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Tuesday, March 4, 2014

INTRODUZIONE ALLA TEOLOGIA- I

introduzione alla teologia

            

                       Materiale
-          www.mondodomani.org          
-          www.sguazzardo.org
-          www.corpusthomisticum.org 
-          Fides et Ratio
-          Lo studio dei padri della Chiesa (pubblicato per la congregazione della dottrina della fede. 1989)
-          Interpretazione della Bibbia nella Chiesa. (1993), Pontificia commissione biblica. Documento presentato pochi giorni fa al Sinodo da padre Renoir. Testo per chi inizia a studiare la Bibbia.


                Prima parte: il termine teologia.

In questo corso cercheremo di riflettere insieme non solo su che cosa è la Teologia e su come bisogna farla, ma cercheremo di rispondere alla domanda circa l’essenza della Teologia cristiana e cattolica. La mia ambizione è quella di farvi innamorare della Teologia. Vorrei non rimanere sulla superficie, ma che cerchiamo di comprendere la struttura del pensiero teologico: nonostante il pluralismo teologico, nonostante che la storia della Teologia abbia molte diversificazioni, anche disciplinari, il pensiero teologico se è teologico, ha un DNA che è sempre lo stesso. Il pensiero teologico ha una struttura interna, una codificazione, che da identità al teologare cristiano. Il teologare cristiano (cattolico) ha una identità. Perché fare così? Perché viviamo in un’epoca che corre una crisi identitaria. Vorrei quindi che facessimo una riflessione seria sull’essenza del teologare cristiano. Dov’è il limite tra teologia cristiana cattolica e tutto il resto? Cercheremo di rispondere a questa domanda.
Il nostro percorso avrà anche una dimensione storica e sistematica; ma non intendo limitarmi ad un apprendimento nozionistico, una sorta di elenco telefonico. È importantissima la capacità di memorizzare quel che diciamo, ma ciò che conta di più è fissare l’essenziale, anche e soprattutto cronologicamente. Dobbiamo cogliere l’essenza del pensiero teologico: certamente è molto più impegnativo rispetto ad uno studio frammentario.

Prendiamo in considerazione subito, come nota di metodo, due aspetti. Il primo è sottolineato dal documento del Vaticano II Unitatis redit integratio. In esso viene detto che noi dobbiamo studiare «sotto l’aspetto ecumenico» (n°10). Il secondo aspetto: vorrei riflettere sull’essenza della Teologia cristiana cattolica, dicendo che l’identità della Teologia è tratta dal fatto che Dio si è rivelato compiutamente in Cristo. sono convinto che il parlare di un teologo cristiano cattolico è diverso da quello di un nostro fratello ebreo o mussulmano. L’evento della rivelazione, contenuto e metodo, fonda, determina e corregge ogni nostro pensiero teologale. Un teologo cristiano, per quanto è importante che sia aperto al dialogo con tutti, alla fine il DNA del suo teologare è diverso dagli altri pensieri teologici. Non vi sono molti autori che la pensano come me: io sono convinto che se Dio si rivela in un certo modo, la teologia è marcata da questo evento, Cristologico – trinitario. Questo corso si sviluppa tutto attorno al problema dell’identità del pensiero teologico, come già detto.
Il Concilio Vaticano II ci invita ad aprire lo sguardo verso le altre confessioni: nel fare questo lavoro emerge qualcosa che può scandalizzare.  Al n°17 della unitatis… viene detto che può succedere che una tradizione può comprendere la verità rivelata in modo migliore rispetto ad un’altra. Bisogna così cercare le convergenze con la tradizione ortodossa – orientale, per esempio.
Giovanni Paolo II ha pubblicato l’Enciclica Ut unum sint in cui, tra le altre cose, dice che si rende conto che nell’esercizio del primato petrino sta una delle cause della disunità tra i cristiani. Continua dicendo che sarebbe contento se tutti i pastori e studiosi delle altre chiese si mettessero in dialogo con lui, riflettere su un tema tipicamente cattolico. Questo significa riflettere sulla Teologia in modo ecumenico. Cosa significa questo? Significa che io potrò introdurre Martin Lutero cercando di capire la totalità della sua persona, non fermandosi ai pettegolezzi superficiali, ma toccando il cuore del suo teologare. Un altro esempio: quando parliamo di magistero non voglio che voi pensiate che sia un tema prettamente cattolico. Ci interesseremo anche al fatto che la teologia ortodossa ha un magistero, così come quella protestante, chiedendoci sempre: ci possono essere delle convergenze? Tutto quel che faremo lo faremo per scoprire la bellezza di essere cattolici.

Il percorso sarà diviso in quattro parti, le quali partiranno sempre dalla domanda circa l’essenza della teologia cristiano - cattolica. Le prime due parti avranno un spessore storico. La prima sarà dedicata alla storia del termine Teologia a partire dal suo primo comparire nell’ambiente greco – pagano. Più vado avanti più mi rendo conto che ha senso girare intorno ad una sola parola: non siamo nominalisti. Per noi le parole non sono solo un soffio di vento: noi siamo stimatori delle parole. Noi crediamo alla parola perché ciò che si dice accade. Le parole hanno una loro storia e contenuto: se sono arrivate dall’antichità fino a noi è perché si sono arricchite di significato. La parola teologia arriva da lontano, è stata accompagnata da altre parole, è sparita in certi tempi e ricomparsa in altri. La storia di questa parola ha a che fare con l’identità del teologare cristiano: è una parola densa.
La seconda parte sarà sui modelli storici della teologia: non ci soffermeremo su tutti i modelli, ma considereremo solo quelli più importanti che hanno fatto storia nella vita della Chiesa. Ha comunque senso farlo, perché vedremo che il pensare teologico poggia su una struttura interna che ne determina la identità. Alcuni elementi fanno parte di questa struttura interna: Scrittura e Tradizione, Fede e Ragione … Questi elementi sono composti tra loro in diversa maniera, vengono abbinati in modo diverso a seconda dei modelli di Teologia. Quindi alcuni modelli di teologia sono diventati tali per il modo con cui hanno combinato tali elementi. Cercheremo di capire anche perché alcuni modelli sono crollati, come quello scolastico.


Si arriva all’eresia attraverso scelte epistemologiche. Certamente si arriva all’eresia attraverso un’impostazione sbagliata della teologia, e certamente una cosa è vincolata all’altra.
Per il teologo è fondamentale impostare bene il rapporto tra sé e la tradizione, tra sé e la Scrittura. Dobbiamo chiederci come devono essere impostati questi elementi dal punto di vista cattolico. Dall’impostazione di questi tre elementi dipendono le tre grandi correnti cristiane: cattolica, della riforma e ortodossa. Il problema di differenza tra queste tre correnti è chiaramente ecclesiologico ma dipende appunto dall’impostazione teologica.
La teologia ha sempre bisogno di un rinnovamento: deve sempre confrontarsi con domande e problemi nuovi. Sempre si deve rinnovare ed avere però anche un punto di centratura perché si possa sempre domandare “sono ciò che devo essere?”. Questo punto centrale è la prima teologia che è la rivelazione di Gesù Cristo. Possiamo comprendere la rivelazione di Dio in Gesù come il teologare di Dio: Dio dice una parola su di sé. Questo è interessante non solo dal punto di vista dei contenuti ma anche per il modo in cui questo teologare è accaduto. Ha delle dinamiche che sono tipicamente della teologia cristiana: la teologia si studia in ginocchio. La teologia dovrebbe imparare ad avere l’intelligenza della kenotica della rivelazione (Fides et Ratio 93).
Dinamica comunionale: la parola di Dio nasce all’interno di una comunità e genera comunità.
La rivelazione è un evento storico. Consideriamo questo e cerchiamo le dinamiche del teologare cristiano a partire da questo fatto, solo così comprenderemo la differenza del teologare cristiano con quello ad esempio ebraico.

La parola teologhia non è biblica ma ci arriva da lontano. Dove arriva? Dove la troviamo? Non possiamo comprendere le cose nominalisticamente: le parole nascono in un luogo, hanno una storia, crescono. Analizziamo la parola Teologhia a partire da quattro aspetti:  mito, ratio, culto e teatro.
Per quanto riguarda il  mito, la parola teologhia la si trova per la prima volta in un testo di Platone (Repubblica, libro II), che per questo è considerato padre di quest’espressione.
Il fratello di Paltone e di Socrate dialogano sull’importanza dell’educazione e sulla mitologia che viene raccontata ai ragazzi.

“Dobbiamo tener d’occhio gli inventori delle favole: accettiamo quelle belle, e scartiamo quelle brutte. Che le madri raccontino ai bambini le tavole ammesse, in modo da plasmare con esse le loro anime. Nel raccontare le favole non bisogna sostenere che gli dei si combattono l’uno contro l’altro alimentando reciproche contese. Non raccontiamo le gigantomachie, in cui gli dei appaiono con i vizi umani e che si oppongono agli uomini. Che si raccontino i miti dove le divinità mantengono la famiglia. I giovani infatti non sanno distinguere il significato letterale da quello allegorico nei miti”. Queste erano le parole di Abimanto, fratello di Platone.
Risponde Socrate: “Fino ad oggi né io né tu siamo poeti, ma fondatori di uno stato. Non spetta a noi creare i miti. Possiamo invece dare i punti di riferimenti perché vengano creati dei miti che aiutino a vivere e crescere nello stato”.
Abimanto: “Va bene, ma tali direttive inerenti alla teologhia, quali potrebbero essere?”

Questo è il testo, così inizia la storia del termine teologia, con questa domanda: quali miti raccontare ai bambini perché crescano bene? Si potrebbe allora dire con Platone, che non c’è una teologia che non sia normata. La teologia ha un forte impatto educativo. Ascoltare a Teologhia è dunque ascoltare i miti.
Allo stesso tempo emerge però anche un altro significato: un legame tra la teologhia e la ratio. Nella Metafisica Aristotele utilizza questo termine in relazione alle scienze teoretiche. Delle scienze teoretiche la teologhia è la più importante, a volte identificabile con la metafisica, ma molto di più di essa. Ciò che è importante trattenere è però il legame profondo con la ratio che la teologhia possiede.
Poi ci sono altri significati. Nel mondo greco è utilizzata nell’ambito cultuale: teologoi vengono chiamati gli adepti al culto (prima solo quelli del santuario di Delfi, poi tutti). Erano uomini e donne. La teologhia era dunque proclamare la divinità nell’ambito del culto.
Ambito del teatro. Nel mondo delle rappresentazioni teatrali si trova la parola teologhia, soprattutto come termine tecnico: teologheion. È un luogo sulla scena nel quale, ad un certo momento dello spettacolo, si mostrava la divinità. È generalmente un luogo elevato e dal quale la divinità dice qualcosa.

Marco Terenzio Varrone scrive in latino che lavora nell’archivio dell’impero, interessato allo stoicismo (tutto ciò che sappiamo di Varrone ce lo ha tramandato Agostino). Scrive dello stoicismo, di come esso si fermava su certi significati. Egli racconta che gli stoici, vale a dire i greci intellettuali, conoscevano già la teologhia ed essa aveva per loro tre significati: teologia mitica (pensiero mitologico che riguarda le divinità, è una teologia per l’intrattenimento) teologhia naturalis (la teologia portata avanti dai filosofi che si interrogano sugli dei di cui parlano i miti, sull’essere di queste divinità; corrrisponde all’importnaza del rapporto ratio-teologhia ed è la teologhia più nobile, più importante) e teologhia civilis (quella legata al culto, quella degli adepti al culto che dovrebbero sapere cosa si celebra; è una teologhia con la quale lo stato può guidare la coscienza degli uomini, serve allo stato). Delle tre la più libera è quella naturale, perché nessuno può controllare un fiolosofo, non è al servizio né dell’intrattenimento né dello stato.

Ora la domanda può essere: come questo termine è arrivato nel mondo della cristianità? Non lo troviamo né nell’antico né nel nuovo testamento. È un termine che inizialmente ripudiava le prime generazioni di cristiani, era considerato non adatto. Dobbiamo innanzitutto sapere che ci sono due vie, una occidentale e una orientale. Il termine teologia va verso l’oriente e poi verso l’occidente. Due percorsi, uno più facile e rapido, l’altro più difficile e lungo. Ci vogliono 8 secolo perché si inizi ad aver bisogno della parola teologhia in occidente. Perché ci vuole così tanto? Perché ad un certo punto la parola teologia arriva e con tanta importanza? I padri apostolici (autori cristiani più antichi dopo il NT, considerati importanti per l’interpretazione del canone biblico e molto legati alla tradizione apostolica) ad esempio non utilizzano la parola teologia. La usano semmai i padri apologeti, usato però con molte riserve: in loro teologia significa la dottrina pagana, la mitologia (comunque i padri apologeti apprezzavano molto i filosofi pagani).
È ad Alessandria d’Egitto che il termine Teologia viene riscattato. Lì vive un ebreo, filone d’Alessandria, che, da ebreo, non ha timore nell’utilizzare la parole teologia. Dice che Osea è un teologo. Sulla sua scia gli altri Alessandrini introducono abbondantemente la parola teologia nei propri scritti.


La parola Teologia emerge già con vari significati, fin dalle origini, almeno quattro. Piano piano il termine venne usato con la predilezione di indicare una scienza speculativa sulle divinità. Come mai questo termine teologia entra nella sfera della cristianità? Perché non ne è stato inventato un altro? Il punto di passaggio del termine teologia al cristianesimo è stato Alessandria, con il suo teologo e filosofo di maggior spicco l’ebreo Filone di Alessandria. Egli fu contemporaneo a Gesù (20 a.C – 50 d.C) e volle interpretare i testi dell’Antico Testamento interpretandoli come filosofici. Filone ha usato la parola Teologia in riferimento a Mosè, il quale parlando di Dio è il primo teologo, secondo Filone. L’entrata di questo termine nel mondo occidentale sarà posteriore. Nella storia della teologia, con padri orientali intendiamo quelli che parlano il greco.
La scuola di Alessandria venne fondata da un certo catechista  Panteno; i primi a seguirlo furono Clemente e poi il suo discepolo Origene. Quest’ultimo è stato un grandissimo della fede cattolica, anche se ha fatto molti errori (questo è concepibile se pensiamo che siamo agli inizi del pensiero speculativo cristiano). Clemente, mente aperta com’era, sapeva che la parola Teo-logos andava riferita al mondo greco pagano. Anche lui indicando questa parola nei suoi scritti è cosciente di indicare una mitologia, ma sceglie di continuare ad usarlo anche per parlare degli antichi profeti, a partire da Mosè, scrittore della Torah. Con i successivi alessandrini, piano piano il termine Teo-logia diventerà proprietà quasi esclusiva del cristianesimo. Dopo questa apertura di Clemente, Origene fonda la prima scuola teologica del mondo cristiano. Era un intellettuale favoloso, vulcanico e mai domo nella ricerca. Lui fu uno dei primi intellettuali che inizia a adoperare il termine teologia sotto un significato sempre più cristiano. Origene utilizza questo termine anche in riferimento ad altre religioni (egizi o persiani). Allo stesso tempo quando Origene parla della Teologia, parla di qualcosa con caratteristiche omologiche: professare Dio, la divinità. Per questo parla di Gesù come colui che parla di Dio, che professa Dio. Origene non fu solo un teologo esegeta, ma anche un teologo spirituale, un mistico. Proprio in questa sfera, parlando della spiritualità cristiana, introduce la parola teologia. Quando Origene parla della spiritualità, parla dei tre gradi della formazione spirituale. Il primo è il practichè, quel grado di spiritualità per cui l’uomo vive la catarsi andando verso l’amore nell’amore. Il phisichè  è quel grado per cui l’uomo già purificato, è in grado di contemplare la realtà creata, la natura. Il terzo grado è la Teologia. Origene lo chiama con questa parola, pur essendo cosciente che si trattava di una parola pagana: Origene vuole indicare quel percorso secondo cui l’uomo entra dentro il Logos. Per Origene la teologia non è un’operazione speculativa che coinvolge solo la mente, ma una contemplazione che diventa visione, la quale coinvolge completamente tutto l’uomo. Si tratta di una esperienza antropologica totale: questo terzo grado della spiritualità è la completa contemplazione umana.
Dopo Origene  Eusebio di Cesarea. Il cristianesimo, grazie a Costantino, diventa libero, una religione di stato. Così come gli edifici romani, i templi pagani vengono “smontati” per costruire le Chiese cristiane, anche sul piano intellettuale e linguistico il termine teologia inizia ad essere utilizzato come se fosse esclusivamente proprietà cristiana. Cosa doveva prevalentemente significare questo termine? La professione della divinità, ma non un qualsiasi Dio: il Dio cristiano. Nel IV e V secolo –secoli importantissimi per la cristianità- le discussioni cristologiche e trinitarie erano molto accese e toccavano in un qualche modo tutti. In una delle opere dei Cappadoci, viene descritto ciò che accadeva in quei secoli: della Trinità e della divinità dello Spirito se ne parlava ovunque nelle terme e dal panettiere. Nel IV e V secolo il termine teologia viene arricchito di una nuovo significato: implica sempre di più la professione di Dio come Trinità. Intanto nasce un altro termine: oikonomia, ad indicare un discorso della presenza di Dio nella storia, Dio che si avvicina al mondo e all’umanità, che si incarna. A volte tale termine viene utilizzato con un altro significato: oggi, per esempio, viene utilizzato per indicare la deroga dall’osservazione precisa dei sacri canoni, nella teologia ortodossa. Il sacro canone (di solito un detto dei padri) indica un dovere a cui devi adempiere. Ma spesso succede che vi siano laici nel mondo greco che sono più colti dei preti (i teologi sono in maggioranza laici) ai quali viene applicata la oikonomia  rendendo possibile che siano loro a predicare.
Che effettivamente il termine teologia sarà nel IV e V secolo legato al tema trinitario, ci viene confermato da moltissimi intellettuali dei tempi. Per esempio da un importante discepolo di Origene: Evario Pontico. Egli introduce al terzo grado una concezione della Teologia come koinonia, cioè la partecipazione dell’uomo al mistero trinitario di Dio. Ecco perché nasce nell’Oriente cristiano una grandissima stima verso S. Giovanni evangelista, San Gregorio di Nazianzio e san Simeone, chiamato il nuovo teologo.
Gregorio di Nazianzio è uno dei grandi Cappadoci che sottolinea il legame, tra teologia e Trinità. Nelle sue orazioni, soprattutto la 27 e la 28, Gregorio sviluppa la sua concezione di Teologia. «Proibisco la teologia non in quanto cosa empia, ma in quanto inopportuna». Gregorio non dimostra l’inopportunità della teologia, ma la sua versione ariana. Per lui la teologia significa salire con cuore e pensiero verso la Trinità, «la teologia non deve essere un discorso su Dio fatto a tutti, non deve essere acquistata a basso prezzo senza staccarsi da terra». La vera Teologia è anche qualcosa di arcaico, una disciplina che deve essere seguita sotto certe condizioni. «non compete a tutti la teologia ma a coloro che si sono esercitati, hanno intrapreso un cammino di purificazione». Anche San Tommaso dirà che il vero teologo deve conoscere l’ascesi, presuppone una purificazione interiore. Gregorio è sdegnato di fronte all’arianesimo: per questo dice che la vera teologia non ha bisogno di tante parole, non tutti sono in grado di affrontarne gli argomenti e non ogni occasione è adatta alla teologia. La teologia deve essere fatta secondo una giusta misura.  Questa espressione descrive massimamente la teologia di Gregorio. Nella orazione 28 Gregorio ribadisce sinteticamente che il teologo, se è un teologo vero deve discutere con persone pure della teologia. Non parla di teologia come oikonomia; la teologia deve essere fatta affinché la luce del pensiero coglie la luce che è emanata dall’argomento. “Dio da Dio, luce da luce”. Il teologo vero deve parlare solo con coloro che sono interessati, affinché il discorso non sia sterile. Terzo punto:, il teologo può parlare di teologia solo quando ha raggiunto la tranquillità della meditazione. Infine, quarto punto, la teologia deve essere fatta secondo giusta misura, né una parola in più o in meno.
Andiamo ora verso Dionigi Areopagita, autore misterioso importantissimo, del V – VI secolo. Nominiamo questo autore, perché nelle sue opere comincia a distinguere tra due Teologie. Una è segreta, occulta, che invita al silenzio, che si esprime attraverso simboli ed allegorie. Un pensiero che per dire sceglie la strada della negazione. Dall’altra parte c’è una teologia del voler dire, la quale vuole insegnare, persuadere, pensare e volare con il pensiero speculativo verso il mistero di Dio. La prima teologia viene chiamata Teologia apofatica, la quale potrebbe essere simboleggiata dal Mosè che si mette il velo di fronte al mistero di Dio, una teologia che sa che Dio è sempre più grande di qualsiasi pensiero umano. La seconda è la  Teologia catafatica, più coraggiosa che vuole penetrare nel pensiero. Ancor’oggi nella teologia ortodossa vengono usati questi due termini.

Andiamo ora verso il mondo latino. Cicerone quando utilizza il termine teologia pensa alle mitologie greche. Ma Tertulliano, II – III secolo, conosce bene Marco Terenzio Varrone e la triplice divisione tra le teologie: naturale, mitica e civile. Però Tertulliano è piuttosto critico nei confronti della divisione di Varrone. Agostino, che ha trascritto i testi di varrone, condivideva abbastanza, secondo Ratzinger, la predilezione di Varrone per la teologia naturale. Agostino definisce la teologia come la ragione o discorso intorno alla divinità. Con questa definizione apre all’uso di questo termine da parte di qualsiasi persona.
La persona chiave è Boezio, che si è adoperato per tradurre i classici greci in lingua latina. Quando parlo dei classici intendo Platone ed Aristotele. Boezio conosce il significato che attribuisce alla parola Teologia Aristotele: una scienza filosofica, razionale. Per questo inizia ad utilizzare nelle sue opere la parola Teologia riempiendola del suo significato aristotelico. Boezio è stato poi dimenticato e perseguitato, ma con questa sua operazione permette al termine teologia di entrare nel mondo occidentale. Fino all’VIII – IX secolo l’occidente non è attratto dalla parola Teologia. Proprio in quei secoli viene commentato, ritrovato e ripubblicato Boezio, così come scoperto e tradotto in occidente lo Pseudo Dionigi. Queste due scoperte influiscono moltissimo il modo di pensare del mondo latino: sono stati quel cavallo di troia attraverso cui entra nel mondo latino questo nuovo termine. Nasce con la scoperta di Boezio, una sorte di età boeziana. Lo commentarono anche i grandi teologi dell’epoca: Alquino (teologo di Carlo Magno), Abelardo e Anselmo. Questi tre teologi furono importanti nel portare il significato boeziano di teologia. Tra questi il più grande fu Abelardo, un uomo dalla dialettica affascinante ed il pensiero sofisticato. Fu proprio lui ad utilizzare il termine teologia in latino per disegnare un’opera sistematica dedicata alle cose divine. Questo prima di lui non c’era. Il mondo latino inizia ad aprirsi ad un metodo nuovo di pensare, in quei secoli: l’Ars dialettica. Assieme alla dialettica entra e si impone un personaggio: Aristotele ed il suo pensiero. Aristotele suscitava il fascino di coloro che si occupavano delle scienze naturali (logia e retorica) che di per se non avevano a che fare con Dio. Il suo concetto di scienza diventa successivamente determinante per il nostro termine teologia. Nacquero due termini importantissimi nel sapere. Sacra pagina: legato agli ambienti monastici benedettini. Sacra dottrina: legata alla dialettica del mondo accademico.


Siamo nell’ottavo-nono secolo, quando avviene la riscoperta degli scritti di Boezio e di Aristotele. La teologia divenne un pensare sui principi e cause prime. Cominciamo a parlare di “luce dall’oriente”, con la scoperta di Dionigi l’Areopagita ed un inizio di significato simbolico.
Tra i più grandi Abelardo, forse, è stato il primo ad aver chiamato Teologia, un’opera sistematica dedicata alla riflessione sulle cose divine.
Tutte queste scoperte avvengono in uno spazio già pieno, saturo di riflessioni su Dio, anche linguisticamente, anche se i termini teologici non erano ancora completamente acquisiti. Nello spazio della cristianità latina vi sono due temi che indicano la riflessione su Dio: la Sacra Pagina o Pagina Sacra o anche Sacra Scriptura che indicavano riflessioni su Dio e la Sacra Dottrina o Dottrina Sacra. Quest’ultimo tema indicava un altro metodo nel riflettere sulle cose di Dio. Piano piano questi due metodi vengono sostituiti dalla Teologia: come avviene questo processo?
La Sacra Pagina nasce con i padri della Chiesa, è uno stile di riflessione sui misteri della fede, legato ai grandi autori dell’epoca patristica, tra i quali Agostino. Quelli, infatti, che la vorranno successivamente difendere, intendevano soprattutto difendere Agostino e la sua sopravvivenza. Nel testo De doctrina cristiana Agostino riflette sul come studiare la scrittura e presenta alcuni metodi di approccio: letterale, allegorico, simbolico, anagogico … In che senso tale metodo della Sacra Pagina è legato alla Sacra Scrittura? Il testo sacro veniva considerato come un testo che offriva l’approfondimento di importanti temi riguardanti le verità rivelate. Il testo sacro è presentato come una miniera in cui trovi le risposte a tutte le domande sulle verità della rivelazione. Allo stesso tempo la Sacra Scrittura ha una sua autosufficiente: non solo la Bibbia ti indica quali temi sono importanti nella comprensione di Dio, ma ti indica anche degli approfondimenti, magari nel collegamento ad altri libri. Da questi presupposti è nata la Sacra Pagina. Questi maestri seguivano letteralmente l’ordine tematico che la Bibbia suggeriva nelle loro esposizioni. Verso il settimo secolo succede che l’ordine degli argomenti che i maestri della Sacra Pagina volevano affrontare non fu più quello biblico, ma quello logico. I nuovi temi furono: Dio e il suo mistero, gli angeli, l’uomo e la sua salvezza. Lentamente (IX secolo) entra nella sacra pagina l’importanza delle autorità: si ricorre sempre più spesso ai padri della Chiesa, ai testi liturgici, ai concili e ai teologi medievali. Intorno al X secolo, alcuni maestri della Sacra Pagina, soprattutto monaci benedettini, per essere credibili e portare i loro studi al di fuori dei monasteri nelle università, pensarono di introdurre il concetto stesso si scienza elaborato da Aristotele, attraverso l’usa di un’arte considerata allora pagana: la dialettica. Entriamo così nell’ultima versione della Sacra Pagina che ha ormai abbandonato le sue origini, cedendo all’uso scientifico della dialettica, per il desiderio di rimanere al passo coi tempi.
Il genere della Sacra Dottrina si trova su di un grado più evoluto rispetto a quello precedente. Diventa un termine molto utilizzato dagli scolastici, un genere tipico dell’ambiente universitario. La sacra pagina era fatta dai monaci in un contesto di vita quotidiana comunitaria e spirituale, che concepiva la Bibbia come testo di preghiera e meditazione e teneva come centro le sentenze formatesi su opinioni autorevoli. Lo stile della Sacra Dottrina, invece, è più sulle questiones: si parte da un dubbio, da un problema. La Sacra Dottrina contiene alcune costanti: innanzitutto l’arte della dialettica, il cui maestro fu Abelardo. Quest’arte pensa per contraddizioni, in modo da creare uno spartiacque, tra una serie di opinioni pro e contro. Un'altra costante di Sacra Dottrina è Aristotele. La sua figura si rende presente soprattutto nell’università parigina, a causa dell’influsso delle altre arti che venivano insegnate. Aristotele comincia ad imporsi con molta forza, soprattutto in riferimento al suo concetto di Scienzia, di Episteme. Le arti libere cominciano a riflettere anche su se stesse, ad interrogarsi su di se come arti: cosa siamo? Siamo una scienza o no? I saperi si interrogano sui propri metodi ed identità. Nascono così da queste auto riflessioni domande epistemologiche. La Sacra Pagina non ha mai avuto domande del genere su se stessa, non ha mai riflesso pienamente sulla ricerca della propria identità, con la preoccupazione di essere scientifica.
Cosa significa il concetto di Episteme in Aristotele? Nella Metafisica di Aristotele, la prima questione riguarda proprio quella sapienza e sofia, che lo stesso Aristotele chiama Scienza. Il sapere scientifico deve nascere da principi certi e che va oltre il visibile. Per Aristotele la scienza non si concentra sui particolari, ma sugli universali, cu ciò che sta dietro, che anima il mondo. La scienza non è frammentaria, ma unita.
Le questioni della sacra dottrina cominciano sempre da un sembra che (videtur quod). Poi vi è il duplice in contrario (sed contra) e il classico finale sintetico del rispondo (respondo dicentes).
La Sacra Pagina comincia ad invecchiare nel Decimo secolo, nascono opere ibride che contengono elementi tradizionali della Sacra Pagina e elementi nuovi della Sacra Dottrina. All’interno di queste opere, troviamo quelle di Pietro Lombardo (†1160), i Quatuor Libri sententiarum o Liber Sententiarum (1150). Su questi quattro libri delle sentenze, si è studiato fino all’anno 1500 circa e tutti i grandi del medioevo l’hanno studiati e commentati. Il primo libro contiene il tema dei misteri divini, il secondo i misteri della creazione (angeli, uomo, peccato, grazia), il terzo l’incarnazione di Cristo e infine il quarto libro i sacramenti.
Ad un certo punto succede che il termine teologia comincia ad essere legato agli altri due termini (Sacra Pagina e Sacra Dottrina). A partire da Bonventura, si cominciò a sostituire la parola Sacra Pagine con Teologia, nel tentativo di salvaguardare la prima. I francescani erano legati alla sacra scrittura, soprattutto per il loro legame con Agostino.In questo tentativo viene anche introdotta qualche cosa della dialettica e del far scienza. Anche i maestri della sacra dottrina cominciano ad utilizzare la parola Teologia, perché da molti considerata più moderna, vicina al mondo greco, filosofico e al concetto aristotelico di Scienza. Perché tutti vogliono prendere questo termine come qualcosa di nuovo, che potrebbe migliorare e salvaguardare i contenuti? Perché dietro il termine teologia, si sentiva molto la vicinanza di Boezio, del sapere speculativo-razionale. Ma tale parola era legata anche ad un altro grande: Abelardo. Quest’ultimo si permise di utilizzare il termine teologia inserendolo nel titolo di sue tre importanti opere: Teologia Summi Boni (1120), Teologia cristiana e Teologia scolarium. Quando scrive queste tre ed altre opere, Abelardo deposita tutta la sua tensione dialettica; non va verso la Scrittura, è un logico, interessato alle questioni speculative, soprattutto il mistero della Trinità. Le sue riflessioni sono più scorrevoli di quelle di Tommaso, ma anch’esse celano la struttura del si – no – sintesi. La parola Teologia ha dunque all’inizio il copyright di Boezio e Abelardo. Nelle sue opere Abelardo non vuole far altro che dimostrare che le verità di fede non sono irrazionali.
Tutte queste vicende ci fanno capire che lo spostamento del termine teologia verso il mondo latino è molto tattico: la teologia si comporta quasi da virus, che viene inconsapevolmente preso dai maestri della Sacra Pagina e della Sacra Dottrina. La Sacra Pagina è il primo termine che scompare dalla storia della Teologia, la Sacra dottrina scopare successivamente intorno al XIV secolo.
Spendiamo una parola sul Doctor Seraficus  Bonaventura. Si tratta di un teologo favoloso, preoccupato per le vicende drammatiche del suo ordine e cosciente che il virus della Teologia stava entrando nella Sacra Pagina. In Bonaventura i termini Sacra Pagina vengono utilizzati spesso identificati a Teologia. Questo avviene non senza difficoltà: a volte dice che è possibile ridurre tutto alla teologia intesa come la Sacra Scrittura, a volte parla della stessa teologia quasi con disprezzo.


Consideriamo ora il Monologion di Anselmo. Nell’introduzione confessa di aver scritto quest’opera spinto dai confratelli benedettini, ai quali aveva tenuto delle lezioni. In queste lezioni riflette sull’argomento di Dio (la sua essenza, la Trinità…) senza far riferimento all’autorità biblica, ma mostrando come la verità di fede è accessibile alla ratio. Questo tentativo, insieme a quello di Abelardo, è già un forte preavviso che sulle verità di fede era possibile parlare senza attaccarsi alla Sacra Scrittura, per dimostrare quanto la ragione fosse forte nel capire le verità di fede.
La scuola francescana (Bonaventura) si muove in una direzione di salvaguardia della tradizione e della Scrittura, annusando il pericolo di una eccessiva razionalizzazione dei concetti di fede. A tale ordine, si affianca un altro ordine allora giovane: i Domenicani. Si tratta di un ordine mendicante che sotto la benedizione dei vescovi grandi cancellieri comincia a penetrare nelle università. I domenicani si impegnano nello sviluppare lo stile della Sacra dottrina. Qui abbiamo a che fare con Alberto Magno, Albert Bollstaed, originario tedesco, il quale girando l’Europa (da Colonia  a Parigi) si ritrova a studiare molto le scienze della natura, dalle piante alle stelle, insieme – ovviamente – alle verità di fede. Alberto Magno è importante per il tema che stiamo trattando, a causa della sua enorme affezione ad Aristotele. Non vede di cattivo occhio il fatto che la filosofia pagana si avvicini al mondo delle Università: si rende conto che la cristianità doveva trovare il modo di comunicare con la modernità. Teniamo conto che l’Aristotele di certe opere fu condannato (1210, 1215, 1226, 1232, 1263) dalle autorità ecclesiastiche. Ma Alberto Magno sente una certa libertà nel citare nelle sue lezioni con coraggio Aristotele. Era convinto che il filosofo greco poteva arricchire la fede cristiana. Tra le altre cose Alberto Magno tentò di non imprigionare la riflessione della fede attraverso una accettazione ingenua della scienza aristotelica. Ha voluto cercare punti di contatto tra la fede e il modo di far scienza del filosofo. Per esempio: la dove Aristotele dice che la scienza deve essere unita ai pochi principi primi, Alberto Magno cerca di dimostrare che questo vale anche per la Sacra Dottrina, così come per la questione degli universali.
Tommaso d’Aquino ancor più disobbediente di Alberto, fu accusato e difeso dal maestro Alberto Magno. Questo ci rivela la cifra dell’amicizia che univa i due, l’amore alla razionalità. Per quanto riguarda la parola Teologia, sembra che Tommaso la voglia ignorare. Nelle 8767854 parole che compongono la sua opera, la parola Teologia compare lo 0,0015% delle volte. Questo accade perché lui usa quasi esclusivamente il termine Sacra Dottrina. Quando Tommaso utilizza il termine Teologia non utilizza un unico significato. Ve ne sono quattro:
-          Teologia come un sapere supra ratione, un sapere che arriva attraverso la ispirazione immediata. Allo stesso tempo questo sapere necessita di un tentativo di ragione nel comprendere ciò che viene intuito. Un sapere che era sopra razionale, ma allo stesso tempo accessibile alla razionalità.
-           Sotto l’influsso di Boezio Tommaso associa il termine teologia alla scienza o filosofia prima.
-          Teologia come conoscenza apofatica, una teologia del simbolo, discreta, una teologia di poche parole. Qui v’è tutto l’influsso di Dionigi l’Areopagita.
-          Teologia civilis, la sfera del culto.
Vi è un’altra cosa da sottolineare: S. Tommaso fa un’operazione decisiva per la storia del termine teologia. L’evento ispirativo della sua Teologia era di sicuro l’Eucarestia, fonte della sua spiritualità ed esperienza mistica. La sua Summa non fu conclusa da lui, quasi a sottolineare che Dio è sempre più grande di ogni linguaggio, mai racchiudibile in un concetto.
Nella prima parte, prima questione della Summa, Tommaso si chiede se la Sacra dottrina sia o meno una scienza. Per lui la Sacra dottrina va incastrata nella visione scientifica aristotelica. L’articolo secondo è fondamentale per questa questione: si chiede se la sacra dottrina sia scienza. Nel rispondo Tommaso afferma che la sacra dottrina è una scienza; lui sa bene che, secondo Aristotele, affinché un sapere possa dirsi scientifico, tale sapere deve procedere da principi noti, che possiedono una loro evidenza. Tommaso sa che la sacra dottrina è un sapere che non può avere un contatto con i principi primi a livello della loro essenza. Allora Tommaso si aiuta con Aristotele stesso: Aristotele sostiene che una scienza può dirsi superiore (possiede un contatto diretto con i principi primi) o inferiore (ha contatto con i principi primi indirettamente attraverso una scienza superiore). Secondo Aristotele la matematica ha contatto diretto con i principi primi, mentre la musica – per esempio – ha contatto ai principi primi tramite la matematica. A questo punto Tommaso distingue la scienza tra subalternans  e subalternata. La prima racchiude la matematica, la seconda – per rimanere nell’esempio – la musica. Tommaso sostiene che la dottrina sacra è una scienza subalternata alla scienza subalternans; quest’ultima è quella che ha Dio su se stesso e che hanno i beati e gli angeli, e che racchiude con evidenza le verità di fede. La sacra dottrina non è minore rispetto alle altre scienze naturali (come la matematica), perché poggia su di una scienza divina di livello evidentemente maggiore. Anche se subalternata la sacra dottrina è quindi la scienza per eccellenza. Tommaso porta la riflessione sulle verità di fede su un piano diverso rispetto a quanto si è fatto prima di lui. Dopo Tommaso si comincia a parlare di Teologia identificandola con quella operazione con cui si vuole sistematizzare la verità di fede, così come la sacra dottrina era utilizzata dallo stesso Tommaso.
Enrico di Gant (†1293) vuole dimostrare che il fare riflessione sulle verità di fede sia una pazzia. Ma contestando questa operazione di Tommaso, parla non più di sacra dottrina, ma di teologia. Questo termine all’inizio grida lo scandalo dell’operazione di Tommaso, per questo viene utilizzato, per indicare una novità. Il termine sacra dottrina, così come sacra pagina,  non viene più utilizzato. Il termine Teologia, nel mondo latino, irrompe legato alla questione circa l’opportunità o meno di filosofare in merito alle verità di fede. Si tratta del rapporto tra fede e filosofia, fede e sacra scrittura. Tommaso era convinto che occorreva dire di sì alla filosofia.

Ma la storia del termine Teologia non si chiude qui. Dopo Tommaso si comincia ad assistere a preoccupate critiche nei confronti dell’approccio tomista. Nella dispensa sono spiegati i critici della operazione tommasiana. Tra questi critici vi sono anche grandi stimatori di Tommaso: Goffredo Fontàn, per esempio. Il quale non condivideva l’impresa di poter impegnare la ratio filosofica, avversava il concetto di scientificità della fede. Goffredo apparteneva al clero secolare, era un belga. Per avversare Tommaso, Goffredo sostiene che il teologo in realtà è colui il quale deve fare i conti con l’oscurità della fede. Questo concetto non era nuovo, Bernardo di Chiaravalle ne aveva già parlato, così come – in un certo senso – i padri Cappadoci. Goffredo sostiene che si può parlare di scienza per la teologia non in termini analogici: vi poteva essere una sorta di analogia, ma non in senso proprio.
Molti di fronte allo scandalo di Tommaso, obiettano che la Sacra Scrittura diventa così periferica. Se dopo arriva la grande crisi del modello scolastico, questo è effettivamente uno degli argomenti che mettono in crisi tale modello. La Sacra Scrittura aveva infatti perso il posto che i padri avevano visto. Enrico di Gant  dice che il sapere sulle verità di fede è strettamente legato alla santità personale: un teologo è e diventa tale nella misura in cui cresce la sua santità. Egli considerava la struttura di Tommaso come una torre di babele: il teologo non può arrivare alla evidenza servendosi della scienza. Occorre un habitus scientifico, certo, ma tale habitus dipende dalla posizione spirituale di chi pensa Dio.
Alcuni esponenti francescani criticano soprattutto la mancanza della Scrittura all’interno del progetto di Tommaso. Arnaldo di Villanova, per esempio, comincia a parlare di fronte all’ambizione di Tommaso, di sola scriptura. Solo la scrittura può essere l’unico criterio di giudizio della ragione. Ruggero Bacone, per esempio, scrive un libro molto critico in cui parla dei sette peccati capitali della Teologia, tra i quali la non conoscenza del testo sacro, la troppa presenza della filosofia nella riflessione teologica.
I padri francescani hanno dato in questa lotta un grande contributo. Tra loro, su tutti, citiamo: Duns Scoto  e Okkam. Duns Scoto viene chiamato doctor subtilis per la sua precisione, ma anche doctor marianus, per il suo parlare di Maria. Per lui vi sono due teologie: la teologia divina e la teologia in nobis. Con questo vuole dimostrare che la teologia divina sarebbe possibile se l’uomo riuscisse ad entrare nella prospettiva di Dio stesso. Ma questo – sostiene Scoto – è impossibile alla ratio umana. La teologia, invece, deve essere piuttosto una scienza pratica, che si rivolge all’esercizio della carità e dell’amore. Scoto non si schiera contro la ratio; toglie la razionalità dalla teologia spostandola verso la filosofia. La ratio è libera nel settore filosofico-metafisico. Duns Scoto fa quello che in molti pensavano ma nessuno aveva il coraggio di fare: relegare la ratio al settore della metafisica.

      

Siamo in quel periodo storico in cui la protagonista è la ratio, il problema non è o la sacra pagina, o la sacra dottrina. Tutti sono d’accordo sull’usare il termine teologia. La domanda che in molti si pongono è circa la natura del termine teologia, i suoi compiti e significati. Il mondo del clero secolare, assieme alla scuola francescana, si oppone alla teologia intesa come sapere orientato secondo criteri filosofico-aristotelici. Guglielmo d’Okkam continua la critica di Duns Scoto, radicalizzandola ancora di più. Era una persona assolutamente originale, anche dal punto di vista umano, un accademico vero e proprio affezionato ai metodi di Oxford. La sua preoccupazione è quella di limitare il potere assoluto dei Papi. Elabora un sistema importante, in cui dichiara insostenibile qualsiasi tentativo di considerare la teologia come scienza. Il suo pensiero, la sua posizione, il suo nominalismo, dominerà l’università per 150 anni dopo la sua morte, oscurando così la figura di Tommaso d’Aquino. Per comprendere la sua critica del termine teologia, occorre richiamare alcune coordinate del suo pensiero.
Al centro v’è la verità della trascendenza di Dio: Dio è onnipotente, quindi pienamente libero di fare quel che vuole. Vi è anche nel suo pensiero una certa sorta di realismo: non si interessa dell’universale ma si concentra nel particolare, che lui chiama singolari (questo richiama le monadi di Leibniz). I rapporti tra questi singolari non ci sono, li creiamo noi. Sono assolutamente indipendenti l’uno dall’altro. Proietta questa visione sulla Chiesa, considerata l’insieme di individui dotati di libertà assoluta, indipendente dagli altri. Nonostante queste tesi non gli accadde nulla, perché utilizzava il lessico dei suoi avversari per elaborare le sue teorie: ha riempito gli otri dei termini conosciuti di un significato che corrispondeva alla sua teoria. Inoltre era un tipo molto diplomatico. Egli radicalizza questa teoria degli individui soprattutto nel parlare di Dio e dell’uomo: l’uomo non ha accesso alcuno a Dio, vi è una separazione assoluta. Come l’uomo può mettersi in relazione con Dio e come Dio con l’uomo? Guglielmo d’Okkam vede questo nesso come l’obbedienza assoluta. Dio obbliga, l’uomo obbedisce. Dio è imprevedibile, pienamente libero, oggi ti dice una cosa, domani potrebbe dirti il contrario. Se questo è il presupposto, per lui è assolutamente impensabile che l’uomo possa avere una conoscenza sensata di Dio. Dio è relegato in un ambito che ha la sua imprevedibilità: non è possibile fare un lavoro di deduzione a partire dalle verità di fede per arrivare a delle conclusioni certe su Dio. Se ciò fosse possibile, infatti, - dice Okkam – chiunque potrebbe fare teologia, anche un non credente. Ma questo, sostiene lui, è assurdo. La teologia che Okkam propone è una teologia pratica, non speculativa, una teologia del cammino che al centro ha la Sacra Bibbia.
La scuola renana si fece ispirare dall’opera di Proclo per dire che la Teologia è un termine complesso. È vero che tale termine ha una connotazione speculativo-filosofica. Ma tale connotazione va attribuita alla cosiddetta teologia dei filosofi, coloro che riflettono sulle cose di Dio a partire dalla natura. Poi vi sarebbe la teologia vera e propria che pensa a Dio alla luce della rivelazione. La speculazioni è dunque qualcosa di preliminare: la vera conoscenza è una conoscenza spirituale, mistica, il rapporto mistico con la rivelazione.

Altri due importanti personaggi sono Pietro d’Ailly (†1420) chiamato per la sua genialità l’aquila di Francia, diventato maestro di Teologia a Parigi e il suo allievo Giovanni Giackson. Vivono durante anni difficili nella Chiesa: fattori esterni scombussolano la Chiesa (guerre), ma soprattutto fattori interni, come le divisioni all’interno del papato, le questioni economiche legate alle tesorerie del papa. Entrambi riprendono l’idea di Okkam dell’impossibilità che i non fedeli facciano teologia. Il credere deve essere legato alla prassi della propria vita. Soprattutto G. Giackson, molto sensibile alla situazione della sua  epoca, era convinto che la teologia dovesse ritornare ad essere un sapere destinato all’educazione e alla crescita del popolo di Dio. La Teologia doveva influire anche su una educazione morale ed etica dei giovani. La Teologia, dunque, deve perdere la propria vanità, la propria vana curiosità, l’attrazione per le problematiche assurde. La sua critica era rispetto ad una teologia che si staccava dall’andamento della storia. La vera materia della teologia è ciò che edifica la fede, che sostiene la speranza e infiamma la carità. Ecco perché inizia a proporre un rinnovamento della teologia: quella che lui chiama la “teologia mistica”.  Questa teologia mistica deve essere un’esperienza di affetto, un’esperienza comunitaria, un’esperienza di Dio vera e propria. Alla fine fare la teologia non è solo questione di intelletto e ratio; è soprattutto una questione che riguarda l’anima. Giackson ritiene che questo tipo di esperienza non è qualcosa che va relegata ai monasteri, bensì portata nelle università. La ratio doveva essere riportata all’interno di un certo clima esperienziale.
Prima di arrivare a Lutero parliamo di Erasmo di Rotterdam (†1536). Professore che girò molte università dell’Europa e ben noto ai tempi per la sua forte dialettica con Lutero. Era irritato dalla Teologia come scienza, denuncia il fatto che la Teologia ha perso l’attenzione per la Sacra Scrittura. Invita ad un’immersione in sé, ponendosi di fronte alla scrittura.

Come si pone Lutero di fronte al termine Teologia? Lutero era generalmente selettivo: non tutti i termini in circolazione gli piacevano. Per esempio il termine Ecclesia viene criticato in quanto collegato ad una mentalità istituzionalista legata al potere. Spiega questi termini sostituendoli con altri: congregatio sanctorum, per esempio. La teologia speculativa, dei papisti, dell’oggettività speculante, la chiama Teologia gloriae. Lutero attribuisce al termine teologia un suo significato: conoscere Dio nella sua rivelazione, la quale accade sub contraria specie (teologia della croce). Il teologare significa pensare Dio e parlare di lui dal di dentro di una conoscenza esperienziale e personale. Il teologo vero quando si interroga su Dio lo fa sul Dio della “mia” storia.
Un altro importante elemento è la sola scriptura di Lutero. La teologia assume come compito il professare Dio, la sua opera nel mondo. C’è quasi una identificazione tra parola di Dio e Teologia. Lutero collega il termine Teologia con l’uomo e la sua esperienza di Dio. La teologia si ancora nella antropologia: al centro della teologia non c’è più Dio e le domande su di Lui, ma l’uomo che si interroga su Dio e ne ha bisogno. La punta estrema di questo suo elemento di pensiero la si troverà poi in Feuerbach.
Philip Melantone. Grande amico di Lutero, ma molto diverso da lui: fine nel pensiero e desideroso di costruire ponti. Melantone proponeva di non utilizzare più il termine Teologia, chiamandola in altri modi: doctrina evangelii, per esempio.
Un’opera del 1610 di Johan Gehard chiamata Loci teologici, fa una esposizione molto complessa circa cosa significhi il termine teologia a partire dai greci. Nella sua interpretazione arriva a dire che la teologia è più una sapienza che una scienza, che ha come scopo l’arrivare solamente alla propria salvezza.
Attorno all’anno 1600 il mondo che nasce come riforma e ribellione contro il papato, comincia ad adocchiare la definizione della scienza proposta da Aristotele. Ci si converte al concetto di teologia come lo facevano le facoltà cattoliche. Una teologia legata ad una speculazione, che include termini di scientificità, non è più vista come ostile. Il mondo luterano porta così avanti la questione che il teologare deve aver al centro il rapporto uomo-Dio e la Scrittura, ma tutta inserito in un ambito di scientificità. Chi fa questo processo è Calixt. Nel nostro lessico abbiamo diversi termini da lui inventati. Appena i luterani si convertono alla definizione aristotelica di scienza, tale definizione diventa insoddisfacente per il mondo. Il mondo della riforma comincia allora a ricercare un significato del termine teologia: nasce così il tema del rapporto tra teologare e religione. La religione e la comprensione del cristianesimo come un fenomeno religioso sono i temi preferiti. L’autore di riferimento rispetto a questo tema è Schleiermacher. Comincia ad interrogarsi sulla religione in sé: la teologia viene collocata in un nuovo ambiente, quello delle scienze della religione. Schleirmacher è fondamentalmente uno storicista. La verità vale solo per un determinato periodo, poi è surclassata da una nuova verità. Per cui un dogma che ieri valeva, oggi non può valere più. Nelle sue mani il termine teologia diventa vulnerabile.



Se immaginiamo la teologia come una piramide, al vertice più alto sta la teologia cristiana cattolica. La piramide è formata da una infinità di strati che convergono verso il vertice. La nostra teologia è tutta la piramide: il vertice significa identità, ma occorre la proiezione verso la base, per comprendere la punta.


                                                                 



Tutta la teologia
 
 



Il vertice rappresenta una pienezza atomica, contenente dinamiche molto affascinanti. Questo tipo di comprensione della teologia presuppone una apertura verso il diverso, una omnicomprensività. Nei testi del Vaticano II la teologia è presentata proprio così, soprattutto al n°7 e al n°22 della Ad gentes: «Ogni elemento di verità e grazia presente nei pagani, viene purificato dalla Chiesa e restituito al suo autore. Ogni elemento di bene che si trova nel cuore e nella mente umana, o nei riti, non solo non va perduto, ma viene sanato, elevato e perfezionato per la gloria di Dio». In tali testi si respira il magistero di Pio XII secondo cui la teologia non deve distruggere ciò che trova: la Chiesa non deve costruire sulle rovine di coloro che hanno vissuto, costruito e pensato prima di noi, ma spiegare le dinamiche di illuminazione della verità, affinché l’uomo possa sentirsi più vicino alla verità. Ratzinger ha detto che la nostra teologia, può essere pensata così, perché poggia sulla fede, anche epistemologicamente. La fede può essere chiamata memoria, dice sempre Ratzinger, nel senso che raccoglie e tiene dentro di sé le verità precedenti, le quali vengono illuminate e ricapitolate dalla rivelazione di Colui che si fa chiamare padre. L’esempio che le cose stanno così è la tradizione liturgica, per esempio il canone romano. In esso, infatti, nella sequenza di persone nominate è presente Melchisedek, un sacerdote fondamentalmente pagano. Eppure la Chiesa ha sentito la necessità di inserire nel canone romano il nome di una persona pagana, perché la via della Chiesa comprende una estensione della fede: l’opera di ricapitolazione inizia già, è già in atto.

                Seconda Parte: i modelli della Teologia.

Molti parlano di modelli. Prendiamo ad esempio Küng: individua otto modelli teologici. Egli vuole creare una mappa dei movimenti più significativi del cristianesimo assolutizzandoli a tutto il sapere cristiano. Non basta descrivere delle macchie per esaurire la tradizione teologica. Küng, per esempio fa coincidere il modello scolastico con quello medievale. Ma il modello medievale è molto più grande: comprende il modello scolastico, nominalista, ortodosso ecc. non bastano otto modelli per comprendere la storia della Teologia! Vi sono in Küng delle semplificazioni tremende, la pretesa di arrivare a delle astrazioni omnicomprensive.
Quello che io propongo è diverso: comporrò una cartina con una serie di modelli. Noi parliamo dei modelli per conoscere meglio l’essenza della teologia nel suo sviluppo. Io vi propongo una mappa di tredici modelli. A noi non interessa dire che cosa era, concentrarci sul passato senza fecondità. A noi interessa capire la dinamica di ogni sistema, il perché siano entrati in crisi; se questa crisi ci sia stata fin dalla nascita oppure no.
Noi non vogliamo considerare un modello solo come un elefante teologico che ha messo i piedi in tempi arcaici sul terreno teologico e ha lasciato impronte tali che oggi i turisti le guardano sospirando ad un passato morto. Il modello non lo considereremo secondo la sua importanza teologica, il volume di pensiero implicato. La storia del termine teologia è la storia delle tensioni nei confronti e tra alcuni elementi che sempre di più vengono sentiti nel pensare cristiano come elementi di riferimento fondamentale, che appartengono al DNA del pensare cristiano. Qualche teologo mette questi elementi in un rapporto di coppia. Tra di essi pensiamo a Vagagini, una persona di grande preghiera. Lui dice che nel DNA della teologia vi sono alcuni elementi fissi, che si trovano in posizione di coppia polare: scrittura e tradizione, ragione e fede, magistero e sensus fidei. Fare teologia significa proprio far riferimento a queste realtà. Innanzitutto la scrittura, considerata nella sua unità di Antico e Nuovo Testamento, ma anche nel senso di un approccio al testo sacro (approcci diversi hanno creato scuole teologiche diverse, concentrate più su un senso letterale oppure allegorico, oppure ancora il metodo storico-critico, le interpretazioni femministiche ecc.). Il termine tradizione è anch’esso ricco e complesso: qualcuno chiama tradizione la cosiddetta regula fidei, qualcun altro, come i Cappadoci, la considera coincidente col Concilio di Nicea. Può succedere che questi elementi si tocchino tra di loro: dalla tradizione si può facilmente parlare del magistero, oppure alla scrittura. Il termine fede è anch’esso interessante: alcuni modelli teologici hanno eliminato la fides quae (i contenuti della fede), altri l’hanno considerata. I Cappadoci ci dicono che la fede è una pratica ascetica monastica, significa credere e vivere nella comunità (S. Basilio è in questo eccezionale). Per Gregorio Palamas la fede è un’altra cosa ancora, indica un’altra esperienza.
Tutto questo per dire che nel DNA del fare teologia contiene questi elementi: ogni specifica teologia fa i conti con questi elementi. Li può avversare o combinare. Normalmente le tensioni sono a livello delle coppie: molti modelli si schierano o solo con la ragione o solo con la fede, o solo con il magistero o solo col sensus fidei. Ogni teologia viene fatta combinando questi elementi, spostandoli. Io chiamerò modello quelle combinazioni tra questi elementi che sono esemplari, combinazioni che magari ritornano nel tempo in alcune aree del mondo cristiano. Per semplificare questa seconda parte, mettiamo tra parentesi la terza coppia (magistero-sensus fidei) per riprenderla poi nella terza parte, in cui parleremo dell’equilibrio che deve crearsi tra queste coppie, pur dovendo rimanere una salutare tensione.
Il motivo di ogni eresia, all’interno di questi modelli, è sempre legato all’epistemologia; molte eresie sono state causate dalle scelte epistemologiche.
Nella nostra schematizzazione, racchiuderemo i nostri modelli all’interno di quattro periodi:
-          patristico
-          medievale
-          rinascimentale
-          moderno
Studiando il primo periodo, quello dell’età patristica, ci soffermeremo su alcuni modelli concreti: il modello ariano è il primo modello teologico, eretico certamente, ma pur sempre un modello. Poi parleremo del modello dei Cappadoci, di Agostino e di Boezio.

                Età patristica

I primi due modelli che hanno fatto storia sono in reciproca tensione: il modello ariano e il modello cappadoce. Nei primi secoli della patristica il contesto è molto eterogeneo, con alcune costanti però. La patristica al suo inizio vede una triplice sfida per la Chiesa:
-          il rapporto tra Chiesa e stato (Chiesa e impero), determinato dal fatto che la Chiesa deve elaborare il tema paolino della parusia. Se la fine del mondo era vicino, il rapporto con le opere si faceva più interessante e scottante.
-          Rapporto Chiesa – società, soprattutto per quanto concerne il rapporto con i pagani. Questo confronto implica anche delle compenetrazioni: nascono dei gruppi gnostici, per esempio, o gruppi che evocano dottrine pagane nel cristianesimo.
-          La Chiesa in sé. La Chiesa si deve auto comprendere sempre più, è sfidata a comprendere la propria identità, la propria dottrina. Parte di questa sfida sono le eresie, che nascono appunto nella Chiesa in sé. Nasce la coscienza che la Bibbia in sé con le sue parole non è in grado di contrastare le eresie: si utilizzano termini della grecità, terminologie diverse dalla terminologia della Bibbia. Questo salto linguistico implicava però delle difficoltà: i termini ypostasis o ousia venivano utilizzati anche nel loro significato contrario a quello originale. Il contesto culturale era però unico, definito praticamente solo da termini greci: si capisce dunque che utilizzare queste parole era l’unico modo per entrare in dialogo con il mondo culturale. Compreso in questa terza sfida è il trovarsi dei primi vescovi nei concili e nel sinodi, per discutere circa le verità di fede.
Parte di questo periodo sono appunto i modelli ariani e cappadoci, opposti tra loro e per questo interessanti.

                    Modello ariano

Si sviluppa intorno ad Ario (†336), un personaggio pubblico: le sue idee vengono depositate nelle breve poesie che scriveva e nelle canzoni che componeva. Per questo guadagnò una grande fama tra la gente. Ario porta avanti una bandiera importante sul piano della dogmatica e della dottrina della fede: il Figlio di Dio nasce nel tempo, ma non v’è un’unità tra Lui e il Padre nella sostanza.
Tra gli esponenti più di spicco di questo movimento v’è Eunomio († 393), l’intellettuale per eccellenza del movimento ariano. Scrisse numerose opere, tra cui una delle più importanti è Ad Theodosium. Ad Eunomio possiamo arrivare indirettamente attraverso gli scritti di quelli che lo confutavano: le sue opere sono andate perse, infatti.

 



 


In Eunomio la componente della ratio era determinante nel suo rapporto con fede, scrittura e tradizione. L’arianesimo è un modello di teologia razionalista; i modelli ariani e neo ariani ritornano nella storia del cristianesimo. Il principio su cui poggia il suo modo di fare teologia è che tutto è interpretabile e va interpretato; occorre non accogliere immediatamente, ma pensare.
-          La fede è certamente per lui un elemento valido, ma va interpretato.
-          La sacra scrittura va anch’essa presa in seria considerazione; usa però  una terminologia molto razionalista, in un certo senso. Preferiva l’allegoria, utilizzare la terminologia della filosofia greca piuttosto che quella della scrittura.
-           Per quanto riguarda il rapporto con la tradizione essa era la regula fidei. Nella tradizione inseriamo anche i sinodi e il concilio, in modo particolare quello di Nicea. Eunomio non ha mai detto che il concilio di Nicea I era un concilio sbagliato, ma l’ha interpretato in maniera contraria all’intenzione: tutto – ricordiamo il suo “motto” – va interpretato.
La ratio, la speculazione – per Eunomio – si impone dal di dentro. Vi è un processo di interiorizzazione della verità, che alla fine fonda il modello teologico sulla soggettività. Non era l’interiorità intesa come Agostino (cuore, sensi …), ma l’interiorità pensante: la ratio. Eunomio, alla fine, razionalizza intelletualisticamente l’arianesimo.
Come mai siamo arrivati a questa riduzione soggettivistico – razionalista? Tutto nasce da una lettura del proprio contesto, da una forte enfasi di fronte alla cultura greca, la quale era presente nel DNA degli ariani, avendo studiato nelle scuole greche. La ratio ariana nasce da un affidamento senza riserve al mondo greco, al suo sistema di parlare del cosmo e dell’uomo: il cristianesimo andava inserito in questi spazi filosofici già presenti. Dietro l’arianesimo è nascosta sostanzialmente una visione ellenistica: per questo fanno fatica a parlare della Trinità, perché imbevuti della cultura greca, non potevano pensare con tali categorie l’esistenza trinitaria.

                    Modello cappadoce

San Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzio e Gregorio di Nissa († 394) compongono questa scuola cappadoce. Ricevono una educazione classica: si vogliono inserire nel dialogo teologico riprendendo ciò che Origine aveva già detto.
Il modello cappadoce nasce soprattutto per difendere l’ortodossia della Chiesa per confutare gli errori ariani.

 

La fede è per loro una visione del mondo, qualcosa che ingloba completamente l’uomo, lo coinvolge integralmente. La vera fede per loro non può esistere senza un radicamento totale nella sacra scrittura. Mentre nell’arianesimo tutto è interpretabile, per i cappadoci, in particolare in Basilio la stima per la scrittura è letterale: bisogna lasciar parlare la sacra scrittura, anche sul piano del lessico. Basilio arriva a comporre un’opera chiamata Regole morali, in cui individua dei temi di spiritualità e morale presi alla lettera dalla bibbia: si tratta di un collage delle affermazioni della Bibbia. Vengono certamente utilizzati metodi interpretativi, ma sempre con una attenzione estrema alla lettera.
Per quanto riguarda la Tradizione, essa indicava non solo il simbolo apostolico, ma anche un riferimento diretto al concilio dei santi padri, il concilio di Nicea. Basilio sostiene che la tradizione l’abbiamo ricevuta come dottrina non scritta, attraverso un tramandare; cosa riguardano queste dottrine non scritte? Innanzitutto la liturgia. La tradizione doveva rimanere segreta. La cosa caratteristica di questi padri cappadoci è che si crea un circolo ermeneutico tra gli elementi f-s-t: quando questo circolo è creato, la ratio può – solo in un secondo momento – entrare in azione.
La fede ha un valore assoluto tra i cappadoci: essa è caratterizzata da una ascesi collettiva, comune: gli stessi tre padri citati erano tra loro molto amici: si cercavano, pregavano insieme e digiunavano insieme. Per molti erano credibili perché vivevano una vita di ascesi e una vita comunitaria. L’Orazione 43 di Gregorio di Nazianzio contiene forti espressioni di comunione.
Questi tre non hanno mai pensato di dichiarare guerra alla filosofia, solamente perché la ragione era in secondo piano. Gregorio di Nissa valorizza la filosofia di Platone, considerandola come uno strumento che Dio ha voluto per accedere ad una vita virtuosa. I tre cappadoci sono convinti che la filosofia va presa sul serio, ma non come sistema metafisico portante, totale e globale, come Eunomio aveva fatto. Per loro il cristianesimo è una vera e propria filosofia, ha sufficienti elementi per essere considerato una filosofia.
I due modelli si sono combattuti: quello dei cappadoci ne è uscito vittorioso, cominciando ad influenzare l’oriente. Ancora oggi qualche scuola teologica del mondo ortodosso richiama questo modello, anche se non completamente.

       

                    Il modello di sant’Agostino

Dietro la sua teologia occorre sempre scorgere la sua esperienza personale. Innanzitutto il contesto storico: Agostino († 430) vive nell’Africa del nord e vede il crollo dell’Impero romano in chiave apocalittica. È molto preoccupato per il fenomeno bellico e il fenomeno di distruzione della cultura della sua epoca. Egli apprezzava lo strato culturale determinato dal dialogo della cristianità con la filosofia greca, ma vedeva che questo strato si stava sgretolando. Sant’Agostino riflette nelle sue opere sulle questioni epistemologiche. Prime fra tutte l’opere De doctrina cristiana, De Trinitate (in particolare capitoli 12 e 13, in cui riflette in merito a cosa possa o meno definirsi scienza). Indirettamente nelle sue celebri Confessioni emergono dati di carattere epistemologico.
Se dovessimo rappresentare graficamente il rapporto tra i quattro elementi, nel caso di Agostino il disegno sarebbe questo:

 





  

        Il rapporto fede – ragione
Ci sono studiosi di Agostino i quali, partendo dal primo Agostino, vogliono vendere questo padre della Chiesa  come colui che ha messo nella sua opera fede e ragioni su due binari paralleli, due modi alternativi di camminare verso la verità.
Oggi viene detto che v’è un grande equilibrio nel rapporto fede ragione in Agostino: ma questo equilibrio non  è statico, bensì dinamico. C’è una fede che crede per conoscere ed una che conosce per credere. Quando parliamo della ratio in Agostino, che cosa intendiamo? Nelle confessioni VII,30 Agostino parla dei platonici, della filosofia e cultura greca. La sua razionalità filosofica è quella riferita al neoplatonismo. Chiediamoci ora dove fede e ragione si incontrano; Agostino dirà una cosa fondamentale della teologia: fede e ragione si incontrano nell’interiorità dell’uomo. Tutto accade nell’interiorità. Dentro la propria interiorità, l’uomo può fare un viaggio stupendo verso le idee: tali idee si lasciano avvicinare. La ragione può correre nella profondità dell’uomo. Agostino ha una avanzata visione antropologica e psicologica: vede l’uomo nella sua grandezza e nella ferita del peccato. La realtà della fede abita il cuore: la fede è incontrare Dio dentro di sé. Agostino accentua la realtà dell’interiorità umana, all’interno della quale c’è vero movimento di ratio e credere. È lui che comincia a parlare di maestro interiore e rivelazione interiore; fede e ragione coabitano strutturalmente nell’uomo. Il modello agostiniano e tutte le sue versioni successive, hanno come novità questo elemento: l’interiorità.
                       Sacra Scrittura e Tradizione
La grande difficoltà di Agostino è la Sacra Scrittura; nelle Confessioni (libro III capitolo V) racconta di come leggeva spesso la Scrittura, ma non comprendeva. Il significato più profondo della scrittura è quel significato che l’autore sacro ha deposto nel testo: occorre entrare nell’intenzione dell’autore sacro. Tale intenzione è la res, o almeno così la chiama Agostino. La lettura della sacra scrittura è un procedimento di entrata dal signum verso la res, dalla parola come segno al senso. Agostino ha patito molto per l’attaccamento letterale alla scrittura: sosteneva che la cosa importante è che chi leggesse la scrittura non si fermasse al signum, qualunque metodo volesse adottare.
La Sacra Scrittura mantiene per Agostino passaggi difficili ed oscuri, soprattutto per quanto riguarda alcuni passaggi dell’Antico Testamento. Per questo, di fronte a queste difficoltà, Agostino cerca di entrare nella profondità del testo, oltre l’aspetto letterale.
Agostino sa che il metodo signum-res era conosciuto. Sapeva però che anche questo utilizzo poteva essere compromettente: molte eresie dei suoi tempi erano legate alla Sacra Scrittura e ad una sua sbagliata interpretazione. Agostino dirà, così che per l’interpretazione corretta del testo sacro, si necessita di un referente esterno. Già prima di lui, Ireneo e Tertulliano vedevano la figura di questo referente esterno nei vescovi, la catena dei successori e degli apostoli. Ma Agostino conosceva i vescovi e sapeva che le prime eresie erano nate proprio da loro; ecco che Agostino aggiunge un ulteriore elemento. Questo referente esterno deve essere fedele alla regula fidei, alle prime verità che i vescovi consegnavano ai catecumeni, quelle verità di fede trasmesse e consolidate nella liturgia. Ma anche la regula fidei per qualcuno poteva essere interpretabile, perché molti erano tranquilli nell’affermare la loro adesione alla regula fidei, ma nonostante questo producevano eresie clamorose. A questo punto Agostino dirò che il referente esterno deve essere la sintesi di tutta la dottrina cristiana: gemina caritas. Il comandamento nuovo è il precetto maggiore a cui fare riferimento. Nel De doctrina cristiana  (I libro, cap. 36,40) sostiene che il duplice amore di Dio e del prossimo è il centro dell’interpretazione della Sacra Scrittura. occorre partire da questo nuovo comandamento e dopo la riflessione ritornarci arricchiti della scoperta della profondità del suo significato. Agostino introduce così nella epistemologia il vangelo, il principio del duplice amore.
Questo principio è stato certamente dettato dalla sua esperienza: la sua esperienza di intellettuale veniva calata in una intensa vita comune, di Chiesa ed amore al corpo di Cristo.
Fatte queste puntualizzazioni, Agostino dice che chi ha raggiunto lo spazio dell’interiorità, non ha più bisogno degli intermediari, nemmeno della Scrittura: «Chi è sorretto da Fede, Speranza e Amore, [chi è in collegamento con il maestro interiore] e vi aderisce senza tentennamenti non ha bisogno della Sacra Scrittura se non per istruire gli altri. È per questo che molti grazie a queste tre virtù vivono in solitudine senza libri (…) grazie tuttavia a questi strumenti essi [gli asceti] hanno eretto dentro di sé un tale edificio di Fede, Speranza e Amore, da possedere qualcosa di perfetto così che non cercano solo ciò che è parziale». Agostino è un Teologo dell’interiorità, non del libro. Nasce con lui un modello di teologia legato ad una vita spirituale caratterizzata da una incomunicabile intimità tra Dio e l’anima. Agostino poggia il suo modello sulla visione di vita spirituale, in cui l’intimità è ciò che vale.
Questo tipo di teologia effettivamente si è ritrovato nelle mani di altri teologi, di altri, tra cui Lutero, che ne hanno fatto uso secondo altre condizioni differenti da quelle di Agostino.

                    Il modello di Boezio

Nell’anno in ci nasce Boezio, l’impero sembra ormai ferito, dal momento che l’ultimo imperatore di origini romane era stato sostituito da un re barbaro. Spesso si pensa che Boezio fosse un Teologo, ma troppo razionalista per essere studiato.
Boezio ha influito moltissimo sulla nascita della scolastica, rappresentando un unicum, in mezzo al mare patristico: mentre quasi tutti fanno una teologia legata alla scrittura e alla tradizione, il suo modello è diverso. Graficamente sarebbe simile a quello ariano:



Boezio vive dopo il Concilio di Calcedonia, nasce vent’anni dopo. Calcedonia non fu subito percepito e recepito: il patriarca di Costantinopoli, per esempio, non era del tutto d’accordo. La Chiesa era anche destabilizzata nel suo dialogo con l’Impero, per l’arrivo dei barbari.
Innanzitutto Boezio è convinto che la cultura classica non deve morire: traduce Platone ed Aristotele in latino, proprio per questa ragione. Allo stesso tempo scrive opere sue proprie di filosofia e teologia. Tra quest’ultime la più famosa è il De Trinitate.
Importante per lui era la fedeltà al Concilio e alla Scrittura. Era consapevole che il clima interno alla Chiesa era cambiato: la Sacra Scrittura veniva fraintesa e mal interpretata. Cerca allora di dimostrare per via della logica, la ragionevolezza delle verità di fede cristiana. Era convinto che la fede cristiana contenesse una sua razionalità, una sua logica. Non bastavano le argomentazioni scritturistiche o patristiche. Boezio, nella sua teologia, anche se aveva una sensibilità platonica, per quanto riguarda l’uso della ratio, segue Aristotele, inaugurando nella teologia il metodo della dialettica.
Pone al centro la parola utrum, comincia un discorso che volutamente problematizza i temi, si pone domande e cerca risposte ragionevoli. Il suo metodo vuole dimostrare la possibilità di salvaguardare le definizioni del concilio con l’uso della ragione; il suo linguaggio non  è biblico. A differenza dagli ariani, non tutto è interpretabile; egli fa riferimento all’importanza della fede, dei concili, della tradizione e della scrittura, a differenza degli ariani. Ciò che lo rende singolare era il suo scopo: Boezio era razionalista per difendere le verità di fede della Chiesa. Non possiamo accusare Boezio di razionalismo in senso assoluto, dobbiamo contestualizzare il suo tentativo. Comunque anche nei suoi scritti la ragione non è elevata a criterio ultimo di valutazione di tutto: era convinto delle possibilità della ratio, ma allo stesso tempo sapeva che il mistero di Dio eccedeva la ratio.

             XI Lezione 171108

                    Il modello di Dionigi l’Aereopagita

Siamo nel VI secolo. Alcuni Papi hanno raccomandato la conoscenza del modello di Dionigi. Noi non sappiamo chi sia il vero autore di questo modello; poteva essere un discepolo di San Paolo, sicuramente un credente che apparteneva al monachesimo. La Teologia di Dionigi è fatta in modo non così limpido come Agostino, per cui è più difficile immaginarsi com’era il suo autore. Siamo in un’epoca in cui si impone come alternativa al cristianesimo il neo platonismo, non solo come una filosofia affascinante, ma anche come teurgia: il neo platonismo diventa pensiero, ma anche culto, liturgia. Diversi cristiani lasciano il cristianesimo per convertirsi al neo platonismo.
Tra le sue opere, sicuramente spicca la Teologia mistica, i nomi divini, la gerarchia celeste e la gerarchia ecclesiastica, oltre ad alcune lettere. Dionigi costruisce il suo modello affinché la Chiesa possa difendersi dai pagani. Il suo metodo non è quello della polemica o dell’ironia; egli vuole contrastare i greci utilizzando però la loro filosofia e le loro categorie. Dionigi era infatti convinto che la filosofia, di per se, ha una origine divina, nonostante le elaborazioni umane siano a volte sbagliate. Il suo modello può essere rappresentato in questo modo:













Possiamo immaginare il dialogo con i greci di Dionigi, come una partita a scacchi, dove Dionigi non utilizza la sua scacchiera,ma la scacchiera neoplatonica. Questo significa che doveva rispettare le regole degli scacchi; così l’elemento della fede, della scrittura e della tradizione sono viste dall’interno della visione neo platonica.
Ma il neoplatonismo a cui si riferisce Dionigi è diverso da quello a cui si riferisce Agostino: il neoplatonismo di Dionigi è quello dell’Uno, mentre in Agostino è quello delle divine idee. Un'altra differenza: l’approccio di Dionigi corrisponde ad una prospettiva simbolica diversa da quella di Agostino. Anche Agostino è in un certo senso simbolico, ma nel senso del soggetto. In Dionigi si sente la convinzione che la “cosa stessa” sia in se simbolica, abbia una forza rivelativa. Ecco perché spesso parla della luce che promana da una verità, da una realtà. Mentre in Agostino è il soggetto che cerca e vuole penetrare, che è attivo, vigilante, in Dionigi vi è come una preminenza della luce nelle cose.
                       La Scrittura
Dionigi cita molto spesso la scrittura, con lo scopo di chiarire il fatto che il suo ragionamento tiene sempre presente il testo sacro. Quando Dionigi si riferisce alla scrittura, si vede come essa sia connessa in modo molto stretto alle celebrazioni liturgiche: per lui la sacra scrittura va letta dal di dentro di una celebrazione. Le liturgie che descrive sembrano un fuoco d’artificio fatto da moltissime luci, segni e movimenti. C’è in Dionigi una vera estetica, una sottolineatura della bellezza della liturgia.
                       La tradizione
Dionigi non vuole costruire un modello per contrastare le eresie interne; è molto legato alla patristica greca, alla tradizione degli alessandrini e dei cappadoci. Per lui la tradizione, soprattutto quella esegetica, assume una importanza molto rilevante.
                       Limiti
L’opera di Dionigi è bellissima, ma molto complessa. Egli accetta anche i limiti del pensiero neoplatonico: produce un modello da una parte affascinante dall’altra molto limitato, perché troppo legato alle categorie neoplatoniche: la sua teologia coincide con una esperienza mistica in cui l’Uno non diventa tre. Non si trova in Dionigi una articolazione della riflessione che fa intuire lo specifico della rivelazione cristiana. Non è in lui sufficientemente chiaro che Dio è non solo uno ma anche trino. L’aspetto della storia è assente dalla sua opera, a causa della sua fedeltà alla scacchiera neoplatonica: il cristianesimo doveva essere mostrato come una dottrina sull’Uno, che si sviluppa intorno all’Uno. Dionigi si lascia incastrare dalla scacchiera neoplatonica; se vogliamo chiedere a Dionigi qualcosa sull’incarnazione, Dionigi lascia insoddisfatti.

                Modelli medievali

Siamo in un’epoca (XII - XIII secolo), da molti chiamato rinascimento. Sul piano socio culturale, politico e religioso, effettivamente siamo di fronte ad una sorta di rinascita culturale. In Europa sorge un certo indebolimento della struttura sociale feudale: sta nascendo una nuova borghesia, nascono le banche, il potere finanziario - economico comincia ad essere decentrato. In Europa comincia a svilupparsi la cultura basata sull’istruzione: le scuole cattedralizie, fondate e gestite dalle diocesi, dai vescovi. Anche le prime università facevano riferimento al potere ecclesiastico. Lo studio diventa un fenomeno pubblico; sul piano globale delle scienze, sorgono grandissime curiosità rispetto ai classici latini, greci, arabi ed ebrei. Si cominciano a studiare altre culture, nuove conoscenze si affacciano all’orizzonte. Inizia a rafforzarsi come mai prima la curia romana, un insieme di condivisione del potere molto importante. Dall’altra parte cominciano ad essere coinvolti i laici: nascono movimenti che coinvolgono attraverso forme aggregative innovative, persone che non diventavano per forza sacerdoti, pur vivendo una certa vita consacrata. Il movimento francescano, per esempio, comincia a cambiare il volto della Chiesa, così come i domenicani, gli ordini mendicanti in generale che si sviluppano anche nelle Università. Gli ordini nuovi portano anche nuove tensioni nella Chiesa: la curia non riesce a risolvere le difficoltà che nascono all’interno della cristianità.

                    Il modello scolastico

Non si sa esattamente il momento in cui è nato e neanche grazie a chi. Boezio lo ha abbozzato. Dopo lo utilizzarono Anselmo, Abelardo e anche, seppur in misura minore, Pietro Lombardo. Questo modello rispecchia qualcosa che era presente sul piano di tutte le scienze. Nelle Università si presentò come novità la volontà di sistematizzare le conoscenze del presente; fece parte di questo desiderio anche l’autoriflessione sul “fare scienza”; nasce così l’epistemologia che riflette sui propri metodi.
La volontà di sistematizzare era legata quindi all’ambiente universitario, ambiente in cui stava emergendo il metodo della disputatio, le dispute pubbliche tra professori, veri e propri momenti culturali e di spettacolo. Lo stile del fare scienza era dunque vivace, interessato e provocatorio.
Il rappresentante massimo e più conosciuto di questo modello è Tommaso d’Aquino. Tra gli importanti studiosi di Tommaso, da segnalare i libri di M.D. Chenu, il quale ha dimostrato che Tommaso è accessibile a tutti; ha inoltre una incredibile capacità di contestualizzare la figura di Tommaso. In Italia uno dei maggiori esperti è I. Biffi. Un altro importante esperto è Torrell.
Rappresentiamo il modello di Tommaso in questo modo:

 








L’asse che unisce ragione e fede è un asse in movimento perenne, che sottende una tensione salutare. Da una parte (a) vale il fatto che la Fede è più della ratio, della filosofia. San Tommaso è un credente, e vede quindi il mondo intorno a sé avendo sotto le mani il testo sacro. Per lui la Bibbia era qualcosa che illuminava il mondo che lo circondava. Il mondo partecipa di una sapienza superiore alla quale il mondo partecipa per gradi. La visione medievale della sapienza, della società e delle cultura è piramidale, il cui vertice è ovviamente la pienezza di Dio. La verità vera, la vera sapienza, sta sopra l’uomo; essa irriga la terra e ciò che sta sotto di essa. L’uomo può partecipare a tale sapienza attraverso dei mediatori (Scrittura, mondo creato …). Tommaso pensa tutto in base ad una prospettiva credente. Il rapporto tra fede e ragione è dunque asimmetrico. Allo stesso tempo appena diventa chiaro l’orizzonte (a), all’interno dello spazio di fede, Tommaso scatena la ratio (b). in questo è presente la metafisica di Aristotele, la ratio che si nutre delle scoperte logico-razionali di Aristotele. La Ratio in Tommaso non è solo riferimento ad Aristotele, ma anche a Platone e ad altri filosofi greci. Fondamentalmente, però, la ratio che lui utilizza è dialettica, pensa per mezzo delle domande e del confronto tra si e no su un certo tema. Nella prima quaestio di tutta la Summa, all’articolo primo e ottavo, Tommaso parla di queste cose.
Tommaso era convinto che ciò che è naturale è anche buono in se. Così la ratio è capace di Dio, ciò che è creato è capace di accogliere la sapienza di Dio che discende come la pioggia per irrigare la terra: la grazia presuppone la natura, dirà in una delle prime quaestio.
                       Tradizione
Tommaso è aggiornatissimo: cita Dionigi, Agostino, Gregorio magno, Boezio, i cappadoci. Per Tommaso la tradizione è anche tradizione teologica: cita i suoi colleghi, non solo “i padri”.
                       Scrittura
Nelle mani di Tommaso la scrittura ha un significato particolare; la sacra scrittura ha due sensi: letterale e spirituale, ma soltanto uno è quello importante: il senso letterale. Questa sua affermazione porterà all’elaborazione di quello che noi oggi conosciamo come metodo storico - critico.

           

                    Il modello di Lutero

Lutero vuole fondare tutto sul principio della claritas interna, dell’illuminazione interiore. È lo Spirito santo che da la grazia, la sola gratia per capire. Anche la giustificazione per la fede è legata a questa claritas. Lutero non pone mai domande astratte su Dio e la Chiesa: si pone sempre interrogativi legati al “per me”, “per te”, “per noi”: è convinto che il teologo non può fare una teologia che si stacchi dalle sue domande personali. Al contrario del modello scolastico, non si accontenta delle coordinate universali e prospettiche. Accentua una centralità antropologica del teologare, un’istanza soggettiva. La domanda circa la possibilità di trovare un Dio misericordioso, porta ad una teologia preoccupata della soteriologia. La sua preoccupazione non è conoscitiva ma soteriologica: in Lutero è fortissima l’ansia di voler essere salvati. Il diavolo sa molte cose su Dio, ma la sua preoccupazione non è la salvezza: così intende Lutero, quando fa questo esempio, la centralità del tema salvifico.
Il baricentro del suo modello è nell’iterazione fede-scrittura.


 

                        
                        
                        
                        


                       Tradizione
Che importanza hanno vista l’importanza della fede e della scrittura?  Nei suoi scritti, Lutero non parla mai male della tradizione. Egli non voleva all’inizio creare un modello di Teologia e di Chiesa alternativo, bensì correttivo. Successivamente per le sue scelte personali e per il contesto storico la sua è diventata una opposizione; il suo modello e la sua visione della Chiesa si è così sviluppata in un’alternativa contro le istituzioni cattolico-romane.
Lutero ha cercato un’approvazione nei vescovi, i quali non hanno spesso in considerazione le sue posizioni; Lutero si sentì così tagliato fuori, non valorizzato. Certamente Lutero era un ribelle, ma questo non può farci dire che non prendesse in considerazione o almeno non studiasse i padri della Chiesa. Quando Lutero scrive, e questo è un tratto nuovo della teologia, inserisce riferimenti biografici nelle sue opere: nel catechismo che ha scritto, Lutero fa continui riferimenti a sé, per deridere la fobia di chi si vuole attaccare a delle formule o a dei dogmi.
Egli considera i padri importanti, ma in quanto teologi come lui, passibili dell’errore; vi sono punti di convergenze, ma ci sono molti padri che si oppongono l’uno contro l’altro. Lutero dice di voler leggere S. Bernardo. Secondo Lutero Bernardo preferirebbe bere dalla sorgente piuttosto che dal rivolo, a meno che non sene serva per giungere alla sorgente. Allo stesso modo solo la scrittura deve restare maestro e giudice. Per Lutero bisogna andare verso la fonte; è meglio andare verso la scrittura stessa che seguire i Padri.
I concili sono per lui un tema molto importante, soprattutto i primi quattro concili della Chiesa. Ma l’obbedienza di Lutero nei confronti degli elementi conciliari non è cieca; per lui i concili sono una specie di corte suprema dogmatica, ma la parola scritta ed annunciata sta al di sopra dei Concili. La parola è il termine di correzione ultimo, il principio di interpretazione dei concili. Il fatto è che il principio di tradizione nella teologia di Lutero non è base di costruzione, è nella parte nascosta dei due elementi. L’elemento della tradizione è dunque presente, lo stesso Lutero non lo vuole abbandonare, ma non emerge come conferma delle sue posizioni, come punto autorevole. Adopera la tradizione in modo creativo.
                       Ratio
Nell’ottocento si comincia a dire che Lutero è anti razionalista. Effettivamente sembrerebbe che sia così: in molti dei suoi scritti parla della ragione in termini molto dispregiativi, sembrerebbe che la ragione non sia da lui sopportata. La verità è invece diversa. In uno scritto del 1536, Disputatio de Homine, composto da quaranta tesi, parla esplicitamente della ratio. Alla tesi n°4 dice. «è sicuramente vero che la ratio è il capo di tutte le cose, migliore di tutte le altre in questa vita», è per lui qualcosa di divino. «È lei ad inventare e governare tutte le arti liberali e tutto ciò che gli uomini possiedono in quanto a virtù e gloria». Al punto ( prosegue: «la ratio è una sorte di sole e di potenza divina collocati in questa vita per amministrare il mondo». Tesi n°9: «dopo la caduta di Adamo Dio ha confermata questa maestà della ragione, non l’ha eliminata». Perfino il peccato originale non ha indebolito la ragione. Ma il punto di critica di Lutero nei confronti della ragione è che la ratio è adeguata solo se la interroghi in merito alle cose di questo mondo: ma la ragione non può pretendere di parlare della tua salvezza. Non può volare verso l’alto, non può parlare dell’assoluto con le sue sole forze. Per rispondere alla domanda circa la possibilità di trovare un Dio misericordioso la ragione non può avere risposte. Lutero prosegue sostenendo che appena l’uomo entra in contatto con la scrittura e vive un’esperienza di illuminazione, la ragione comincia a funzionare secondo una nuova logica. Una ragione non illuminata di fronte all’eucarestia vede solo il pane, così come di fronte alla Scrittura solo un libro. Ma appena la ragione vive l’esperienza della claritas, comincia a pensare per paradossi e diventa in grado di ragionare secondo la logica della fede. A questo punto per Lutero pensare e credere cominciano a coincidere nella sua visione della teologia.

Il modello di Lutero ha certamente forti limiti, è innanzitutto un soldato, un apologeta della sua riforma. Però il suo modello inizia a determinare la storia della Chiesa e della Teologia. Così come lo costruisce, questo modello va avanti ma con qualche sostanziale modifica. Vi quindi una sostanziale discontinuità tra ciò che Lutero intendeva a gli eccessi che la chiesa protestante ha oggi assunto.
In questo modello fortissima è l’accentuazione sull’interiorità intesa in termini pneumatologici. Certamente dopo la sua morte, il discepolo Melantone non continua sulla scia del maestro: era un teologo classico. Dopo la morte di Lutero (1546) succede che pian piano l’elemento della ratio comincia ad essere recuperato. La ratio comincia ad essere inglobata nell’interiorità. Il modello di Lutero viene così stravolto: la speculazione filosofica diventa un tratto tipico del modello luterano successivo. L’interiorità rimane in connessione con una forte dimensione pneumatologia, ma l’elemento della ratio rimane preponderante. Questa è la ragione per cui i più grandi filosofi successivi proverranno dal mondo tedesco.
                       Maria e i Santi
Lutero scrive un commento al magnificat: non aveva difficoltà di fronte alla figura di Maria. Critica una pietà mariana poco consona alla sacra scrittura. Non avendo un criterio certo do convergenza e confronto dopo Lutero la riforma porta a delle forme di pensiero variopinte: tutti vogliono radicarsi nell’albero della teologia protestante, ma ognuno a suo modo se ne allontana. È chiaro che Lutero pur criticando i padri, non rigetta come principio la pietà mariana, non demolisce il principio della communio sanctorum, pensata come la ricerca del rapporto con i santi e Maria.
Nelle chiese evangeliche luterane, a parte le realtà pentecostali, vi sono due movimenti di fondo:
-          Non bisogna guardare verso il passato: siamo chiesa oggi con quell’identità che si è evoluta dopo la riforma. A questa chiesa non interessa Lutero oggi, ma il modo con cui oggi tale chiesa è fatta, non interessa la teologia di Lutero, ma l’evoluzione che lungo la pista della riforma ha portato alla chiesa di oggi. Per queste chiese Lutero non è più il punto di confronto.
-          La seconda corrente è legata al desiderio di ritorno a Lutero, per comprendere se si è nel bene o nel male. Si parla quindi dell’importanza di recuperare la confessione, essendo Lutero uno che ha sempre dato moltissima importanza ad essa. Questa corrente, se noi cattolici avremo pazienza nello studiare Lutero, potrebbe favorire un dialogo ecumenico profondo. 

                    Il modello  della scolastica barocca

Siamo nel periodo in cui inizia a dominare l’umanesimo rinascimentale: non siamo più a Parigi, città che ha determinato la storia della teologia per diversi secoli. Tutto si sta spostando verso la Spagna. Rimane la squadra dei domenicani e al posto dei francescani entrano in campo i gesuiti. Il tema che divide le due scuole è quello della grazia; gesuiti e domenicani hanno però un forte punto di convergenza: la grande opera di San Tommaso d’Aquino. Tommaso viene spiegato però in prospettive tematiche diverse; mentre i domenicani si incentrano sulla loro interpretazione della teologia e della dogmatica di Tommaso, i gesuiti si concentrano di più sulla morale, sull’azione, essendo più legati alla vita missionaria, attiva.
La mente domenicana è Francisco de Victoria, favoloso teologo di Salamanca. Siamo nel periodo del forte contrasto riforma - controriforma, ma anche in cui la modernità è una preoccupazione, in particolare il colonialismo. Francisco era vicino a Bartolomeo las casas, grande denunciatore delle ingiustizie commesse verso gli Indios. Francisco comincia ad inglobare la sfera del diritto, perfino del diritto internazionale: la teologia comincia a parlare di stato. Accanto a lui Domenico di Soto, Domenico Bagnes  oltre ai gesuiti Gregorio di Valencia e Francesco Suarez. Siamo in un periodo in cui le scienze sono preoccupate dell’epistemologia. Si parla molto dell’importanza delle fonti. Così lo stesso ritorno a Tommaso è percepito come un ritorno alle fonti. Inoltre Salamanca vuole recuperare un pensiero sicuro ed autorevole. Emerge dunque una nuova parola, nuova come ossessione: l’auctoritas. Una fonte dev’essere autorevole, affinché un pensiero lo sia. Si comincia a parlare di infallibilità, anche nel mondo delle scienze.

             120109

Nella visione del magistero neo-patristica o neo-ortodossa è centrale il canone. il problema è come interpretare i canoni dei concili, chi ha il diritto di interpretarli all’interno della teologia ortodossa. Mentre la teologia cattolica ha acquisito l’idea dell’interpretazione del dogma, la teologia ortodossa non sa come interpretare i suoi canoni, formulati secoli fa in contesti diversi tra loro. Nasce così una prassi della cosiddetta oikonimia, che nel contesto ortodosso significa derogare da una imposizione che il canone dà. I teologi scelgono così di interpretare seriamente alcuni canoni al discapito di altri.
Bonhofer, evangelico luterano, sostiene che al centro del concetto del magistero ci sia la parola di Dio. allo stesso tempo dice che la Chiesa deve obbedire alla parola, seguirla e sottoporre ad essa ogni suo essere e parlare. Poi la Chiesa deve continuare ad esercitare il suo magistero nella fedeltà alla parola di Dio: la Chiesa non deve tacere, dire cosa è bianco e cosa è nero. Questo tema è sentito da B., perché egli si trova in un periodo storico (anni venti e trenta) in cui la chiesa evangelica non prende una posizione chiara di fronte alle leggi razziali di Hitler. La chiesa ha una grande responsabilità anche pubblica verso la parola.

                    Fede e ragione

Molti modelli nella loro diversificazione dipendono dal rapporto che si è creato tra fede e ragione. Partendo da questa constatazione un primo dato che viene affermato è che fede e ragione sono due realtà le quali non sono a priori in contraddizione perché stanno in rapporto di originaria unità facendo entrambe parte della realtà dell’uomo. «Tutto l’uomo è credente, tutto l’uomo è colui che ragiona» (Agostino). C’è un’istanza antropologica che fa si che queste due realtà si incontrino nel loro nucleo originario. Nella fides et ratio si parla di una fede naturale e di un pensare naturale. L’uomo dalla sua nascita proprio perché uomo deve esercitare la propria fede e ragione, magari passo dopo passo, ma lo fa. Così diceva anche S. Tommaso: «gratia supponit e perficit naturam». C’è uno strato naturale su cui ci basiamo: questa è l’intenzione, una delle chiavi di lettura della fides et ratio
Se si è spesso arrivati ad un duro scontro tra fede e ragione, se tra le due si è costruito un muro, è accaduto perché c’è stata e c’è una forte riduzione di ciò che è la ragione e di ciò che è la fede. Se io riduco la ratio a qualcosa di solamente dimostrativo e la fede ad un salto irrazionale nel buio, se estremizzo i concetti, si arriva inevitabilmente ad uno scontro. I concetti di ratio e fede sono invece complessi, molto più ricchi di quanto possiamo pensare. Anche gli studi di oggi ci dimostrano quanto la razionalità non sia solo la capacità mnemonica, ma anche speculativa o estetica (comunicare per mezzo di forme estetiche, cromatiche), motoria (legata alla comunicazione attraverso il corpo). Quando parlo della ratio devo stare dunque attento alla riduzione ad un unico aspetto. Già dal punto di vista terminologico dobbiamo renderci conto che la parola ratio va affiancata da altri termini i quali completano l’insieme di un pensiero: la parola ratio indica qualcosa di rigoroso, di dimostrativo. Poi c’è la parola intellectus, che ha a che fare con le antiche parole Logos e Sofia. Così la parola Logos che è talmente piena di significati che una sola definizione non basta: contiene riferimenti alla oggettività e alla soggettività, alla vita di chi la esercita. Poi la parola Sofia; il Sofos di Aristotele è l’unità tra pensiero o vita, pensiero e virtù. Così nella fides et ratio si parla molto di Sofia, di una ragione che nasce dalla consapevolezza di un cammino di conoscenza che va fatto nell’umiltà e nel rispetto della verità che ti attira.

                    Il dogma

Noi come teologi dobbiamo far riferimento a quelle verità di fede che si chiamano dogmi, quelle costanti epistemologiche proprie anche delle scienze matematiche, per esempio. La nostra epistemologia conosce una importante istanza: il dogma.
Cos’è il dogma? Evidenziamo cinque aspetti:
-          Dal punto di vista del contenuto è una verità rivelata.
-          Per quanto riguarda la sua forma è una proposizione dottrinale. Chiunque deve sapere la formulazione ufficiale del dogma se se ne vuole interessare.
-          Il terzo aspetto riguarda il piano oggettivo: il dogma è una verità infallibile di fede. Non si può pensare di cambiare qualcosa, anche solo qualche sfumatura del dogma.
-          Il dogma ha anche applicazioni soggettive sul credente: il dogma cioè obbliga all’assenso personale, deve interpellare nella interiorità.
-          Il dogma comunque rimane una formulazione che volendo fissare una verità di fede, viene fatta nel corso della storia e porta comunque il timbro della storia dentro di sé. Ciò non significa che il dogma mariano, per esempio, valga solamente per alcuni periodi.
La riflessione sul dogma ci invita a pensare che la Teologia non può essere mai una vicenda privata, ma sempre avrà bisogno di una capacità di confessare l’eccedenza delle istanze veritative normative per me e per te. I dogmi sono come un faro da seguire lungo il cammino della conoscenza. La fedeltà al dogma è uno dei presupposti fondamentali della ecclesialità di ogni studente e teologo. I dogmi sono fissati in maniera intelligente ed ispirata affinché il loro discorso possa aiutare alla ricapitolazione finale di tutto in Cristo.

Una cosa è il depositum fide, un'altra è la forma con cui queste verità vengono espresse; ciò non significa che la Teologia cattolica sia sclerotizzata. Se il dogma contiene una verità rivelata, questa verità stessa ha bisogno di essere interpretata, vuole essere espressa attraverso una forma. La teologia non ama espressioni vaghe, ma chiare e precise, ma allo stesso tempo la teologia sa che ogni definizione è in rapporto di asimmetria con la verità rivelata.
Rispetto a Calcedonia, per esempio, molti teologi hanno preferito affermare una verità in positivo, invece che attraverso la via negativa, come il concilio aveva fatto. La teologia interpreta quindi i dogmi, ma le formule di definizione vanno trattate con rispetto e consci della loro oggettività. La mentalità ecclesiale deve essere non la cancellazione della tradizione, ma il saper accoglierla facendo un passo in avanti. Nella teologia non può esserci arbitrio soggettivista: bisogna tener conto con rispetto dell’antichità.

Così rispetto ai dogmi le forme vecchie vanno conosciute e studiate affinché possa formulare forme interpretative del dogma che siano nuove. Ex opere operato: la celebrazione ha in sé una oggettività, ogni sacramento celebrato poggia su una oggettività che ha a che fare con il vangelo di Cristo che si vuole rivelare, si poggia su una azione di Dio salvifica che accade indipendentemente dalle condizioni psico fisiche di chi celebra. Della Teologia si deve dire lo stesso: anche se avete avuto professori che sono umanamente un disastro, se non hanno alterato le costanti teologiche hanno insegnato la verità. C’è però anche da dire che la credibilità (non quella oggettiva) è legata alla santità di chi è prete o teologo. Più completa è la “fides qua” del teologo più maturo e fecondo è il suo pensiero teologico. Questa è la croce di un teologo che dovrebbe cercare di tenere viva nella coscienza la parola che annuncia.

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