TEOLOGIA PASTORALE
INTRODUZIONE
L’indagine del 1999 mostra come il 30% degli italiani partecipa a Messa
ogni domenica; quando si chiede ai sacerdoti, la percentuale che essi ritengono
partecipi a Messa è il 20%: come mai questa discrepanza?
Altro fenomeno che mette in evidenza l’indagine è questo: la gente ritiene
di avere una buona preparazione religiosa, ma non legge; stesso fenomeno è
presente anche tra i sacerdoti.
Perché abbiamo bisogno di una teologia pastorale? Perché la Chiesa, nel
corso della storia, è destinata a cambiare. GS 44: la Chiesa non è solo
docente, ma anche discente, proprio in virtù del fatto che essa è anche
organismo sociale (cfr. LG 8). È dovere di tutto il popolo di Dio, e in
particolare dei pastori e dei teologi, ascoltare, discernere e interpretare
(che poi è il titolo del corso). Ma se la Chiesa deve imparare ciò significa
che essa non è perfetta in virtù della sua origine divina; ma i Padri
conciliari subito chiariscono: la Chiesa ha la sua identità e la sua perfezione
fin dall’inizio, ma poiché noi siamo storici, a noi serve conoscere sempre
meglio tale identità.
Come si svolge il discernimento della teologia pastorale? Si svolge in 3
fasi:
-
momento dell’ascolto: non posso discernere senza
ascoltare;
-
momento di strutturazione del giudizio;
-
momento dell’immaginazione: il mondo oggi si serve
di immagini per comunicare idee. Perciò anche noi abbiamo bisogno di
immaginazione, di metafore: tuttavia il rischio è di trasformare queste
immagini e metafore in progetto politico. L’immaginazione deve rimanere come
qualcosa che orienta.
La teologia pastorale nasce nel 1774 quando, in seguito alla soppressione
della Compagnia di Gesù, bisogna riorganizzare gli studi teologici per i futuri
sacerdoti. Viene immaginata una serie di lezioni che deve preparare il
sacerdote a vivere i suoi doveri di pastore; nel corso del tempo queste lezioni
si struttureranno in un corso di teologia pastorale.
Altro momento storico è la Mission de
France. Largo spazio sarà dedicato anche al Concilio, soprattutto al
pensiero di Karl Rahner.
- QUESTIONI INIZIALI
1.1 La
questione del nome
Quando la disciplina nasce, nel 1774, nasce in ambito cattolico: il
fondatore, Stefan Rautenstrauch, la pensa come teologia pastorale. Nello stesso periodo l’imperatrice Maria Teresa
aveva bisogno di riorganizzare gli studi teologici: la grande intuizione che
l’imperatrice ha è quello di utilizzare il reticolo parrocchiale come sostegno
per il suo enorme impero. Maria Teresa inviterà Schleiermacher a riorganizzare
gli studi teologici anche in ambito protestante ed egli opererà la seguente
tripartizione: 1) teologia storica; 2) teologia sistematica; 3) teologia
pratica: essa aveva però come suo oggetto la morale individuale del cristiano,
dal momento che l’ecclesiologia protestante è totalmente diversa dalla nostra.
Perciò in ambito cattolico si parlava di teologia pastorale, mentre in ambito
protestante si parlava di teologia pratica.
Il 1968 porta una critica molto forte all’interno della Chiesa e nel suo
funzionamento istituzionale. Nel 1974, in occasione di un convegno di
pastoralisti per il bicentenario della fondazione della disciplina, si utilizza
la nomenclatura teologia pratica.
Questo cambiamento è significativo: ci si vuole distaccare da una disciplina
asservita al potere e si tende ad una disciplina che sia critica nella vita
della Chiesa. Si vuole staccare la disciplina dal semplice studio dei doveri
del pastore e la si vuole ancorare allo studio della vita della Chiesa più in
generale. Ma il problema è che la teologia pratica di quel periodo è che essa è
molto critica, perciò essa tende sempre più a staccarsi dalla vita della Chiesa
(come è accaduto in Germania); ecco perché oggi, soprattutto in ambito
anglosassone, si è tornata alla dicitura teologia
pastorale.
Il nome dunque non è così indifferente.
1.2 La
questione del metodo
Da quando è nata, la teologia pastorale ha utilizzato il metodo
“vedere-giudicare-agire”. Ma questo metodo, criticato da Lanza, viene ancora
ritenuto e, per esempio, è stato adottato dalla Conferenza Episcopale
Latinoamericana nel documento di Aparecida.
Nascendo nel contesto illuminista, il confronto con la sociologia e le
scienze sociali è d’obbligo.
Il metodo, introdotto come metodo personale di revisione di vita dalla Mission de France, diviene poi un vero e
proprio metodo scientifico. In Mater et
magistra è lo stesso Giovanni XXIII a sponsorizzare questo metodo per
leggere la vita della Chiesa; il metodo viene anche assunto da GS come metodo
di discernimento con cui leggere la vita della Chiesa. Tale metodo viene poi
assunto anche da non poche Conferenze Episcopali in tutto il mondo.
Ma in questo metodo Lanza vede un rischio:
-
quello di un oggettivismo: non si può separare il
vedere dal giudicare;
-
questo metodo
si sviluppa negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, quando si
sviluppa un’interpretazione della storia di stampo marxista: il metodo assorbe
questo e diviene strumento di trasformazione della prassi. C’è anche il rischio
di un’interpretazione poco cristiana e poco contemplativa: bisogna imparare a
vedere e contemplare i mirabilia Dei;
-
una corrente
nordeuropea critica il metodo perché è un metodo cosificante.
Ma nonostante tutti questi difetti, perché il Magistero lo assume? Questo
metodo rivela gli elementi base di un discernimento teologico-pastorale:
-
la
trasposizione del linguaggio di un evento sociale: se si vuole capire
un’azione, soprattutto l’intenzione che la genera, si deve imparare a
raccontarla;
-
il rapporto
problematico teoria-prassi viene declinato in maniera molto veloce e non
complicato;
-
contiene
l’idea del discernimento;
-
vi è
un’affinità con la lectio divina. In Verità e metodo Gadamer afferma che il
metodo storico-critico ci consegna un’analisi scientifica dei testi: ma questi
testi continuano ad essere utilizzati nella preghiera, come ha messo in
evidenza la scuola pietistica del XVIII secolo. Quest’ultima ha sottolineato le
3 subtilitates: 1) subtilitas legendi; 2) subtilitas intelligendi; 3) subtilitas applicandi. Non basta che il
testo abbia un significato scientifico, storico, ma esso deve avere anche un
significato anche per me. È probabile che la JOC abbia ripreso proprio di qui
questo metodo.
Il difetto di questo metodo sta proprio nel fatto che la fede sembra essere
messa tra parentesi. Le origini del metodo VGA sono perciò interessanti: ciò
che fa problema, però, è la sua contestualizzazione di stampo marxista che è
avvenuta negli anni Quaranta-Cinquanta.
1.3 Azione,
magistero e teologia
Insegnare teologia pastorale significa mettersi in un ramo non facile della
teologia, in quanto da una parte vi è una pastorale che è fatta prima di noi:
la pratica nasce prima, in quanto nasce da dimensioni affettivi e non logiche.
Ci mettiamo in un campo in cui il Magistero si è molto impegnato: GS è stato
una svolta, in quanto ha affermato che il Magistero non si preoccupa solo di
dogmi, ma si impegna anche a leggere la storia.
Alcuni paletti che vogliamo evitare:
-
nessuno
costituisce un Magistero pastorale alternativo a quello dei vescovi. La
teologia pastorale non vuole indicare dove sbagliano i vescovi;
-
la teologia
pastorale non vuole indicare una teoria critica della prassi. Non abbiamo nei
confronti della realtà un atteggiamento di critica, ma dobbiamo aiutare un
qualcosa che è già in atto a capire le ragioni del suo funzionamento. Compito
della teologia è perciò dare strumenti ulteriori perché coloro che sono
chiamati ad agire e decidere possano avere strumenti per costruire l’agire del
corpo di Cristo, che è la Chiesa.
1.4 Ricerca
e formazione
Nella III ratio teologia pastorale
esprime 3 realtà:
-
è
un’attitudine: qui la teologia pastorale è un modo specifico di fare
ermeneutica, di interpretare la realtà;
-
è un
indirizzatore pedagogico: i presbiteri devono essere formati alla carità del
Buon Pastore. Pastorale è il modo con cui si dice che i preti devono fare
proprio il modo di agire di Gesù. In questo significato riguarda meno il nostro
corso: è l’ambito operativo del seminario;
-
è
un’organizzazione disciplinare: all’interno di pastorale vengono messe tutte le
discipline che servono al pastore (catechetica, omiletica, liturgia, diritto),
interpretate alla luce della pastorale stessa, per comprendere in che modo la
catechesi, l’omelia, la liturgia agiscono nella vita della Chiesa.
All’interno del campo semantico elaborato da PDV e dai documenti dalla CEI,
considereremo principalmente il primo aspetto, quello ermeneutico.
- ASCOLTARE: LE RAGIONI DELLA TEOLOGIA
PASTORALE RACCONTATE DALLA SUA STORIA
La data di nascita della teologia pastorale è il 1774 e il luogo è Vienna.
Ma questo non significa che il cristianesimo non abbia elaborato un pensiero
sulle sue pratiche e sulle sue azioni. Troviamo già qualcosa nell’AT; anche nei
Padri è presente una riflessione di questo tipo (si pensi alla Regola pastorale di Gregorio Magno). La
differenza con oggi sta nel fatto che mai prima si organizza questo pensiero
all’interno di una disciplina scientifica.
I due fattori che segnano la nascita della teologia pastorale sono
l’industrializzazione e la riflessione politica. All’interno della teologia
pastorale che nasce si sviluppano due tendenze, quella epistemologica e quella
empirica: bisogna conoscere il corpo per poterlo meglio governare.
Originariamente la teologia pastorale si configura come una disciplina di
tendenza giuridica: è una sorta di diritto canonico prima ancora che esso vi
fosse.
Con la Mission de France si
intuisce che il legame pastorale possa essere oggetto di studio di una
disciplina scientifica: prima di essa si riteneva che la pastorale fosse un
qualcosa da imparare dai propri sacerdoti predecessori, mentre ora si comprende
che questo modo non poteva continuare ad esser valido. Il Concilio è frutto
delle domande della Missione di Francia, che giungono ai Padri tramite alcuni
teologi, come Congar (che tiene conferenze ai Padri durante il Concilio): la
Missione di Francia crea un clima nel quale il Concilio si colloca. Ultimo
fattore è quello della collocazione della teologia pastorale nell’universo
teologico (cosa che si deve soprattutto a Rahner).
Prima di vedere i 4 fattori vediamo ora la nascita della teologia
pastorale. La caratterizzazione giuridico-amministrativa della teologia
pastorale si deve al contesto storico: ai sovrani interessava che i parroci
fossero dei buoni amministratori, sapessero governare il popolo di Dio.
Schleiermacher conferisce alla teologia pratica come suo oggetto le
questioni etiche. Il vantaggio della teologia protestante è quello di porsi
immediatamente le domande epistemologiche legate alla nuova disciplina. In
ambito cattolico, Graf si accorgerà che la teologia pastorale era troppo
soggetta al potere e alle esigenze amministrative suddette: secondo Graf, la
costruzione iniziale e quotidiana della Chiesa è un’operazione guidata dallo
Spirito, perciò il suo studio è studio teologico. Perciò prima di dire ciò che
deve fare un parroco, è necessario interrogarsi sullo sviluppo integrale del
corpo ecclesiale. Ecco perché Graf pensa che sia meglio denominare la
disciplina come teologia pratica: parlare di teologia pastorale significa
ancorare troppo la disciplina alla figura del pastore. Graf fissa 2 punti: 1)
lo studio della Chiesa del futuro è un oggetto materiale che vale quanto lo
studio della Bibbia; 2) dalla natura trascendentale della Chiesa, intesa come
simbolo, si possono dedurre le caratteristiche della Chiesa. Il problema
dell’impostazione di Graf è duplice: 1) ci si accorge che è difficile declinare
la natura trascendentale della Chiesa nelle sue attuazioni storiche; 2) tale
disciplina è eccessiva nel pensiero per una disciplina vista ancora come
prontuario per l’applicazione dell’ecclesiologia classica.
Il pensiero di Graf sarà ripreso da Rahner. Dopo Graf, la teologia
pastorale tornerà ad essere un prontuario giuridico-amministrativo.
Vediamo ora il primo fattore: l’ingresso
delle scienze sociali. Il counseling
viene introdotto la teoria cibernetica dell’azione: la teologia pratica, dopo
la II GM, scopre che si può rifare al pensiero di Hiltner, secondo cui vi è una
prassi; di solito, mentre pongo un’azione, mi accorgo che quell’azione ha
qualcosa che non va (nessuna azione è perfetta) e che accende in me una duplice
critica: una è di tipo utopico (confronto con l’ideale), una è di tipo
strategico (critica di osservazioni empiriche). La critica permette allora di
elaborare un nuovo modello di azione, che mi porta alla trasformazione della
pratica; ma, nel momento in cui io pongo il gesto rinnovato, mi accorgerò
nuovamente che esso non va bene totalmente e ripartirò con una nuova critica (e
così via). Questo metodo ha molto influito nella pratica.
A fronte di questo metodo circolare, il metodo applicativo tradizionale,
che prevedeva intuizione dogmatica, traduzione della regola (CJC) e prassi,
appare alquanto povero: per un parroco appare molto più utile e più moderno il
metodo di Hiltner. Tutta la riflessione teologico pastorale deve confrontarsi
con le scienze sociali. Visto che i metodi delle scienze sociali sono molto
significativi, essi vengono assunti in teologia pastorale; da ciò nascono 3
tendenze, modelli:
-
teologia empirica: essa ha due sviluppi: 1) a livello europeo
(olandese) troviamo Van der Ven; 2) a livello americano, troviamo il modello
della prasseologia pastorale del Quebec. Van der Ven sostiene che la prassi
debba essere anche oggetto formale. Dopo il primo momento di purificazione, vi
è un primo momento che consiste in questo: si deve cogliere innanzitutto il
problema teologico, per poi verificare l’impatto di questo problema nella
società odierna, per poi alla fine operare una riflessione (il problema di Van
der Ven era quello che in Olanda in molta gente era mutata l’identità della
figura di Dio: da un Dio personale ad un “Dio-energia”); in tal senso, compito
della teologia pastorale è di osservare, fotografare e spiegare i fenomeni, che
vengono poi consegnati alla teologia. Il rischio di questo metodo è quello di
scadere in una sociologia religiosa.
Il metodo della prasseologia nordamericana
consiste in questo: 1) bisogna innanzitutto individuare una pratica e spiegarla
a livello analitico; 2) si utilizzano strumenti di osservazione del reale per
cercare di capire una determinata pratica (in tal senso si possono leggere sia
il presente che il passato); 3) confronto tra la pratica rilevata e i dati
fondamentali della fede cristiana; 4) ricerca di possibili soluzioni.
Il bello di questo metodo è che devono stare
insieme uomini e donne che lavorano nella pastorale e ricercatori: i teologi
portano il loro bagaglio culturale, mentre chi lavora sul campo porta la sua
osservazione (da soli non bastano né i soli teologi, né i soli “addetti ai
lavori”). Il limite di questo metodo è la sua incapacità di avere una visione
olistica e globale, in quanto rivolto ad un “frammento”: è questo il motivo per
cui la teologia empirica resta abbastanza marginale;
-
assunzione della teoria critica della società
quale metodo di interpretazione della prassi cristiana, aggiungendo alcuni
indici teologici d’analisi. I
teologi avvertono la necessità di fare ciò che fanno le scienze sociali, che
individuano i fattori strutturali che presidiano l’azione collettiva. Questa
comprensione è sviluppata innanzitutto in negativo (eliminare tutte le
sovrastrutture che ostacolano tale comprensione) e poi in positivo.
Questa seconda tendenza vuole sviluppare una
lettura globale del fenomeno della cultura: perciò essa assume la teoria
critica (scuola di Francoforte: Horkeimer, Adorno, Habermas), la quale prevede
che vi sia una parte negativa (denuncia di tutto ciò che è corruzione,
religione, etc.) e una parte positiva (rilancio di alcune utopie). Questo
modello si sviluppa soprattutto in ambito tedesco.
In ambito francese si afferma invece il modello
della frattura creatrice: de Certau
cerca di salvare questo strumento da una sua esasperazione che sarebbe
pericolosa e renderebbe inutile lo strumento stesso. Questo modello immagina il
cristianesimo come una storia: tra Gesù e noi vi sono state tante tappe, per
cui non viviamo il cristianesimo delle origini, ma quello di un passato
prossimo. La Missione di Francia proporrà di abbattere questa tappa: il vuoto
che si crea permetterà di fare un salto per tornare al cristianesimo delle
origini. Ma cosa vuol dire abbattere il passato prossimo? Esso rischia di
operare uno scisma, una rottura con la tradizione: il taglio che si opera con
il passato, secondo Certau, deve essere sempre modulato, in modo che la fede
della Chiesa non diventi una rottura con la fede della Chiesa. Certau pone
questo monito dinanzi ad alcune derive radicali che la Missione di Francia
stava prendendo. Bisogna però tenere presente che Certau ha ragione su un
punto: la frattura creatrice è il
motore della storia.
Questi autori si riassumono in 3 elementi: 1)
assumono la dialettica fede-religione per purificare la storia e la società: la
religione viene vista come nevrosi della cultura (Cox, che riprende le riflessioni
Freud in L’avvenire di un’illusione);
con il cristianesimo, visto come tendenza secolarizzatrice, la fede libera
l’uomo dalla religione, fondata invece sulla paura del cielo, visto come patria
degli dèi. 2) Inoltre viene svalutato tutto l’elemento istituzionale, visto
come ostacolo alla libertà di agire nella storia. 3) Ci si concentra allora
sull’elemento esistenziale, sociale e politico: si è interessati unicamente a
come la Chiesa trasforma la società (ecco perché la teologia pratica smette di interessarsi
a temi come la preghiera). Vicina a questa impostazione è la teologia della liberazione: d’altronde i
teologi della liberazione si sono formati in Germania. L’esito di questa
tendenza è il paradigma della
secolarizzazione.
Secondo Mette, compito della teologia pratica è
quello di sviluppare una lettura di ciò che facciamo come cristiani che non sia
predefinita da struttura istituzionali.
A questo segue la pars costruens,
con l’assunzione del principio dell’agire comunicativo.
Il primo Habermas è decostruttivo: se si
decostruiscono le strutture sbagliate della cultura attuale può nascere una
nuova cultura. Ma in seguito Habermas si accorge che tra decostruzione e
ricostruzione non vi è continuità: se continuo a decostruire rimane solo un
cumulo di macerie, senza alcuna alternativa che possa far evolvere la cultura e
la società.
Il secondo Habermas, allora, è in tal senso
costruttivo: egli si accorge che Max Weber introduce un’analisi delle forme
dell’azione che può interpretare il presente. Secondo Weber, vi sono 3 tipi di
agire: strategico (maggior parte di azioni che noi instauriamo con il mondo
inanimato, che non ha una coscienza: es. uomo-gesso), strumentale (si entra in
dialogo con una libertà, ma la mia azione non permette che l’altra libertà
abbia uno spazio sufficiente di libertà) e comunicativo (si entra in dialogo
con un’altra libertà e le si permette di dispiegarsi in un giusto spazio). È
quest’ultimo il tipo di agire che le nazioni moderne devono assumere: esse
devono preoccuparsi di permettere a tutti di prendere la parola. L’agire
comunicativo diviene allora lo strumento positivo, che la stessa Chiesa deve
assumere. La teoria dell’agire comunicativo è troppo vicina al pensiero
cristiano perché essa non possa aver ricevuto la sua influenza.
Habermas mutua da Weber anche la teoria del mondo
vitale (Lebenswelt): noi immaginiamo,
ingenuamente, che il linguaggio sia un universo sterminato; le teorie
sociologiche del linguaggio, come tutti i domini dell’azione umana, è un
dominio limitato. Perciò, se io lavoro nelle capacità di aumentare il
linguaggio che una persona ha a disposizione per interpretare la sua vita, io
cambio la vita di quella persona; questo serbatoio lo arricchisco sia con lo
studio e l’intelligenza, sia con l’esperienza.
Mette assume la teoria dell’agire comunicativo e
la declina sui passaggi della teoria cibernetica, che abbiamo sopra visto: la
teoria del vedere-giudicare-agire è semplicemente una traduzione in campo
pastorale della teoria cibernetica;
-
sviluppo di un modello ermeneutico di comprensione
della pratica, e di articolazione del rapporto epistemologico teoria/prassi,
nonché di quello di teologia pratica/memoria cristiana. Il
secondo paradigma declina insieme al suo modello di interpretare la cultura
(quello della scuola di Francoforte). Si può sviluppare una via alternativa a
quella empirica e a quella della teoria critica? Zulehner riteneva di no. Ma
noi ci proveremo.
Ricoeur parte nel leggere la teoria dell’azione
dal suo piano congeniale, quello del discorso. Secondo Ricoeur, ciò che
differenzia l’azione di un essere inanimato dall’azione umana è il fatto che
noi leghiamo all’azione sempre un significato. Questo legame tra azione e
significato non è univoco, in quanto ci metto la mia libertà che interpreta una
determinata azione. Per interpretare questo nesso tra azione e significato vi è
una scienza che è lo strutturalismo:
lo strutturalismo, così come sviluppato da Levi-Strauss, è uno dei modi di conoscenza più efficaci. Ma, mentre
Levi-Strauss si limita unicamente a comparare l’economia dei segni, Ricoeur
avverte l’esigenze di trarre delle conclusioni veritative, al di là del
conflitto delle interpretazioni. Il pensiero di Ricoeur è interessante perché
l’intuizione dell’azione sociale come insieme di rituali si è poi affermata
nella sociologia: per capire il contenuto delle cose abbiamo bisogno di tanti
rituali all’interno della società.
Utilizzando gli strumenti di Ricoeur, Audinet vede
la pratica cristiana come un sistema di significato che dice come la Tradizione
cristiana si è inculturata in un determinato spazio e in un determinato tempo:
la prassi cristiana viene vista come un testo che va interpretato. Un primo
momento del metodo di Audinet è di natura descrittiva: a questo livello si può
dire tutto e il contrario di tutto, perciò non è sufficiente. Un secondo
momento consiste nel porsi domande sul senso delle azioni semplicemente
descritte precedentemente. In un terzo momento si confrontano le ragioni che
possono star dietro un’azione con il Vangelo: questo è proprio del modello
ermeneutico.
Come posso capire, una volta ascoltate queste azioni (Ricoeur-Beauchamp)?
Ricoeur afferma che vale per le azioni ciò che vale per le narrazioni: bisogna
cogliere l’intrigo, ovvero il nesso
logico che collegano i pensieri. Si può trovare l’intrigo sia a livello
autobiografico, sia nei racconti degli altri. Questo concetto di intrigo
diventa ancora più forte per noi cristiani se teniamo presenti le intuizioni di
Beauchamp: a livello di esegesi scientifica bisogna recuperare la lettura
figurativa dei Padri, in cui le figure utilizzate nei due Testamenti si possono
utilizzare come criterio ermeneutico per i testi.
Passiamo ora a considerare la Missione di Francia.
A livello sociale, la Francia vede un contesto sociale dominato dal
contrasto molto forte con la modernità. La condanna del modernismo vede la
nascita di una forte corrente tradizionalista come l’Action Francaise, che finisce anch’essa con l’essere condannata:
nel giro di pochi decenni, quindi, vengono condannate due esperienze
importanti, il modernismo prima e l’Action
Francaise poi. Nel frattempo la Francia viene occupata dal Terzo Reich: i
tedeschi ritengono che la Francia debba servire a rifornire l’esercito tedesco
dell’attrezzatura militare pesante, grazie alle miniere dell’Alsazia e alle
industrie che trasformano il tutto in armamento pesante. La periferia
industriale attorno a Parigi triplica nei suoi abitanti.
Alcuni autori francesi (due sacerdoti, Godin e Daniel) colgono il
cambiamento culturale e scrivono un testo, La
France pays de mission?, dal momento che essi colgono che nel giro di pochi
decenni la Francia potrebbe divenire un paese pagano. La cultura cambia così
tanto che bisogna disfare il cristianesimo così come è stato ricevuto e
pensarlo nuovamente. Nasce l’idea dei preti operai, che all’inizio erano
cappellani di fabbriche. Vengono perciò creati, accanto ai seminari
tradizionali, dei seminari in cui formare i sacerdoti che saranno impegnati in
questi contesti di missione; questo crea non poche perplessità, sebbene l’idea
di missione condiziona anche l’idea di parrocchia (viene scritto un testo Parrocchia comunità missionaria). Lo
stesso cardinale Suares, che all’inizio aveva appoggiato Godin e Daniel, inizia
progressivamente a prendere le distanze da queste posizioni disfattiste e
fortemente critiche.
L’effervescenza accesa viene però
dominata a fatica. I preti in fabbrica si accorgono che, finchè rimangono
cappellani, gli operai continuano a vederli dalla parte dei padroni: ecco
perché essi smettono di essere cappellani e si fanno assumere come lavoratori;
questo però comporta che questi preti perdono la pratica di cappellano e
divengono semplicemente solidali con la condizione di operai. La teologia cerca
di venire incontro a queste esperienze (Chenu, Congar, Danielou), anche se essa
ha ben presente il pericolo della nascita di un’utopia sociale cristiana,
vicina alle posizioni marxiste. I preti assumono una logica di contrapposizione
e di lotta che non era loro. Quando un prete francese, durante una
manifestazione sindacale, viene ridotto in fin di vita e il cardinale di Parigi
si lamenta col presidente De Gaulle, quest’ultimo si rivolge al nunzio. La
Santa Sede interviene, chiudendo i seminari della Missione e ponendo termine
all’esperienza dei preti operai (i preti operai venivano sospesi se non
lasciavano questa esperienza e i seminaristi erano invitati a tornare nei
seminari diocesani, ma ciò non avviene). Questa decisione del Santo Uffizio
spacca la Chiesa.
Questi eventi fanno comprendere però a molti parroci l’urgenza della missione: la Francia era un paese di missione!
Questi eventi fanno comprendere però a molti parroci l’urgenza della missione: la Francia era un paese di missione!
Ma cosa fa sì che la missione maturi grazie alla Missione di Francia?
Grazie a questa, si comprende che il modo con cui la Chiesa abita e si
struttura nella storia non può essere improvvisato, ma deve essere oggetto di
riflessione: quando un parroco, Retif, chiude la chiesa per andare in fabbrica,
egli emette un giudizio sull’azione della Chiesa nella storia. Non è un caso
che proprio in questi anni nasce il concetto di nuova evangelizzazione. Occorre
perciò una scienza per studiare come si sta cambiando: qualsiasi cambiamento
affidato allo spontaneismo rischia di cadere in ideologia. Ciò che è sbagliato
della Missione di Francia non sono le domande, ma le risposte, che rischiano di
essere inadeguate.
È ciò che intuisce Congar, che scrive Vera
e falsa riforma della Chiesa. Seguiamone ora la riflessione. Congar è da
una parte attore di questo momento di riforma, dall’altra è però attento
spettatore. Il cristianesimo può essere letto come un legame sociale, o meglio,
come un reagente capace di trasfigurare questi legami: è questa la grande
intuizione della Missione di Francia.
Il cristianesimo come legame può essere letto in 3 modi: 1) in riferimento
ad un passato fondatore (l’esperienza neotestamentaria); 2) in riferimento alle
relazioni tra i battezzati; 3) in riferimento al modello di organizzazione
della Chiesa. L’esperienza della Missione ha portato alla ribalta 3 grandi
temi, connessi a questi 3 modi: il nuovo ruolo dei laici, come soggetti di
azione all’interno della Chiesa; la figura delle comunità cristiane delle
origini come nuovo passato fondatore a cui ancorare ancora la Chiesa odierna;
l’urgenza di un nuovo modello sociale, quello comunitario, da affiancare a
quello gerarchico-tradizionale. Congar coltiva questo pensiero nel magistero di
Pio X e nel pensiero di Tommaso d’Aquino. Vediamo ora questi 3 grandi temi:
-
un ruolo nuovo dei laici: è significativo notare come, nonostante il nuovo
ruolo assunto dai laici, non si giunge mai ad alcune forme, come l’attribuire
la presidenza dell’Eucarestia ai laici. Bisogna dire che alcune pratiche (come
la confessione) legate al prete subiscono una notevole flessione;
-
un nuovo modello sociale di Chiesa: si ha il passaggio da Chiesa-società a
Chiesa-comunità;
-
un nuovo passato fondatore per la Chiesa: il rimando alla Chiesa delle origini viene visto
non solo come obiettivo futuro, ma anche come un passato regolatore, che
permette anche di sfidare la gerarchia con il NT in mano.
Nel Sinodo della nuova evangelizzazione, il Papa, all’Angelus finale,
afferma che “nuova evangelizzazione” sia una categoria che vada compresa negli
anni ’40-’50, quando si parla della missione.
In realtà, proprio a partire dalla missione, si crea uno spartiacque (che
abbiamo creato frattura creatrice),
che genererà un primo modello pastorale, che funzionerà fino a tutti gli anni
’70: il paradigma della secolarizzazione,
all’interno del quale capita anche il Concilio Vaticano II e il pontificato di
Paolo VI. Con il papato di Giovanni Paolo II si struttura un nuovo paradigma,
quello della nuova evangelizzazione,
pensato in termini contrappositivi a quello della secolarizzazione: contro una
Chiesa che fatica a vivere l’annuncio serve una Chiesa che annuncia. Benedetto
XVI critica entrambi i paradigmi: nel primo la Chiesa ha corso il rischio
dell’autosecolarizzazione, in quanto, per correre dietro al mondo, si è
dimenticato talora la preghiera, il silenzio, la liturgia etc.; nel paradigma
della NE vi è indubbiamente il rischio di proselitismo
e di far vedere la Chiesa come una setta. Per cui, afferma Benedetto XVI, la
NE, come lui la immagina, è quello della riforma
spirituale della Chiesa, della riforma
della fede, dove vi sono 3 elementi fondamentali:
-
elemento linguistico: ecco perché il Papa parla
di liturgia, di rito, di sacramenti, di devozioni, etc.;
-
elemento a
livello organizzativo: il Papa
insiste in modo molto strano sui movimenti. Rispetto a Giovanni Paolo II,
Benedetto XVI è più freddo, ma mostra come movimenti e parrocchie hanno lo
stesso problema: la difficoltà a creare dei luoghi comunitari in cui poter
vivere il Vangelo;
-
elemento culturale: c’è una secolarizzazione così
nichilista che ha ucciso il modo abituale di pensare i fondamenti su cui
strutturare la fede.
Vediamo ora i due precedenti paradigmi.
Quella del paradigma della secolarizzazione riprende l’intuizione di Harvey
Cox nella sua opera La città secolare.
Centrale è per questo modello la separazione tra fede-religione. Per la
scuola di Francoforte non vi era nulla di peggio della saggezza popolare, vista
come fonte di tutte le ingiustizie in quanto qui si sedimentano tutti gli
elementi che vanno a formare le sovrastrutture: così anche la religiosità
popolare doveva essere tagliata fuori se si voleva tornare alla purezza della
fede e al messaggio di liberazione di Gesù.
Vi sono 3 modelli per declinare il paradigma della nuova evangelizzazione
(cfr. p. 26). Nemmeno nel modello della nuova evangelizzazione vi è spazio per
forme di cattolicesimo popolare.
UN CONCILIO PER IMMAGINARE LA CHIESA
La pastoralità del Concilio Vaticano II va cercata, prima ancora che nei
contenuti, nello stile e nel linguaggio. Giovanni XXIII invita già in Gaudet Mater Ecclesia a pensare ad una
nuova forma di trasmettere il depositum
fidei.
Paolo VI enuncia 4 punti:
-
un
atteggiamento basato sul dialogo e non sul confronto apologetico col mondo;
-
capacità di
leggere la realtà della Chiesa cogliendone la dimensione istituzionale, storica
e sociale;
-
imparare un
nuovo modo di abitare la Scrittura (rinnovamento biblico);
-
cercare di
individuare un nuovo metodo di lettura della storia.
In LG 8 la complessità della Chiesa viene presentata in relazione al dogma
di Calcedonia.
DV 7 presenta due possibilità di lettura: a partire dall’alto (da Dio per
arrivare alla Chiesa storica) e a partire dal basso (dalla Chiesa storica a
Dio). DV permette di capire che la dialettica intuita da Giovanni XXIII è lo
schema stesso della Rivelazione. La Tradizione è essenzialmente discernimento
che la Chiesa è chiamata continuamente a fare: la Chiesa deve discernere, tra i
segni che ha ricevuto, quelli che possono continuare a parlare nel contesto
odierno.
Mentre nei nn. 41-43 di GS si presenta l’aiuto che la Chiesa offre al mondo
sotto i vari aspetti (individuale, cioè alla persona umana; sociale;
economico-produttivo), al n. 44 si afferma (rivoluzionario per il tempo) che il
mondo presta aiuto alla Chiesa. La Chiesa non può ignorare quanto riceve dal
mondo, in quanto tutto ciò sviluppa l’uomo e gli arreca del bene; d’altronde
fin dall’inizio la Chiesa ha assunto il linguaggio del mondo per 2 motivi: sia
per farsi comprendere, sia per permettere ai sapienti e agli studiosi di
comprendere il cristianesimo come un aiuto per arrivare alla verità. Se vogliamo
evangelizzare, la parola rivelata deve essere necessariamente inculturata.
Tutti coloro che sono esperti in umanità, siano essi credenti o non credenti,
aiutano la Chiesa. La Chiesa ha il dovere di discernere per intuire come
presentare meglio la Rivelazione. A vedere inculturata la parola rivelata non
ci guadagna solo il mondo (come detto sopra), ma anche la Chiesa stessa: non
come se le mancasse qualcosa nella costituzione datale da Cristo, ma per
conoscere questa più profondamente. Tutte le Chiese locali esprimono la
ricchezza dell’unica Chiesa in maniera diversa, senza che nessuna riesca ad
esaurire tale ricchezza. Addirittura il martirio aiuta la Chiesa a conoscersi
meglio.
La Chiesa nasce perché all’origine c’è un’intenzione di Dio di
autocomunicarsi, il cui punto centrale è Cristo. Vi è una preparazione, che è
costituita dalla creazione e da Israele; e vi è una prosecuzione nella Chiesa.
Theobald afferma che la rivelazione di Dio in Cristo rimane il princeps analogatum, mentre compito
della pastorale è vedere come questa autocomunicazione di Dio continui nella
storia, grazie anche all’azione dello Spirito Santo.
La GS riprende il metodo vedere-giudicare-agire, già utilizzato nella Pacem in terris. I segni dei tempi sono
gli elementi fondamentali della cultura che emerge: per Giovanni XXIII il tema
della pace, quello della donna, quello del lavoro; per GS i segni dei tempi
sono i luoghi in cui intuiamo la presenza dello Spirito all’interno di un mondo
che cambia: ecco perché il primo segno dei tempi è l’uomo stesso, alla luce
dell’uomo nuovo che è Cristo.
Pastorale non è semplicemente ripetizione delle gesta del Cristo
glorificato, ma assunzione della storia come punto di partenza, dentro la quale
lo Spirito suscita attraverso le azioni e la memoria di Cristo vissuta dai
cristiani i gesti che radunano il popolo di Dio.
Prima dell’avvento del concetto di pastorale del Vaticano II, la pastorale
funzionava così: Cristo (rappresentato dalla persona del papa) ha davanti a sé
il mondo che è peccato. Dopo il Vaticano II lo schema cambia: Cristo ha davanti
a sé il mondo, all’interno del quale si trova la Chiesa. La Chiesa non è solo
attiva (docente) nei confronti del mondo, ma anche passiva (la Chiesa è
discente nei confronti dell’azione di Cristo): rimane un’azione costante e
diretta di Cristo rispetto al mondo.
Si ha una riscoperta del soggetto collettivo del “noi” con il Vaticano II:
LG afferma che i tria munera non sono
più prerogativa dei sacerdoti, ma ad essere profeta, sacerdote e re è la Chiesa
nel suo insieme; i tria munera si
declinano innanzitutto a livello collegiale: è la Chiesa infatti a continuare
la missione di Cristo nel mondo.
Secondo il Concilio, la teologia pastorale deve servire per comprendere
come nel corso della storia il legame sociale è stato il luogo dell’incontro
tra l’uomo e Dio.
LA RICEZIONE DEL CONCILIO DA PARTE
DELLA CHIESA ITALIANA
La Chiesa italiana nasce con il Concilio: la CEI nasce molto più tardi
rispetto ad altre conferenze europee, dal momento che queste ultime avevano
dovuto fronteggiare situazioni nazionali ben complicate (la Francia con
Napoleone, la Germania con Bismarck). In Italia c’era inoltre il problema del
Papa: una eventuale conferenza episcopale non poteva non avere il papa come
presidente; ma presentare il papa come un semplice presidente di conferenza
episcopale. Tuttavia l’esigenza di una CE emerge quando si prende coscienza di
una unità culturale nazionale. Si decise allora che il papa avrebbe delegato la
presidenza ad un cardinale: la CEI nasce, tuttavia come un organismo di natura
giuridico-istituzionale semplicemente. Presieduta all’inizio dal card.
Schuster, la presidenza passò poi al card. Siri. Dopo il Vaticano II, le cose
cambiano: i vescovi italiani prendono coscienza sempre maggiore dell’importanza
di radunarsi, anche come popolo (nascono così i convegni ecclesiali).
LA TEOLOGIA PASTORALE DENTRO
L’UNIVERSO DELLA TEOLOGIA
In Italia, fino agli anni Sessanta, la teologia pastorale veniva
considerata un’arte; solo dopo il Concilio la si inizia a pensare come scienza.
Solamente con gli anni Ottanta, con un convegno organizzato proprio dalla
Lateranense, la teologia pastorale prende piede: Seveso a Milano, Midali e
Lanza a Roma. Attualmente ci troviamo in una fase di stasi della teologia
pastorale: le ultime pubblicazioni sembrano segnare dei passi indietro rispetto
alla strutturazione della teologia pastorale.
La teologia pastorale si organizza attorno a 5 assi:
-
la pretesa teologica della disciplina: soprattutto Seveso insiste su questo contro chi ritiene
che la teologia pastorale sia semplicemente di natura applicativa. In realtà,
oggi il problema non è tanto quello di giustificare la teologia pastorale
all’interno delle discipline teologiche, ma quella di mostrare come la teologia
pastorale ha qualcosa da dire nella lettura della realtà odierna, anche
rispetto alle scienze sociologiche. Verso l’esterno si è cercato (soprattutto
Audinet) di mostrare come l’esclusione aprioristica del campo religioso dalla
visione del reale ha privato la lettura del reale stesso di un ulteriore
arricchimento rispetto alle scienze sociali;
-
l’oggetto di indagine: c’è bisogno di una disciplina che abbia come
oggetto la forma che il popolo di Dio assume nella storia, forma che cambia
costantemente;
-
il metodo attraverso cui studiare questo oggetto: dobbiamo immaginare un metodo che da una parte
sviluppi in modo serio il rapporto teoria-prassi, il modo in cui questo è stato
visto nella storia, etc.
-
la prospettiva cristiana ed escatologica: il tentativo è quello di leggere tutta la
storia, così come la racconta l’AT, mediante una serie di figure. Il rischio è
però quello della semplificazione, dal momento che queste figure devono comprendere in sé un oggetto
molto ampio;
-
la specializzazione disciplinare: man mano che la riflessione si sviluppa si
comprende come bisogna riportare in unità varie discipline che si occupano di
questioni teologico-pastorali: per esempio, la catechetica rischia talora di
essere troppo ripiegata sulla storia, senza occuparsi di quello che dovrebbe essere
il suo oggetto, ovvero come fare catechesi oggi. Si sono inoltre moltiplicate
le specializzazioni disciplinari che vengono ritenute utili per la vita
cristiana odierna: pastorale giovanile, della carità, della famiglia, etc. non
devono essere visti semplicemente come campi applicativi, ma come delle vere e
proprie categorie ermeneutiche, che possano cogliere le direzioni attraverso
cui intercettare gli uomini del nostro tempo per suscitare in loro la fede.
I 3 principi: gesuano (Schuster: ricalcare la prassi di Gesù),
incarnazionistico (Arnold: se Dio ha scelto di diventare uomo, bisogna trovare
le vie attraverso cui farsi prossimi all’uomo), ecclesiologico (Klostermann:
partire dalle strutture ecclesiali).
Le 4 fasi di Zulehner: criteriologica (fase epistemologica: fissazione dei
criteri), kairologica (a partire da quei criteri, analizzo la realtà),
prasseologica (dopo aver analizzato, presento la prassi che emerge
dall’analisi), futurologica (presento infine la forma che la Chiesa sta
prendendo alla luce del cammino che ho fatto).
Interessante è il progetto di dottorato in teologia pratica, che si rivolge
essenzialmente ai laici, affinché essi possano prendere maggiore coscienza del
ministero che svolgono attraverso criteri teologici che vengono dati: in tal
modo questo dottorato diviene occasione di autoformazione. La teologia
pastorale viene qui vista come disciplina di carattere ermeneutico.
Tre sono i modi di sviluppare la teologia pastorale che Audinet rinviene:
-
giustificare l’esistente: risente di un modo ingenuo di concepire il
rapporto fra teoria e prassi. Il teologo che utilizza questo modo conclude
pensando sempre di avere ragione. Non basta una teologia che giustifichi
l’esistente, ma una teologia che interpreti l’esistente e aiuti la Chiesa a
comprendere per intervenire;
-
dialogare con le scienze pratiche:
-
articolare tradizione e cultura.
- DISCERNERE
Questa seconda parte si snoda in 4 punti.
Il legame è un’azione raccontata, riespressa mediante il linguaggio.
L’istituzione è la capacità che l’uomo ha di fissare tutto ciò che egli ha
acquisito in modo da poterlo trasmettere agli altri.
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