escatologico.
- l’espressione è apparsa sommamente adatta ad esprimere il significato della persona e del ministero di Gesù di Nazaret.
- se non si può negare l’esistenza di una arcaica cristologica del Figlio dell’uomo rimane il fatto inspiegabile per cui essa viene usata solo nei detti di Gesù e non negli appellativi dei discepoli e dei contemporanei.
- è possibili sostenere seriamente che l’uso di questo appellativo sia dovuto originariamente a Gesù stesso.


GESÙ, IL PADRE E LO SPIRITO

- fondamentale per lo studio della anamnesi del Gesù prepasquale è il rapporto tra Gesù e Dio che tocca il cuore del mistero della sua persona.
- questa, come già è apparso, agisce con la stessa autorità di Dio, parla come la sua stessa bocca, agisce come il suo stesso braccio potente.
- essa si colloca con tutta la sua straordinaria autorità divina, dinanzi al Dio che chiama costantemente suo Padre e mostra un singolare ed unico rapporto allo Spirito.


I. PATERNITÀ E FILIAZIONE DIVINA NEL GIUDAISMO
 E NELLA COMUNITÀ CRISTIANA PRIMITIVA

- nell’ambiente ellenistico si parlasse di figli degli dei e della loro generazione – ambiente mitologicamente.
- la formula ellenistica della filiazione divina, di carattere mitico serviva a rendere comprensibile ed accettabile la loro autorità in Oriente, come una loro forza di legittimazione.
- queste concezioni mitologiche ellenistiche non possono considerarsi alla base dell’appellativo e della concezione di fede sul Cristo come Figlio di Dio.
Bisogna avere presenti questi due ambienti (quello ellenistico e quello giudaico) religiosi per poter definire meglio l’esperienza del tutto originale del rapporto di Gesù di Nazaret con Dio.
Il giudaismo
- la concezione dominate di Dio era espressa dal termine ‘Signore’.
- il termine ‘Padre’ compare piuttosto raramente.
- espressi attraverso questo linguaggio che designava la divinità nella sua autorità assoluta ed intangibile e nella sua pietà misericordiosa verso i suoi figli.
- li luogo della esperienza della filiazione di Israele, dinanzi al ‘Dio Padre’ è quello dell’intervento storico-salvifico di Dio compiutosi nell’esodo – Israele e la propria ‘elezione’ a ‘popolo primogenito’ di Dio – questo è preso dall’illunimismo.
- l’idea di paternità-filiazione appare possedere insieme una connotazione storico-salvifica e ‘collettiva’.
- la paternità divina nell’AT non è la fonte della meditazione di Israele su Dio.
- l’esperienza riligiosa di Israele va da JHWH al Padre e non dal Padre a JHWH.
- il Dio-Padre riassume in sé le qualità di autorità e di amorevolezza che si esplicano attraverso una lunga storia – fondamentalmente archeologica, la paternità divina diviene così escatologica.
- nel giudaismo palestinese del tempo di Gesù, l’appellativo di Padre rivolto a Dio era tutt’altro che di uso corrente, una certa tendenza all’uso popolare della espressione «il Padre celeste».
- propriamente e prevalentemente Dio era considerato solo il Padre dei giusti e la paternità divina era solo correlativa all’opera meritoria (záslužný).
- nel giudaismo palestinese prevaleva la formulazione liturgica collettiva della invocazione comunitaria: ‘abinu-malkenu’ (Padre nostro, nostro re).
La comunità cristiane
- le novità profonde – si usava l’attribuzione di Padre come titolo dominante per indicare ‘Dio’ (o Theos), ma anche per indicare il rapporto tra Gesù e Dio – reinterpretato dalla teologia cristiana alla luce dell’evento di pasqua, l’escatologia apocalittica del Figlio dell’uomo e la concezione del Figlio inteso non come titolo di dignità, ma come ‘servizio’ (Figlio = Servo) e missione esplicata nella obbedienza.
- nel cristianesimo primitivo, questa attribuzione cristologica era legata anche alla stessa nuova esperienza religiosa vissuta dai cristiani nel loro rapporto filiale a Dio chiamato Padre.


II. GESÙ E IL PADRE NELLA TRADIZIONE EVANGELICA

- nell’evangelo appare che l’idea di Dio ‘Signore’ di cui gli uomini sono servitori e debitori non è tramontata.
- la sovranità di Dio rimane fondamentale, come resta fondamentale l’atteggiamento di illimitata obbedienza dell’uomo dinanzi a Lui.
- tuttavia il dato nuovo è l’importanza che assume nella letteratura evangelica la designazione di ‘Padre’ nei confronti di Dio fino alla letteratura del quarto evangelo in cui ‘il Padre’ è la definizione abituale di Dio in bocca a Gesù.
- a) per quanto riguarda il parlare di Gesù riguardo a Dio come Padre, gli strati più antichi della tradizione sinottica comprendono undici passi che si raggruppano in tre serie:
- quelli che parlano di Dio come Padre senza pronome personale,
- quelli che riferiscono l’espressione, ‘il Padre vostro’ riferita ai discepoli, mai agli estranei,
- quelli che parlano del ‘Padre mio’ – questo gruppo di passi, è importante perché non ha paralleli nella letteratura rabbinica e rivela la singolarità del rapporto tra Gesù e Dio.
b) per quanto riguarda i logia concernenti l’uso della invocazione a Dio come Padre nelle preghiere di  Gesù – Gesù invoca Dio come Padre in tutte le preghiere.
- questo uso era profondamente radicato – Gesù stesso era principio di questa tradizione.
- Jeremias ha mostrato con validi argomenti che il termine abba costituisce il fondo aramaico di tutte le invocazioni a Dio nelle preghiere di Gesù (soltanto MC 14,36 ha accanto Padre il termina aramaico Abba).
- il nuovo stile di preghiera – l’assenza del termine aramaico abba nelle preghiere del giudaismo, sia quelle fissate dalla prassi liturgica


III. LE CARATTERISTICHE NUOVE DEL RAPPORTO FILIALE TRA GESÙ ED IL PADRE

- termine Abba è strettamente familiare. Ha suonato nelle bocche dei bambini verso il suo Padre, nelle bocce degli adulti ha avuto un tono strettamente confidenziale.
- era impensabile usare tale appellativo nella preghiera.
a) il modo di pregare di Gesù infrange una prima barriere dominante nel mondo delle religioni – quella che distingue nettamente il sacro dal profano – abba – uso profano.
- la religiosità filiale di Gesù coinvolge tutta la sua vita umana – si colloca al centro della sua esistenza.
b) il modo di pregare di Gesù trascende anche quelli verticali tra l’uomo e Dio.
- il rapporto tra Gesù ed il Padre non è sviluppato all’interno della esperienza storica della comunità di Israele.
- per rivolgersi al Padre, Gesù non dice ma ‘Padre nostro’ includendosi nel ‘noi’ ma solo ‘Padre mio’.
- l’abba rivela che la straordinaria familiarità di Gesù con Dio infrange le distanze tra creatura e creatore
c) cerchiamo ora di cogliere alcuni aspetti propri di questa ‘esperienza filiale’ di Gesù di Nazaret.
1) - questa esperienza filiale si riferisce al Padre come origine del suo essere personale, della sua missione, della sua potestà.
- Gesù appare come un uomo che esperisce e vive il suo rapporto di origine alla pari nella dignità.
- l’origine dal Padre, vissuta come comunicazione profonda e totale della conoscenza di Lui è garanzia di verità e di autorità della missione di Figlio.
2) – un secondo aspetto dell’atteggiamento filiale di Gesù nei confronti del Dio-Padre rivelato dai logia evangelici è quello costituito dalla reciprocità dell’amore.
- l’attitudine di Dio verso il suo popolo è prevalentemente espressa con i termini di ‘bontà’, ‘fedeltà’, ‘giustizia’ e il vocabolario dell’amore (NT).
- nella vita di Gesù si coglie l’espressione dell’amore senza limiti del Padre che si effonde verso il mondo attraverso il suo Figlio diletto e che trova nel Figlio una risposta totale, grata e fedele.
3) l’essere ‘dal Padre’ e l’essere ‘per il Padre’, nell’amore, che costituisce il cuore della esperienza religiosa di Gesù appare come espressione di illimitatezza dello stesso amore paterno.
- la reciprocità di amore che sta nel cuore della esperienza filiale di Gesù è caratterizzata dalla manifestazione imperiosa del volere del Padre che si manifesta nel piano storico della vita di Gesù, come esigenza concreta di bere il calice della passione e morte.
- la volontà del Padre è ‘la legge del Figlio’.
- nelle Getsemani egli si dona a Dio, in tutto ciò che egli è si accoglie in un altro, egli non è niente fuori di comunicazione reciproca che Dio fa di se stesso nell’amore.
- il Padre è il principio ed il termine della esistenza del Figlio.
4) - se la preghiera dell’abba esprime la via singolare ed unica propria di Gesù di Nazaret è pur vero che Gesù ha insegnato ai discepoli a pregare dicendo ‘Padre nostro’ nello Spirito del ‘Padre mio’.
- invocare il Padre è ‘formare la Chiesa’: chi chiama Dio Padre, scopre che ha dei fratelli.


IV. IL RAPPORTO TRA GESÙ DI NAZARET E LO SPIRITO

- l’esperienza della sovrabbondanza del dono dello Spirito nella Chiesa costituisce uno dei dati ampiamente documentati dal NT che è posto in riferimento all’evento pasquale.
- la prima catechesi apostolica negli Atti afferma che questo Gesù era stato «unto di Spirito santo e di potenza» (AT 10,38).
- gli evangeli testimoniano un rapporto singolare tra Gesù e lo Spirito.
- la lettura cristiana delle origini ha potuto cogliere il mistero dello stesso Spirito nella vita storica di Gesù.
l’esperienza dello Spirito in Israele
- si deve avere presente che in mezzo ai suoi molteplici significati, lo Spirito è prima di tutto prerogativa (přednostní práno) per eccellenza di Dio, suo mediatore di rivelazione e di creazione insieme alla Parola.
- la ruah, nell’AT, non definisce astrattamente Dio, quanto relativamente: ‘Dio rivolto verso la creazione’.
- tuttavia, per lo Spirito, Dio si rende presente con un’azione che non si confonde con l’impulso che essa genera – è una presenza sperimentale, ma inalienabile (nezcizitelný).
- nell’AT lo Spirito non si identifica mai con il Dio-Padre, e la teologia dell’AT non ha ma i collegato il modo di comprendere Dio come Padre con il ruolo dello Spirito il quale non aveva mai assunto una fisionomia personale.
- esso esprimeva piuttosto la stessa forza dinamica con cui Dio opera nel mondo.
- per quanto riguarda poi il Messia che era annunciato come ‘uomo della ruah’, il giudaismo non aveva mai pensato che la effusione pneumatica nella comunità messianica, nell’era escatologica, avvenisse attraverso lui.
- il pensiero dominante del giudaismo ortodosso riteneva che in israele, lo Spirito fosse estinto.
- da morte degli ultimi scrittori Dio non parlava più al suo popolo attraverso la sua voce, ma solo attraverso l’eco della sua Parola.
- questa idea rifletteva la coscienza di Israele di essere lontano da Dio.
- tempo senza Spirito è tempo posto sotto il giudizio: Dio tace.
è necessario ora considerare la anamnesi del Signore risorto come profeta escatologico peregrinante ed operante nel suo ministero terrestre nella virtù dello Spirito
- il battesimo di Gesù associa alla dignità di Figlio di Dio e di Messia escatologico, l’intervento dello Spirito su di lui – scena narrativa che apre un’era nuova di irruzione dello Spirito sopra Messia e la comunità del nuovo Israele.
- ci mostra che questo Messia è Signore dello Spirito in quanto può comunicarlo ‘battezzando nello Spirito santo’ (Mc).
- in questo contesto di nuova manifestazione dello Spirito, tutto il ministero di Gesù è rievocato dalle narrazioni evangeliche come una missione compiuta nella forza dello Spirito santo.
- essa appare un ulteriore dato teologico della fede della chiesa che vuole mostrare come Gesù di Nazaret non fosse un Figlio adottato e ricolmato di Spirito, perché questo Spirito ha operato nella sua stessa concezione.
- nato dallo Spirito santo, egli era Figlio dell’Altissimo fin dagli inizi della sua esistenza terrena.
- a questi dati pneumatologici degli inizi fanno riscontro nella tradizione evangelica diversi accenni con cui si richiama questa presenza dello Spirito santo nella vita di Gesù – l’epistola delle tentazioni soprattutto nella redazione lucana – tutto il suo ministero profetico è sotto l’azione dello Spirito.
- si collocano alcuni logia di Gesù nella sua coscienza circa il suo personale rapporto con lo Spirito.
- essi sono:
     - il logion della bestemmia contro lo Spirito santo riferito dalla triplice testimonianza sinottica,
     - quello della promessa del dono dello Spirito ai testimoni di Cristo nella persecuzione.
- l’importanza di questi detti di Gesù strettamente congiunti alla sua azione instauratrice del Regno sta nel fatto che essi testimoniano quanto la tradizione apostolica annunciava della sua persona e del suo ministero terrestre la presenza del regno di Dio.
- pertanto, rifiutare la sua missione profetica significava rifiutare la concessione escatologica del perdono di Dio e quindi bestemmiare contro l’opera della grazia (peccato contro lo Spirito).
Appare necessario evidenziare alcuni aspetti caratteristici di novità circa il rapporto tra Gesù e lo Spirito
- l’esperienza nuova dello Spirito si colloca nel quadro del rapporto unico e singolare tra Gesù ed il Padre.
- è proprio nel quadro di un essenziale rapporto tra Gesù ed il Padre che lo Spirito assume un ruolo personale proprio.
- Gesù appare come il Messia che ‘dona lo Spirito’ – in un certo modo lo Spirito gli appartiene.
- Gesù non è un carismatico ‘soggetto’ allo Spirito.
- lo Spirito di Cristo non è una mera funzione cristologica, ed assoggettato a Cristo.
- mentre nell’AT si ignorava il rapporto tra Dio come Spirito e Dio come Padre, nel linguaggio di Gesù, lo Spirito è chiamato anche ‘Spirito del Padre’ e lo Spirito è donato ‘dal Padre’ (Gv).
- Gesù dice che lo Spirito è suo, ma anche che non è solamente suo, perché è ‘originariamente’ dal Padre.
- questo duplice linguaggio di Gesù ci pone dinanzi alla considerazione dello Spirito no più come una semplice funzione ‘creatrice’ e ‘manifestatrice’ dell’unico Dio.
- ormai, lo Spirito acquista un volto personale divino: situato nel dialogo inter-personale tra Gesù ed il Padre.
- la personalità dello Spirito emerge solo sul piano del rapporto inter-personale tra Gesù ed il Padre, come ‘il noi personale’ della loro esistenza.
- così, possiamo dire che lo Spirito è ‘persona comunitaria’ un ‘noi-persona’, nel quale il Padre ed il Figlio vivono la loro profonda comunione.
- lo Spirito santo, possiamo dire, costituisce la «personalizzazione extatica del noi» dell’amore del Padre e del Figlio.
- lo Spirito non è solamente il ‘noi persona’ in cui si chiude il circolo della vita trinitaria, ma è anche il ‘noi persona’ in cui tale vita si effonde illimitatamente.
- conclusione: il rapporto vissuto tra Gesù ed il Padre, come pure il rapporto vissuto tra Gesù e lo Spirito, manifesta il mistero teologico della persona di Gesù che la cristologia ecclesiale apostolica e post-apostolica espliciterà nelle grandi affermazioni dei titoli cristologici e nelle esplicitazioni trinitarie.


L’ANAMNESI DELLA CROCE E DELLA RISURREZIONE

- ci dice che se un primo stadio della Tradizione evangelica andava prendendo corpo già prima di pasqua, tali ricordi storici, conservati dai primi testimoni.
- non si deve pensare che l’approccio fondamentale alla cristologia possa giungere ad un racconto giudaico-cristiano precedente ad ogni interpretazione ecclesiale.
- nel linguaggio narrativo erano già apparse all’inizio della tradizione cristiana.
- queste linee si distinguono da quella sezione (úsek) narrativa della vita prepasquale di Gesù che precede come una introduzione, la storia della passione.
- la prima sezione narrativa ha un carattere più discontinuo, più catechetico ed introduttivo.
- invece il racconto della passione, a partire dall’arresto di Gesù si presenta con alcuni tratti biografici e con una concatenazione dei fatti che fa pensare ad una lectio continua.
- nella concezione biblica il ‘ricordare’ non è semplicemente un atto intenzionale-mentale, spesso esprime piuttosto un ‘agire’: così il ricordarsi da parte di Dio del suo popolo, comporta l’intervenire concretamente in suo favore.
- memoria ed azione sono come due versanti, interiore ed esteriore, del rapporto che unisce Dio e l’uomo.


I. LA CENA CRISTIANA: LUOGO DELL’ANAMNESI ECCLESIALE

- la ‘cena del Signore’ è luogo per eccellenza del culto di lode e della anamnesi cristiana.
- la prassi della cena nella Chiesa apostolica è un agire cultuale nel quale i primi cristiani celebravano con gioia l’intervento liberatore di Dio dalla morte, del suo servo Gesù, intervento che li introduceva nel regno escatologico.
- in essa dominava la gioia escatologica e l’attesa del ritorno del Signore: Maranatha.
- questa celebrazione di lode che si riferiva immediatamente alla ‘memoria’ del passato della croce e della risurrezione, richiamava però il ‘fare memoria’ della cena pasquale di Gesù stesso, nei suoi gesti sul pane e sul calice.
- tra le molteplici forme di banchetti in uso nel giudaismo al tempo di Gesù – la cena pasquale (che si teneva in casa) e durante la quale si mangiava l’agnello immolato nel tempio, erano in vigore altri banchetti di comunione – nei testi di Qumran – si festeggiava il rinnovamento della alleanza.
- alcuni gruppi organizzavano banchetti riservati in cui da un lato essi scoprivano la loro unità separandosi dagli impuri.
- nella prassi della cena cristiana la comunità si distingueva per la varietà dei commensali, quanto al rango sociale e per l’aiuto diretto ai partecipanti più poveri.
- duplice valore di comunione e di servizio di carità – vivere insieme e dare da mangiare agli affamati.
- si trattava del pane e del calice del Signore.
- si trattava di un’azione liturgica per cui la comunità rievocando la sua morte, si riuniva nell’attesa del suo ritorno – così il pasto cristiano si collocava tra la memoria della croce e la prognosi della parusia.
- negli Atti c’è l’espressione della ‘frazione del pane’.
- l’atto della frazione del pane, che comportava la benedizione divina, metteva in relazione con Gesù di Nazaret, nella sua prassi dell’ultima cena.
- nella loro celebrazione della cena i primi cristiani si congiungono a Cristo non solo mediante l’azione liturgica della frazione del pane e delle preghiere, ma anche mediante l’ascolto della parola apostolica (la vita e le opere del Signore risorto, la parola dei testimoni) e l’impegno della vita fraterna.
- oltre all’ascolto della parola apostolica, eucaristico indicato da Luca con il termine koinonia, da Paolo con diakonia, koinonia, leiturgia è quello del servizio fraterno per cui i primi cristiani venivano in soccorso ai più sprovveduti (nepřipravený).
- nella prassi eucaristica si fondevano insieme il culto e l’esistenza: la frazione del pane collega insieme al passato di Gesù ed al suo presente in Dio.
- la cena cristiana che unisce in sé il ricordo storico e l’attività cultuale della lode e del ringraziamento nella struttura di un pasto è il luogo per eccellenza in cui confluiscono e da cui partono le tradizioni che rievocano la cena del Signore.
- lo studio delle tradizioni dell’ultima cena di Gesù rivela l’esistenza di due tradizioni:
- una cultuale – intende collegare la prassi cultuale cristiana con quella di Gesù stesso.
- di carattere ‘testamentario’ – si stabilisce l’unità tra la prassi del servizio della carità della comunità cristiana e la prassi di amore di Gesù.
- la tradizione detta cultuale tende non tanto a riferire un episodio biografico, ma a fondare nella prassi della cena di Gesù il culto stesso cristiano – ‘un racconto liturgico su sfondo storico’.
- tradizione cultuale è legata ai due gesti fondamentali della cena cristiana (spezzare il pane e bere il calice).
- due orientamenti:
- l’uno ‘antiocheno’ – sembra sottolineare maggiormente il ‘dono personale’ di Gesù e riflette una ‘teologia della alleanza’ – ha carattere propriamente cultuale.
- l’altro ‘marciano’ – orientamento si presenta più immediatamente liturgico e vede in Gesù il compimento dei sacrifici rituali ebraici.
- i primi cristiani celebravano con gioia l’evento di liberazione di Gesù dalla morte ed il suo ingresso nel regno escatologico riunendosi in un pasto di lode.
- il sentimento dominante nella celebrazione della ‘frazione del pane’ era la manifestazione della gioia escatologica.
- però in esso affluivano anche i ricordi del recente passato.
- alla luce di Geremia 31,31 – bevendo il calice, i discepoli compresero che erano entrati nella alleanza inaugurata dalla morte di Gesù, realizzando la unità con lui e tra loro.
- aveva inizio la tradizione della ‘antiochena’ (Paolo/Luca).
- tradizione marciana risaliva alla memoria della alleanza di Mosè sul Sinai, caratterizzata dall’essere ‘sacrificio di comunione’.
- così la cena cristiana diveniva, insieme, ‘sacrificio di lode’ e ‘memoria della alleanza nuova’.
- l’altra tradizione della cena caratterizzata dalla forma testamentaria, non incentrata nei gesti eucaristici, ricorda invece il testamento di amore di Gesù ai discepoli.
- essa trova riscontro non solo nel quarto evangelo, ma anche in vestigia (stopa) sparse (rozptýlený) nella tradizione sinottica ove rievoca il ‘servizio di Gesù’ e rileva un orientamento escatologico.
- il culto è messo in rapporto alla esistenza di carità che caratterizza l’essere cristiani.


II. DALL’ANAMNESI DELLA CENA A QUELLA DELLA
PASSIONE, MORTE E RISURREZIONE DI GESÙ

- la cena eucaristica è il luogo per eccellenza in cui i ricordi passati delle gesta di Gesù, profeta martire, sono stati rievocati alla luce della esperienza pasquale e penetrati da questa esperienza.
- come testimonia Paolo il mangiare il pane e bere il calice del Signore è strettamente congiunto con l’annuncio della sua morte finché egli venga.
- la cena cristiana che è la cena del Risorto tra i suoi non avviene senza l’anamnesi della sua morte.
- la cena di Gesù è situata all’inizio della prima parte del racconto, di quella che è chiamata ‘la passione segreta’.

a) il Getsemani
- il momento culminante della ‘passione segreta’ è costituito dall’episodio del Getsemani, dominato dalla preghiera di Gesù nella imminenza della morte.
- il nucleo storico del fatto sembra imporsi: chi avrebbe potuto inventare che il Signore della gloria sarebbe passato attraverso lo spavento, la tentazione, l’angoscia?
- l’episodio si colloca in un contesto estremamente scomodo (nepohodlný) per la comunità post-pasquale, contesto che rivela lo scandalo di tutti, il rinnegamento di Pietro, la tentazione di Gesù – per questo è il racconto vero.
- dall’arresto iniziava la storia della ‘passione pubblica’.
- l’episodio si può dunque considerare sostanzialmente storico nel senso che esso racconta l’ultimo combattimento di Gesù dinanzi al suo destino prima che iniziasse la serie implacabile degli avvenimenti: egli non è fuggito, come i suoi discepoli, ma è rimasto fedele al Padre.
- una duplice traccia di tradizione:
- la prima dominata dal tema dell’ora e di carattere cristologico, ci presenta Gesù che giunto al Getsemani si separa dai discepoli, viene colpito dallo sgomento e dalla angoscia fa bendo a terra e pregando perché, se possibile, passi da lui l’ora – qui il testo riferisce l’attitudine di Gesù che nella preghiera resta fedele al Padre dinanzi alla morte.
- la seconda tradizione richiama l’attenzione sui discepoli che sono invitati a pregare per non essere travolti nella tentazione.
- la tradizione lucana sottolinea soprattutto questo secondo indirizzo di tradizione.
- la migliore chiave di interpretazione del racconto è quella che cerca di evidenziare i poli fondamentali che risaltano nelle due diverse redazioni.
- in una tale lettura si rivelano i due assi:
- uno che lega Gesù ed il Padre,
- l’altro che lega Gesù ed i discepoli.
- i due assi si incrociano proiettando sulla morte che è nello sfondo, un duplice significato.
- uno secondo cui essa è, per Gesù, l’accogliere il volere del Padre, nel suo silenzio.
- l’altro significato si proietta sui discepoli, nel loro sonno, nella loro non-lotta e non-vigilanza.
- il significato della scena del Getsemani è stato spesso oggetto di spiegazioni che non rispettano, in verità, l’esatta interpretazione del testo evangelico, ma vi sovrappongono categorie di lettura estranee.
- per altri l’angoscia del Getsemani viene veduta come l’introduzione di quell’abbandono della croce che mostra in Gesù il prototipo delle esperienze mistiche.
- altri infine vorrebbero spiegare il Getsemani attraverso la teologia paolina del ‘Cristo fatto peccato per noi’, come esperienza della condizione peccatrice della umanità.
- il racconto che chiude la sezione della passione segreta, anticipa i motivi che ispirano la narrazione della passione pubblica: tra di essi, anzitutto, il motivo cultuale che traduce in preghiera i diversi momenti drammatici della esistenza credente cercando in essa il sostegno nella prova.
- l’angoscia di Gesù riassume la tradizione della angoscia del giusto nella sofferenza secondo la tradizione di fede dell’AT.
- la speranza diviene allora un abbandono totale alla volontà del Padre che realizza il suo disegno misterioso nella morte stessa di Gesù.
- altro motivo emergente nella preghiera del Getsemani è quello del richiamo alla storia biblica della angoscia dei profeti come Giona, Elia, Geremia, il Servo, che mostra anche il senso diverso dell’angoscia di Gesù.
- nella angoscia di Gesù è che essa non si manifesta nella richiesta di rinunzia alla missione, ma di liberazione del calice.
- il racconto mostra il modo con cui Gesù, nella preghiera, ha superato eroicamente la prova, assume nel secondo indirizzo accenti certamente parentetici nell’invito tramandato alle generazioni cristiane di essere perseveranti nella ‘vigilanza e nella preghiera’ per non essere travolti nella prova.

b) il processo
- la importanza del processo sta perciò nell’evidenziare una componente storico-sociale dell’avvenimento della croce.
- il processo di Gesù ha una importanza notevole per una ‘comprensione storica’ dell’avvenimento in questione, mostrando in esso la grandezza della dignità di Gesù, il suo infinito amore, dinanzi alla malvagità degli uomini.
- essa appare preoccupata di mostrare il nesso tra predicazione di Gesù, la sua prassi innovatrice religiosa.
- la trama della narrazione, diversa nella redazione sinottica e nella redazione del quarto evangelo, presenta l’avvenimento in due momenti:
     - quelli dinanzi alle autorità giudaiche.
- del racconto riguardante il trasferimento di Gesù dinanzi alle autorità ufficiali del giudaismo del tempo, la sua storicità viene assodata (shrnut) dalla unanime affermazione.
- i problemi nascono sul significato giuridico di quella seduta (schůze) nella situazione politica della Palestina di allora.
- il vero problema sul modo con cui esso viene narrato dai sinottici e, diversamente, dal quarto evangelo
- per il racconto sinottico, sulla linea di Marco, la seduta dinanzi al sinedrio assume un alto valore significativo: essa comprende l’introduzione dei falsi testimoni, l’interrogatorio del sommo Sacerdote, e la risposta solenne di Gesù, che costituisce il vertice (vrchol) della narrazione, e quindi la sua condanna per bestemmia.
- il racconto sinottico della seduta del processo giudaico, mette in grande evidenza l’autoaffermazione di Gesù come ‘Cristo’, in senso divino, attraverso la utilizzazione dell’accostamento di due passi veterotestamentari (Sal 110,1; Dn 7,13) che nella loro unità danno un forte accento di trascendenza al messianismo di Gesù, veduto in una prospettiva escatologica.
- una grande inclusione tra i due temi fondamentali del processo (il tempio e l’autoaffermazione messianica di Gesù) ed i due dati corrispondenti nella narrazione della morte (la rottura del velo del tempio e la professione di fede del centurione).
- le preoccupazioni dei rappresentati ufficiali del giudaismo erano dovute non solo a motivi dogmatici ed e preoccupazioni religiose. In realtà la missione di predicazione del Regno da parte di Gesù implicava un radicale mutamento dell’ordinamento cultuale e sociale del suo ambiente dovuto alla caduta di certe posizioni di privilegio.
     - quello dinanzi alla autorità romana nella Palestina del tempo.
- nella redazione del quarto evangelo, non si parla di una seduta del sinedrio, ma del trasferimento di Gesù dinanzi ad Anna, del suo interrogatorio sopra i discepoli e la sua dottrina, del rifiuto di rispondere da parte di Gesù.
- la differenza tra il racconto sinottico e quello del quarto evangelo può essere spiegata verosimilmente in ragione del diverso piano redazionale di Mc e del quarto evangelo.
- il dibattito tra Gesù ed il giudaismo ufficiale si sarebbe svolto già prima del processo, per cui aveva già ricevuto l’accusa di bestemmia e stava per essere lapidato.
- il vero momento dell’avvenimento del processo di Gesù è costituito quindi dalla seduta dinanzi al governatore romano.
- questa seconda tappa del processo mostra il suo asse dominante intorno alla attribuzione di ‘Re’.
- mentre nei sinottici Gesù dice soltanto ‘tu lo dici’ il quarto evangelo introduce nella scena in questione elementi molto più ampi e soprattutto teologici.
- in realtà è Lui il Giudice degli uomini e del mondo – il narratore tende a mostrare che colui che è giudicato è in realtà il giudice.
- il racconto del processo evidenzia contraddizione in cui il potere politico riconosce ripetutamente l’innocenza di Gesù, ma sempre segue un oltraggio (urážka).
- per evidenziarle la sua dignità regale – coronazione di spine, veste di porpora, parole di saluto ‘Ave Re dei giudei’ – Gesù, investito ed intronizzato come re riceve i primi omaggi (hold).
- questo seguono altre due momenti culminanti – quello dell’ecce Homo e quello che costituisce si può dire la scena decisiva con l’insediamento di Gesù al Gabbatha – le indicazioni di luogo, di giorno e di ora servono a sottolineare la solennità del momento che capovolge la sostanza politica del processo di Gesù – Pilato proclamò ‘ecco il vostro Re’ – Gesù è proclamato Re al Lithostrotos.

c) la crocifissione
- il momento culminante di tutta la storia della passione e potremmo anche dire di tutta la narrazione evangelica, è quello della morte di Gesù sulla croce.
- Marco evidenzia la solennità del momento della morte di Gesù attraverso la nota stilistica del grande grido che accompagna la parola dell’inizio del salmo 22 e che si ripete al momento dello spirare e la confessione di fede del centurione circa l’identità del Crocifisso come ‘Figlio di Dio.
- un contesto narrativo ricco di segni: quello delle tenebre.
- che precede il momento della morte di Gesù: quello dello squarciarsi in due del velo del tempio.
- Matteo arricchisce la narrazione anche con altri elementi come il terremoto, la rottura dei sepolcri e la risurrezione dei giusti, come pure la loro apparizione in Gerusalemme.
- tutti i sinottici evidenziano la presenza di una comunità di credenti.
- esso ci mostra chiaramente il carattere di un testo a cui interessa non il fare una cronaca dei fatti, ma fare emergere al oro significazione religiosa.
- l’elemento delle tenebre tende a mostrare il carattere universale ed apocalittico della morte di Gesù.
- per i sinottici il giorno in cui Gesù muore è dunque il grande giorno di HHWH, giorno di instaurazione decisiva del Regno.
- questi elementi apocalittici sottolineano da in primo punto di vista il carattere definitivo dell’ora della morte di Gesù come avvenimento finale della storia: rottura del ‘velo del tempio’ senso indicativo della ‘fine del tempio’ come epicentro dell’anticipo culto di alleanza nel sangue.
- ma questa chiave interpretativa dei segni apocalittici che accompagnano il morire di Gesù deve tener conto anche della prospettiva apocalittica cristiana che annuncia l’avvento di un mondo nuovo il quale sorge proprio nella morte di Cristo.
- questo evento escatologico porta a compimento l’instaurazione del Regno predicato ed anticipato nella missione di Gesù.
- esso appare come l’evento della grazia aperta a tutti.
- la risposta di Gesù al ladro è come una rettifica della sua speranza incentrata sulla fine dei tempi (Parusia) e perciò imperfetta ed insufficiente: proprio perché, ormai, la morte di Gesù sul Calvario è la Parusia.
- «Eloì, Eloì, lamà sabachtani» – la parola precede il momento in cui Gesù, con forte grido, spirò.
- questa parola di Gesù in croce non deve essere interpretata secondo un registro psicologico, bensì teologico.
- essa vuole esprimere il significato della morte di Gesù.
- un suo duplice significato:
- proclama Gesù abbandonato, il che vuol dire, secondo il senso biblico, che Dio non è venuto in soccorso del suo Figlio in estrema difficoltà.
- dall’altro lato, mentre Gesù resta senza soccorso, lancia il suo grido al suo Dio, non chiamato qui Padre.
- si esprime la usa confidenza (mio Dio) che testimonia però la certezza che il suo Dio conduce il gioco.
- il grido è un appello che proclama la presenza di Colui che sembra assente.
- inizio della citazione del salmo 22, nel quadro d’insieme del salmo stesso secondo gli usi giudaici poteva essere citato dal primo versetto.
- il grido di Gesù che parte dalla notte cupa dell’abbandono, annuncia, che il giorno nuovo incomincia con il giudizio di salvezza dei giusti e la loro risurrezione.
- confessione di fede del centurione pagano. In esso si può scorgere il momento culminate che partendo dal primo versetto (Mc 1,1: ‘vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio’) fino all’ultimo (‘veramente questo uomo era Figlio di Dio’: 15,39), è come una grande inclusione.
- Gesù può essere conosciuto nella fede come Figlio di Dio, solo nella contemplazione della croce.
- gli altri sinottici o legandola ai fenomeni accaduti o modulandola nel riconoscimento della giustizia di Gesù.
- bisogna anche considerare l’identità dell’uomo – è un pagano.
- nel momento in cui il velo del tempio si infrange ed in cui la religione giudaica deve aprirsi, il mondo pagano professa la sua fede in Cristo – è l’aurora dell’accesso dei pagani alla salvezza.
- diversi luoghi del salmo in questione sono richiamati durante il racconto della crocifissione.
- qui Dio si manifesta nel contesto di un dialogo che è orientato alla lode: l’uomo sofferente sa che Dio risponde.
- i due momenti salienti del racconto di Marco si ricollegano nell’unico schema di grido di angoscia e di lode.
- in Marco lo schema apocalittico che mostra Gesù morente totalmente solo, rinnegato dai discepoli, senza alcun soccorso miracoloso di Dio avrebbe potuto lasciare fraintendere il grido di abbandono come grido di disperazione.
- lo schema della lamentazione, probabilmente preesistente al quadro apocalittico, sottolinea invece di più il carattere di una morte pienamente confidente nella certezza della risposta trionfante del Padre.
- Luca da parte sua sottolinea nella morte di Gesù la sorte del Giusto martire che si abbandona a Dio utilizzando le parole del salmo 31,6.
- Gesù è il tipo per eccellenza del Giusto sofferente che sconvolga in sé il dolore dei giusti perseguitati di tutti i tempi.
- l’ipotesi della invocazione ‘Elì’atta’ (mio Dio sei tu) che potrebbe facilmente essere fraintesa per ‘Elia,ta’ (Elia viene). Tale parola di preghiera «mio Dio, sei Tu» ricorre molte volte nella Bibbia, proprio nei salmi di lamentazione (22; 31; 63; 118; 140) per esprimere un grido di estrema confidenza in Dio.
- non si può ignorare che tutta l’esperienza religiosa di Gesù, anche nell’angoscia del Getsemani, è incentrata nell’abba, in un rapporto strettamente filiale.
- questo porta a ritenere che ‘l’Elì atta’ esprima sulle labbra di Gesù non solo la preghiera del giusto sofferente, ma quella del Figlio che invoca il Padre.
- il quarto evangelo nella sua anamnesi della morte di Gesù offre un quadro diverso da quello sinottico.
- l’ora del morire di Cristo porta a consumazione la usa opera di rivelazione attraverso il dono delle sue parole supreme e del dono dello Spirito.
- la narrazione della morte nel quarto evangelo comprende la sezione 19,16-37 composta di cinque pericopi che compongono altrettante unità letterarie diverse, legate però tra loro da un nesso continuo che porta gli episodi a convergere verso il momento culminante della narrazione nella parola ‘è compiuto’ che introduce il reclinare il capo donando lo Spirito.
- la Madre di Gesù è designata da Gesù morente come la Donna dei tempi messianici, la Nuova Eva, figlia escatologica di Sion, Madre di tutti i credenti – colei che partecipa maternamente all’opera soteriologica della salvezza dei cristiani.
- in questo contesto la persona del discepolo assume la personificazione del discepolo perfetto, del vero fedele di Cristo affidato alla Donna-Chiesa.
- il momento del morire di Gesù si differenzia dalla narrazione sinottica che riferisce la bestemmia dei passanti, la derisione dei sacerdoti, gli insulti dei ladri, le tenebre squarciate dal grande grido che accompagna l’ultima parola dello spirare di Gesù.
- la menzione della sete e dello spirare di Gesù che seguono, sono collegati a loro volta a quanto è affermato dalle parole precedenti ‘tutto è compiuto’.
- nella narrazione di Giovanni la sete di Gesù ha nel contesto del quarto evangelo il suo giusto punto di lettura.
- nei passi in cui si parla della sete di Gesù, si manifesta il suo desiderio di dare ‘l’acqua viva’, quindi, la sete reale di Gesù è il segno espressivo di un suo profondo desiderio interiore.
- al momento della sete di Gesù, segue il suo morire, introdotto non da un grande grido, come nei sinottici, ma dalla parola finale ‘è compiuto’.
- a conclusione del racconto della morte di Gesù, il quarto evangelo non riferisce l’episodio sinottico della conversione del centurione, ma quello del colpo di lancia e del sangue ed acqua.
- il duplice dato del racconto abbastanza ampio, nel suo aspetto negativo (ciò che i soldati non fecero) e positivo (ciò che essi fecero).
- la verità della testimonianza sta qui non solo nel dato di una storia documentaria riferita, ma anche in quel ‘mistero’ che è la realtà interiore del fatto che il testimone ha colto in un ‘atto di vedere’.
- quale il mistero di questo episodio riguardante la non-rottura delle gambe ed il colpo di lancia con la conseguente fuoriuscita di sangue e dell’acqua? – Gesù Crocifisso è il vero Agnello pasquale (Es), tema cristologico propriamente giovanneo; Egli è la fonte escatologica zampillante per la casa di Davide (Zc).
- esso sottolinea la forza vivificante della morte di Gesù, dovuta al dono dell’acqua viva dello Spirito.
- nell’ora della passione e morte si manifesta la potenza salvifica dell’opera di Gesù per la fecondità del dono dello Spirito alla comunità messianica, dono che viene accolto dagli uomini credenti.


III. L’ESPERIENZA E L’ANNUNCIO DEL RISORTO

- l’esperienza e l’annuncio del Risorto è il luogo fondamentale in cui vive la Chiesa.
- l’anamnesi storica di Gesù prepasquale – solo attraverso questo ‘fare memoria’ è possibile comprendere il senso della presenza in lei del Risorto, è anche vero che solo partendo dall’incontro presente con il Risorto la Chiesa può operare l’atto della anamnesi della cui ricchezza vive nella continuità e nella distanza dal proprio passato intorno a Gesù Nazareno crocifisso.
- nella prassi della cena cristiana la comunità di fede vive della ‘presenza’ del Risorto in lei.
- la cena del Signore risorto è il luogo della conoscenza della sua ‘presenza’.
- nella cena del Signore si perpetua anche la testimonianza di coloro che dopo lo scandalo della croce sono stati scelti dal Risorto negli incontri pasquali – da essa parte la fede, il culto, la predicazione cristiana dell’evento pasquale.
- apologetica – essa appariva diretta primariamente ad una funzione dimostrativa, quale decisiva conferma della verità della rivelazione di Cristo ‘legato divino’.
- il limite della ricerca apologetica appare oggi soprattutto per la sua eccessiva pretesa ‘oggettivizzante’ dell’avvenimento della risurrezione di Gesù di Nazaret, come un avvenimento puramente intra-storico raggiungibile nel suo in sé attraverso una semplice indagine critica di tipo storico positivo.
- in questo modo si perpetuava la deprecabile frattura tra la storia e la fede, il problema del rapporto tra ‘fatto’ e ‘significato’ raggiunge nel caso specifico della risurrezione di Gesù il punto più critico.
- non si possa negare la ‘realtà storica’ della risurrezione di Gesù.
- la esperienza della personale risurrezione di Cristo è infatti un fenomeno di incontro che, toccando la sfera autenticamente umana, però la trascende.
- ciò va affermato anzitutto sul piano della sua sperimentabilità immediata, per cui la conoscenza del Risorto era accessibile non a chiunque, ma solo a dei ‘testimoni privilegiati’ il che vuol dire che essa era possibile solo attraverso una ‘rivelazione’ del Risorto e quindi dipendente dalla sua volontà gratuita di manifestarsi.
- non è possibile, allora, una ricerca storica neutra sulla risurrezione: la sua notizia è verificabile solo per via di ‘testimonianza’ di coloro che lo hanno ‘visto’ ed ‘hanno creduto’.
- ‘Gesù Cristo è risorto’ – è vero che questa asserzione riguardante un avvenimento che sta alla radice della fede e la trascende.
- non è separabile dalla esperienza insieme storica e di fede dei testimoni a cui presta ascolto e da cui dipende la fede della chiesa intera.
- Pannenberg – la risurrezione di Gesù di Nazaret non può essere considerata storica ‘direttamente’, ma solo ‘indirettamente’.
- il più importante di questi segni è considerato oggi proprio la fede e predicazione dei discepoli.
- è necessario ammettere che la fede pasquale è stata suscitata da una causa esterna all’atto stesso di fede dei discepoli.
- va poi aggiunto anche il segno del sepolcro vuoto – la notizia della tomba vuota è un dato reale mai smentito dal giudaismo che ne ha dato una versione calunniosa (pomlouvačný), ma non ne ha mai messo in discussione la verità.

a) la certezza della fede e della predicazione apostolica sulla risurrezione di Gesù di Nazaret
- il NT documenta la convinzione dei testimoni pasquali di avere incontrato ‘personalmente’ Gesù vivente.

- la prima forma di tradizione la si ritrova in 1 Cor 9,1-2 ove l’apostolo afferma di ‘aver caduto Gesù’ con una formula personalizzata («io l’ho visto»).
- certezza emerge non solo in queste testimonianze più dirette, ma anche in molte altre affermazioni del NT come nelle formule kerigmatiche nelle quali si proclama l’evento del risuscitamento di Gesù di Nazaret, di cui Dio, il Padre, è l’autore.
- la certezza della risurrezione appare anche negli inni, che celebrano la gloria e l’esaltazione del Risorto in una prospettiva di salvezza e signoria universale cosmica di Gesù Cristo.
- quali caratteri manifesta questa esperienza della risurrezione di Gesù Cristo documentata dalla testimonianza di Paolo?
- possiamo cogliere i seguenti tratti comuni strutturali:
il suo carattere ‘oggettivo’ in quanto esperienza di qualcuno che si impone con la usa presenza reale e di fronte al quale il ‘vedere’ del testimone si colloca in una situazione di ‘passività’.
- così Paolo ricorda di essere stato ‘attinto (conquistato) da Cristo’ (Fil 3,12).
Altro carattere di questa esperienza è quello di un ‘vedere’, non riducibile ad una mera esperienza interiore: esso tocca la totalità dell’essere del testimone, nella sua stessa realtà corporea e sensibile.
- è chiaro che l’incontro con il Risuscitato implica l’inizio di una più profonda ed intima conoscenza di Gesù come Signore e Cristo, una vera e propria rivelazione di Lui.
- gli incontri pasquali non sono stati un semplice rivedere vivo, dopo la morte, colui che i discepoli avevano conosciuto prima (il Gesù terrestre), ma sono stati un vedere in modo nuovo il mistero di colui, che essi avevano solo imperfettamente conosciuto prima.
- le manifestazioni del Risorto sono perciò giustamente chiamate ‘cristofanie’.
- tali ‘cristofanie’sono comprendenti anche il ‘vedere’ con gli occhi del corpo, il ‘sentire’, il ‘toccare’.
Coinvolto in tutto il suo essere, il testimone della rivelazione del Risorto, viene profondamente trasformato, rinnovato nella sua vita.

b) i racconti pasquali
- il racconto che rievoca gli avvenimenti del giorno di pasqua mediante una duplice tradizione narrativa: quella delle apparizioni e quella della tomba vuota.
- la tradizione preevangelica si contentò da principio, di testimoniare il fatto delle apparizioni; solo più tardi sentì il bisogno di descriverle.
- questa descrizione che non solo documenta il fatto, ma ne esprime anche il senso, è dunque posteriore rispetto alla asserzione che ricorda il fatto stesso e che appena accenna al suo senso.
- le apparizioni documentano una fede.
Le apparizioni del Risorto
- nell’insieme della testimonianza evangelica emergono otto racconti di apparizioni di cui cinque riguardano i testimoni ufficiali, cioè gli apostoli riuniti, e tre riservate a persone singole o piccoli gruppi.
- delle prime, due sono localizzate in Galilea e le altre in Gerusalemme.
- viene notata l’importanza dei due diversi riferimenti geografici: Galilea e Gerusalemme.
- le ‘apparizioni gerosolimitane’ mostrano uno schema narrativo caratterizzato da una struttura a tre elementi, comprendente:
- l’iniziativa del Risorto – si manifesta non tanto nella sua ‘gloria’, ma nella sua ‘familiarità’.
- riconoscimento del Risorto – il momento centrale dello schema – i discepoli riconoscono in colui che è apparso lo stesso Gesù di Nazaret che hanno conosciuto in vita e che è stato crocifisso.
- i testimoni, infatti, potevano anche dubitare – mostrano che il Risorto è lo stesso Gesù terreno crocifisso, dall’altro mostrano che egli appartiene ormai ad un altro mondo.
- processo di riconoscimento appare legato nei racconti, non solo alla manifestazione visiva, ma anche e particolarmente a quella uditiva.
- dal riconoscimento del Risorto scaturisce anche un terzo elemento dello schema narrativo in questione –
la missione dei testimoni – essi saranno non solo testimoni di un passato avvenimento, ma di una presenza permanente del Risorto.
- la triplice struttura delle narrazioni delle apparizioni gerosolimitane si muove secondo uno schema temporale: «per l’iniziativa, il Risuscitato rinnova continuamente il presente del discepolo che è invitato ad assumere il passato nella persona di Gesù di Nazaret, e questo gli dona di costruire l’avvenire della Chiesa».
- la tradizione galilaica presenta una struttura letteraria diversa dalla precedente.
- in essa l’apparizione del Risorto sottolinea l’imporsi della sua presenza che incute adorazione e porge i suoi comandi.
- Matteo esprime che ormai il Figlio dell’uomo esaltato ha instaurato la fase finale del Regno e governa la storia degli uomini.
- confrontando le due tradizioni si può dire che i racconti gerosolimitani sottolineano di più la realtà del Risorto come colui che si risveglia dalla morte, mostrandosi ‘vivente’, ai discepoli, nella sua identità con la sua realtà terrestre, ma insieme mostrando la usa nuova condizione oltre la morte.
- per quanto riguarda la tradizione galilaica, essa sembra fare leva sulla cristologia della esaltazione: il Risorto appare in tutta la trascendenza dell’Esaltato alla destra di Dio.
- essa non sottolinea tanto i contatti fisici con il Risorto e risponde meno alle preoccupazioni del riconoscimento e del realismo, tende invece a rilevare ‘la signoria di Gesù’.
- queste due accentuazioni delle tradizioni pasquali si completano reciprocamente.
- le due tradizioni narrative attestano degli avvenimenti decisivi per la comunità apostolica: in essi infatti non solo i discepoli hanno avuto la certezza che Gesù di Nazaret è risuscitato trionfando sulla morte e sulla ignominia della condanna, in tali incontri essi ‘riconoscendo’ il Maestro risorto hanno più profondamente compreso il suo passato, il senso della sua morte.
- le apparizioni, quindi, sono delle vere e proprie ‘cristofanie’ in cui si è operata una più totale e profonda rivelazione della identità di Gesù come Cristo e Signore e come tali hanno aperto ai testimoni la via della missione e della testimonianza per il futuro della Chiesa.
Il sepolcro vuoto
- il racconto sul sepolcro vuoto ha avuto molta importanza nello sviluppo dell’indirizzo apologetico della teologia della risurrezione.
- constatato e constatabile da tutti, anche dai giudei increduli.
- il sepolcro vuoto veniva così a costituire l’argomento principale, la ‘prova’ per eccellenza della verità della risurrezione di Gesù.
- la ‘realtà’ del fatto testimoniato dai racconti evangelici possiamo affermare che, da molteplici indizi, il fatto era ben conosciuto da questa tradizione e che d’altra parte esso doveva essere necessariamente presupposto dal momento che la predicazione della risurrezione di Gesù di Nazaret, avrebbe trovato nel contesto dell’ambiente gerosolimitano obiezioni decisive ed insuperabili se non si fosse saputo che il sepolcro di Gesù era stato trovato vuoto.
- si può ritenere tuttavia abbastanza solidamente che il quadro di origine della tradizione della tomba di Mc 16,1-8 richiama un dato storico in un contesto di anamnesi cultuale: quello di una comunità in festa che crede e confessa che il crocifisso è stato risuscitato.
- è la fede della risurrezione che illumina il senso del fatto.
- un racconto apologetico avrebbe dovuto dare ben più spazio alla ispezione del sepolcro vuoto e non avrebbe avuto interesse a mettere in scena delle donne annunciatrici del messaggio di risurrezione, dato il poco conto che le accreditava nell’ambiente giudaico.
- nella descrizione dettagliata, nella redazione del quarto evangelo, del ruolo assunto dalla persona di Pietro e dell’altro discepolo, il racconto sembra suggerire un intento apologetico: l’ordine esistente nel sepolcro indica che la scomparsa del corpo di Gesù non è stata il fatto frettoloso di un rapimento che avrebbe lasciato disordine e confusione e certamente non avrebbe lasciato le bende.
- ci viene attestato con sicurezza un dato reale: il sepolcro di Gesù di Nazaret fu trovato aperto e vuoto.
- il sepolcro vuoto acquista in questo contesto il valore di un ‘segno’ che corrobora in modo umano-storico il valore della fede pasquale: la pietra rovesciata (převrátit) ha un significato di vittoria sulla morte.
- Gesù è uscito dal sepolcro totalmente libero da tutte le contingenze materiali, da tutto ciò che aveva rapporto con la morte.
- il valore di ‘segno’ è la migliore spiegazione del senso di questa notizia storica: un segno visibile, controllabile, lasciato nel mondo da un evento metastorico ed escatologico.
- il sepolcro vuoto indica che la sua persona incarnata e la sua vita è sottratta ormai da ogni controllo degli uomini, così some è sfuggita alla prigionia dello sheol – il suo mistero è nascosto nel mondo di Dio.


DALLA STORIA ALLA PROCLAMAZIONE:
IL CRISTO ANNUNCIATO DALLA CHIESA


INTRODUZIONE

- dopo il momento fondamentale di carattere più storico-narrativo seguendo l’anamnesi ecclesiale, si propone di seguire lo sviluppo dell’annuncio dell’evento cristologico di salvezza nella storia presente e futura della Chiesa, evento che è perennemente vivo e continua a parlare in essa.
- il vangelo è infatti una proclamazione da parte della Chiesa del Cristo vivente, che ricorda fedelmente, la proclamazione da parte della Chiesa del Cristo vivente, che ricorda fedelmente, la proclamazione del Gesù stesso terrestre.
- si proietta verso lo sviluppo della predicazione e della fede cristologica della Chiesa nel tempo, passando attraverso la storia e le culture degli uomini.
- nella Chiesa vive, non solo la memoria fedele dei fatti e dei detti di Gesù, ma si opera anche la comprensione autentica di quei fatti e di quei detti nella progressiva penetrazione della loro verità ad opera dello Spirito.
- la fede e la predicazione cristiana sono la sua fedele comprensione ed annuncio.
- si tratta di seguire lo sviluppo genetico dalla fede cristologica della Chiesa partendo dal principio normativo del ‘primato della Scrittura’.
- la ‘cristologia del NT’, in un discorso cristologico, deve avere un ruolo normativo.
- la Scrittura non è l’unica via attraverso la quale la Chiesa stessa comunica con la realtà dell’evento storico originario della parola di Dio incarnata in Gesù Cristo.
- nella Chiesa c’è anche una tradizione post-biblica che si fonde in unità con la Scrittura e Tradizione per la quale si garantisce la continuità tra la fede attuale della Chiesa e la predicazione e fede apostolica.
- la Scrittura è come la finestra attraverso la quale la Chiesa spinge il suo sguardo verso l’evento originario della rivelazione.
- la Tradizione post-biblica consente di poter cogliere la prassi della vita di fede e di culto, la letteratura dei Padri, il sensus fidei del popolo cristiano, il significato pieno della stessa Scrittura.
- il circolo ermeneutico unisce Scrittura e tradizione post-biblica.


LA CRISTOLOGIA NELLA FEDE
E NELLA PREDICAZIONE DELLA CHIESA NEL NT

- nell’avvenimento della risurrezione di Cristo Crocifisso si compie la storia di Gesù di Nazaret e si apre il cammino della fede e della predicazione della Chiesa.
- la risurrezione di Cristo è il centro ed il fondamento dello sviluppo della cristologia del NT.
- questa nella sua unità presenta una certa varietà e pluralità.
- la confessione e l’annuncio del ‘Crocifisso-Risorto’ è il cuore del messaggio della Chiesa del NT.


I. LA RISURREZIONE DI CRISTO CROCIRISSO CENTRO E FONDAMENTO DELLA CRISTOLOGIA DEL NT

- l’evento centrale da cui parte ogni cristologia del NT e che costituisce il nucleo originario del kerigma cristiano è la morte-risurrezione-glorificazione di Gesù di Nazaret.
- allora è difficile parlare della cristologia più antica del NT.

a) la risurrezione di Cristo come punto di partenza della fede cristologica del Nuovo Testamento
- i racconti pasquali delle apparizioni costituiscono delle ‘cristofanie’ in cui i discepoli hanno potuto penetrare più profondamente nel ministero di Gesù di Nazaret, come Cristo, Signore e Figlio di Dio.
- la fede dei discepoli in Gesù era già stata fondata prima di pasqua, ma questa fede era una fede cristologica ancora implicita, legata al tempo del segreto messianico.
- vita terrena di Gesù, il quadro del ministero terrestre era essenziale anche per comprendere la vera identità del Risorto.
- la stessa fede pasquale trova fondamento e ragione nella esistenza e nel comportamento del Gesù terrestre ma solo alla luce della risurrezione e del dono dello Spirito che ai discepoli è apparso con assoluta chiarezza che quel Gesù Crocifisso era il Messia di Dio.
- la fede in Cristo deve considerare che essa ha preso inizio con l’evento della risurrezione del Crocifisso, ma chi vuol comprendere storicamente questa fede, e non mitologicamente, deve altrettanto considerare che tale fede ha il suo primo fondamento già nell’atteggiamento storico di Gesù.
- non troviamo nel NT enunciati astratti sulla risurrezione di Gesù, ma forme concrete come «Dio ha risuscitato Gesù» e di ciò «noi siamo testimoni» (At 2,32; 3,15; 5,31-32; 10,40).
- la più antica predicazione della risurrezione è predicazione di testimonianza, la confessione «Gesù è risorto» appartiene all’avvenimento veduto.
- nel NT l’unico evento della risurrezione è espresso da una moltitudine di linguaggi quali quello di ‘risurrezione e vita’, quello di ‘esaltazione’, ‘glorificazione’, ‘elevazione’.
- essi utilizzano vari assi semantici come ‘morte-vita’, ‘umiliazione-esaltazione’, ‘terra-cielo’.
- così, attraverso il linguaggio di risurrezione dai morti, che nella forma più arcaica si presenta nel passivo, come ‘risuscitato da Dio’, la testimonianza di fede e la predicazione degli apostoli tendeva non solo ad affermare che «questo Gesù di Nazaret è tornato in vita», ma che Gesù è risuscitato escatologica che era attesa da Israele per la fine dei tempi o meglio, oltre gli eoni presenti terresti.
- ‘esaltazione’, ‘glorificazione’ – esso proclama che il Risorto, superando il mondo terrestre, accede alla sfera di Dio, partecipe della ‘gloria di Dio’ (il Padre).
- questa sua risurrezione viene celebrata non come una semplice rivivificazione o restaurazione della vita biologico-terrestre, ma come una vita nuova in condizione di ‘Signore’ celeste.

b) la risurrezione di Cristo come compimento della croce e come evento cristologico-pneumatologico
- la risurrezione di Cristo non è solo la manifestazione della gloria del pre-esistente, non è solo l’epifania dell’eterno, ma anche la ‘gloria del Crocifisso’ che esprime la eternizzazione dell’amore offerente.
- Cristo si è offerto a Dio in virtù di quello Spirito eterno, del quale egli era già unto ed in forza del quale egli possedeva l’eterno sacerdozio.
- la risurrezione compie dunque l’eternizzazione e l’efficacia perenne della croce come avvenimento in Gesù di Nazaret, in quanto, per la potenza dello Spirito, essa compie la pienezza storica della sua oblazione di amore, del suo culto perfetto al Padre.
- ma la risurrezione è veduta nella cristologia del NT anche come il luogo da cui promana la donazione dello Spirito ai credenti.
- la pentecoste è la consumazione dell’avvenimento soteriologica della pasqua.
- i molteplici dati teologici dell’evento della risurrezione si possono organizzare in tre linee fondamentali:
Il Cristo Risorto, per il dono dello Spirito genera la fede pasquale.
- il IV evangelo vede il dono dello Spirito da parte del Risorto.
- così nel c. 20,19-23 il dono pasquale del Risorto, in questo evidenzia anche il compimento delle parole di promessa (cc. 14-16).
Il Cristo Risorto per il dono dello Spirito inizia la nuova creazione.
- è il punto di vista di Paolo che non parla di una pentecoste come avvenimento accaduto in una particolare circostanza cronologica, ma in tutto ciò che afferma circa l’azione soteriologica del Risorto e degli effetti operati nell’uomo e nel mondo, si manifesta l’opera dello Spirito.
- tutta la vita cristiana appare come ‘vita nello Spirito’.
La risurrezione ed il dono dello Spirito nella pentecoste.
- è la linea della narrazione lucana – segue una prospettiva diacronica.
- il dono dello Spirito al cinquantesimo giorno dopo pasqua in coincidenza della pentecoste giudaica, se mostra in esso un dono di Cristo che adempie la usa pasqua.
- il loro cominciare a parlare ‘lingue diverse’ indica appunto la qualità profetica dell’evento pentecostale.
- il carisma della pentecoste genera sia la capacità della lettura profetica, del discernimento degli interventi salvifici di Dio nella storia, sia la preghiera esultante che proclama le magnificenze di Dio.
- così Luca vuole mostrare nella pentecoste del cenacolo la forza e l’audacia dello spirito missionario che porta al mondo il messaggio del Signore esaltato.
- il segno delle lingue indica la cattolicità della testimonianza.

c) la risurrezione di Cristo e l’unità della cristologia del NT
- la cristologia del NT non possiede l’aspetto di una dottrina uniforme e conclusa, cioè «come un sistema chiuso della rivelazione che sia anche tale nelle sue conseguenze».
- essa, resta aperta a diversi modi di intelligenza e di sviluppo, tanto che si potrebbe affermare che la «presentazione della dottrina neotestamentaria consiste in un certo numero di frammenti teologici assai disparati per contenuti e per forme».
- questa pluralità di visioni teologiche che pongono in luce i diversi aspetti dell’evento cristologico salvifico, può essere considerata come l’espressione di una comprensione di fede del mistero cristiano compiuta sotto l’azione dello Spirito.
- si pone anzitutto il problema della sua unità – la domanda – è possibile una norma unitaria nella molteplicità delle espressioni cristologiche neotestamentarie?
- non si può negare una certa continuità se non altro per il fatto che i diversi redattori dei libri del NT si riconoscono credenti in Cristo.
- l’unità della cristologia del NT è una unità che si può raggiungere all’interno della sola Scrittura, che si possa considerare come l’espressione normativa ed unitaria di tutta la varietà delle formule neotestamentarie?
- prima di considerare lo studio della genesi e dello sviluppo della cristologia antica, come pure quello della sua pluralità di modelli rappresentativi procedendo allo studio del testo nel NT solo attraverso il punto di visto letterario, si giunge più ad una visione della molteplicità degli schemi rappresentativi, che non alla prospettiva unitaria di un modello unico universalmente accettato e vincolante.
- se si vuole parlare della unità della cristologia neotestamentaria bisogna essere chiari sul fatto che essa non può essere trovata alla superficie dei testi, ma richiede la riflessione su quei fondamenti su cui poggiano e sono costruite le varianti asserzioni cristologiche che le rendono ‘fondamentalmente’ possibili e ne permettono la raccolta in unità.
- il problema della unità della cristologia si connette con quello della unità teologica di tutto il NT.
- l’unità del NT è un riflesso della unità della Chiesa gerarchica del II secolo… la quale riconosce i singoli scritti con le loro teologie di diverso tipo come appartenenti alla ‘Scrittura’.
- l’unità della cristologia del NT, unità che non contraddice la varietà e la pluralità dei molteplici punti di vista, trova la sua norma nel fondamentale atto di fede con cui la ‘Chiesa una, soggetto del credo’, proclama la verità del Cristo attraverso le molteplici espressioni linguistiche.
- la Chiesa stessa può essere considerata come ‘principio’ della cristologia post-pasquale, l’unità originata dalla parola-realtà di Gesù di Nazaret, crocifisso e risorto, Parola accolta nella fede della comunità apostolica.
- essa non è l’unità della lettera scritta, ma è la ricchezza dell’evento stesso accolto nella comunità di fede.
- l’unità della cristologia è data dalla Chiesa come «soggetto di fede conglobante» i quale «si fonda sulla confessione di Gesù Cristo morto e risorto, che essa annuncia e celebra nella potenza dello Spirito santo».
- l’unità della cristologia del NT è una prospettiva di fede ecclesiale che professa ed annuncia il fondamento ‘oggettivo’ di tutta la cristologia stessa: ‘la risurrezione di Cristo crocifisso’.

d) la fede della Chiesa primitiva nel Cristo Crocifisso Risorto
 e la usa espressione nelle tradizioni cristologici preletterarie
- ‘kerigma’ – comprende annuncio e narrazione.
- ha il carattere di messaggio missionario che risuona in ambienti non ancora cristiani, giudei o ellenistici – è un l’annuncio o proclamazione di un evento e la narrazione del passato storico di questo evento.
- il primo aspetto del messaggio riguarda la presenza vivente del Signore Gesù Cristo, crocifisso e glorificato, nella comunità apostolica, l’annuncio esprime la fede e la testimonianza che il Risorto vive e che i credenti ricevono già adesso la salvezza attraverso la fede in Lui.
- il kerigma partendo dall’esperienza presente della gloria del Risorto, risuscitato dal Padre e che nella potenza dello Spirito dona salvezza.
- al centro del kerigma campeggia (tábořit) l’evento della croce-risurrezione-pentecoste.
- così la predicazione missionaria va anzitutto verso la storia terrena del Salvatore esaltato.
- l’annuncio kerigmatico passa dunque attraverso la forma della narrazione storica.
- ‘omologia (comprende la confessione e proclamazione liturgica della fede).
- si compie propriamente in un ambiente già cristiano è una tradizione cristologica che si esprime in diverse forme di cui la più semplice e la più diffusa è l’omologia o ‘confessione pubblica’, da cui hanno avuto origine il credo e gli inni cristologici.
- si articola intorno a dei titoli cristologici dominanti ed intorno all’evento centrale salvifico della croce-risurrezione.
- queste ultime si presentano sia in formule semplici in cui si professa la sola ‘risurrezione’ di Gesù come atto compiuto dal Padre o la sola morte come avvenimento salvifico, sia in formule doppie in cui si professa o proclama che Gesù è morto ed è risorto.
- gli ‘inni’ celebrano il dramma dell’evento soteriologico della pasqua nello schema dell’abbassamento-esaltazione, e proclamano la vittoria di Cristo sulle potenze cosmiche.
- una caratteristica essenziale della prospettiva soteriologica comune agli inni è la prospettiva della universalità della salvezza, della mediazione creatrice del Cristo e del suo dominio sugli uomini e sul mondo terrestre e celeste.
- il loro ambiente vitale è la celebrazione liturgica – cena, luogo di anamnesi della vita terrena di Gesù e luogo in cui la fede nella sua presenza salvifica nell’evento della morte-risurrezione alimenta (živit) la speranza della sua venuta futura.
- anche la prassi battesimale ha il suo influsso come mostra Paolo parlando di tale prassi come partecipazione al mistero della morte-risurrezione del Salvatore e come emerge in Matteo 28,19 in cui l’evento cristologico è evocato in un quadro dogmatico trinitario.
- le diverse forme con cui il mistero di Cristo viene proclamato kerigmaticamente, confessato e celebrato, non solo mostrano che il Signore viene sentito come vivo e presente nella Chiesa, come suo Salvatore, ma appare che Egli è il centro ed il punto di partenza di tutte le diverse tradizioni.


II. L’EVENTO DEL CROCIFISSO-RISORTO AL FONDAMENTO
DELLO SVILUPPO DEI DIVERSI MODELLI
RAPPRESENTATIVI DELLA CRISTOLOGIA DEL NT

- la prima cosa importane è di chiarificare il senso di ‘modello cristologico’ nell’ambito della teologia del NT, il problema di un certo loro sviluppo e quello del significato della loro varietà ed unità.
- elemento nuovo di esperienza del mistero affonda le sue radici già prima di pasqua, nella vita terrestre del Salvatore, ma si è maturato successivamente nell’evento della risurrezione del Crocifisso ed approfondito nei diversi ambienti di vita della prima comunità cristiana.
- la esperienza nuova del Cristo sviluppatasi attraverso la sovrabbondanza del dono dello Spirito trascende per sé ogni modello e linguaggio.

a) ipotesi dello sviluppo dei modelli cristologici
 in rapporto all’impianto del cristianesimo in ambienti culturali diversi
- lo studio dei modelli cristologici ha seguito in una serie di saggi ed opera di Casey, Hahn, Kremer, Fuller la tendenza ad illustrare il cammino della cristologia del NT come un passaggio dallo stadio della comunità cristiana palestinese a quello della diaspora ellenistica e della comunità pagano-ellenistica.
- il passaggio sarebbe stato il seguente: dopo l’esistenza storica di Gesù che sarebbe stata caratterizzata da una ‘cristologia implicita’, l’esperienza di fede pasquale dei discepoli si sarebbe andata esplicitando in una ‘cristologia’ caratterizzata da diverse fasi o modelli.
All’inizio, la presenza nelle comunità cristiane dei giudei convertiti, giudei palestinesi di lingua aramaica, avrebbe segnato il sopravvento di una ‘cristologia palestinese’ in cui predominavano la risurrezione e la parusia ed i titoli cristologici, connessi con la morte e risurrezione (Servo Ebed, Signore Mar) e con la parusia (Messia Masiah, Figlio dell’Uomo Barnasha, Signore Marana).
- la comunità palestinese avrebbe così veduto nella risurrezione solo un anticipo della venuta finale escatologica, vivendo totalmente protesa verso il futuro avvento del Cristo nella parusia.
- nel primo periodo, secondo Hahn, l’invocazione ‘vieni Signore’ (Maran atha) non era diretta al ‘Signore presente ed esaltato, vivente in cielo’ bensì al solo Signore della fine dei tempi.
Un secondo stadio di sviluppo
- dal modello della diaspora ellenistica, nel quale avrebbe giocato un ruolo notevole l’esperienza del ritardo della parusia, insieme per vedere nella ‘risurrezione-ascensione’ di Gesù non più solo un annuncio del suo ritorno parusiaco alla fine dei tempi, ma un ingresso, già adesso, nella gloria celeste: la sua intronizzazione alla destra del Padre ed il suo attuale esercizio di regalità.
- in questo modello cristologica verrebbero a profilarsi tre momenti della cristologia (risurrezione, esaltazione, parusia) con l’utilizzazione, oltre al titolo di Figlio dell’uomo, di quello di Figlio di Dio, mentre i titoli di Signore e di Cristo non si riferirebbero più solo alla parusia, ma alla condizione esaltata presente di Cristo.
Un terzo stadio di sviluppo della cristologia del NT
- sarebbe quello riflettente la cristologia delle comunità cristiane ‘pagano-ellenistiche’.
- la cristologia delle comunità pagano-ellenistiche si sarebbe evoluta evidenziando nel titolo stesso di Kyrios la natura e la dignità divina del Risorto e non solamente la usa ‘funzione regale’ che Gesù sarebbe stato chiamato ad esercitare alla fine dei tempi.
- giungendo alla idea della ‘preesistenza’ soprattutto nei concetti di Logos e di ‘Figlio di Dio’.
- il kerigma cristologico avrebbe sempre più evidenziato i suoi aspetti universalistici e cosmici richiamando così l’importanza dell’agire di Cristo preesistente già nella prima creazione.
- l’idea della glorificazione celeste di Gesù nel momento di pasqua risale già alle origini del cristianesimo, nella stessa prima comunità di Gerusalemme e non è affatto una forma successiva e derivata da una fede parusiaca iniziale.
- si giunge persino da parte di alcuni ad invertire le posizioni di Hahn, Fuller affermando una idea originaria di esaltazione senza ancora un’attesa della parusia.
- Schnackenburg – la risposta di Gesù al sommo Sacerdote faccia astrazione dall’evento parusiaco ed esprima solo la concezione della sua prossima esaltazione pasquale, mentre la attesa della parusia sarebbe nata solo nella chiesa delle origini è un errore.
- l’evento di pasqua realizza infatti in Colui che è ‘morto e risorto’ la sua associazione alla sovranità di Dio e costituisce, insieme, il fondamento e l’anticipazione del futuro che deve venire con la parusia.

b) i principali modelli rappresentativi della cristologia del NT
- è possibile ipotizzare una distinzione in modelli a due o tre stadi.
Risurrezione/parusia
- non è concepibile una cristologia della comunità post-pasquale senza attesa della parusia.
- il culto cristiano, mentre alimentava (živit) la fede nel Cristo risorto, presente nella comunità pasquale, ravvivava (oživit) continuamente la speranza del suo ritorno, come documenta l’invocazione aramaica Maran atha.
- essa presuppone «la concezione di esaltazione nel senso di celeste insediamento nella carica, di un attuale essere del Signore o di una esaltazione quindi in una posizione sovrana».
- l’esaltazione appare particolarmente e importante nella comunità primitiva in quanto esprime la presenza attiva post-pasquale del Signore risorto che agisce e si comunica.
- l’esaltazione sarebbe quindi, la ‘pietra angolare della cristologia neotestamentaria’ senza per questo lasciar cadere il passato terreno di Gesù ed il suo futuro come Figlio dell’uomo.
Un secondo modello a due stadi è quello sorto ancore nell’ambiente giudeo-palestinese di cui ci sono varie tracce sparse nel NT e che collega la risurrezione-esaltazione di Cristo con la precedente vita terrestre culminante nella morte – si tratta del modello cristologico ‘secondo la carne-secondo lo spirito’.
- si tratta di formule di confessione che evidenziano tonalità diverse, ma insistono sullo stesso asse ‘carne-spirito’ per designare due stadi diversi, come segnati dalla cesura morte-risurrezione.
- in Rm 1,3 il Cristo proclamato ‘Figlio di Dio’ è considerato in due stadi di esistenza:
- il primo (secondo la carne) appare connesso alla generazione carnale (dalla stirpe di David) per cui Cristo è Figlio di David.
          - la formula è certamente prepaolina.
- il secondo (secondo lo spirito ‘di santificazione’: espressione arcaica per indicare l’ambito divino della santità) esprime il cambiamento della condizione iniziale attraverso il risuscitamento.
- non si parla qui né di preesistenza, né di incarnazione, ma si afferma che se Gesù Cristo è già Messia dalla nascita.
- in 1 Pt 3,18 si ritrovano due momenti dell’evento pasquale considerano però nella sua unità: la morte dovuta ai peccati e la risurrezione dovuta alla forza dello spirito per cui il Cristo ha potuto trasformare quello che era un giudizio di condanna delle generazioni incredule del tempo di Noè in giudizio di salvezza.
- si può dire che l’esperienza di pasqua da un lato e l’ambiente giudeo-cristiano dall’altro sono le due prospettive che predominano in esso culminando nei titoli di Figlio di David, Signore, Figlio di Dio.
Un terzo modello a due stadi è quello articolato intorno ad Is 52-53 con il tema della umiliazione-esaltazione del Servo sofferente che riecheggia il tema sapienziale della passione del Giusto.
- almeno nel suo inizio esso trovi della corrispondenza nell’ambiente liturgico giudeo-palestinese, anche se per la contrapposizione tra servità umana e maestà divina entrano concezioni ellenistico-pagane, il che fa pensare che esso sia stato coltivato soprattutto nel culto delle comunità cristiane ellenistico-giudaiche o ellenistico-pagane.

- nello sviluppo ulteriore della cristologia si vanno delineando dei modelli a tre stadi che sottolineano una cristologia più evoluta.
- il modello sapienziale in cui ai due stadi (esaltazione/parusia; carne/spirito; morte/risurrezione; umiliazione/esaltazione) si aggiunge lo stadio della ‘pre-esistenza’.
- questo trova la sua fondazione nella rilettura cristologica della letteratura sapienziale ed apocalittica.
- l’Asia minore e particolarmente Efeso sembra sia stato l’epicentro di questa cristologia tendente a celebrare non solo le origini eterni di Cristo, ma anche la sua presenza operante nell’opera creatrice ed il suo ruolo nella seconda creazione – appare affermato nella proclamazione innica a partire dalla considerazione del Cristo come ‘Primogenito dei morti’, centro della nuova creazione.
- nella sua risurrezione ed innalzamento egli ha riunito di nuovo le due sfere prima separate del cielo e della terra, operando una riconciliazione ed una pace cosmica.
- Cristo andava operando nella preesistenze come ‘Primogenito della prima creazione’.
- la prospettiva sapienziale del Cristo pre-esistente appare anche nell’inno cristologico del IV Evangelo che si articola intorno all’idea del Cristo Logos.
- esso conteneva già l’idea di preesistenza della Parola presso Dio, rilevandone così l’identità divina, ma insieme affermando che tutte le opre della creazione sono state compiute attraverso la ‘Parola’.
- quello che colpisce è che questo inno non parla di tre stadi della esistenza di Cristo ma solo di due (pre-esistenza e incarnazione), manca l’innalzamento.
- parlando infatti, della visione della ‘gloria’, esso richiama la prospettiva pasquale, essendo nel IV Evangelo la ‘gloria’ l’attributo, per eccellenza dell’ora pasquale del Cristo.
- formula di benedizione, l’apertura della lettera agli Efesini (Ef 1,3-23).
 - la preesistenza di Cristo è qui veduta soprattutto nel suo quadro ecclesiologico per cui Cristo è al centro del mysterion (vv. 9-10) riguardante il proposito divino di salvezza sia dei giudei che dei pagani.
- l’idea dominante di questa benedizione è l’unità del disegno divino, costituita dalla ‘ricapitolazione’ di tutti gli esseri in Cristo.
- il migliore commento di questa parola sta nei vv. 21-23 dello stesso brano in cui Cristo è collocato al sommo di tutto come ‘Capo della Chiesa’.
- il rapporto tra Cristo ed il mondo è mediatizzato dalla Chiesa: è nella Chiesa, infatti che la pienezza della vita derivante dal Cristo profluisce.
- tuttavia la vocazione della chiesa è di estendersi a tutto l’universo che Cristo vuole ricolmare della sua pienezza
- tre stadi della preesistenza, la risurrezione considerate come un evento globale di ‘rivelazione’ della gloria del Padre, del suo progetto segreto.
- tipico nella cristologia epifanica delle pastorali è l’uso del titolo di Sotér ed il suo programma salvifico per cui accanto alla funzione ‘giustificatrice’ della grazia emerge quella ‘educatrice’, per cui la predicazione del perdono dei peccati, della vita morale come dono di grazia, assume accenti razionali, individuali, pedagogici.
- alla tradizione del sacerdozio – efficacia salvifica espiatorio-sacrificale del mistero della morte risurrezione di Cristo.
- emerge chiaramente il modello sacerdotale nello schema sacrificale della liturgia del kippur.
- il titolo cristologico che domina è quello del Cristo sommo Sacerdote che a partire dalla sua pre-esistenza compie l’atto supremo della rivelazione già iniziato, nella parola nei tempi antichi ed offre, quale Mediatore della nuova alleanza.

- il modello mutuando lo schema rabbinico dei due Adami in riferimento ai due racconti della creazione dell’uomo, è utilizzato da Paolo per far luce sull’Adamo vero, l’Uomo celeste, Cristo, partendo dalla prospettiva della risurrezione in cui egli appare come uomo vivificante.
- esso si innesta sulla esperienza della redenzione inaugurata dalla croce e risurrezione di Gesù, dalla sua obbedienza e dal suo trionfo di risurrezione, per cui il credente è iniziato ad una nuova umanità, che ritrova e supera il suo originario di ‘immagine di Dio’.

















III. L’EVENTO DEL CROCIFISSO-RISORTO
AL CENTRO DEI TITOLI CRISTOLOGICI

- rischiareremo in breve rassegna i principali titoli della cristologia del NT.

a) il Servitore e l’Agnello
- Gesù non si è mai attribuito questo titolo, almeno esplicitamente.
- nella cristologia paolina esso emerge solo là ove Paolo è testimone ed anche modesto di una tradizione kerigmatica ricevuto.
- diverso peso assume, invece, il titolo nella prima lettera di Pietro, apparendo che egli dava abitualmente a Cristo questa attribuzione con chiaro riferimento al quarto canto di Isaia.
- possiamo dire che l’allusione più formale al Servo nella letteratura giovannea è l’immagine dell’Agnello che evolve una vera e propria cristologia neotestamentaria sul Cristo Servo, sia nel IV ev. che, soprattutto, nell’Apocalisse.
- nell’Apocalisse la visione dell’Agnello immolato mostra però con altrettanta efficacia la condizione trionfante di questo Agnello, descritto in piedi, in mezzo al trono, per indicare appunto la usa condizione vivente di Risorto

b) il Figlio dell’uomo
- mostra pure il punto di vista di una rilettura ecclesiale post-pasquale.
- la cristologia del NT sembra testimoniare piuttosto il passaggio dal titolo centrale per la cristologia di Gesù, il ‘Figlio dell’uomo’, al titolo dogmatico per eccellenza della Chiesa apostolica del Cristo ‘Figlio di Dio’ attraverso un certo influsso del primo sul secondo.
- nel contesto giovanneo essi risentono poco delle idee apocalittiche giudeo-palestinesi; si inseriscono piuttosto nel quadro della dottrina dogmatica del Figlio del Padre, colui che è disceso dal cielo e per questo vi può risalire.
- la ampia utilizzazione dell’Apocalisse.

c) Cristo e Signore
- sono titoli che occupano un posto ben più notevole nella cristologia della Chiesa apostolica post-pasquale.
- essi evidenziano la situazione della predicazione pasquale – Gesù di Nazaret, ucciso dai giudei ed esaltato dal Padre, è collocato nella condizione di Messia e Signore escatologico, detentore della sovranità cosmica divina, mediante la risurrezione dai morti (At 2,32-36).
- mentre negli evangeli l’appellativo ‘Cristo’ è usato molto moderatamente, nel resto del NT esso assume una importanza particolare diventando il ‘titolo per eccellenza’ che tende ad inglobare in sé le altre idee cristologiche del NT.
- nel cristianesimo primitivo il titolo di ‘Cristo’ subisce però uno sviluppo semantico: esso perde il suo carattere terrestre-regale ed indica soprattutto Colui che adempiendo nella sua morte il piano divino è stato intronizzato mediante la risurrezione dai morti – una vera e propria ‘professione di fede’ (Gesù è il Cristo).
- essa proclamava il compimento escatologico delle promesse messianiche in Gesù di Nazaret, nella sua risurrezione-esaltazione.
- in riferimento al passato di Israele, come suo compimento e superamento: Gesù è il Cristo, in quanto fine del tempo.
- ancora più fondamentale e diffuso nel NT è il titolo di ‘Signore’ che meglio di ogni altro proclama l’elevazione di Gesù alla destra di Dio e la sua presenza vivente nella Chiesa.
- non si può separare ‘risurrezione’ ed ‘intronizzazione’ quale ‘Signore’.
- l’attesa non era la causa, ma conseguenza della fede nella risurrezione di Cristo.
- la Chiesa delle origini ha invocato Gesù risorto come Signore presente ed ha alimentato l’aspirazione alla sua venuta finale (1Cor 16,22).
- W. Kramer offre i diversi aspetti con cui il titolo compare nella cristologia del NT.
     a) – il significato come ‘grido di acclamazione’ legato al culto.
- l’invocazione ‘il Signore è Gesù sottolinea meno l’atto con cui egli è divenuto Signore per il risuscitamento e di più lo stato attuale della sua condizione di gloria.
b) – la preposizione dia /mediante/ (in Paolo per ben 26) – la ‘mediazione soteriologica’ del Cristo.
c) – quello dato che si riscontra nelle formule che parlano in termini di ‘un solo Signore’ e che si connettono a quelle antiche dell’Unico Dio.
- questo dato teologico completa quello della mediazione: Cristo non è un qualsiasi mediatore, né solo una via di passaggio, oltre il quale, si accede al Padre; Cristo è l’unico Mediatore, nel quale si accede al Padre.
- annunciando Gesù come Cristo, la Chiesa apostolica guarda soprattutto al passato che vede come sfociare e compiersi nell’evento presente della sua venuta, morte e risurrezione.
- il titolo di ‘Cristo’ lo designa nella sua missione salvifica.
- Gesù come ‘Signore’ la Chiesa apostolica guarda al presente ed al futuro.
- come ‘Signore’ è intronizzato già attualmente ed esercita in atto la sua signoria nel mondo e nella Chiesa.

d) Figlio di Dio
- rispetto al titolo di Signoria, quello di ‘Figlio di Dio’ è meno diffuso nel NT, ma non meno importante.
- importante è la genesi di questo titolo ecclesiale – esso appare legato agli ambienti palestinesi ed alle tradizioni religiose giudaiche.
- esso non mette in evidenza la ‘gloria’, e ‘potenza’ del Figlio, quanto la sua ‘obbedienza’ ed umiltà più conforme ad Is 53.
- l’espressione ‘Figlio di Dio’ può avere un duplice significato:
- da un lato il titolo indicava un senso di filialità come partecipazione alla dignità ed al potere regale di Dio.
- dall’altro esso, in senso assoluto, evoca l’idea di Figlio come Servo.
- l’uso del titolo ‘Figlio’ nel NT si carica ancora dl senso nuovo assunto nella esperienza filiale di Gesù.
- Figlio di Dio nel linguaggio cristiano vuol dire più propriamente ‘Figlio (divino) del Dio-Padre’.
- il primo orizzonte in cui compare l’uso del titolo di ‘Figlio di Dio’ è proprio quello parusiaco e della risurrezione.
- un secondo orizzonte è quello sacrificale in cui essere Figlio mette in evidenza il suo ‘essere inviato’ in vista della croce in cui risplende la sua obbedienza per la sua venuta nella carne, mediante il suo Spirito suscita l’affiliazione dei credenti.
- il senso del titolo ‘Figlio di Dio’ assume una rilevanza trinitaria: che comprende la missione dal Padre, l’umiliazione della croce, l’intronizzazione della risurrezione, l’opera dello Spirito nella filiazione dei credenti.

e) Sommo Sacerdote
- è nella lettera agli Ebrei che questo titolo è dominante nel contesto del modello cristologico sacerdotale.
- la novità del titolo – nel caso di cristo la ‘persona’ assorbe in sé la totalità del ruolo: Egli è ‘Sacerdote in Persona’ (persona del sacerdote – i Leviti), in senso assoluto, definitivo ed unico.
- passando nel santuario celeste, una volta per sempre, con il proprio sangue, fondando una redenzione eterna.


IV. PROSPETTIVE DI SINTESI DELLA CRISTOLOGIA DEL NT

- dalla sovrabbondante esperienza di salvezza per cui i credenti, nella Chiesa, vivono già nel presente escatologico per la potenza redentrice del Risorto.
- i credenti verificano la singolarità, l’ampiezza, la profondità dell’opera salvifica di Gesù di Nazaret, esaltato da Dio, donatore dello Spirito.
- essi esperiscono il ‘già adesso’ dell’eschaton e la tensione dinamica del ‘non-ancora’ della parusia.
- la cristologia del NT va quindi considerata partendo dalla comprensione del ‘presente’ di salvezza, come ‘presente escatologico’.
- ben presto l’importanza della storia si andava affermando su due fronti nella cristologia del NT:
a) – si imponeva l’esigenza di superare ogni rischio di ridurre il Signore celeste, glorificato nello Pneuma, ad un semplice personaggio mitico, ad una figura disincarnata.
- la stessa vita terrena appariva già una ‘epifania’, una ‘parusia’ anticipata.
- in questo richiamo al passato terrestre specialmente, la storia della passione e lo scandalo della croce venivano ad essere illuminati sotto molti punti di vista, come i diversi modelli esaminati ci hanno proposto.
- il sangue di Cristo non è concepito come prezzo di riscatto (cenu výkupného), quanto mezzo (střed) di comunione, ‘segno di amore’.
- di qui, l’idea della croce come sacrificio supera il materialismo dei riti antichi e pone in evidenza soprattutto gli atti interiori di ‘obbedienza’ ed ‘oblazione’.
- preghiera sacerdotale del IV evangelo, c. 17 pone l’accento sui due termini culminanti che sono la ‘rivelazione del nome del Padre’ e l’ingresso di Gesù nella dimora celeste’ – l’ora della croce costituisce qui la somma teofania trinitaria del Cristo che rivela se stesso rivelando il nome del Padre verso cui ‘va’ la sua vita.
b) – la fede pasquale offriva non solo la certezza e la gioia di vivere nei tempi escatologici della salvezza, ma alimentava anche la speranza dell’ultimo avvento di Cristo Signore – esso è concepito come il compimento di quell’unico processo escatologico unitario, iniziato con la venuta della incarnazione del Figlio di Dio, prolungato nella sua espansione nel tempo della Chiesa per l’opera della trasmissione della Parola e per la potenza dello Spirito.
- l’accento proprio della realizzazione escatologica è dovuto nel quarto evangelo soprattutto al notevole grado di ‘concentrazione cristologica’.
- anche nella Apocalisse domina l’orizzonte realizzato della escatologia.
- la soteriologia pasquale e la prospettiva parusiaca non lasciavano nell’ombra l’identità della persona di Cristo: la contemplazione della gloria del Crocifisso esaltato come Signore è stata piuttosto il luogo in cui la Chiesa apostolica ha sempre più profondamente penetrato il mistero del suo essere.
- l’affermazione protologica della ‘pre-esistenza’ non è stata però il frutto di un processo di astrazione e deduzione.
- né la semplice conseguenza di un connubio con un particolare ambiente culturale – in tal caso il linguaggio della pre-esistenza denuncerebbe un regresso dalla soteriologia alla ontologia.
- in realtà l’affermazione dell’essere pre-esistente di Cristo è compiuta non spingendo lo sguardo indietro, ma avanti: è la posizione a cui Cristo perviene nella sua risurrezione che rivela pienamente ‘chi egli è’ ed ‘era’ personalmente: il Figlio di Dio Unigenito presso il Padre.
- la gloria del Crocifisso-Riosrto non era che un irraggiamento della gloria del Pre-esistente.
- il NT nella sua cristologia più evoluta ci presenta come due stadi di esistenza del Cristo: quello ‘pre-esistente’ (protologico) – come punto di partenza del progetto imperscrutabile divino, riguardante la libera e gratuita intenzione rivelatrice.
- la vita eterna del Cristo Logos pre-esistente presso il Padre è quindi la ragione della possibilità stessa di questa vista di autocomunicarsi nella temporalità della prima e della seconda creazione.
- nel secondo stadio di esistenza, il piano di Dio concretamente si attua nel Cristo.
- tale attuazione incomincia a realizzarsi all’alba dei tempi con la prima creazione del mondo e dell’uomo, e nel suscitare la storia di Israele, per raggiungere nella pienezza dei tempi la sua venuta personale nella carne, nell’evento salvifico pasquale e nella parusia finale.
- la cristologia del NT vede l’essere preesistente di Cristo in un quadro trinitario
- la pre-esistenza non può astrarre dal rapporto allo Spirito il quale appare anche nella teologia dell’AT e del NT come intimamente legato nella prima e nella seconda creazione all’opera della Parola.
- a partire dalla idea della pre-esistenza la cristologia del NT ha potuto operare una rilettura dell’evento storico cristologico nella sua globalità come il ‘farsi carne’ della Parola eterna.
- non c’è incarnazione senza evento pasquale, momento culminante dello stesso processo integrale di incarnazione.
- l’unità tra l’incarnazione intesa come ‘passaggio del Verbo nella esistenza umana’ ed il ‘passaggio di Cristo dal mondo al Padre’ si concentra proprio nell’ora pasquale che per il quarto evangelo non è solo un fatto cronologicamente ultimo della vita di Gesù, ma un centro di prospettiva dinamico.
- e per questo l’incarnazione è una epifania della gloria.
- Giovanni non vede l’incarnazione come una sola struttura statica di unione del divino con l’umano fuori del dinamismo dell’evento in cui essa si realizza.


LA CRISTOLOGIA NEL PENSIERO DI FEDE
DELLA CHIESA DELL’ERA PATRISTICA

- la peculiarità (zvláštnost) del pensiero dei Padri, ‘pastori e teologi’ è costituita dalla costante attenzione alla promozione della fede nelle comunità cristiane, alla missione evangelizzatrice e catechetica, al dialogo con le culture del tempo per spianare la via all’annuncio del Cristo.
- l’orizzonte dominante del loro pensiero è una soteriologia incentrata cristologicamente nell’evento di pasqua in cui ‘l’eschaton’ già si attualizza pur lasciando aperto il cammino della storia verso la parusia.
- la loro costante attenzione è rivolta al vissuto della esperienza cristiana nella fede e nella ‘mistagogia sacramentale’.
- il pensiero cristologico dei Padri – la centralità della croce e della risurrezione di Cristo per cui la loro cristologia è di carattere soteriologico.
- la cristologia patristica si sarebbe poi progressivamente spostata verso l’ontologia, passando dal linguaggio degli eventi (passione, morte, risurrezione, parusia) a quello delle essenze (sostanze, nature, persona), dal modello originario giudaico centrato sullo schema biblico dei due tempi (abbassamento/esaltazione) al modello greco della incarnazione.
- tali concezioni circa la stessa idea di incarnazione nei Padri greci rivela che in essi non esiste alcun decentramento soteriologico in quanto nella cristologia patristica, l’incarnazione non è mai considerata astrattamente dal mistero della pasqua.
- essa è veduta prevalentemente come un ‘evento’ in cui la ‘discesa’ del Verbo, tra noi, raggiunge il suo compimento nella umiliazione della croce e porta a termine il piano di economia di elevazione dell’uomo nella gloria della risurrezione.
- per i Padri greci l’incarnazione non è redentrice solo come processo fisico di unione delle nature, perché tale processo è veduto essenzialmente legato agli avvenimenti storici in cui esso si è realizzato.
- il nostro studio sulla cristologia patristica si muoverà perciò dalla considerazione del suo orizzonte dominante: quello della soteriologia pasquale ed escatologica che permea tutto l’universo mentale della riflessione dei Padri (cristologia soteriologica), per considerare poi il movimento di questa cristologia che tende a stabilire il suo rapporto personale con il padre e con lo Spirito (cristologia trinitaria), passando poi alla considerazione fondamentale e globale della loro riflessione sull’evento cristologico della incarnazione.


I. LA CRISTOLOGIA DEI PADRI: TRA SOTERIOLOGIA PASQUALE
ED ESCATOLOGIA

- il problema dei ‘modelli interpretativi’ con cui i Padri hanno espresso il significato ed il valore dell’avvenimento salvifico della croce e della risurrezione.
- dall’inizio, la passione e la morte di Cristo, vengono considerate come realtà strettamente unite con la risurrezione.
- i Padri non conoscono una theologia crucis opposta o indipendente da una theologia gloriae.
- la croce è, al contrario, sempre veduta come ‘segno luminoso’ di vittoria, la ‘croce gloriosa’.
- in Oriente la croce è veduta essenzialmente congiunta con la creazione, con l’incarnazione, la risurrezione.
- la nota dominante di questa cristologia soteriologico-pasquale non sta primariamente nella remissione del peccato, quanto nella rinascita della nuova creatura in Cristo.
- tra i modelli interpretativi di questa visione unitaria dell’evento cristologico pasquale hanno predominato per un certo tempo due grandi teorie:
- quella detta psicologico-morale o soggettiva – sviluppava l’intuizione parentetica di 1 Pt 2,21 secondo cui Cristo patì per noi «lasciandoci un esempio» perché noi potessimo seguire le sue orme.
- quella ‘teoria oggettiva’ o ‘teoria latina’ – tenderebbe a spiegare la salvezza dalla croce mediante un cambiamento oggettivo dell’uomo (Agostino), mediante la soddisfazione vicaria (Anselmo, Tommaso).
- il pensiero dei Padri si sarebbe, secondo Aulen, evoluto secondo quella tipizzazione soteriologica, incentrata nella cristologia, passando dal modello soteriologico dominante del ‘Christus Victor’ a quello del ‘Christus Victima’ per giungere pio ancora più tardivamente a quello del ‘Christus exemplar’.

a) i modelli comprensivi della soteriologia pasquale
- alcune idee fondamentali.
Il Cristo illuminatore ed educatore dell’uomo
- una delle idee più antiche della soteriologia patristica, che affonda le radici anzitutto nelle concezioni soteriologiche del NT, è quella della salvezza per via di illuminazione.
- si tratta di una visione della soteriologia che mette l’accento sul dono della ‘conoscenza nuova’, di tipo sapienziale.
- è nella contemplazione progressiva della Luce-Verità che l’uomo dolorosamente si purifica e si libera dalle tenebre dell’errore ed accede alla immortalità.
- nello sviluppo di queste idee originariamente bibliche il pensiero dei Padri utilizza però una importante concezione culturale greca: il modello ‘paideutico’.
- l’uomo porta in sé, quale microcosmo, l’immagine normativa ed il fine della paideia che deve essere così fatta sprigionare dalla sua intimità.
- l’interpretazione della salvezza intesa come paideia Christi.
- il punto di vista patristico sottolinea l’azione divina di grazia e l’opera redentrice di Cristo che eleva l’uomo liberandolo non dal cosmo materiale, ma dalle potenze malefiche.
Christus Victor
- la salvezza nella croce e nella risurrezione come conquista.
- il modello della salvezza come intervento liberatore di Dio che riconcilia a sé il mondo liberando gli uomini dalla schiavitù delle potenze avverse mediante una lotta ed una vittoria operata dall’avvento del Cristo.
- questo modello evidenzia in modo particolare l’evento pasquale.
- questo modello sarebbe stato dominante all’inizio dell’era patristica e poi sarebbero cesso per una certa diffidenza e timore di infiltrazione dualistiche – il dramma di salvezza in un sorta di campo di battaglia tra forze avverse.
- l’opera di redenzione compiuta da Gesù non è stata mai concepita dai Padri come il pagamento di un prezzo a Satana, bensì come il suo spodestamento e debollamento. L’evento della croce è il segno più importante della potenza e sovranità di Cristo.
- Melitone di Sardi – omelia sulla pasqua – Cristo vincendo con la sua morte le potenze dell’Ade e di Satana, ed elevando l’uomo con la sua risurrezione dalle profondità delle tenebre alle altezze del cielo, realizza il trionfo di Dio.
- questa lotta vittoriosa di Cristo su Satana e l’impero della morte è veduta non solo in prospettiva terrestre, ma anche ultraterrestre: la sua vittoria ha un ripercussione nel mondo dei morti, attraverso il motivo del descensus.
- il combattimento di Cristo non è veduto tanto come una lotta diretta contro le potenze esteriori di schiavitù dell’uomo, quanto come un’azione di liberazione diretta verso l’uomo in se stesso, sollevandolo dalla schiavitù interiore attraverso la ‘persuasione’ che proviene dall’esempio di obbedienza della sua morte.
Il Cristo ‘agnello immolato’
- la salvezza nella pasqua come espiazione (smíření) sacrificale.
- ciò che prevale negli scritti dei Padri e nella loro soteriologia è meno il ruolo espiatorio (smírčí) esercitato da Cristo nella sua morte, rispetto alla importanza di ciò che egli ci ha ‘rivelato’ e ‘donato’: una scienza nuova, l’immortalità.
- tuttavia l’aspetto sacrificale della croce non è del tutto assente.
- soprattutto con Giustino comincia ad affermarsi il modello sacrificale della croce per la remissione dei peccati.
- Origene parla apertamente del valore sacrificale espiatorio della redenzione di Cristo, quale Agnello che toglie il peccato del mondo, ma soprattutto nelle opere esegetiche a commento della Scrittura.
- è stato soprattutto ad opera di Tertulliano che il linguaggio di soddisfazione comincia a prendere piede in occidente, applicato anzitutto alla penitenza sacramentale.
- con Cipriano inizia in modo più aperto e sistematico il discorso sacrificale sulla passione e morte di Cristo in connessione con l’idea del sacrificio eucaristico.
- il contributo principale viene però tra la fine del quarto secolo e gli inizi del quinto presentato da Agostino, nel quadro della dottrina sulla mediazione di Cristo, nel quale l’umanità è ‘rappresentata’ perché inclusa.
Filantropia divina
- in particolare merita attenzione su questo aspetto il pensiero di Massimo Confessore che riassume il motivo fondamentale della carità, mostrando come il triduo pasquale sia la cifra escatologica di quella divinizzazione che si consuma nella introduzione dell’uomo al mistero della carità trinitaria.
- il motivo dell’amore è per i Padri, il principio animatore dell’intera opera redentrice compiuta da Cristo nell’evento pasquale.
- in questa opera si realizza non solo il ‘ritorno dell’uomo’ alla sua condizione originaria di ‘immagine di Dio’, ma quella sua penetrazione nella vita della divina carità, per cui egli viene ‘divinizzato’ ed accede alla ‘immortalità’.

b) la parusia del Cristo nel pensiero patristico
- la prospettiva escatologica nei Padri:
- l’idea della anticipazione nella storia presente dell’evento escatologico futuro
- particolarmente la lettera di Barnaba sottolinea la presenza del Cristo glorioso conferiscendo i doni dello Spirito, consentendo già la partecipazione al mondo eterno che avrà inizio in un futuro prossimo.
- Ignazio vede la realtà presente ripiena dell’evento escatologico realizzato con la venuta storica di Gesù il cui evangelo è «la consumazione della immortalità».
- Ignazio sembra che sia stato il primo a collegare la vita storica di Gesù con l’idea della parusia.
- prima lettera di Clemente evidenzia l’anticipazione della escatologia in particolare nella sorte dell’uomo dopo la morte, anteriormente ad un giudizio collettivo finale.
- Clemente, parlando del martirio di Pietro e Paolo afferma che nel momento del loro transito sono andati direttamente nel «luogo santo», nella compagnia dei santi martiri, «resi perfetti nella carità».
- Alcuni Padri (Giustino, Ireneo, Tertulliano) vedono una tale retribuzione solo ‘iniziale’, in attesa della risurrezione finale, lasciando come fatto eccezionale la situazione dei martiri.
- nell’area del dialogo tra giudei e cristiani, Giustino, per primo, evidenzia, una teologia delle due parusie.
- una gloriosa ed una umile.
- Giustino afferma che essa avverrà a Gerusalemme, che sarà ricostruita ed ove Cristo regnerà per ‘mille anni’
- per Ireneo nella vita di cristo si adempie la ‘parusia storica’ consistente nel fatto che in essa Dio si fa ‘visibile’ e ‘palpabile’ realizzando l’unità perduta dell’universo.
- la parusia non è tanto un dispiegamento di gloria, quanto una teofania immediata di Dio.
- egli però vede anche nella seconda parusia il compimento definitivo dell’intera creazione e della storia.
- nella escatologia patristica più antica risuonano due motivazioni in proposito: il rinvio è in vista della nuova creazione, esso è legato al tempo di penitenza offerto alla umanità.
- la risurrezione corporea degli uomini ed il dono ed essi della ‘incorruttibilità’ ed ‘immortalità’
- Giustino affermava una risurrezione nel millennio in rapporto ad Ap 20,3.
- Ireneo è stato il principale portatore di questo orientamento.
- lui ha fatto una escatologia anti-platonica.
- Ireneo rileva l’importanza della risurrezione come momento escatologico della salvezza di tutto l’uomo a cui segue il millennio del soggiorno dei giusti sulla terra ed il giudizio finale come ultimo atto dell’opera redentrice di Cristo.
- se la carne dell’uomo non avesse la capacità di essere redenta, il Verbo di Dio non si sarebbe mai fatto carne
- la tendenza spiritualizzatrice di Origine, come tendenza critica alla escatologia asiatica la quale faceva del corpo umano un elemento capitale della antropologia e della escatologia.
- la tendenza a spiritualizzare l’interpretazione del linguaggio escatologico dalle follie millenarie letteralistiche.
- la contemplazione parusiaca inizierà dalla morte.
- tutte le cose saranno nuovamente sottomesse a Dio, che sarà di nuovo in tutti, come al principio.
- la risurrezione escatologica di tutti gli uomini, anche in maniera piuttosto spiritualizzata.
- Agostino riprende la prospettiva storico-universale della escatologia.
- per lui, la realtà visibile della Civitas terrena è la figura dell’evento invisibile del Regno che viene nella Civitas Dei.
- l’escatologia di Agostino è dominata più che dal settoriale e categoriale, dalla concezione universale dell’eschaton.
- egli vede il giudizio di Dio sulla storia come una costante che l’attraversa interamente e che si esplica in modo permanente – esso realizza già la ‘parusia’ del Cristo.
- questa parusia immanente alla storia, però, non resterà perennemente invisibile, ma avrà una sua manifestazione finale nella quale si vedrà risplendere il Cristo «uomo perfetto, capo e corpo».
- la ‘parusia’ sarà quindi insieme un evento cristologico ed ecclesiologico che porterà a compimento il processo della storia della salvezza introducendo l’uomo nello stadio finale della ‘vita eterna’.


II. LA DIMENSIONE TRINITARIA DELLA CRISTOLOGIA DEI PADRI
IL CRISTO ‘PRE-ESISTENTE’

- una adeguata conoscenza del mistero della persona di Gesù non può essere che strutturalmente trinitaria.
- risalire, a partire dal luogo pasquale, alla realtà del ‘Cristo preesistente’.
- si tratta infatti non di un tornare indietro, ma di un salire in altro, verso il mistero eterno della trascendenza di Dio trino e questa risalita consente di raggiungere proprio quel progetto originario (mysterion) da cui è scaturita l’ecconomia salvifica temporale.
- la protologia cristologica è correlativa alla escatologia e viceversa.

a) il punto di vista economico della identità trinitaria di Cristo
nel quadro degli ambienti culturali giudeo e greco
- in un ambiente dominato da un rigido monoteismo che nel ‘giudeo-cristianesimo’ spingeva ad identificare il Dio unico con il Padre, il collocamente in rapporto a lui di Gesù di Nazaret, crocifisso ed esaltato, diveniva problematico.
- la tendenza a mettere il Cristo nel numero dei profeti e degli uomini particolarmente favoriti da Dio – Gesù di Nazaret è il ‘figlio’ adottato dal Padre, lo speciale ‘inviato’ del Padre.
- Cristo nel senso de ‘eletto’ da Dio, ‘vero profeta’, creato ‘come uno degli arcangeli’ (cristologia angelomorfica).
- teologia giudaica è l’adozionismo che vedeva in Gesù un semplice uomo che aveva ricevuto da Dio una particolare vocazione indicata dallo Pneuma che Dio fece scendere su di lui al momento del battesimo.
- nelle cerchie ellenistiche appariva impossibile pensare un ingresso di Dio nella storia e nel dramma della sofferenza dell’uomo. Di qui le posizioni ‘docete’ e ‘gnostiche’, la distanza tra Dio ed il mondo, per salvaguardare la trascendenza di Dio.
- il pensiero dei Padri apostolici afferma generalmente la ‘pre-esitenza di Cristo’ ed il suo ruolo nella creazione e redenzione sulla linea dei luoghi paolini e giovannei.
- una spinta verso un progresso del pensiero patristico trinitario veniva dagli apologisti del II secolo (Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilio d’Antiochia) con la loro Logos-cristologia che stabiliva un ponte tra il prologo di Giovanni, i dati dell’AT sulla Parola di Dio e la Sapienza e le speculazioni ellenistiche che nel Logos avevano elaborato un concetto universalistico.
- per essi il Cristo pre-esistente è il pensiero o la mente del Padre in quanto si manifesta e rivela nella creazione.
- essi distinguevano tra ‘Logos immanente’ e ‘Logos pronunziato o espresso’.
- la preesistenza del Cristo-Verbo presso il Padre non era però chiaramente intesa come un ‘esistere personale.
- il Logos è veduto così come agente del Padre nella creazione e nella rivelazione.
- Giustino e la sua teoria dei ‘semi del Verbo’.




b) il contributo della riflessione di Tertulliano ed Origene nel terzo secolo
- del terzo secolo si rifugiavano ‘nel monarchianismo’ negando la tripersonalità di Dio e facendo del Logos una sola modalità diversa del Padre (modalismo), si andava affermando una vera dimensione trinitaria dell’essere personale di Cristo pre-esistente con il pensiero di Ippolito e Tertulliano in Occidente ed Origene in Oriente.
- Ippolito sosteneva che accanto al Padre c’era ‘un altro’ (heteros), una seconda persona (prosopon).
- Tertulliano è il primo ad affermare che la Divinità è una “Trinità” e che i tre possono essere contati.
- ma dovevano inaugurare un linguaggio più preciso nell’affermare che l’unità dei Tre è nella ‘sostanza’, cioè una sola realtà (unum) che non è unità numerica (unus), né una sola persona.
- si andava affermando la pluralità personale.
- Origene – tentativo di interpretazione della fede crsitologico-trinitaria sul piano ontologico attraverso l’ausilio dell’idea di ‘generazione eterna’.
- Origene rigettava il subordinazionismo cosmologico che vedeva l’origine del Figlio legata alla temporalità ed al processo gnostico di emanazione.

c) dal subordinazionismo ariano alle affermazioni dogmatiche di Nicea
- quarto secolo – la ‘crisi esemplare’ della fede nel Cristo pre-esistente – lo ha portato Ario.
- in lui si adempie il compimento processo de ellenizzazione del ‘kerigma cristiano’.
- pensare in termini autentici il monoteismo rivelato ed il tripersonalismo di Dio.
- l’assoluto sostanza in cui si incarnava il monoteismo medio-platonico tendeva ad una affermazione dell’Uno che lasciava problematica l’esistenza dei molti.
- l’annuncio dell’unico Dio rischiava continuamente di essere legato all’accettazione dell’unicum romanum imperium.
- Ario era portato inevitabilmente a deformare il kerigma originario, identificando il Padre, non-generato e non-fatto, con il Dio assoluto ed unico, incompatibile con il mondo.
- al Logos non restava più alcuno spazio proprio nella stessa sfera di Dio; esso era ricondotto ad una posizione intermedia tra Dio ed il mondo, ma sempre come inferiore al Padre.
- egli era considerato come ‘mediatore cosmologico’.
- la posizione di Ario, partiva invece dalla immagine dell’Assoluto-Dio elaborata dalla filosofia neo-platonica.

d) l’affermazione dogmatica di Nicea
- il Concilio di Nicea aveva unicamente l’intento di affermare l’identità della fede cristologico-trinitaria nel contesto dei problemi e del linguaggio della sua epoca.
- il suo testo si presenta come un symbolum fidei che afferma che l’unico Dio è Padre, ma è anche il solo Signore, Gesù Cristo, Figlio di Dio che si trova, così, sullo stesso piano del Padre.
- il Concilio di Nicea dissolve l’ambiguità (nejasný) del vocabolario che identificava il divino con il ‘non-generato’, considerato questo, come sinonimo di ‘non-creato’.
- Nicea, distinguendo il termine ‘generato’ da quello ‘creato’, apre la via ad una affermazione divina del Cristo pre-esistente: il concetto ‘monoteistico’ di impronta (otisk) greca che insisteva (naléhavý) sulla unità numerico-quantitativa viene infranto (zlomit).
- la fede cristiana professa delle ‘alterità’ e distinzioni all’interno dell’Unico Dio, che è, insieme, Padre e Figlio.
- nel simbolo niceno, l’affermazione esplicita dell’essere del Cristo pre-esistente «dalla sostanza del Padre» e del suo essere «consostanziale a lui».
- è la prima volta che si introduce un termine specificamente greco (sostanza; consostanziale) nel simbolo apostolico.
- rimane aperta la questione se nella mente del Concilio, l’identità di sostanza vada intesa come identità numerica.
- il salvaguardare l’identità divina del Cristo pre-esistente, garantisce l’evento di salvezza per cui l’uomo può accedere al Padre come figlio, nel Figlio.

e) dalla riflessione teologica dei Padri Cappadoci al Concilio Costantinopolitano
- le affermazioni di Nicea lasciavano ancora la via aperta ad ulteriori precisazioni: permaneva una ambiguità di linguaggio circa il termine ‘sostanza’ (ousia) che veniva usato ancora come sinonimo di sussistenza o ‘persona’ (upostasij).
- posizione modalista di Sabellio e Montano – parlare di ipostasi distinte pensavano ad una caduta nel politeismo.
- la fede nello SS era ribadita a Nicea ripetendo letteralmente le parole del simbolo apostolico: «credo… nello SS» senza altre aggiunte.
- il profondamento viene con i Padri Cappadoci e i Concillii Costantinopolitano I (381) e II (553).
- già dal Sinodo di Alessandria (362) si andava affermando con la formula «tre ipostasi, una sostanza».
- Padri Cappadoci – l’accento posto sulle ‘persone divine’ – «l’intera ed invariata sostanza comune, non essendo composta, e identica all’intero ed identico essere di ciascuna persona (…) l’individualità è solo la maniera in cui la sostanza identica si presenta oggettivamente in ciascuna delle persone».
- il contributo cappadoce fu soprattutto nella chiarificazione del concetto di persona – la ‘persona’ un ‘modo di essere’.
- la distinzione tra sostanza e persona.
- ogni persona divina è unica ed esse non possono essere addizionate.
- il contributo dei Cappadoci fu decisivo per l’avanzamento della comprensione di fede sulla unità sostanziale trinitaria di Dio che trovò la sua codificazione nel Concilio Costantinopolitano I (381), il quale confessa un’unica divinità e sostanza, per cui il Padre, il Figlio e lo Spirito godono dello stesso onore, dignità e potere e sono in tre perfette ipostasi o persone.
- lo Spirito è anch’egli Signore e deve essere adorato insieme (syn) con il Padre ed il Figlio.
- questo Concilio non dice nulla sul rapporto tra Figlio e Spirito.
- la frase ‘dal Padre’ (ek tou Patros) non esclude un ruolo di mediazione del Figlio nella processione dello Spirito

f) dalla riflessione cristologico-trinitaria agostiniana al Concilio Costantinopolitano
- le persone si distinguono ad invicem non secundum subsistentiam, sed secundum relationem (De Trinit.)
- «in divinis omnia sunt idem, ubi non obviat relationis oppositio».
- il punto di vista agostiniano permette di prendere coscienza, più che nei Padri orientali, della ‘coesione intima’ del rapporto trinitario delle persone, della ‘correlazione’ delle ipostasi in ‘comunione’ descritta spesso nei Padri orientali come ‘giustapposizione’.
- in Agostino l’unità tra il Figlio ed il Padre non è solo questione di ‘sostanza’ (consostanzialità), ma è anche ‘correlazione di persone’ è unità di ‘comunione’ in cui il rapporto inter-personale non si annulla.
- esprime, per la prima volta, una idea – la Santa Trinità come Amore.
- questo suo linguaggio non fa che tradurre, quanto Paolo confessa in 1 Cor 8,6; Rm 11,36; Ef 4,5-6. La Trinità è confessata a partire dalla unità del Padre da cui procedono un solo Figlio ed un solo Spirito, nella indivisione della stessa unica deità.

g) ultimi sviluppi del pensiero patristico sul rapporto trinitario tra il Cristo e lo Spirito
- nell’ambito della patrologia greca un contribuito all’approfondimento del rapporto tra Cristo e lo Spirito era stato dato anzitutto da Atanasio.
- come l’unità del Figlio con il Padre implica, nella linea di Nicea, la sua origine a partire da lui, così la stessa unità dello Spirito in rapporto al Figlio indica una origine in rapporto al Figlio.
- i Padri Cappadoci affermavano che lo Spirito è insieme di Dio (Padre) ed è di Cristo, per cui procede dal Padre e riceve dal Figlio.
- lo Spirito santo viene «dal Padre per mezzo (dia) del Figlio».
- Cristo glorificato dona lo Spirito, risale al contesto trinitario immanente in cui lo Spirito procede ‘dal Padre’, ‘per il Figlio’.
- l’Oriente cristiano è costantemente preoccupato di salvaguardare la supremazia del Padre, origine unica della divinità dello Spirito che è garantita dal suo ‘procedere dal Padre’.
- partendo da Gv 16,13 Agostino asserisce che solo nello Spirito il Padre ed il Figlio non si distinguono, in quanto egli è lo Spirito dei due; Spirito del Padre (Mt 10,20; Rm 8,11) e Spirito del Figlio (Gal 4,6; Rm 8,9).
- lo Spirito dunque è comune al Padre ed al Figlio, è loro santità comune, loro amore, loro unità.
- egli deve perciò procedere da entrambi, ma principaliter dal Padre.
- in questa inter-comunione di amore si rivela lo Spirito che scaturisce da questo ritorno del Figlio al Padre, nell’amore.
- la speculazione greca si pone ad un primo stadio di elaborazione a cui segue la riflessione latina.
- entrambe le prospettive, prima della crisi ariana, vedevano in Dio soprattutto il Padre.
- ma dopo l’eresia ariana si tende a distinguere il punto di vista della sostanza da quello delle persone.
- orientale mette maggiormente in evidenza la supremazia del Padre, quale origine unica della Trinità e vede scaturire da questa fonte il Figlio e per lui, lo Spirito, ‘nel quale’ la vita divina si apre al mondo ed alla storia.
- latino sottolinea maggiormente, con l’unità, la immanenza della vita trinitaria attraverso un modello rappresentativo simmetrico, per cui nella vita trinitaria il Figlio, nato eternamente dal Padre, si rivolge a lui in una unità di amore come un unico principio da cui scaturisce lo Spirito, nel quale, per così dire, si chiude il circolo della vita trinitaria.





III. IL SIGNIFICATO DELL’EVENTO CRISTOLOGICO
DELLA INCARNAZIONE
Il contributo della riflessione cristologica dei Padre
e le affermazioni dogmatiche della Chiesa antica

- l’evento pasquale come un momento culminante di un processo globale: l’incarnazione.
- contro l’eresie si trattava proprio di salvaguardare, attraverso i diversi aspetti del realismo della incarnazione, il realismo della salvezza dell’uomo secondo l’assioma fondamentale: «non può essere salvato se non ciò che è assunto».

a) l’incarnazione del Logos: avvenimento salvifico e struttura ontologica
- altri caratteri delle prime immagini post-bibliche di Gesù furono quelli popolari o addirittura volgari sparsi negli ambienti incolti di cui danno testimonianza il Pastore di Erma, la Lettera di Barnaba, la seconda Lettera di Clemente, i Libri Sibillini.
- i scritti apocrifici portavano la immagine mitica della incarnazione.
- incontro tra leggenda e realtà.
- il realismo dell’evento cristologico, mettendo in evidenza la verità della nascita, del comportamento umano, della passione, della morte e della risurrezione di Gesù.
- l’incarnazione è veduta come un evento che si colloca nel quadro della economia divina di salvezza, per cui «Cristo è il Signore» che ha «veramente portato la nostra carne» ed è divenuto perfettamente uomo.
- nel pieno sviluppo del secondo secolo bisogna notare soprattutto l’apporto della riflessione degli apologisti per l’avvento della cristologia del Logos.
- la ‘cristologia di Giustino’ – in dialogo con il giudaismo  sottolinea il carattere di evento della incarnazione, a partire dalla creazione per culminare nella incarnazione in cui si realizza la massima presenza tra gli uomini per ricondurli a Dio.
- utilizzando l’idea del ‘Logos seminale? Vede in tutta la storia umana la presenza sotto forma di semi del Verbo che già permea gli uomini fino alla storia di Gesù.
- la concezione più rappresentative di Ireneo – la sua idea di ‘ricapitolazione’ per cui Cristo riprende e riassume in sé tutta l’umanità.
- l’incarnazione ne è l’evento culminante per cui Cristo è salus quoniam caro.
- tra la creazione e la fine del mondo sta al centro l’evento Cristo.
- Cristo, nascendo, assume una economia di corporeità in cui si associano nascita e passione come un unico movimento per cui il Verbo si fa passibilis homo.
- la glorificazione corporea in cui culmina l’elevazione dell’uomo-carne.
- nella storia di Gesù si adempie e compendia la storia del mondo.
- il terzo secolo è un periodo caratterizzato da un più consapevole sviluppo della riflessione erudita della teologia dei Padri in dialogo col monoteismo giudaico e greco.
- riflessione di Ippolito – una duplice accentuazione nella incarnazione:
- una più biblica – economia divina (Contra Noetum) – pre-esistenza ed incarnazione attraverso una via discendente ed ascendente: Logos e sarx sono i due poli intorno a cui il suo pensiero di natura più kerigmatica oscilla con l’affermazione Cristo è ‘uomo perfetto’.
- una seconda concezione della incarnazione – la prospettiva è più universalistica su di un piano più cosmologico e storico, come pure antropologico – linguaggio stoico.
- l’idea di incarnazione viene nel terzo secolo dal pensiero di Tertulliano ed Origene.
- il primo fonda il realismo unitario della incarnazione sulla idea di ‘persona’ con espressioni che sembrano anticipare il linguaggio dogmatico della Chiesa.
- a Tertulliano non interessa ancora spiegare l’unità della divinità e della umanità di Cristo, quanto di affermare, contro Prassea, il fatto di questa sua unità.
- non possedeva ancora la vera formula cristologica della incarnazione (una persona, due nature).
- contro il monarchianismo era portato a sottolineare l’unità concreta di un solo Cristo.
- contro lo gnosticismo il realismo umano di Cristo nella sua ‘carne reale’.
- la scuola di Alessandria con Clemente ed Origene – in essi l’idea della incarnazione come evento è tutt’altro che tramontata.
- la sua forte tendenza alla spiritualizzazione della carne a motivo della sua unità con il Logos lo porta ad offuscare la distinzione chiara tra Logos ed anima umana di Cristo.
- l’anima ormai è il Logos l’unico interiore, principio fisico che tutto domina.
- l’anima umana nella incarnazione sembra senza più alcuna importanza teologica e soteriologica.
- Origene – per lui l’incarnazione è un evento che si colloca nel quadro dell’opera del Logos nel cosmo e nella storia dell’umanità.
- egli spinge la sua riflessione sul mistero stesso della unione del Logos con la natura di Cristo.
- è mediante l’anima che avviene l’unione del Logos alla carne.
- è l’anima soprattutto, per lui, che unita al Verbo in maniera unica ed inseparabile, penetrata dal Verbo, come il ferro dal fuoco.
- attraverso l’anima, l’umanità del Cristo è come un filtro attraverso il quale la divinità si comunica secondo le capacità recettive dell’uomo.
- gli apporti di Origene sono stati importanti per la difesa del ruolo dell’anima umana di Cristo nella incarnazione.
- la dottrina di Origene secondo la quale Cristo aveva assunto un’anima umana, era divenuta un ostacolo per un certo numero di uomini.
- nel quarto secolo il pensiero patristico va evolvendo sempre più una riflessione sulla struttura della incarnazione attraverso il modello ‘Verbo-Carne’ (Logos-Sarx) – Eusebio di Cesarea ignoravano l’anima di Cristo soppiantata dal Logos, che avrebbe preso un corpo umano come un suo vestito, un suo strumento: l’incarnazione era pensata in questo contesto, non come un vero evento di umanizzazione del Logos, quanto una sua teofania mediante la sola carne umana.
- l’arianesimo si avvaleva (využít) esso stesso di questo modello ai fini trinitari.
- al contrario la struttura ‘Verbo-carne’ veniva utilizzata da Atanasio.
- la cristologia ariana sulla negazione dell’anima umana di Cristo, respingeva l’immagine ariana di Cristo, come un uomo semplicemente ordinario.
- Atanasio – la incarnazione soprattutto come un evento in cui emergono due momenti che corrispondono a due stadi del Verbo, due condizioni successive: il suo essere presso il Padre, il suo prendere carne per noi dalla Vergine Maria, divenendo uomo.
- appropriarsi della seconda condizione senza perdere la prima.
- l’idea del Deus immutabilis applicata trinitariamente al Logos immutabilis portava Atanasio a pensare che l’incarnazione come evento del divenire carne del Logos voleva dire solo l’assumere una nuova condizione di esistenza nella quale però egli non era coinvolto nell’intimo dell’avvenimento storico.
- Verbo-carne – prospettiva antiariana.
                - da questo cresce la eresia di Apollinare di Laodicea (310-390), amico e coadiutore di Atanasio.
- nel suo tentativo di spiegare l’unità reale dell’evento della incarnazione, a difesa della verità della nostra redenzione, egli utilizzava rigorosamente il ‘modello antropologico stoico-alessandriono’.
- in tale modello, l’uomo è uno per sintesi di natura, indicando per natura non una essenza astratta, statica, ma ‘l’essere dotato di un proprio movimento’.
- l’Incarnato è ‘una unità composta in forma umana’. E cioè: una sola natura composta di Divinità impassibile e di carne passibile.
- «una sola natura incarnata del Verbo Divino».
- il Verbo come principio animatore e motore di ogni suo movimento vitale.
- in pratica Apollinare riduceva l’unità di persona ad unità di natura.
- affermare che il «Verbo si è fatto carne» voleva dire per Apollinare che esso si è unito alla carne come lo spirito umano è unito al suo corpo.
- per Apollinare il Verbo non pativa, perché il Logos glorificava e divinizzava questa carne che era sottratta così alle condizioni di corruttibilità terrestre: Cristo era l’uomo celeste, fuori delle condizioni umane.
- il sistema apollinarista fu respinto dal sinodo di Alessandria del 362 e più chiaramente dall’intervento di Papa Damaso (375) nel sinodo di Roma del 377, con la conferma del Conc. Costantinopolitano I (381).
- l’integrità della umanità di Gesù costituiva ormai un dato dogmatico fondamentale, come la consostanzialità del Figlio con il Padre e chiarificava un aspetto dell’evento della incarnazione.
- al grosso problema del come intendere il rapporto della duplice integrità umana e divina del Cristo nella unità dell’evento di incarnazione.
- i Padri Cappadoci contributo con il concetto di ‘persona’ in teologia trinitaria, non avevano di fatto utilizzato questa categoria nella cristologia.
- ‘comunicazione delle proprietà’ (parlavano così di ‘Dio crocifisso’ e di ‘Maria Madre di Dio’).
- Gregorio di Nissa sottolineava di più l’aspetto diofisita.
- l’unità del divino e dell’umano era da lui affermata sia con l’idea di ‘mescolanza’ che attraverso il linguaggio, talora adoperato di ‘una persona’, mentre nel parlare dell’azione divinizzatrice del Logos nella umanità di Gesù, Gregorio si differenzia notevolmente dalla concezione apollinarista dell’uomo celeste.
- ‘Verbo-Uomo’ (Logos Anthropos).
- Origene; Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia, agli inizi del quarto secolo con Eustazio di Antiochia (+336), poi con Marcello d’Ancira (+374).
- con Teodoro di Mopsuestia che iniziava una vera riflessione sulla struttura della incarnazione sulla base dello schema ‘Verbo-Uomo’
- egli, parla dell’evento di incarnazione, con il linguaggio di ‘assunzione dell’uomo’, sottolineando una chiara distinzione dio-fisita per porre l’accento sulla integrità umana dell’uomo assunto.
                - restava problematiche però l’unità reale tra il Verbo e l’uomo assunto.
                - in Occidente – Ilario, Ambrogio, il sinodo di Roma, Agostino.
- l’evento della incarnazione culminante nella pasqua del Signore.
- egli raggiungeva una formulazione definitiva del linguaggio latino vedendo confluire la dualità delle sostanze nella unità della persona: «accedit homo Deo et fit una persona».
- il quarto secolo ci offre un apporto importante nello sviluppo della teologia della incarnazione.
- ad Alessandria la cristologia atanasiana aveva il suo seguito in quella di Cirillo che egli sviluppava in prospettiva antiariana, preoccupato piuttosto di salvaguardare la immutabilità del Logos.
- la sua preoccupazione antiariana lo portava meno ad evitare espressioni che sottolineavano l’unità con formule come ‘una natura’ che egli considerava equivalente a ‘una persona’ o addirittura con espressioni quali «unica natura incarnata del Dio Logos» che egli usava credendola di Atanasio.
- lo portava ad affermare vigorosamente l’unità ontologica dell’Incarnato, giustificando pienamente sia il titolo di Madre di Dio, sia l’attribuzione delle proprietà umane da parte del Verbo (comunicazione degli idiomi).
- Cirillo – l’unità reale del Cristo, Verbo-carne.
- lui premeva difendere da un lato la distinzione ontologica, di due ‘elementi’ o due ‘oggetti’, ma dall’altro egli affermava che questa dualità, nel Verbo incarnato, era sostenuta dalla unità di un medesimo soggetto.
- il metodo di Nestorio (vescovo di Costantinopoli dal 428) – la preoccupazione di pensare la tradizione di fede attraverso un più rigido predominio delle categorie culturali, nel caso, della analisi stoica del concreto.
- per questo, là ove la tradizione di fede proclamava l’evento della incarnazione del Logos come il divenire carne della Parola da Maria, Madre di Dio e l’evento della sua passione come ‘sofferenza di Dio’.
- Nestorio commise l’errore «di voler arrestare una evoluzione kerigmatica».
- la preoccupazione della riflessione cristologica di Nestorio era dominata dall’intento anti-ariano e dal tentativo ariano di fare del titolo di ‘Maria Theotokos’ un motivo per negare la divinità di Cristo, egli rifiutava  ‘comunicazione degli idiomi’.
- Nestorio finiva con l’indebolire l’unità reale del Cristo riducendola ad una unione più o meno morale che egli chiamava synapheia anziché énosis che metteva in evidenza un principio volontario.
- la impossibilità di fondare l’unità reale del Cristo restando solo sul piano delle nature-sostanze ed anche il difetto degli strumenti filosofici dell’analisi del concreto di cui egli disponeva, mutuandoli dalla filosofia stoica.
- così l’integrità delle due sostanze lo portava sul piano concreto a parlare di due ‘soggetti’ o due ‘concreti’ che confluivano in un unico ‘prosopon di unione’, ovvero, una unità che si realizzava attraverso una compensazione dei due soggetti.

IL CONCILIO DI EFESO (431)
- il suo centro di attenzione era il contenuto dogmatico dell’incarnazione, compromesso dalla eresia nestoriana.
- il suo valore, per la storia della fede, anche se non emise alcuna formula dogmatica, sta in un «insieme di elementi che fanno formula».
- il primo di tali lamenti era il riconoscimento del valore normativo, per la fede, di Nicea, il cui simbolo offriva la formula cristologica che faceva autorità e non era che una ripresentazione della stessa fede apostolica della Chiesa primitiva.
- il secondo elemento importante era il riconoscimento, come conforme alla fede, della seconda lettera di Cirillo a Nestorio con la usa affermazione sulla unità del Cristo «secondo l’hypostasis».
- il terzo elemento concerne propriamente il metodo adottato dai Padri di Efeso.
- è chiaro anzitutto che nel simbolo niceno l’incarnazione evidenzia il punto di vista dell’evento.
- la proclamazione della identica formula di fede cristologica di Nicea non va considerata come una semplice ripetizione letterale del passato.
- sia a Nicea che ad Efeso si poneva il problema teologico della cristologia – il rapporto tra Gesù e Dio.
- ci si chiedeva se Gesù di Nazaret fosse Figlio di Dio.
- il movimento di pensiero appare discendente (al contrario a Nicea) – ci si chiede in che modo il Figlio di Dio è divenuto uomo, Gesù.
- a partire dall’alto: si parte, in realtà, non dall’uomo Gesù, ma dal Verbo di Dio che si incarna secondo Gv 1,14.
- il movimento della riflessione patristico-dogmatica – a livello kerigmatico si muove a partire dal basso (esperienza storica di Gesù di Nazaret) per salire verso l’alto (glorificazione, pre-esistenza) e poi si muove dall’alto (pre-esistenza del Logos) per ridiscendere verso il basso (incarnazione).
- in Efeso restava qualche incertezza per quanto riguarda la distinzione tra ‘natura’ (physis) e ‘persona’ (hypostasis), termini che la lettera di Cirillo usava talora indiscriminatamente (‘secondo l’ipostasi’ usato come equivalente di ‘secondo natura’).
- si deve dare rilievo all’atto di unione del 433, come momento complementare, avvenuto tra Giovanni di Antiochia e Cirillo, in cui, con concessioni reciproche si giungeva alla affermazione reale della unità di Cristo ed alla distinzione delle nature, all’accettazione del titolo di ‘Madre di Dio’ e del linguaggio della sola persona.
- 8. 12. 448 Flavio - «Confesso che Nostro Signore era ‘di due nature’ prima della unione, ma dopo l’unione confesso ‘una sola natura’».
- la posizione eretica di Eutiche si manifestava nel sinodo imperiale di Efeso (449) chiamato da Papa Leone «ladrocinio di Efeso».
- nonostante ciò si andava aprendo il varco verso un nuovo intervento dogmatico chiarificatore per la fede cristologica della incarnazione – in questo senso fu determinante la Lettera dogmatica del papa Leone Magno al Vescovo di Costantinopoli Flaviano (Tomus ad Flavianum – 13. 6. 449) con il suo chiaro contenuto cristologico sulla unità reale del Cristo, nella unica persona, e la dualità e comunicazione delle proprietà.

IL CONCILIO DI CALCEDONIA (451)
- la struttura letteraria ed il significato della formula cristologico-dogmatica di Calcedonia nel suo contesto si deve notare che essa si presenta, nella terza parte del documento conciliare, come un simbolo di fede che ha un carattere kerigmatico – esso proclama la fede nell’incarnazione come un ‘evento’.
- Calcedonia si trova in linea con Nicea, il cui primato viene riconfermato.
- la fedeltà verso Nicea si esprime in un nuovo atto di interpretazione di quel Concilio che si rivela attraverso quella precisazione della struttura dell’evento della incarnazione che ne garantisse la verità salvifica.
- i Padri di Calcedonia «seguono una tradizione e vogliono portarla un po’ più lontano, nella sua attualità».
- prima parte – domina la proclamazione della incarnazione-evento in termini simbolico-kerigmatici – la fede di Nicea aveva proclamato sulla identità divina del Cristo.
- il Concilio professa la fede nel Cristo partendo dalla unità ed all’interno della unità, esso pone la distinzione e la dualità divina ed umana.
- l’accento sulla interezza umana (di anima razionale e corpo) è come un’eco delle polemiche del tempo che minacciavano tale completezza.
- l’atto di una ‘nuova interpretazione’ avviene soprattutto nella ‘seconda parte’ della formula dogmatica di Calcedonia.
- questa seconda parte della formula esprime in modo diverso, ma equivalente, la stessa realtà dell’‘evento’ della incarnazione precisandone però le componenti strutturali.
- per Calcedonia il piano della persona-ipostasi è quello dell’unico Cristo.
- in questa unità di persona Calcedonia pone la distinzione o dualità (non dualismo) dell’umano e del divino, delle proprietà umane e divine.
- nel dogma cristologico di Calcedonia l’essere della persona esprime ormai un significato ed una qualità ontologica distinta dalla natura-sostanza.
- il pensiero di fede cristologica di Calcedonia consente di salvaguardare la irriducibile differenza distinzione tra l’uomo e Dio, espressa attraverso le parole «senza confusione» (contro Eutiche) e «senza cambiamento» (contro Apollinare), pur affermando la più intima e profonda unione che si possa pensare tra uomo e Dio, espressa attraverso la coppia di parole «senza divisione», «senza separazione» (contro Nestorio).
- il pensiero cristiano è riuscito a trovare il giusto mezzo tra monismo e dualismo, tra pura trascendenza divina ed immanenza.

- il Dogma di Calcedonia ha incontrato nel nostro tempo diversi problemi interpretativi.
- Già al tempo stesso del Consilio era sorto il problema se la formula cristologica, nella sua seconda parte, fosse stata compilata troppo aristotelicamente e non kerigmaticamente.
- obiezioni hanno contagiato anche ambienti cattolici che ritengono la formula dogmatica di Calcedonia una espressione troppo statica del mistero cristiano, «una interpretazione, che mette l’accento non sull’evento e la storia, ma sull’essere».
- ora si deve considerare che non ogni ‘ellenizzazione’, ‘romanizzazione’ e ‘germanizzazione’ sono in sé corruzioni del cristianesimo.
- ogni cultura è un orizzonte legittimo di espansione e penetrazione del messaggio, per cui la Parola di Dio ci obbliga a superare quel fondamentalismo biblico che si riduce ad un fissismo letterario.
- nel necessario processo di ‘inculturazione’, che risponde al permanente incarnarsi della parola eterna, in forza della novità ed originalità derivante dalla sua tradizione di fede, il linguaggio cristiano deve necessariamente procurarsi degli spazi propri, utilizzando e modificando, laddove necessario, le categorie e le strutture linguistiche per renderle adatte ad esprimere il mistero della salvezza che esso annuncia.
- la considerazione che ogni decreto conciliare in un tempo di crisi in cui il senso autentico della fede è minacciato, è un documento regolatore che no si aggiunge al testo fondatore normativo della Scrittura, ma l’interpreta ed attualizza in una situazione nuova.
- intenzione anti-eretica non ha solo una funzione negativa: essa, negando, afferma un limita invalicabile per l’ortodossia, che è insieme una acquisizione irreversibile.
- in questa sua funzione antieretica la formula dogmatica ha infatti un valore assoluto e definitivo circa gli errori cristologici.
- Calcedonia – il suo testo mostra che la fedeltà alla Tradizione non è mera ripetizione letterale dei testi anteriori.
- questa chiarificazione non va intesa come un processo analettico di carattere filosofico-teologico, ma come atto interpretativo compiuto alla luce dello Spirito che conduce la Chiesa alla ‘verità tutta intera’.

- da Calcedonia al II Concilio Costantinopolitano: la cristologia del sesto secolo.
- il Concilio di Calcedonia non aveva realizzato l’unità in oriente.
- l’imperatore teologi Giustiniano cercò di recuperare i monofisiti mettendo in evidenza l’accordo di Calcedoni con il linguaggio e la dottrina di Cirillo – tendenza denominata ‘neo-calcedonianesimo’.
- essa ha trovato il suo momento principale nel Concilio Costantinopolitano II (553), riconosciuto come autentica interpretazione di Calcedonia dai Papi (Virgilio, Pelagio).
- il detto Concilio dà una esegesi autorevole della definizione cristologica di Calcedonia grazie ad una chiarificazione maturata nel passare degli anni.
- il Concilio Costantinopolitano II offre un apporto ermeneutico rispetto a Calcedonia anzitutto nel mostrarci una verifica tra la sua formula dogmatica e la Scrittura; esso indica la verità delle affermazioni concrete scritturistiche sulla origine umana e divina del Cristo e sul realismo della passione del Logos.
- tale Concilio ci offre ancora un importante apporto ermeneutico rispetto a Calcedoni, attraverso il contributo di riflessione di Leonzio di Bisanzio e di Leonzio di Gerusalemme, mediante l’idea della condizione anypostatica della umanità di Cristo nella persona del Verbo.
- la unione del Verbo alla umanità ‘secondo composizione’ (kata synthesis) o ‘secondo sussistenza’ (kata hypostasin).
- la persona del Verbo si è autenticamente umanizzata nel suo atto di essere persona il ‘soggetto ultimo’ di tutte le azioni e passioni del Cristo è ormai, non più il Verbo solo, ma il Verbo umanizzato.
- in Gesù, il Figlio di Dio è divenuto, in ragione della incarnazione, una persona (divina) umanizzata, ha vissuto in maniera autenticamente umana le sua esistenza individuale e sociale; ha vissuto il suo essere persona, nel modo umano del divenire, del crescere.
- Gesù no è stato ‘una sola persona divina’ che si è rivestita esternamente di una livrea umana, come nascondendosi dietro l’umanità.

- verso il Concilio Costantinopolitano III (680-681)
- malgrado le chiarificazioni del Concilio Costantinopolitano II, molte fazioni monofisite restavano recalcitranti.
- tali frange eterodosse portava nel secolo VII ad un tentativo di compromesso – esse confessassero due nature distinte in Cristo mettendo l’accento sul Verbo quale ‘soggetto unico operante’ e ‘volente’, ‘unico principio di azione’.
- il monofisismo minacciava di spostarsi dal piano delle nature al piano delle operazioni.
- Severo di Antiochia credeva di poter affermare conseguenzialmente che siccome in Cristo c’è una sola persona divina, non può non esserci che un solo principio divino di attività, un solo unico agente e volente.
- Severo si interessava all’unica attività di Cristo (monoenergetismo) – in Cristo c’è un solo principio divino di attività: così l’umanità era svuotata dinamicamente ed assorbita dal divino.
- in Cristo si poteva parlare di dualistà di voleri voluti (thelémata), ma di un solo volere volente (thélesis).
- Severo affermava questa unità perfetta di operazione come ‘attività ipostatica’.
- il problema – mancava la distinzione tra alterità e contrarietà – se si ammetteva un volere altro si pensava facilmente ad un volere contrario.
- il Papa Martino I attraverso l’intervento magisteriale del Sinodo romano del 649 affermava che «Cristo voleva umanamente la nostra salvezza».
- la difesa della volontà umana di Gesù costò cara a Massimo Confessore ed a Martino I che patirono la loro agonia dietro le persecuzioni imperiali.
- Concilio Costantinopolitano III applicò alle volontà ed operazioni di Cristo i quattro avverbi calcedonesi affermando che «annunciamo in lui due naturali volontà, due naturali operazioni, indivisamente, immutabilmente, inseparabilmente, inconfusamente (…) e due naturali volontà no contrarie (…).
- così, nella unione personale, la volontà umana, non è soppressa, ma salvaguardata.
- il Concilio non afferma alcun parallelismo di tale agire umano rispetto al volere divino, bensì la sua soggezione e perfetta comunione a questo volere.
- spesso il problema della due volontà e stato affrontato nella esegesi del Getsemani solo a livello di tensione tra volere umano e divino nel Cristo.
- nel dato evangelico circa la preghiera del Getsemani, la distinzione delle volontà non si pone.
- c’è predomina l’orizzonte del rapporto tra Gesù ed il Padre: il volere divino appare, infatti, anzitutto come volere del Padre che ha inviato il Figlio.
- così il rapporto tra le due volontà si pone concretamente, nell’ambito del rapporto inter-personale tra il Padre ed il Figlio incarnato.
- la volontà divina del Figlio che è lo stesso volere divino del Padre, che egli riceve come suo, dal Padre, è vissuta dallo stesso Figlio, sul piano della incarnazione, come volontà umana soggetta in tutto al Padre.
- la volontà divina, come appello di amore perfetto è un volere liberante.

b) l’evento cristologica della incarnazione nella maternità divina di Maria
- il pensiero dei Padri non ha effettuato una sintesi tra la maternità della Chiesa, nata dalla croce ed il ruolo di Maria Madre dei credenti.
- sia Giustino che Ireneo aprono il discorso teologico sulla maternità di Maria incominciandolo dal suo agire personale di ‘fede’ nella parola di Dio, per cui tale atto di fede di Maria acquista un valore universale: non solo genera il Verbo (nel cuore prima che nel corpo), ma diviene causa di salvezza per l’intero genere umano.
- scorso mariologico, cioè, appare strutturalmente ecclesiologico: la Chiesa è veduta alla luce di Maria e viceversa, specialmente per ciò che riguarda la ‘maternità’ – il grembo di Maria è così il grembo della Chiesa che rigenera gli uomini a Dio (Ireneo).
- in un secondo momento ‘svolta individuale’: la Vergine Maria da tipo teologico della Chiesa viene considerata nella sua santa individualistà soprattutto nella sua fondamentale relazione alla ‘persona’ di Cristo.
- le accentuazioni proprie della fede della Chiesa del IV-V secolo, ribadite da quelle del VI-VIII secolo, definiscono il ruolo materno di Maria nell’ambito strettamente cristologico ponendo la sua persona in riferimento di reale maternità rispetto alla persona di Cristo.
- potremmo dire nel senso del Concilio Costantinopolitano II – Maria è la Madre del Logos divino in quanto in ‘lei si umanizza’.

c) l’evento della incarnazione nella sua funzione salvifica universale
- l’opera della creazione si evolve nella storia della redenzione in cui il Verbo e lo Spirito operano insieme per la realizzazione della salvezza universale dell’uomo.
- per Atanasio, Gregorio di Nissa (in oriente), Ilario ed Agostino (in occidente), l’incarnazione è un evento che coinvolge l’umanità intera, per cui in Cristo, in un certo modo, l’intera natura è assunta.
- il Verbo, assumendo la natura umana come grandezza collettiva, avrebbe in qualche modo assunto tutta l’umanità.
- il Cristo è Capo di tutta l’umanità per la pienezza dello Spirito che egli ci dona facendo di tutti i credenti un solo Corpo.

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