Materiale
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Fides et Ratio
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Lo studio dei padri della Chiesa (pubblicato per
la congregazione della dottrina della fede. 1989)
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Interpretazione della Bibbia nella Chiesa.
(1993), Pontificia commissione biblica. Documento presentato pochi giorni fa al
Sinodo da padre Renoir. Testo per chi inizia a studiare la Bibbia.
Prima parte: il termine teologia.
In questo corso cercheremo di riflettere insieme non solo su
che cosa è la Teologia e su come bisogna farla, ma cercheremo di rispondere
alla domanda circa l’essenza della Teologia cristiana e cattolica. La mia
ambizione è quella di farvi innamorare della Teologia. Vorrei non rimanere
sulla superficie, ma che cerchiamo di comprendere la struttura del pensiero
teologico: nonostante il pluralismo teologico, nonostante che la storia della
Teologia abbia molte diversificazioni, anche disciplinari, il pensiero
teologico se è teologico, ha un DNA che è sempre lo stesso. Il pensiero
teologico ha una struttura interna, una codificazione, che da identità al
teologare cristiano. Il teologare cristiano (cattolico) ha una identità. Perché
fare così? Perché viviamo in un’epoca che corre una crisi identitaria. Vorrei
quindi che facessimo una riflessione seria sull’essenza del teologare
cristiano. Dov’è il limite tra teologia cristiana cattolica e tutto il resto?
Cercheremo di rispondere a questa domanda.
Il nostro percorso avrà anche una dimensione storica e
sistematica; ma non intendo limitarmi ad un apprendimento nozionistico, una
sorta di elenco telefonico. È importantissima la capacità di memorizzare quel
che diciamo, ma ciò che conta di più è fissare l’essenziale, anche e
soprattutto cronologicamente. Dobbiamo cogliere l’essenza del pensiero teologico:
certamente è molto più impegnativo rispetto ad uno studio frammentario.
Prendiamo in considerazione subito, come nota di metodo, due
aspetti. Il primo è sottolineato dal documento del Vaticano II Unitatis redit integratio. In esso viene
detto che noi dobbiamo studiare «sotto l’aspetto ecumenico» (n°10). Il secondo
aspetto: vorrei riflettere sull’essenza della Teologia cristiana cattolica,
dicendo che l’identità della Teologia è tratta dal fatto che Dio si è rivelato
compiutamente in Cristo. sono convinto che il parlare di un teologo cristiano
cattolico è diverso da quello di un nostro fratello ebreo o mussulmano.
L’evento della rivelazione, contenuto e metodo, fonda, determina e corregge
ogni nostro pensiero teologale. Un teologo cristiano, per quanto è importante
che sia aperto al dialogo con tutti, alla fine il DNA del suo teologare è
diverso dagli altri pensieri teologici. Non vi sono molti autori che la pensano
come me: io sono convinto che se Dio si rivela in un certo modo, la teologia è
marcata da questo evento, Cristologico – trinitario. Questo corso si sviluppa
tutto attorno al problema dell’identità del pensiero teologico, come già detto.
Il Concilio Vaticano II ci invita ad aprire lo sguardo verso
le altre confessioni: nel fare questo lavoro emerge qualcosa che può
scandalizzare. Al n°17 della unitatis… viene detto che può succedere
che una tradizione può comprendere la verità rivelata in modo migliore rispetto
ad un’altra. Bisogna così cercare le convergenze con la tradizione ortodossa –
orientale, per esempio.
Giovanni Paolo II ha pubblicato l’Enciclica Ut unum sint in cui, tra le altre cose,
dice che si rende conto che nell’esercizio del primato petrino sta una delle
cause della disunità tra i cristiani. Continua dicendo che sarebbe contento se tutti
i pastori e studiosi delle altre chiese si mettessero in dialogo con lui,
riflettere su un tema tipicamente cattolico. Questo significa riflettere sulla
Teologia in modo ecumenico. Cosa significa questo? Significa che io potrò
introdurre Martin Lutero cercando di capire la totalità della sua persona, non
fermandosi ai pettegolezzi superficiali, ma toccando il cuore del suo
teologare. Un altro esempio: quando parliamo di magistero non voglio che voi
pensiate che sia un tema prettamente cattolico. Ci interesseremo anche al fatto
che la teologia ortodossa ha un magistero, così come quella protestante,
chiedendoci sempre: ci possono essere delle convergenze? Tutto quel che faremo
lo faremo per scoprire la bellezza di essere cattolici.
Il percorso sarà diviso in quattro parti, le quali
partiranno sempre dalla domanda circa l’essenza della teologia cristiano -
cattolica. Le prime due parti avranno un spessore storico. La prima sarà
dedicata alla storia del termine Teologia a partire dal suo primo comparire nell’ambiente
greco – pagano. Più vado avanti più mi rendo conto che ha senso girare intorno
ad una sola parola: non siamo nominalisti. Per noi le parole non sono solo un
soffio di vento: noi siamo stimatori delle parole. Noi crediamo alla parola
perché ciò che si dice accade. Le parole hanno una loro storia e contenuto: se
sono arrivate dall’antichità fino a noi è perché si sono arricchite di
significato. La parola teologia arriva da lontano, è stata accompagnata da
altre parole, è sparita in certi tempi e ricomparsa in altri. La storia di
questa parola ha a che fare con l’identità del teologare cristiano: è una
parola densa.
La seconda parte sarà sui modelli storici della teologia:
non ci soffermeremo su tutti i modelli, ma considereremo solo quelli più importanti
che hanno fatto storia nella vita della Chiesa. Ha comunque senso farlo, perché
vedremo che il pensare teologico poggia su una struttura interna che ne
determina la identità. Alcuni elementi fanno parte di questa struttura interna:
Scrittura e Tradizione, Fede e Ragione … Questi elementi sono composti tra loro
in diversa maniera, vengono abbinati in modo diverso a seconda dei modelli di
Teologia. Quindi alcuni modelli di teologia sono diventati tali per il modo con
cui hanno combinato tali elementi. Cercheremo di capire anche perché alcuni
modelli sono crollati, come quello scolastico.
Si arriva all’eresia attraverso scelte epistemologiche.
Certamente si arriva all’eresia attraverso un’impostazione sbagliata della
teologia, e certamente una cosa è vincolata all’altra.
Per il teologo è fondamentale impostare bene il rapporto tra
sé e la tradizione, tra sé e la Scrittura. Dobbiamo chiederci come devono
essere impostati questi elementi dal punto di vista cattolico.
Dall’impostazione di questi tre elementi dipendono le tre grandi correnti
cristiane: cattolica, della riforma e ortodossa. Il problema di differenza tra
queste tre correnti è chiaramente ecclesiologico ma dipende appunto
dall’impostazione teologica.
La teologia ha sempre bisogno di un rinnovamento: deve
sempre confrontarsi con domande e problemi nuovi. Sempre si deve rinnovare ed
avere però anche un punto di centratura perché si possa sempre domandare “sono
ciò che devo essere?”. Questo punto centrale è la prima teologia che è la
rivelazione di Gesù Cristo. Possiamo comprendere la rivelazione di Dio in Gesù
come il teologare di Dio: Dio dice una parola su di sé. Questo è interessante
non solo dal punto di vista dei contenuti ma anche per il modo in cui questo
teologare è accaduto. Ha delle dinamiche che sono tipicamente della teologia
cristiana: la teologia si studia in ginocchio. La teologia dovrebbe imparare ad
avere l’intelligenza della kenotica della rivelazione (Fides et Ratio 93).
Dinamica comunionale: la parola di Dio nasce all’interno di
una comunità e genera comunità.
La rivelazione è un evento storico. Consideriamo questo e
cerchiamo le dinamiche del teologare cristiano a partire da questo fatto, solo
così comprenderemo la differenza del teologare cristiano con quello ad esempio
ebraico.
La parola teologhia non è biblica ma ci arriva da lontano.
Dove arriva? Dove la troviamo? Non possiamo comprendere le cose
nominalisticamente: le parole nascono in un luogo, hanno una storia, crescono.
Analizziamo la parola Teologhia a partire da quattro aspetti: mito, ratio, culto e teatro.
Per quanto riguarda il mito, la parola teologhia la si trova per
la prima volta in un testo di Platone (Repubblica, libro II), che per questo è
considerato padre di quest’espressione.
Il fratello di Paltone e di Socrate dialogano
sull’importanza dell’educazione e sulla mitologia che viene raccontata ai
ragazzi.
“Dobbiamo tener
d’occhio gli inventori delle favole: accettiamo quelle belle, e scartiamo
quelle brutte. Che le madri raccontino ai bambini le tavole ammesse, in modo da
plasmare con esse le loro anime. Nel raccontare le favole non bisogna sostenere
che gli dei si combattono l’uno contro l’altro alimentando reciproche contese.
Non raccontiamo le gigantomachie, in cui gli dei appaiono con i vizi umani e
che si oppongono agli uomini. Che si raccontino i miti dove le divinità
mantengono la famiglia. I giovani infatti non sanno distinguere il significato
letterale da quello allegorico nei miti”. Queste erano le parole di
Abimanto, fratello di Platone.
Risponde Socrate: “Fino
ad oggi né io né tu siamo poeti, ma fondatori di uno stato. Non spetta a noi
creare i miti. Possiamo invece dare i punti di riferimenti perché vengano
creati dei miti che aiutino a vivere e crescere nello stato”.
Abimanto: “Va bene, ma
tali direttive inerenti alla teologhia, quali potrebbero essere?”
Questo è il testo, così inizia la storia del termine
teologia, con questa domanda: quali miti raccontare ai bambini perché crescano
bene? Si potrebbe allora dire con Platone, che non c’è una teologia che non sia
normata. La teologia ha un forte impatto educativo. Ascoltare a Teologhia è
dunque ascoltare i miti.
Allo stesso tempo emerge però anche un altro significato: un
legame tra la teologhia e la ratio.
Nella Metafisica Aristotele utilizza questo termine in relazione alle scienze
teoretiche. Delle scienze teoretiche la teologhia è la più importante, a volte
identificabile con la metafisica, ma molto di più di essa. Ciò che è importante
trattenere è però il legame profondo con la ratio che la teologhia possiede.
Poi ci sono altri significati. Nel mondo greco è utilizzata
nell’ambito cultuale: teologoi vengono chiamati gli adepti al culto (prima solo
quelli del santuario di Delfi, poi tutti). Erano uomini e donne. La teologhia
era dunque proclamare la divinità nell’ambito del culto.
Ambito del teatro.
Nel mondo delle rappresentazioni teatrali si trova la parola teologhia,
soprattutto come termine tecnico: teologheion. È un luogo sulla scena nel
quale, ad un certo momento dello spettacolo, si mostrava la divinità. È
generalmente un luogo elevato e dal quale la divinità dice qualcosa.
Marco Terenzio
Varrone scrive in latino che lavora nell’archivio dell’impero, interessato
allo stoicismo (tutto ciò che sappiamo di Varrone ce lo ha tramandato
Agostino). Scrive dello stoicismo, di come esso si fermava su certi
significati. Egli racconta che gli stoici, vale a dire i greci intellettuali,
conoscevano già la teologhia ed essa aveva per loro tre significati: teologia
mitica (pensiero mitologico che riguarda le divinità, è una teologia per
l’intrattenimento) teologhia naturalis (la teologia portata avanti dai filosofi
che si interrogano sugli dei di cui parlano i miti, sull’essere di queste
divinità; corrrisponde all’importnaza del rapporto ratio-teologhia ed è la
teologhia più nobile, più importante) e teologhia civilis (quella legata al
culto, quella degli adepti al culto che dovrebbero sapere cosa si celebra; è
una teologhia con la quale lo stato può guidare la coscienza degli uomini,
serve allo stato). Delle tre la più libera è quella naturale, perché nessuno
può controllare un fiolosofo, non è al servizio né dell’intrattenimento né
dello stato.
Ora la domanda può essere: come questo termine è arrivato
nel mondo della cristianità? Non lo troviamo né nell’antico né nel nuovo
testamento. È un termine che inizialmente ripudiava le prime generazioni di
cristiani, era considerato non adatto. Dobbiamo innanzitutto sapere che ci sono
due vie, una occidentale e una orientale. Il termine teologia va verso
l’oriente e poi verso l’occidente. Due percorsi, uno più facile e rapido,
l’altro più difficile e lungo. Ci vogliono 8 secolo perché si inizi ad aver
bisogno della parola teologhia in occidente. Perché ci vuole così tanto? Perché
ad un certo punto la parola teologia arriva e con tanta importanza? I padri
apostolici (autori cristiani più antichi dopo il NT, considerati importanti per
l’interpretazione del canone biblico e molto legati alla tradizione apostolica)
ad esempio non utilizzano la parola teologia. La usano semmai i padri
apologeti, usato però con molte riserve: in loro teologia significa la dottrina
pagana, la mitologia (comunque i padri apologeti apprezzavano molto i filosofi
pagani).
È ad Alessandria d’Egitto che il termine Teologia viene
riscattato. Lì vive un ebreo, filone d’Alessandria, che, da ebreo, non ha
timore nell’utilizzare la parole teologia. Dice che Osea è un teologo. Sulla
sua scia gli altri Alessandrini introducono abbondantemente la parola teologia
nei propri scritti.
La parola Teologia emerge già con vari significati, fin
dalle origini, almeno quattro. Piano piano il termine venne usato con la
predilezione di indicare una scienza speculativa sulle divinità. Come mai
questo termine teologia entra nella sfera della cristianità? Perché non ne è
stato inventato un altro? Il punto di passaggio del termine teologia al
cristianesimo è stato Alessandria, con il suo teologo e filosofo di maggior
spicco l’ebreo Filone di Alessandria. Egli
fu contemporaneo a Gesù (20 a.C – 50 d.C) e volle interpretare i testi
dell’Antico Testamento interpretandoli come filosofici. Filone ha usato la
parola Teologia in riferimento a Mosè, il quale parlando di Dio è il primo
teologo, secondo Filone. L’entrata di questo termine nel mondo occidentale sarà
posteriore. Nella storia della teologia, con padri orientali intendiamo quelli
che parlano il greco.
La scuola di Alessandria venne fondata da un certo
catechista Panteno; i primi a seguirlo furono Clemente e poi il suo discepolo Origene. Quest’ultimo è stato un
grandissimo della fede cattolica, anche se ha fatto molti errori (questo è
concepibile se pensiamo che siamo agli inizi del pensiero speculativo
cristiano). Clemente, mente aperta com’era, sapeva che la parola Teo-logos
andava riferita al mondo greco pagano. Anche lui indicando questa parola nei
suoi scritti è cosciente di indicare una mitologia, ma sceglie di continuare ad
usarlo anche per parlare degli antichi profeti, a partire da Mosè, scrittore
della Torah. Con i successivi alessandrini, piano piano il termine Teo-logia
diventerà proprietà quasi esclusiva del cristianesimo. Dopo questa apertura di
Clemente, Origene fonda la prima scuola teologica del mondo cristiano. Era un
intellettuale favoloso, vulcanico e mai domo nella ricerca. Lui fu uno dei
primi intellettuali che inizia a adoperare il termine teologia sotto un
significato sempre più cristiano. Origene utilizza questo termine anche in
riferimento ad altre religioni (egizi o persiani). Allo stesso tempo quando
Origene parla della Teologia, parla di qualcosa con caratteristiche omologiche:
professare Dio, la divinità. Per questo parla di Gesù come colui che parla di
Dio, che professa Dio. Origene non fu solo un teologo esegeta, ma anche un
teologo spirituale, un mistico. Proprio in questa sfera, parlando della
spiritualità cristiana, introduce la parola teologia. Quando Origene parla
della spiritualità, parla dei tre gradi della
formazione spirituale. Il primo è il practichè, quel grado di spiritualità per cui
l’uomo vive la catarsi andando verso l’amore nell’amore. Il phisichè è quel grado per cui l’uomo già purificato, è
in grado di contemplare la realtà creata, la natura. Il terzo grado è la Teologia.
Origene lo chiama con questa parola, pur essendo cosciente che si trattava di
una parola pagana: Origene vuole indicare quel percorso secondo cui l’uomo
entra dentro il Logos. Per Origene la teologia non è un’operazione speculativa
che coinvolge solo la mente, ma una contemplazione che diventa visione, la
quale coinvolge completamente tutto l’uomo. Si tratta di una esperienza
antropologica totale: questo terzo grado della spiritualità è la completa
contemplazione umana.
Dopo Origene Eusebio di Cesarea. Il cristianesimo,
grazie a Costantino, diventa libero, una religione di stato. Così come gli
edifici romani, i templi pagani vengono “smontati” per costruire le Chiese
cristiane, anche sul piano intellettuale e linguistico il termine teologia
inizia ad essere utilizzato come se fosse esclusivamente proprietà cristiana.
Cosa doveva prevalentemente significare questo termine?
La professione della divinità, ma non un qualsiasi Dio:
il Dio cristiano. Nel IV e V secolo –secoli importantissimi per la
cristianità- le discussioni cristologiche e trinitarie erano molto accese e
toccavano in un qualche modo tutti. In una delle opere dei Cappadoci, viene
descritto ciò che accadeva in quei secoli: della Trinità e della divinità dello
Spirito se ne parlava ovunque nelle terme e dal panettiere. Nel IV e V secolo
il termine teologia viene arricchito di una nuovo significato: implica sempre
di più la professione di Dio come Trinità. Intanto nasce un altro termine: oikonomia,
ad indicare un discorso della presenza di Dio nella storia, Dio che si avvicina
al mondo e all’umanità, che si incarna. A volte tale termine viene utilizzato
con un altro significato: oggi, per esempio, viene utilizzato per indicare la
deroga dall’osservazione precisa dei sacri canoni, nella teologia ortodossa. Il
sacro canone (di solito un detto dei padri) indica un dovere a cui devi
adempiere. Ma spesso succede che vi siano laici nel mondo greco che sono più
colti dei preti (i teologi sono in maggioranza laici) ai quali viene applicata
la oikonomia rendendo possibile che siano loro a predicare.
Che effettivamente il termine teologia
sarà nel IV e V secolo legato al tema trinitario, ci viene confermato da
moltissimi intellettuali dei tempi. Per esempio da un importante discepolo di
Origene: Evario Pontico. Egli
introduce al terzo grado una concezione della Teologia come koinonia, cioè la partecipazione
dell’uomo al mistero trinitario di Dio. Ecco perché nasce nell’Oriente
cristiano una grandissima stima verso S. Giovanni evangelista, San Gregorio di
Nazianzio e san Simeone, chiamato il nuovo teologo.
Gregorio di Nazianzio
è uno dei grandi Cappadoci che sottolinea il legame, tra teologia e Trinità.
Nelle sue orazioni, soprattutto la 27 e la 28, Gregorio sviluppa la sua
concezione di Teologia. «Proibisco la teologia non in quanto cosa empia, ma in
quanto inopportuna». Gregorio non dimostra l’inopportunità della teologia, ma
la sua versione ariana. Per lui la teologia significa salire con cuore e
pensiero verso la Trinità, «la teologia non deve essere un discorso su Dio
fatto a tutti, non deve essere acquistata a basso prezzo senza staccarsi da
terra». La vera Teologia è anche qualcosa di arcaico, una disciplina che deve
essere seguita sotto certe condizioni. «non compete a tutti la teologia ma a
coloro che si sono esercitati, hanno intrapreso un cammino di purificazione».
Anche San Tommaso dirà che il vero teologo deve conoscere l’ascesi, presuppone
una purificazione interiore. Gregorio è sdegnato di fronte all’arianesimo: per
questo dice che la vera teologia non ha bisogno di tante parole, non tutti sono
in grado di affrontarne gli argomenti e non ogni occasione è adatta alla
teologia. La teologia deve essere fatta secondo una giusta misura. Questa espressione
descrive massimamente la teologia di Gregorio. Nella orazione 28 Gregorio
ribadisce sinteticamente che il teologo, se è un teologo vero deve discutere
con persone pure della teologia. Non parla di teologia come oikonomia; la teologia deve essere fatta
affinché la luce del pensiero coglie la luce che è emanata dall’argomento. “Dio
da Dio, luce da luce”. Il teologo vero deve parlare solo con coloro che sono
interessati, affinché il discorso non sia sterile. Terzo punto:, il teologo può
parlare di teologia solo quando ha raggiunto la tranquillità della meditazione.
Infine, quarto punto, la teologia deve essere fatta secondo giusta misura, né
una parola in più o in meno.
Andiamo ora verso Dionigi
Areopagita, autore misterioso importantissimo, del V – VI secolo. Nominiamo
questo autore, perché nelle sue opere comincia a distinguere tra due Teologie.
Una è segreta, occulta, che invita al silenzio, che si esprime attraverso
simboli ed allegorie. Un pensiero che per dire sceglie la strada della
negazione. Dall’altra parte c’è una teologia del voler dire, la quale vuole
insegnare, persuadere, pensare e volare con il pensiero speculativo verso il
mistero di Dio. La prima teologia viene chiamata Teologia apofatica, la quale potrebbe essere simboleggiata
dal Mosè che si mette il velo di fronte al mistero di Dio, una teologia che sa
che Dio è sempre più grande di qualsiasi pensiero umano. La seconda è la Teologia catafatica, più coraggiosa
che vuole penetrare nel pensiero. Ancor’oggi nella teologia ortodossa vengono
usati questi due termini.
Andiamo ora verso il mondo latino. Cicerone quando utilizza il termine teologia pensa alle mitologie
greche. Ma Tertulliano, II – III
secolo, conosce bene Marco Terenzio Varrone e la triplice divisione tra le
teologie: naturale, mitica e civile. Però Tertulliano è piuttosto critico nei
confronti della divisione di Varrone. Agostino,
che ha trascritto i testi di varrone, condivideva abbastanza, secondo
Ratzinger, la predilezione di Varrone per la teologia naturale. Agostino
definisce la teologia come la ragione o discorso intorno alla divinità. Con
questa definizione apre all’uso di questo termine da parte di qualsiasi
persona.
La persona chiave è Boezio,
che si è adoperato per tradurre i classici greci in lingua latina. Quando parlo
dei classici intendo Platone ed Aristotele. Boezio conosce il significato che
attribuisce alla parola Teologia Aristotele: una scienza filosofica, razionale.
Per questo inizia ad utilizzare nelle sue opere la parola Teologia riempiendola
del suo significato aristotelico. Boezio è stato poi dimenticato e
perseguitato, ma con questa sua operazione permette al termine teologia di
entrare nel mondo occidentale. Fino all’VIII – IX secolo l’occidente non è
attratto dalla parola Teologia. Proprio in quei secoli viene commentato,
ritrovato e ripubblicato Boezio, così come scoperto e tradotto in occidente lo
Pseudo Dionigi. Queste due scoperte influiscono moltissimo il modo di pensare
del mondo latino: sono stati quel cavallo di troia attraverso cui entra nel
mondo latino questo nuovo termine. Nasce con la scoperta di Boezio, una sorte
di età boeziana. Lo commentarono anche i grandi teologi dell’epoca: Alquino
(teologo di Carlo Magno), Abelardo e Anselmo. Questi tre teologi furono
importanti nel portare il significato boeziano di teologia. Tra questi il più
grande fu Abelardo, un uomo dalla
dialettica affascinante ed il pensiero sofisticato. Fu proprio lui ad
utilizzare il termine teologia in latino per disegnare un’opera sistematica
dedicata alle cose divine. Questo prima di lui non c’era. Il mondo latino
inizia ad aprirsi ad un metodo nuovo di pensare, in quei secoli: l’Ars dialettica. Assieme alla dialettica
entra e si impone un personaggio: Aristotele ed il suo pensiero. Aristotele
suscitava il fascino di coloro che si occupavano delle scienze naturali (logia
e retorica) che di per se non avevano a che fare con Dio. Il suo concetto di
scienza diventa successivamente determinante per il nostro termine teologia.
Nacquero due termini importantissimi nel sapere. Sacra pagina: legato agli
ambienti monastici benedettini. Sacra dottrina: legata alla dialettica del
mondo accademico.
Siamo nell’ottavo-nono secolo, quando avviene la riscoperta
degli scritti di Boezio e di Aristotele. La teologia divenne un pensare sui
principi e cause prime. Cominciamo a parlare di “luce dall’oriente”, con la
scoperta di Dionigi l’Areopagita ed un inizio di significato simbolico.
Tra i più grandi Abelardo, forse, è stato il primo ad aver
chiamato Teologia, un’opera sistematica dedicata alla riflessione sulle cose
divine.
Tutte queste scoperte avvengono in uno spazio già pieno,
saturo di riflessioni su Dio, anche linguisticamente, anche se i termini
teologici non erano ancora completamente acquisiti. Nello spazio della
cristianità latina vi sono due temi che indicano la riflessione su Dio: la Sacra Pagina o Pagina Sacra o anche Sacra
Scriptura che indicavano riflessioni su Dio e la Sacra Dottrina o Dottrina
Sacra. Quest’ultimo tema indicava un altro metodo nel riflettere sulle cose
di Dio. Piano piano questi due metodi vengono sostituiti dalla Teologia: come
avviene questo processo?
La Sacra Pagina
nasce con i padri della Chiesa, è uno stile di riflessione sui misteri della
fede, legato ai grandi autori dell’epoca patristica, tra i quali Agostino.
Quelli, infatti, che la vorranno successivamente difendere, intendevano
soprattutto difendere Agostino e la sua sopravvivenza. Nel testo De doctrina cristiana Agostino riflette
sul come studiare la scrittura e presenta alcuni metodi di approccio:
letterale, allegorico, simbolico, anagogico … In che senso tale metodo della Sacra Pagina è legato alla Sacra
Scrittura? Il testo sacro veniva considerato come un testo che offriva
l’approfondimento di importanti temi riguardanti le verità rivelate. Il testo
sacro è presentato come una miniera in cui trovi le risposte a tutte le domande
sulle verità della rivelazione. Allo stesso tempo la Sacra Scrittura ha una sua
autosufficiente: non solo la Bibbia ti indica quali temi sono importanti nella
comprensione di Dio, ma ti indica anche degli approfondimenti, magari nel
collegamento ad altri libri. Da questi presupposti è nata la Sacra Pagina. Questi maestri seguivano
letteralmente l’ordine tematico che la Bibbia suggeriva nelle loro esposizioni.
Verso il settimo secolo succede che l’ordine degli argomenti che i maestri
della Sacra Pagina volevano
affrontare non fu più quello biblico, ma quello logico. I nuovi temi furono:
Dio e il suo mistero, gli angeli, l’uomo e la sua salvezza. Lentamente (IX
secolo) entra nella sacra pagina l’importanza delle autorità: si ricorre sempre
più spesso ai padri della Chiesa, ai testi liturgici, ai concili e ai teologi
medievali. Intorno al X secolo, alcuni maestri della Sacra Pagina, soprattutto
monaci benedettini, per essere credibili e portare i loro studi al di fuori dei
monasteri nelle università, pensarono di introdurre il concetto stesso si
scienza elaborato da Aristotele, attraverso l’usa di un’arte considerata allora
pagana: la dialettica. Entriamo così nell’ultima versione della Sacra Pagina che ha ormai abbandonato le
sue origini, cedendo all’uso scientifico della dialettica, per il desiderio di rimanere
al passo coi tempi.
Il genere della Sacra
Dottrina si trova su di un grado più evoluto rispetto a quello precedente.
Diventa un termine molto utilizzato dagli scolastici, un genere tipico
dell’ambiente universitario. La sacra pagina era fatta dai monaci in un
contesto di vita quotidiana comunitaria e spirituale, che concepiva la Bibbia
come testo di preghiera e meditazione e teneva come centro le sentenze
formatesi su opinioni autorevoli. Lo stile della Sacra Dottrina, invece, è più
sulle questiones: si parte da un
dubbio, da un problema. La Sacra Dottrina contiene alcune costanti:
innanzitutto l’arte della dialettica, il cui maestro fu Abelardo. Quest’arte
pensa per contraddizioni, in modo da creare uno spartiacque, tra una serie di
opinioni pro e contro. Un'altra costante di Sacra Dottrina è Aristotele. La sua
figura si rende presente soprattutto nell’università parigina, a causa
dell’influsso delle altre arti che venivano insegnate. Aristotele comincia ad
imporsi con molta forza, soprattutto in riferimento al suo concetto di
Scienzia, di Episteme. Le arti libere cominciano a riflettere anche su se
stesse, ad interrogarsi su di se come arti: cosa siamo? Siamo una scienza o no?
I saperi si interrogano sui propri metodi ed identità. Nascono così da queste
auto riflessioni domande epistemologiche. La Sacra Pagina non ha mai avuto
domande del genere su se stessa, non ha mai riflesso pienamente sulla ricerca
della propria identità, con la preoccupazione di essere scientifica.
Cosa significa il concetto di Episteme in Aristotele? Nella
Metafisica di Aristotele, la prima questione riguarda proprio quella sapienza e
sofia, che lo stesso Aristotele chiama Scienza. Il sapere scientifico deve
nascere da principi certi e che va oltre il visibile. Per Aristotele la scienza
non si concentra sui particolari, ma sugli universali, cu ciò che sta dietro,
che anima il mondo. La scienza non è frammentaria, ma unita.
Le questioni della sacra dottrina cominciano sempre da un sembra che (videtur quod). Poi vi è il
duplice in contrario (sed contra) e
il classico finale sintetico del rispondo
(respondo dicentes).
La Sacra Pagina comincia ad invecchiare nel Decimo secolo,
nascono opere ibride che contengono elementi tradizionali della Sacra Pagina e
elementi nuovi della Sacra Dottrina. All’interno di queste opere, troviamo
quelle di Pietro Lombardo (†1160), i
Quatuor Libri sententiarum o Liber
Sententiarum (1150). Su questi quattro libri delle sentenze, si è studiato
fino all’anno 1500 circa e tutti i grandi del medioevo l’hanno studiati e
commentati. Il primo libro contiene il tema dei misteri divini, il secondo i
misteri della creazione (angeli, uomo, peccato, grazia), il terzo
l’incarnazione di Cristo e infine il quarto libro i sacramenti.
Ad un certo punto succede che il termine teologia comincia
ad essere legato agli altri due termini (Sacra Pagina e Sacra Dottrina). A
partire da Bonventura, si cominciò a sostituire la parola Sacra Pagine con
Teologia, nel tentativo di salvaguardare la prima. I francescani erano legati
alla sacra scrittura, soprattutto per il loro legame con Agostino.In questo
tentativo viene anche introdotta qualche cosa della dialettica e del far
scienza. Anche i maestri della sacra dottrina cominciano ad utilizzare la
parola Teologia, perché da molti considerata più moderna, vicina al mondo
greco, filosofico e al concetto aristotelico di Scienza. Perché tutti vogliono
prendere questo termine come qualcosa di nuovo, che potrebbe migliorare e
salvaguardare i contenuti? Perché dietro il termine teologia, si sentiva molto
la vicinanza di Boezio, del sapere speculativo-razionale. Ma tale parola era
legata anche ad un altro grande: Abelardo. Quest’ultimo si permise di
utilizzare il termine teologia inserendolo nel titolo di sue tre importanti
opere: Teologia Summi Boni (1120), Teologia cristiana e Teologia scolarium. Quando scrive queste
tre ed altre opere, Abelardo deposita tutta la sua tensione dialettica; non va
verso la Scrittura, è un logico, interessato alle questioni speculative,
soprattutto il mistero della Trinità. Le sue riflessioni sono più scorrevoli di
quelle di Tommaso, ma anch’esse celano la struttura del si – no – sintesi. La
parola Teologia ha dunque all’inizio il copyright di Boezio e Abelardo. Nelle
sue opere Abelardo non vuole far altro che dimostrare che le verità di fede non
sono irrazionali.
Tutte queste vicende ci fanno capire che lo spostamento del
termine teologia verso il mondo latino è molto tattico: la teologia si comporta
quasi da virus, che viene inconsapevolmente preso dai maestri della Sacra
Pagina e della Sacra Dottrina. La Sacra Pagina è il primo termine che scompare
dalla storia della Teologia, la Sacra dottrina scopare successivamente intorno
al XIV secolo.
Spendiamo una parola sul Doctor
Seraficus Bonaventura. Si tratta di un teologo favoloso, preoccupato per le
vicende drammatiche del suo ordine e cosciente che il virus della Teologia
stava entrando nella Sacra Pagina. In Bonaventura i termini Sacra Pagina
vengono utilizzati spesso identificati a Teologia. Questo avviene non senza
difficoltà: a volte dice che è possibile ridurre tutto alla teologia intesa
come la Sacra Scrittura, a volte parla della stessa teologia quasi con
disprezzo.
Consideriamo ora il Monologion
di Anselmo. Nell’introduzione confessa di aver scritto quest’opera spinto
dai confratelli benedettini, ai quali aveva tenuto delle lezioni. In queste
lezioni riflette sull’argomento di Dio (la sua essenza, la Trinità…) senza far
riferimento all’autorità biblica, ma mostrando come la verità di fede è accessibile
alla ratio. Questo tentativo, insieme
a quello di Abelardo, è già un forte preavviso che sulle verità di fede era
possibile parlare senza attaccarsi alla Sacra Scrittura, per dimostrare quanto
la ragione fosse forte nel capire le verità di fede.
La scuola francescana (Bonaventura) si muove in una
direzione di salvaguardia della tradizione e della Scrittura, annusando il
pericolo di una eccessiva razionalizzazione dei concetti di fede. A tale
ordine, si affianca un altro ordine allora giovane: i Domenicani. Si tratta di
un ordine mendicante che sotto la benedizione dei vescovi grandi cancellieri
comincia a penetrare nelle università. I domenicani si impegnano nello
sviluppare lo stile della Sacra dottrina. Qui abbiamo a che fare con Alberto Magno, Albert Bollstaed,
originario tedesco, il quale girando l’Europa (da Colonia a Parigi) si ritrova a studiare molto le
scienze della natura, dalle piante alle stelle, insieme – ovviamente – alle
verità di fede. Alberto Magno è importante per il tema che stiamo trattando, a
causa della sua enorme affezione ad Aristotele. Non vede di cattivo occhio il
fatto che la filosofia pagana si avvicini al mondo delle Università: si rende
conto che la cristianità doveva trovare il modo di comunicare con la modernità.
Teniamo conto che l’Aristotele di certe opere fu condannato (1210, 1215, 1226,
1232, 1263) dalle autorità ecclesiastiche. Ma Alberto Magno sente una certa
libertà nel citare nelle sue lezioni con coraggio Aristotele. Era convinto che
il filosofo greco poteva arricchire la fede cristiana. Tra le altre cose
Alberto Magno tentò di non imprigionare la riflessione della fede attraverso
una accettazione ingenua della scienza aristotelica. Ha voluto cercare punti di
contatto tra la fede e il modo di far scienza del filosofo. Per esempio: la
dove Aristotele dice che la scienza deve essere unita ai pochi principi primi,
Alberto Magno cerca di dimostrare che questo vale anche per la Sacra Dottrina,
così come per la questione degli universali.
Tommaso d’Aquino ancor
più disobbediente di Alberto, fu accusato e difeso dal maestro Alberto Magno.
Questo ci rivela la cifra dell’amicizia che univa i due, l’amore alla
razionalità. Per quanto riguarda la parola Teologia, sembra che Tommaso la
voglia ignorare. Nelle 8767854 parole che compongono la sua opera, la parola
Teologia compare lo 0,0015% delle volte. Questo accade perché lui usa quasi
esclusivamente il termine Sacra Dottrina. Quando Tommaso utilizza il termine
Teologia non utilizza un unico significato. Ve ne sono quattro:
-
Teologia come un sapere supra ratione, un sapere che arriva attraverso la ispirazione
immediata. Allo stesso tempo questo sapere necessita di un tentativo di ragione
nel comprendere ciò che viene intuito. Un sapere che era sopra razionale, ma
allo stesso tempo accessibile alla razionalità.
-
Sotto
l’influsso di Boezio Tommaso associa il termine teologia alla scienza o
filosofia prima.
-
Teologia come conoscenza apofatica, una teologia
del simbolo, discreta, una teologia di poche parole. Qui v’è tutto l’influsso di
Dionigi l’Areopagita.
-
Teologia civilis, la sfera del culto.
Vi è un’altra cosa da sottolineare: S. Tommaso fa
un’operazione decisiva per la storia del termine teologia. L’evento ispirativo
della sua Teologia era di sicuro l’Eucarestia, fonte della sua spiritualità ed
esperienza mistica. La sua Summa non
fu conclusa da lui, quasi a sottolineare che Dio è sempre più grande di ogni
linguaggio, mai racchiudibile in un concetto.
Nella prima parte, prima questione della Summa, Tommaso si chiede se la Sacra dottrina
sia o meno una scienza. Per lui la Sacra dottrina va incastrata nella visione
scientifica aristotelica. L’articolo secondo è fondamentale per questa
questione: si chiede se la sacra dottrina sia scienza. Nel rispondo Tommaso afferma che la sacra dottrina è una scienza; lui
sa bene che, secondo Aristotele, affinché un sapere possa dirsi scientifico,
tale sapere deve procedere da principi noti, che possiedono una loro evidenza.
Tommaso sa che la sacra dottrina è un sapere che non può avere un contatto con
i principi primi a livello della loro essenza. Allora Tommaso si aiuta con
Aristotele stesso: Aristotele sostiene che una scienza può dirsi superiore
(possiede un contatto diretto con i principi primi) o inferiore (ha contatto
con i principi primi indirettamente attraverso una scienza superiore). Secondo
Aristotele la matematica ha contatto diretto con i principi primi, mentre la
musica – per esempio – ha contatto ai principi primi tramite la matematica. A
questo punto Tommaso distingue la scienza tra subalternans e subalternata. La prima racchiude la
matematica, la seconda – per rimanere nell’esempio – la musica. Tommaso
sostiene che la dottrina sacra è una scienza subalternata alla scienza
subalternans; quest’ultima è quella che ha Dio su se stesso e che hanno i beati
e gli angeli, e che racchiude con evidenza le verità di fede. La sacra dottrina
non è minore rispetto alle altre scienze naturali (come la matematica), perché
poggia su di una scienza divina di livello evidentemente maggiore. Anche se subalternata
la sacra dottrina è quindi la scienza per eccellenza. Tommaso porta la
riflessione sulle verità di fede su un piano diverso rispetto a quanto si è
fatto prima di lui. Dopo Tommaso si comincia a parlare di Teologia
identificandola con quella operazione con cui si vuole sistematizzare la verità
di fede, così come la sacra dottrina era utilizzata dallo stesso Tommaso.
Enrico di Gant (†1293)
vuole dimostrare che il fare riflessione sulle verità di fede sia una pazzia.
Ma contestando questa operazione di Tommaso, parla non più di sacra dottrina,
ma di teologia. Questo termine all’inizio grida lo scandalo dell’operazione di
Tommaso, per questo viene utilizzato, per indicare una novità. Il termine sacra
dottrina, così come sacra pagina, non
viene più utilizzato. Il termine Teologia, nel mondo latino, irrompe legato
alla questione circa l’opportunità o meno di filosofare in merito alle verità
di fede. Si tratta del rapporto tra fede e filosofia, fede e sacra scrittura.
Tommaso era convinto che occorreva dire di sì alla filosofia.
Ma la storia del termine Teologia non si chiude qui. Dopo
Tommaso si comincia ad assistere a preoccupate critiche nei confronti
dell’approccio tomista. Nella dispensa sono spiegati i critici della operazione
tommasiana. Tra questi critici vi sono anche grandi stimatori di Tommaso: Goffredo Fontàn, per esempio. Il quale
non condivideva l’impresa di poter impegnare la ratio filosofica, avversava il
concetto di scientificità della fede. Goffredo apparteneva al clero secolare,
era un belga. Per avversare Tommaso, Goffredo sostiene che il teologo in realtà
è colui il quale deve fare i conti con l’oscurità della fede. Questo concetto
non era nuovo, Bernardo di Chiaravalle ne aveva già parlato, così come – in un
certo senso – i padri Cappadoci. Goffredo sostiene che si può parlare di
scienza per la teologia non in termini analogici: vi poteva essere una sorta di
analogia, ma non in senso proprio.
Molti di fronte allo scandalo di Tommaso, obiettano che la
Sacra Scrittura diventa così periferica. Se dopo arriva la grande crisi del
modello scolastico, questo è effettivamente uno degli argomenti che mettono in
crisi tale modello. La Sacra Scrittura aveva infatti perso il posto che i padri
avevano visto. Enrico di Gant dice che il sapere sulle verità di fede è
strettamente legato alla santità personale: un teologo è e diventa tale nella
misura in cui cresce la sua santità. Egli considerava la struttura di Tommaso
come una torre di babele: il teologo non può arrivare alla evidenza servendosi
della scienza. Occorre un habitus scientifico, certo, ma tale habitus dipende
dalla posizione spirituale di chi pensa Dio.
Alcuni esponenti francescani criticano soprattutto la
mancanza della Scrittura all’interno del progetto di Tommaso. Arnaldo di
Villanova, per esempio, comincia a parlare di fronte all’ambizione di Tommaso,
di sola scriptura. Solo la scrittura
può essere l’unico criterio di giudizio della ragione. Ruggero Bacone, per
esempio, scrive un libro molto critico in cui parla dei sette peccati capitali
della Teologia, tra i quali la non conoscenza del testo sacro, la troppa
presenza della filosofia nella riflessione teologica.
I padri francescani hanno dato in questa lotta un grande
contributo. Tra loro, su tutti, citiamo: Duns Scoto e Okkam.
Duns Scoto viene chiamato doctor
subtilis per la sua precisione, ma anche doctor marianus, per il suo parlare di Maria. Per lui vi sono due
teologie: la teologia divina e la teologia in
nobis. Con questo vuole dimostrare che la teologia divina sarebbe possibile
se l’uomo riuscisse ad entrare nella prospettiva di Dio stesso. Ma questo –
sostiene Scoto – è impossibile alla ratio umana. La teologia, invece, deve
essere piuttosto una scienza pratica, che si rivolge all’esercizio della carità
e dell’amore. Scoto non si schiera contro la ratio; toglie la razionalità dalla
teologia spostandola verso la filosofia. La ratio è libera nel settore
filosofico-metafisico. Duns Scoto fa quello che in molti pensavano ma nessuno
aveva il coraggio di fare: relegare la ratio al settore della metafisica.
Siamo in quel periodo storico in cui la protagonista è la
ratio, il problema non è o la sacra pagina, o la sacra dottrina. Tutti sono
d’accordo sull’usare il termine teologia. La domanda che in molti si pongono è
circa la natura del termine teologia, i suoi compiti e significati. Il mondo
del clero secolare, assieme alla scuola francescana, si oppone alla teologia
intesa come sapere orientato secondo criteri filosofico-aristotelici. Guglielmo d’Okkam continua la critica
di Duns Scoto, radicalizzandola ancora di più. Era una persona assolutamente
originale, anche dal punto di vista umano, un accademico vero e proprio
affezionato ai metodi di Oxford. La sua preoccupazione è quella di limitare il
potere assoluto dei Papi. Elabora un sistema importante, in cui dichiara
insostenibile qualsiasi tentativo di considerare la teologia come scienza. Il
suo pensiero, la sua posizione, il suo nominalismo, dominerà l’università per
150 anni dopo la sua morte, oscurando così la figura di Tommaso d’Aquino. Per
comprendere la sua critica del termine teologia, occorre richiamare alcune
coordinate del suo pensiero.
Al centro v’è la verità della trascendenza di Dio: Dio è
onnipotente, quindi pienamente libero di fare quel che vuole. Vi è anche nel
suo pensiero una certa sorta di realismo: non si interessa dell’universale ma
si concentra nel particolare, che lui chiama singolari (questo richiama le
monadi di Leibniz). I rapporti tra questi singolari non ci sono, li creiamo
noi. Sono assolutamente indipendenti l’uno dall’altro. Proietta questa visione
sulla Chiesa, considerata l’insieme di individui dotati di libertà assoluta,
indipendente dagli altri. Nonostante queste tesi non gli accadde nulla, perché
utilizzava il lessico dei suoi avversari per elaborare le sue teorie: ha
riempito gli otri dei termini conosciuti di un significato che corrispondeva
alla sua teoria. Inoltre era un tipo molto diplomatico. Egli radicalizza questa
teoria degli individui soprattutto nel parlare di Dio e dell’uomo: l’uomo non
ha accesso alcuno a Dio, vi è una separazione assoluta. Come l’uomo può
mettersi in relazione con Dio e come Dio con l’uomo? Guglielmo d’Okkam vede
questo nesso come l’obbedienza assoluta. Dio obbliga, l’uomo obbedisce. Dio è
imprevedibile, pienamente libero, oggi ti dice una cosa, domani potrebbe dirti
il contrario. Se questo è il presupposto, per lui è assolutamente impensabile
che l’uomo possa avere una conoscenza sensata di Dio. Dio è relegato in un
ambito che ha la sua imprevedibilità: non è possibile fare un lavoro di
deduzione a partire dalle verità di fede per arrivare a delle conclusioni certe
su Dio. Se ciò fosse possibile, infatti, - dice Okkam – chiunque potrebbe fare
teologia, anche un non credente. Ma questo, sostiene lui, è assurdo. La
teologia che Okkam propone è una teologia pratica, non speculativa, una
teologia del cammino che al centro ha la Sacra Bibbia.
La scuola renana
si fece ispirare dall’opera di Proclo per dire che la Teologia è un termine
complesso. È vero che tale termine ha una connotazione speculativo-filosofica.
Ma tale connotazione va attribuita alla cosiddetta teologia dei filosofi,
coloro che riflettono sulle cose di Dio a partire dalla natura. Poi vi sarebbe
la teologia vera e propria che pensa a Dio alla luce della rivelazione. La
speculazioni è dunque qualcosa di preliminare: la vera conoscenza è una
conoscenza spirituale, mistica, il rapporto mistico con la rivelazione.
Altri due importanti personaggi sono Pietro d’Ailly (†1420)
chiamato per la sua genialità l’aquila di Francia, diventato maestro di
Teologia a Parigi e il suo allievo Giovanni
Giackson. Vivono durante anni difficili nella Chiesa: fattori esterni
scombussolano la Chiesa (guerre), ma soprattutto fattori interni, come le
divisioni all’interno del papato, le questioni economiche legate alle tesorerie
del papa. Entrambi riprendono l’idea di Okkam dell’impossibilità che i non
fedeli facciano teologia. Il credere deve essere legato alla prassi della
propria vita. Soprattutto G. Giackson, molto sensibile alla situazione della
sua epoca, era convinto che la teologia
dovesse ritornare ad essere un sapere destinato all’educazione e alla crescita
del popolo di Dio. La Teologia doveva influire anche su una educazione morale
ed etica dei giovani. La Teologia, dunque, deve perdere la propria vanità, la
propria vana curiosità, l’attrazione per le problematiche assurde. La sua
critica era rispetto ad una teologia che si staccava dall’andamento della
storia. La vera materia della teologia è ciò che edifica la fede, che sostiene
la speranza e infiamma la carità. Ecco perché inizia a proporre un rinnovamento
della teologia: quella che lui chiama la “teologia mistica”. Questa teologia mistica deve essere
un’esperienza di affetto, un’esperienza comunitaria, un’esperienza di Dio vera
e propria. Alla fine fare la teologia non è solo questione di intelletto e
ratio; è soprattutto una questione che riguarda l’anima. Giackson ritiene che
questo tipo di esperienza non è qualcosa che va relegata ai monasteri, bensì
portata nelle università. La ratio doveva essere riportata all’interno di un
certo clima esperienziale.
Prima di arrivare a Lutero parliamo di Erasmo di Rotterdam (†1536).
Professore che girò molte università dell’Europa e ben noto ai tempi per la sua
forte dialettica con Lutero. Era irritato dalla Teologia come scienza, denuncia
il fatto che la Teologia ha perso l’attenzione per la Sacra Scrittura. Invita
ad un’immersione in sé, ponendosi di fronte alla scrittura.
Come si pone Lutero di
fronte al termine Teologia? Lutero era generalmente selettivo: non tutti i
termini in circolazione gli piacevano. Per esempio il termine Ecclesia viene criticato in quanto
collegato ad una mentalità istituzionalista legata al potere. Spiega questi
termini sostituendoli con altri: congregatio
sanctorum, per esempio. La teologia speculativa, dei papisti,
dell’oggettività speculante, la chiama Teologia gloriae. Lutero attribuisce al
termine teologia un suo significato: conoscere Dio nella sua rivelazione, la
quale accade sub contraria specie
(teologia della croce). Il teologare significa pensare Dio e parlare di lui dal
di dentro di una conoscenza esperienziale e personale. Il teologo vero quando
si interroga su Dio lo fa sul Dio della “mia” storia.
Un altro importante elemento è la sola scriptura di Lutero. La teologia assume come compito il
professare Dio, la sua opera nel mondo. C’è quasi una identificazione tra
parola di Dio e Teologia. Lutero collega il termine Teologia con l’uomo e la
sua esperienza di Dio. La teologia si ancora nella antropologia: al centro
della teologia non c’è più Dio e le domande su di Lui, ma l’uomo che si
interroga su Dio e ne ha bisogno. La punta estrema di questo suo elemento di
pensiero la si troverà poi in Feuerbach.
Philip Melantone. Grande
amico di Lutero, ma molto diverso da lui: fine nel pensiero e desideroso di
costruire ponti. Melantone proponeva di non utilizzare più il termine Teologia,
chiamandola in altri modi: doctrina evangelii, per esempio.
Un’opera del 1610 di Johan
Gehard chiamata Loci teologici,
fa una esposizione molto complessa circa cosa significhi il termine teologia a
partire dai greci. Nella sua interpretazione arriva a dire che la teologia è
più una sapienza che una scienza, che ha come scopo l’arrivare solamente alla
propria salvezza.
Attorno all’anno 1600 il mondo che nasce come riforma e
ribellione contro il papato, comincia ad adocchiare la definizione della
scienza proposta da Aristotele. Ci si converte al concetto di teologia come lo
facevano le facoltà cattoliche. Una teologia legata ad una speculazione, che
include termini di scientificità, non è più vista come ostile. Il mondo
luterano porta così avanti la questione che il teologare deve aver al centro il
rapporto uomo-Dio e la Scrittura, ma tutta inserito in un ambito di scientificità.
Chi fa questo processo è Calixt. Nel
nostro lessico abbiamo diversi termini da lui inventati. Appena i luterani si
convertono alla definizione aristotelica di scienza, tale definizione diventa
insoddisfacente per il mondo. Il mondo della riforma comincia allora a
ricercare un significato del termine teologia: nasce così il tema del rapporto
tra teologare e religione. La religione e la comprensione del cristianesimo
come un fenomeno religioso sono i temi preferiti. L’autore di riferimento
rispetto a questo tema è Schleiermacher.
Comincia ad interrogarsi sulla religione in sé: la teologia viene collocata in
un nuovo ambiente, quello delle scienze della religione. Schleirmacher è
fondamentalmente uno storicista. La verità vale solo per un determinato periodo,
poi è surclassata da una nuova verità. Per cui un dogma che ieri valeva, oggi
non può valere più. Nelle sue mani il termine teologia diventa vulnerabile.
Se immaginiamo la teologia come una piramide, al vertice più
alto sta la teologia cristiana cattolica. La piramide è formata da una infinità
di strati che convergono verso il vertice. La nostra teologia è tutta la
piramide: il vertice significa identità, ma occorre la proiezione verso la
base, per comprendere la punta.
|
||||
Il vertice rappresenta una pienezza atomica, contenente
dinamiche molto affascinanti. Questo tipo di comprensione della teologia
presuppone una apertura verso il diverso, una omnicomprensività. Nei testi del
Vaticano II la teologia è presentata proprio così, soprattutto al n°7 e al n°22
della Ad gentes: «Ogni elemento di
verità e grazia presente nei pagani, viene purificato dalla Chiesa e restituito
al suo autore. Ogni elemento di bene che si trova nel cuore e nella mente
umana, o nei riti, non solo non va perduto, ma viene sanato, elevato e
perfezionato per la gloria di Dio». In tali testi si respira il magistero di
Pio XII secondo cui la teologia non deve distruggere ciò che trova: la Chiesa
non deve costruire sulle rovine di coloro che hanno vissuto, costruito e
pensato prima di noi, ma spiegare le dinamiche di illuminazione della verità,
affinché l’uomo possa sentirsi più vicino alla verità. Ratzinger ha detto che
la nostra teologia, può essere pensata così, perché poggia sulla fede, anche
epistemologicamente. La fede può essere chiamata memoria, dice sempre
Ratzinger, nel senso che raccoglie e tiene dentro di sé le verità precedenti,
le quali vengono illuminate e ricapitolate dalla rivelazione di Colui che si fa
chiamare padre. L’esempio che le cose stanno così è la tradizione liturgica,
per esempio il canone romano. In esso, infatti, nella sequenza di persone
nominate è presente Melchisedek, un sacerdote fondamentalmente pagano. Eppure
la Chiesa ha sentito la necessità di inserire nel canone romano il nome di una
persona pagana, perché la via della Chiesa comprende una estensione della fede:
l’opera di ricapitolazione inizia già, è già in atto.
Seconda Parte: i modelli della Teologia.
Molti parlano di modelli. Prendiamo ad esempio Küng: individua otto modelli
teologici. Egli vuole creare una mappa dei movimenti più significativi del
cristianesimo assolutizzandoli a tutto il sapere cristiano. Non basta
descrivere delle macchie per esaurire la tradizione teologica. Küng, per
esempio fa coincidere il modello scolastico con quello medievale. Ma il modello
medievale è molto più grande: comprende il modello scolastico, nominalista,
ortodosso ecc. non bastano otto modelli per comprendere la storia della
Teologia! Vi sono in Küng delle semplificazioni tremende, la pretesa di
arrivare a delle astrazioni omnicomprensive.
Quello che io propongo è diverso: comporrò una cartina con
una serie di modelli. Noi parliamo dei modelli per conoscere meglio l’essenza
della teologia nel suo sviluppo. Io vi propongo una mappa di tredici modelli. A
noi non interessa dire che cosa era, concentrarci sul passato senza fecondità.
A noi interessa capire la dinamica di ogni sistema, il perché siano entrati in
crisi; se questa crisi ci sia stata fin dalla nascita oppure no.
Noi non vogliamo considerare un modello solo come un
elefante teologico che ha messo i piedi in tempi arcaici sul terreno teologico
e ha lasciato impronte tali che oggi i turisti le guardano sospirando ad un
passato morto. Il modello non lo considereremo secondo la sua importanza
teologica, il volume di pensiero implicato. La storia del termine teologia è la
storia delle tensioni nei confronti e tra alcuni elementi che sempre di più
vengono sentiti nel pensare cristiano come elementi di riferimento
fondamentale, che appartengono al DNA del pensare cristiano. Qualche teologo
mette questi elementi in un rapporto di coppia. Tra di essi pensiamo a Vagagini, una persona di grande
preghiera. Lui dice che nel DNA della teologia vi sono alcuni elementi fissi,
che si trovano in posizione di coppia polare: scrittura e tradizione, ragione e
fede, magistero e sensus fidei. Fare
teologia significa proprio far riferimento a queste realtà. Innanzitutto la
scrittura, considerata nella sua unità di Antico e Nuovo Testamento, ma anche
nel senso di un approccio al testo sacro (approcci diversi hanno creato scuole
teologiche diverse, concentrate più su un senso letterale oppure allegorico,
oppure ancora il metodo storico-critico, le interpretazioni femministiche
ecc.). Il termine tradizione è anch’esso ricco e complesso: qualcuno chiama
tradizione la cosiddetta regula fidei,
qualcun altro, come i Cappadoci, la considera coincidente col Concilio di
Nicea. Può succedere che questi elementi si tocchino tra di loro: dalla
tradizione si può facilmente parlare del magistero, oppure alla scrittura. Il
termine fede è anch’esso interessante: alcuni modelli teologici hanno eliminato
la fides quae (i contenuti della
fede), altri l’hanno considerata. I Cappadoci ci dicono che la fede è una
pratica ascetica monastica, significa credere e vivere nella comunità (S.
Basilio è in questo eccezionale). Per Gregorio Palamas la fede è un’altra cosa
ancora, indica un’altra esperienza.
Tutto questo per dire che nel DNA del fare teologia contiene
questi elementi: ogni specifica teologia fa i conti con questi elementi. Li può
avversare o combinare. Normalmente le tensioni sono a livello delle coppie:
molti modelli si schierano o solo con la ragione o solo con la fede, o solo con
il magistero o solo col sensus fidei. Ogni teologia viene fatta combinando
questi elementi, spostandoli. Io chiamerò modello quelle combinazioni tra
questi elementi che sono esemplari, combinazioni che magari ritornano nel tempo
in alcune aree del mondo cristiano. Per semplificare questa seconda parte,
mettiamo tra parentesi la terza coppia (magistero-sensus fidei) per riprenderla
poi nella terza parte, in cui parleremo dell’equilibrio che deve crearsi tra
queste coppie, pur dovendo rimanere una salutare tensione.
Il motivo di ogni eresia, all’interno di questi modelli, è
sempre legato all’epistemologia; molte eresie sono state causate dalle scelte
epistemologiche.
Nella nostra schematizzazione, racchiuderemo i nostri
modelli all’interno di quattro periodi:
-
patristico
-
medievale
-
rinascimentale
-
moderno
Studiando il primo periodo, quello dell’età patristica, ci
soffermeremo su alcuni modelli concreti: il modello ariano è il primo modello
teologico, eretico certamente, ma pur sempre un modello. Poi parleremo del
modello dei Cappadoci, di Agostino e di Boezio.
Età patristica
I primi due modelli che hanno fatto storia sono in reciproca
tensione: il modello ariano e il modello cappadoce. Nei primi secoli della
patristica il contesto è molto eterogeneo, con alcune costanti però. La
patristica al suo inizio vede una triplice sfida per la Chiesa:
-
il rapporto tra Chiesa e stato (Chiesa e
impero), determinato dal fatto che la Chiesa deve elaborare il tema paolino
della parusia. Se la fine del mondo
era vicino, il rapporto con le opere si faceva più interessante e scottante.
-
Rapporto Chiesa – società, soprattutto per
quanto concerne il rapporto con i pagani. Questo confronto implica anche delle
compenetrazioni: nascono dei gruppi gnostici, per esempio, o gruppi che evocano
dottrine pagane nel cristianesimo.
-
La Chiesa in sé. La Chiesa si deve auto
comprendere sempre più, è sfidata a comprendere la propria identità, la propria
dottrina. Parte di questa sfida sono le eresie, che nascono appunto nella
Chiesa in sé. Nasce la coscienza che la Bibbia in sé con le sue parole non è in
grado di contrastare le eresie: si utilizzano termini della grecità,
terminologie diverse dalla terminologia della Bibbia. Questo salto linguistico
implicava però delle difficoltà: i termini ypostasis
o ousia venivano utilizzati anche
nel loro significato contrario a quello originale. Il contesto culturale era
però unico, definito praticamente solo da termini greci: si capisce dunque che
utilizzare queste parole era l’unico modo per entrare in dialogo con il mondo
culturale. Compreso in questa terza sfida è il trovarsi dei primi vescovi nei
concili e nel sinodi, per discutere circa le verità di fede.
Parte di questo periodo sono appunto i modelli ariani e
cappadoci, opposti tra loro e per questo interessanti.
Modello ariano
Si sviluppa intorno ad Ario (†336), un personaggio pubblico:
le sue idee vengono depositate nelle breve poesie che scriveva e nelle canzoni
che componeva. Per questo guadagnò una grande fama tra la gente. Ario porta avanti
una bandiera importante sul piano della dogmatica e della dottrina della fede:
il Figlio di Dio nasce nel tempo, ma non v’è un’unità tra Lui e il Padre nella
sostanza.
Tra gli esponenti più di spicco di questo movimento v’è Eunomio († 393), l’intellettuale per
eccellenza del movimento ariano. Scrisse numerose opere, tra cui una delle più
importanti è Ad Theodosium. Ad
Eunomio possiamo arrivare indirettamente attraverso gli scritti di quelli che
lo confutavano: le sue opere sono andate perse, infatti.

In Eunomio la componente della ratio era determinante nel
suo rapporto con fede, scrittura e tradizione. L’arianesimo è un modello di
teologia razionalista; i modelli ariani e neo ariani ritornano nella storia del
cristianesimo. Il principio su cui poggia il suo modo di fare teologia è che
tutto è interpretabile e va interpretato; occorre non accogliere
immediatamente, ma pensare.
-
La fede è certamente per lui un elemento valido,
ma va interpretato.
-
La sacra scrittura va anch’essa presa in seria
considerazione; usa però una
terminologia molto razionalista, in un certo senso. Preferiva l’allegoria,
utilizzare la terminologia della filosofia greca piuttosto che quella della
scrittura.
-
Per
quanto riguarda il rapporto con la tradizione essa era la regula fidei. Nella tradizione inseriamo anche i sinodi e il
concilio, in modo particolare quello di Nicea. Eunomio non ha mai detto che il
concilio di Nicea I era un concilio sbagliato, ma l’ha interpretato in maniera
contraria all’intenzione: tutto – ricordiamo il suo “motto” – va interpretato.
La ratio, la speculazione – per Eunomio – si impone dal di
dentro. Vi è un processo di interiorizzazione della verità, che alla fine fonda
il modello teologico sulla soggettività. Non era l’interiorità intesa come
Agostino (cuore, sensi …), ma l’interiorità pensante: la ratio. Eunomio, alla
fine, razionalizza intelletualisticamente l’arianesimo.
Come mai siamo arrivati a questa riduzione soggettivistico –
razionalista? Tutto nasce da una lettura del proprio contesto, da una forte
enfasi di fronte alla cultura greca, la quale era presente nel DNA degli
ariani, avendo studiato nelle scuole greche. La ratio ariana nasce da un
affidamento senza riserve al mondo greco, al suo sistema di parlare del cosmo e
dell’uomo: il cristianesimo andava inserito in questi spazi filosofici già
presenti. Dietro l’arianesimo è nascosta sostanzialmente una visione
ellenistica: per questo fanno fatica a parlare della Trinità, perché imbevuti
della cultura greca, non potevano pensare con tali categorie l’esistenza
trinitaria.
Modello cappadoce
San Basilio di
Cesarea, Gregorio di Nazianzio e Gregorio di Nissa († 394) compongono questa scuola
cappadoce. Ricevono una educazione classica: si vogliono inserire nel dialogo
teologico riprendendo ciò che Origine aveva già detto.
Il modello cappadoce nasce soprattutto per difendere
l’ortodossia della Chiesa per confutare gli errori ariani.
La fede è per loro una visione del mondo, qualcosa che
ingloba completamente l’uomo, lo coinvolge integralmente. La vera fede per loro
non può esistere senza un radicamento totale nella sacra scrittura. Mentre
nell’arianesimo tutto è interpretabile, per i cappadoci, in particolare in
Basilio la stima per la scrittura è letterale: bisogna lasciar parlare la sacra
scrittura, anche sul piano del lessico. Basilio arriva a comporre un’opera
chiamata Regole morali, in cui
individua dei temi di spiritualità e morale presi alla lettera dalla bibbia: si
tratta di un collage delle affermazioni della Bibbia. Vengono certamente
utilizzati metodi interpretativi, ma sempre con una attenzione estrema alla
lettera.
Per quanto riguarda la Tradizione, essa indicava non solo il
simbolo apostolico, ma anche un riferimento diretto al concilio dei santi
padri, il concilio di Nicea. Basilio sostiene che la tradizione l’abbiamo
ricevuta come dottrina non scritta, attraverso un tramandare; cosa riguardano
queste dottrine non scritte? Innanzitutto la liturgia. La tradizione doveva
rimanere segreta. La cosa caratteristica di questi padri cappadoci è che si
crea un circolo ermeneutico tra gli elementi f-s-t: quando questo circolo è
creato, la ratio può – solo in un secondo momento – entrare in azione.
La fede ha un valore assoluto tra i cappadoci: essa è
caratterizzata da una ascesi collettiva, comune: gli stessi tre padri citati
erano tra loro molto amici: si cercavano, pregavano insieme e digiunavano
insieme. Per molti erano credibili perché vivevano una vita di ascesi e una
vita comunitaria. L’Orazione 43 di
Gregorio di Nazianzio contiene forti espressioni di comunione.
Questi tre non hanno mai pensato di dichiarare guerra alla
filosofia, solamente perché la ragione era in secondo piano. Gregorio di Nissa
valorizza la filosofia di Platone, considerandola come uno strumento che Dio ha
voluto per accedere ad una vita virtuosa. I tre cappadoci sono convinti che la
filosofia va presa sul serio, ma non come sistema metafisico portante, totale e
globale, come Eunomio aveva fatto. Per loro il cristianesimo è una vera e
propria filosofia, ha sufficienti elementi per essere considerato una
filosofia.
I due modelli si sono combattuti: quello dei cappadoci ne è
uscito vittorioso, cominciando ad influenzare l’oriente. Ancora oggi qualche
scuola teologica del mondo ortodosso richiama questo modello, anche se non
completamente.
Il modello di sant’Agostino
Dietro la sua teologia occorre sempre scorgere la sua
esperienza personale. Innanzitutto il contesto storico: Agostino († 430) vive nell’Africa del nord e
vede il crollo dell’Impero romano in chiave apocalittica. È molto preoccupato
per il fenomeno bellico e il fenomeno di distruzione della cultura della sua
epoca. Egli apprezzava lo strato culturale determinato dal dialogo della
cristianità con la filosofia greca, ma vedeva che questo strato si stava
sgretolando. Sant’Agostino riflette nelle sue opere sulle questioni
epistemologiche. Prime fra tutte l’opere De
doctrina cristiana, De Trinitate (in
particolare capitoli 12 e 13, in cui riflette in merito a cosa possa o meno
definirsi scienza). Indirettamente nelle sue celebri Confessioni emergono dati di carattere epistemologico.
Se dovessimo rappresentare
graficamente il rapporto tra i quattro elementi, nel caso di Agostino il
disegno sarebbe questo:
Il rapporto fede – ragione
Ci sono studiosi di Agostino i quali, partendo dal primo
Agostino, vogliono vendere questo padre della Chiesa come colui che ha messo nella sua opera fede
e ragioni su due binari paralleli, due modi alternativi di camminare verso la
verità.
Oggi viene detto che v’è un grande equilibrio nel rapporto
fede ragione in Agostino: ma questo equilibrio non è statico, bensì dinamico. C’è una fede che
crede per conoscere ed una che conosce per credere. Quando parliamo della ratio
in Agostino, che cosa intendiamo? Nelle confessioni VII,30 Agostino parla dei
platonici, della filosofia e cultura greca. La sua razionalità filosofica è
quella riferita al neoplatonismo. Chiediamoci ora dove fede e ragione si
incontrano; Agostino dirà una cosa fondamentale della teologia: fede e ragione
si incontrano nell’interiorità dell’uomo. Tutto accade nell’interiorità. Dentro
la propria interiorità, l’uomo può fare un viaggio stupendo verso le idee: tali
idee si lasciano avvicinare. La ragione può correre nella profondità dell’uomo.
Agostino ha una avanzata visione antropologica e psicologica: vede l’uomo nella
sua grandezza e nella ferita del peccato. La realtà della fede abita il cuore:
la fede è incontrare Dio dentro di sé. Agostino accentua la realtà dell’interiorità
umana, all’interno della quale c’è vero movimento di ratio e credere. È lui che
comincia a parlare di maestro interiore e rivelazione interiore; fede e ragione
coabitano strutturalmente nell’uomo. Il modello agostiniano e tutte le sue
versioni successive, hanno come novità questo elemento: l’interiorità.
Sacra Scrittura e Tradizione
La grande difficoltà di Agostino è la Sacra Scrittura; nelle
Confessioni (libro III capitolo V) racconta di come leggeva spesso la
Scrittura, ma non comprendeva. Il significato più profondo della scrittura è
quel significato che l’autore sacro ha deposto nel testo: occorre entrare
nell’intenzione dell’autore sacro. Tale intenzione è la res, o almeno così la chiama Agostino. La lettura della sacra
scrittura è un procedimento di entrata dal signum verso la res, dalla parola
come segno al senso. Agostino ha patito molto per l’attaccamento letterale alla
scrittura: sosteneva che la cosa importante è che chi leggesse la scrittura non
si fermasse al signum, qualunque metodo volesse adottare.
La Sacra Scrittura mantiene per Agostino passaggi difficili
ed oscuri, soprattutto per quanto riguarda alcuni passaggi dell’Antico
Testamento. Per questo, di fronte a queste difficoltà, Agostino cerca di
entrare nella profondità del testo, oltre l’aspetto letterale.
Agostino sa che il metodo signum-res era conosciuto. Sapeva
però che anche questo utilizzo poteva essere compromettente: molte eresie dei
suoi tempi erano legate alla Sacra Scrittura e ad una sua sbagliata
interpretazione. Agostino dirà, così che per l’interpretazione corretta del
testo sacro, si necessita di un referente esterno. Già prima di lui, Ireneo e
Tertulliano vedevano la figura di questo referente esterno nei vescovi, la
catena dei successori e degli apostoli. Ma Agostino conosceva i vescovi e
sapeva che le prime eresie erano nate proprio da loro; ecco che Agostino
aggiunge un ulteriore elemento. Questo referente esterno deve essere fedele
alla regula fidei, alle prime verità
che i vescovi consegnavano ai catecumeni, quelle verità di fede trasmesse e
consolidate nella liturgia. Ma anche la regula fidei per qualcuno poteva essere
interpretabile, perché molti erano tranquilli nell’affermare la loro adesione
alla regula fidei, ma nonostante questo producevano eresie clamorose. A questo
punto Agostino dirò che il referente esterno deve essere la sintesi di tutta la
dottrina cristiana: gemina caritas.
Il comandamento nuovo è il precetto maggiore a cui fare riferimento. Nel De doctrina cristiana (I libro, cap. 36,40) sostiene che il duplice
amore di Dio e del prossimo è il centro dell’interpretazione della Sacra
Scrittura. occorre partire da questo nuovo comandamento e dopo la riflessione
ritornarci arricchiti della scoperta della profondità del suo significato.
Agostino introduce così nella epistemologia il vangelo, il principio del
duplice amore.
Questo principio è stato certamente dettato dalla sua
esperienza: la sua esperienza di intellettuale veniva calata in una intensa
vita comune, di Chiesa ed amore al corpo di Cristo.
Fatte queste puntualizzazioni, Agostino dice che chi ha
raggiunto lo spazio dell’interiorità, non ha più bisogno degli intermediari,
nemmeno della Scrittura: «Chi è sorretto da Fede, Speranza e Amore, [chi è in
collegamento con il maestro interiore] e vi aderisce senza tentennamenti non ha
bisogno della Sacra Scrittura se non per istruire gli altri. È per questo che
molti grazie a queste tre virtù vivono in solitudine senza libri (…) grazie
tuttavia a questi strumenti essi [gli asceti] hanno eretto dentro di sé un tale
edificio di Fede, Speranza e Amore, da possedere qualcosa di perfetto così che
non cercano solo ciò che è parziale». Agostino è un Teologo dell’interiorità,
non del libro. Nasce con lui un modello di teologia legato ad una vita
spirituale caratterizzata da una incomunicabile intimità tra Dio e l’anima.
Agostino poggia il suo modello sulla visione di vita spirituale, in cui
l’intimità è ciò che vale.
Questo tipo di teologia effettivamente si è ritrovato nelle
mani di altri teologi, di altri, tra cui Lutero, che ne hanno fatto uso secondo
altre condizioni differenti da quelle di Agostino.
Il modello di Boezio
Nell’anno in ci nasce Boezio, l’impero sembra ormai ferito,
dal momento che l’ultimo imperatore di origini romane era stato sostituito da un
re barbaro. Spesso si pensa che Boezio fosse un Teologo, ma troppo razionalista
per essere studiato.
Boezio ha influito moltissimo sulla nascita della
scolastica, rappresentando un unicum, in mezzo al mare patristico: mentre quasi
tutti fanno una teologia legata alla scrittura e alla tradizione, il suo
modello è diverso. Graficamente sarebbe simile a quello ariano:
Boezio vive dopo il Concilio di Calcedonia, nasce vent’anni
dopo. Calcedonia non fu subito percepito e recepito: il patriarca di
Costantinopoli, per esempio, non era del tutto d’accordo. La Chiesa era anche
destabilizzata nel suo dialogo con l’Impero, per l’arrivo dei barbari.
Innanzitutto Boezio è convinto che la cultura classica non
deve morire: traduce Platone ed Aristotele in latino, proprio per questa
ragione. Allo stesso tempo scrive opere sue proprie di filosofia e teologia.
Tra quest’ultime la più famosa è il De
Trinitate.
Importante per lui era la fedeltà al Concilio e alla
Scrittura. Era consapevole che il clima interno alla Chiesa era cambiato: la
Sacra Scrittura veniva fraintesa e mal interpretata. Cerca allora di dimostrare
per via della logica, la ragionevolezza delle verità di fede cristiana. Era
convinto che la fede cristiana contenesse una sua razionalità, una sua logica.
Non bastavano le argomentazioni scritturistiche o patristiche. Boezio, nella
sua teologia, anche se aveva una sensibilità platonica, per quanto riguarda
l’uso della ratio, segue Aristotele, inaugurando nella teologia il metodo della
dialettica.
Pone al centro la parola utrum, comincia un discorso che volutamente problematizza i temi,
si pone domande e cerca risposte ragionevoli. Il suo metodo vuole dimostrare la
possibilità di salvaguardare le definizioni del concilio con l’uso della
ragione; il suo linguaggio non è
biblico. A differenza dagli ariani, non tutto è interpretabile; egli fa
riferimento all’importanza della fede, dei concili, della tradizione e della
scrittura, a differenza degli ariani. Ciò che lo rende singolare era il suo
scopo: Boezio era razionalista per difendere le verità di fede della Chiesa.
Non possiamo accusare Boezio di razionalismo in senso assoluto, dobbiamo
contestualizzare il suo tentativo. Comunque anche nei suoi scritti la ragione
non è elevata a criterio ultimo di valutazione di tutto: era convinto delle
possibilità della ratio, ma allo stesso tempo sapeva che il mistero di Dio
eccedeva la ratio.
XI Lezione 171108
Il modello di Dionigi l’Aereopagita
Siamo nel VI secolo. Alcuni Papi hanno raccomandato la
conoscenza del modello di Dionigi. Noi non sappiamo chi sia il vero autore di
questo modello; poteva essere un discepolo di San Paolo, sicuramente un
credente che apparteneva al monachesimo. La Teologia di Dionigi è fatta in modo
non così limpido come Agostino, per cui è più difficile immaginarsi com’era il
suo autore. Siamo in un’epoca in cui si impone come alternativa al
cristianesimo il neo platonismo, non solo come una filosofia affascinante, ma
anche come teurgia: il neo platonismo diventa pensiero, ma anche culto,
liturgia. Diversi cristiani lasciano il cristianesimo per convertirsi al neo
platonismo.
Tra le sue opere, sicuramente spicca la Teologia mistica, i nomi divini, la gerarchia celeste e la gerarchia
ecclesiastica, oltre ad alcune lettere. Dionigi costruisce il suo modello
affinché la Chiesa possa difendersi dai pagani. Il suo metodo non è quello
della polemica o dell’ironia; egli vuole contrastare i greci utilizzando però
la loro filosofia e le loro categorie. Dionigi era infatti convinto che la
filosofia, di per se, ha una origine divina, nonostante le elaborazioni umane
siano a volte sbagliate. Il suo modello può essere rappresentato in questo
modo:
Possiamo immaginare il dialogo con i greci di Dionigi, come
una partita a scacchi, dove Dionigi non utilizza la sua scacchiera,ma la
scacchiera neoplatonica. Questo significa che doveva rispettare le regole degli
scacchi; così l’elemento della fede, della scrittura e della tradizione sono
viste dall’interno della visione neo platonica.
Ma il neoplatonismo a cui si riferisce Dionigi è diverso da
quello a cui si riferisce Agostino: il neoplatonismo di Dionigi è quello
dell’Uno, mentre in Agostino è quello delle divine idee. Un'altra differenza:
l’approccio di Dionigi corrisponde ad una prospettiva simbolica diversa da
quella di Agostino. Anche Agostino è in un certo senso simbolico, ma nel senso
del soggetto. In Dionigi si sente la convinzione che la “cosa stessa” sia in se
simbolica, abbia una forza rivelativa. Ecco perché spesso parla della luce che
promana da una verità, da una realtà. Mentre in Agostino è il soggetto che
cerca e vuole penetrare, che è attivo, vigilante, in Dionigi vi è come una
preminenza della luce nelle cose.
La Scrittura
Dionigi cita molto spesso la scrittura, con lo scopo di chiarire
il fatto che il suo ragionamento tiene sempre presente il testo sacro. Quando
Dionigi si riferisce alla scrittura, si vede come essa sia connessa in modo
molto stretto alle celebrazioni liturgiche: per lui la sacra scrittura va letta
dal di dentro di una celebrazione. Le liturgie che descrive sembrano un fuoco
d’artificio fatto da moltissime luci, segni e movimenti. C’è in Dionigi una
vera estetica, una sottolineatura della bellezza della liturgia.
La tradizione
Dionigi non vuole costruire un modello per contrastare le
eresie interne; è molto legato alla patristica greca, alla tradizione degli
alessandrini e dei cappadoci. Per lui la tradizione, soprattutto quella
esegetica, assume una importanza molto rilevante.
Limiti
L’opera di Dionigi è bellissima, ma molto complessa. Egli
accetta anche i limiti del pensiero neoplatonico: produce un modello da una
parte affascinante dall’altra molto limitato, perché troppo legato alle
categorie neoplatoniche: la sua teologia coincide con una esperienza mistica in
cui l’Uno non diventa tre. Non si trova in Dionigi una articolazione della
riflessione che fa intuire lo specifico della rivelazione cristiana. Non è in
lui sufficientemente chiaro che Dio è non solo uno ma anche trino. L’aspetto
della storia è assente dalla sua opera, a causa della sua fedeltà alla
scacchiera neoplatonica: il cristianesimo doveva essere mostrato come una
dottrina sull’Uno, che si sviluppa intorno all’Uno. Dionigi si lascia
incastrare dalla scacchiera neoplatonica; se vogliamo chiedere a Dionigi
qualcosa sull’incarnazione, Dionigi lascia insoddisfatti.
Modelli medievali
Siamo in un’epoca (XII - XIII secolo), da molti chiamato
rinascimento. Sul piano socio culturale, politico e religioso, effettivamente
siamo di fronte ad una sorta di rinascita culturale. In Europa sorge un certo
indebolimento della struttura sociale feudale: sta nascendo una nuova
borghesia, nascono le banche, il potere finanziario - economico comincia ad
essere decentrato. In Europa comincia a svilupparsi la cultura basata sull’istruzione:
le scuole cattedralizie, fondate e gestite dalle diocesi, dai vescovi. Anche le
prime università facevano riferimento al potere ecclesiastico. Lo studio
diventa un fenomeno pubblico; sul piano globale delle scienze, sorgono
grandissime curiosità rispetto ai classici latini, greci, arabi ed ebrei. Si
cominciano a studiare altre culture, nuove conoscenze si affacciano
all’orizzonte. Inizia a rafforzarsi come mai prima la curia romana, un insieme
di condivisione del potere molto importante. Dall’altra parte cominciano ad
essere coinvolti i laici: nascono movimenti che coinvolgono attraverso forme
aggregative innovative, persone che non diventavano per forza sacerdoti, pur
vivendo una certa vita consacrata. Il movimento francescano, per esempio,
comincia a cambiare il volto della Chiesa, così come i domenicani, gli ordini
mendicanti in generale che si sviluppano anche nelle Università. Gli ordini
nuovi portano anche nuove tensioni nella Chiesa: la curia non riesce a
risolvere le difficoltà che nascono all’interno della cristianità.
Il modello scolastico
Non si sa esattamente il momento in cui è nato e neanche
grazie a chi. Boezio lo ha abbozzato. Dopo lo utilizzarono Anselmo, Abelardo e
anche, seppur in misura minore, Pietro Lombardo. Questo modello rispecchia
qualcosa che era presente sul piano di tutte le scienze. Nelle Università si
presentò come novità la volontà di sistematizzare le conoscenze del presente;
fece parte di questo desiderio anche l’autoriflessione sul “fare scienza”;
nasce così l’epistemologia che riflette sui propri metodi.
La volontà di sistematizzare era legata quindi all’ambiente
universitario, ambiente in cui stava emergendo il metodo della disputatio, le dispute pubbliche tra
professori, veri e propri momenti culturali e di spettacolo. Lo stile del fare
scienza era dunque vivace, interessato e provocatorio.
Il rappresentante massimo e più conosciuto di questo modello
è Tommaso d’Aquino. Tra gli
importanti studiosi di Tommaso, da segnalare i libri di M.D. Chenu, il quale ha
dimostrato che Tommaso è accessibile a tutti; ha inoltre una incredibile
capacità di contestualizzare la figura di Tommaso. In Italia uno dei maggiori
esperti è I. Biffi. Un altro importante esperto è Torrell.
Rappresentiamo il modello di Tommaso in questo modo:
L’asse che unisce ragione e fede è un asse in movimento
perenne, che sottende una tensione salutare. Da una parte (a) vale il fatto che
la Fede è più della ratio, della filosofia. San Tommaso è un credente, e vede
quindi il mondo intorno a sé avendo sotto le mani il testo sacro. Per lui la
Bibbia era qualcosa che illuminava il mondo che lo circondava. Il mondo
partecipa di una sapienza superiore alla quale il mondo partecipa per gradi. La
visione medievale della sapienza, della società e delle cultura è piramidale,
il cui vertice è ovviamente la pienezza di Dio. La verità vera, la vera
sapienza, sta sopra l’uomo; essa irriga la terra e ciò che sta sotto di essa.
L’uomo può partecipare a tale sapienza attraverso dei mediatori (Scrittura, mondo
creato …). Tommaso pensa tutto in base ad una prospettiva credente. Il rapporto
tra fede e ragione è dunque asimmetrico. Allo stesso tempo appena diventa
chiaro l’orizzonte (a), all’interno dello spazio di fede, Tommaso scatena la
ratio (b). in questo è presente la metafisica di Aristotele, la ratio che si
nutre delle scoperte logico-razionali di Aristotele. La Ratio in Tommaso non è
solo riferimento ad Aristotele, ma anche a Platone e ad altri filosofi greci.
Fondamentalmente, però, la ratio che lui utilizza è dialettica, pensa per mezzo
delle domande e del confronto tra si e no su un certo tema. Nella prima
quaestio di tutta la Summa, all’articolo primo e ottavo, Tommaso parla di
queste cose.
Tommaso era convinto che ciò che è naturale è anche buono in
se. Così la ratio è capace di Dio, ciò che è creato è capace di accogliere la
sapienza di Dio che discende come la pioggia per irrigare la terra: la grazia
presuppone la natura, dirà in una delle prime quaestio.
Tradizione
Tommaso è aggiornatissimo: cita Dionigi, Agostino, Gregorio
magno, Boezio, i cappadoci. Per Tommaso la tradizione è anche tradizione
teologica: cita i suoi colleghi, non solo “i padri”.
Scrittura
Nelle mani di Tommaso la scrittura ha un significato
particolare; la sacra scrittura ha due sensi: letterale e spirituale, ma
soltanto uno è quello importante: il senso letterale. Questa sua affermazione
porterà all’elaborazione di quello che noi oggi conosciamo come metodo storico
- critico.
Il modello di Lutero
Lutero vuole fondare tutto sul principio della claritas
interna, dell’illuminazione interiore. È lo Spirito santo che da la grazia, la
sola gratia per capire. Anche la giustificazione per la fede è legata a questa
claritas. Lutero non pone mai domande astratte su Dio e la Chiesa: si pone
sempre interrogativi legati al “per me”, “per te”, “per noi”: è convinto che il
teologo non può fare una teologia che si stacchi dalle sue domande personali.
Al contrario del modello scolastico, non si accontenta delle coordinate
universali e prospettiche. Accentua una centralità antropologica del teologare,
un’istanza soggettiva. La domanda circa la possibilità di trovare un Dio
misericordioso, porta ad una teologia preoccupata della soteriologia. La sua
preoccupazione non è conoscitiva ma soteriologica: in Lutero è fortissima
l’ansia di voler essere salvati. Il diavolo sa molte cose su Dio, ma la sua
preoccupazione non è la salvezza: così intende Lutero, quando fa questo
esempio, la centralità del tema salvifico.
Il baricentro del suo modello è nell’iterazione
fede-scrittura.
Tradizione
Che importanza hanno vista l’importanza della fede e della
scrittura? Nei suoi scritti, Lutero non
parla mai male della tradizione. Egli non voleva all’inizio creare un modello
di Teologia e di Chiesa alternativo, bensì correttivo. Successivamente per le
sue scelte personali e per il contesto storico la sua è diventata una
opposizione; il suo modello e la sua visione della Chiesa si è così sviluppata
in un’alternativa contro le istituzioni cattolico-romane.
Lutero ha cercato un’approvazione nei vescovi, i quali non
hanno spesso in considerazione le sue posizioni; Lutero si sentì così tagliato
fuori, non valorizzato. Certamente Lutero era un ribelle, ma questo non può
farci dire che non prendesse in considerazione o almeno non studiasse i padri
della Chiesa. Quando Lutero scrive, e questo è un tratto nuovo della teologia,
inserisce riferimenti biografici nelle sue opere: nel catechismo che ha
scritto, Lutero fa continui riferimenti a sé, per deridere la fobia di chi si
vuole attaccare a delle formule o a dei dogmi.
Egli considera i padri importanti, ma in quanto teologi come
lui, passibili dell’errore; vi sono punti di convergenze, ma ci sono molti
padri che si oppongono l’uno contro l’altro. Lutero dice di voler leggere S.
Bernardo. Secondo Lutero Bernardo preferirebbe bere dalla sorgente piuttosto
che dal rivolo, a meno che non sene serva per giungere alla sorgente. Allo
stesso modo solo la scrittura deve restare maestro e giudice. Per Lutero
bisogna andare verso la fonte; è meglio andare verso la scrittura stessa che
seguire i Padri.
I concili sono per lui un tema molto importante, soprattutto
i primi quattro concili della Chiesa. Ma l’obbedienza di Lutero nei confronti
degli elementi conciliari non è cieca; per lui i concili sono una specie di
corte suprema dogmatica, ma la parola scritta ed annunciata sta al di sopra dei
Concili. La parola è il termine di correzione ultimo, il principio di
interpretazione dei concili. Il fatto è che il principio di tradizione nella
teologia di Lutero non è base di costruzione, è nella parte nascosta dei due
elementi. L’elemento della tradizione è dunque presente, lo stesso Lutero non
lo vuole abbandonare, ma non emerge come conferma delle sue posizioni, come
punto autorevole. Adopera la tradizione in modo creativo.
Ratio
Nell’ottocento si comincia a dire che Lutero è anti
razionalista. Effettivamente sembrerebbe che sia così: in molti dei suoi
scritti parla della ragione in termini molto dispregiativi, sembrerebbe che la
ragione non sia da lui sopportata. La verità è invece diversa. In uno scritto
del 1536, Disputatio de Homine,
composto da quaranta tesi, parla esplicitamente della ratio. Alla tesi n°4
dice. «è sicuramente vero che la ratio è il capo di tutte le cose, migliore di
tutte le altre in questa vita», è per lui qualcosa di divino. «È lei ad
inventare e governare tutte le arti liberali e tutto ciò che gli uomini
possiedono in quanto a virtù e gloria». Al punto ( prosegue: «la ratio è una
sorte di sole e di potenza divina collocati in questa vita per amministrare il
mondo». Tesi n°9: «dopo la caduta di Adamo Dio ha confermata questa maestà
della ragione, non l’ha eliminata». Perfino il peccato originale non ha indebolito
la ragione. Ma il punto di critica di Lutero nei confronti della ragione è che
la ratio è adeguata solo se la interroghi in merito alle cose di questo mondo:
ma la ragione non può pretendere di parlare della tua salvezza. Non può volare
verso l’alto, non può parlare dell’assoluto con le sue sole forze. Per
rispondere alla domanda circa la possibilità di trovare un Dio misericordioso
la ragione non può avere risposte. Lutero prosegue sostenendo che appena l’uomo
entra in contatto con la scrittura e vive un’esperienza di illuminazione, la
ragione comincia a funzionare secondo una nuova logica. Una ragione non
illuminata di fronte all’eucarestia vede solo il pane, così come di fronte alla
Scrittura solo un libro. Ma appena la ragione vive l’esperienza della claritas,
comincia a pensare per paradossi e diventa in grado di ragionare secondo la
logica della fede. A questo punto per Lutero pensare e credere cominciano a
coincidere nella sua visione della teologia.
Il modello di Lutero ha certamente forti limiti, è
innanzitutto un soldato, un apologeta della sua riforma. Però il suo modello
inizia a determinare la storia della Chiesa e della Teologia. Così come lo
costruisce, questo modello va avanti ma con qualche sostanziale modifica. Vi
quindi una sostanziale discontinuità tra ciò che Lutero intendeva a gli eccessi
che la chiesa protestante ha oggi assunto.
In questo modello fortissima è l’accentuazione
sull’interiorità intesa in termini pneumatologici. Certamente dopo la sua
morte, il discepolo Melantone non continua sulla scia del maestro: era un
teologo classico. Dopo la morte di Lutero (1546) succede che pian piano
l’elemento della ratio comincia ad essere recuperato. La ratio comincia ad
essere inglobata nell’interiorità. Il modello di Lutero viene così stravolto:
la speculazione filosofica diventa un tratto tipico del modello luterano
successivo. L’interiorità rimane in connessione con una forte dimensione
pneumatologia, ma l’elemento della ratio rimane preponderante. Questa è la
ragione per cui i più grandi filosofi successivi proverranno dal mondo tedesco.
Maria e i Santi
Lutero scrive un commento al magnificat: non aveva
difficoltà di fronte alla figura di Maria. Critica una pietà mariana poco
consona alla sacra scrittura. Non avendo un criterio certo do convergenza e
confronto dopo Lutero la riforma porta a delle forme di pensiero variopinte:
tutti vogliono radicarsi nell’albero della teologia protestante, ma ognuno a
suo modo se ne allontana. È chiaro che Lutero pur criticando i padri, non
rigetta come principio la pietà mariana, non demolisce il principio della
communio sanctorum, pensata come la ricerca del rapporto con i santi e Maria.
Nelle chiese evangeliche luterane, a parte le realtà
pentecostali, vi sono due movimenti di fondo:
-
Non bisogna guardare verso il passato: siamo
chiesa oggi con quell’identità che si è evoluta dopo la riforma. A questa
chiesa non interessa Lutero oggi, ma il modo con cui oggi tale chiesa è fatta,
non interessa la teologia di Lutero, ma l’evoluzione che lungo la pista della
riforma ha portato alla chiesa di oggi. Per queste chiese Lutero non è più il
punto di confronto.
-
La seconda corrente è legata al desiderio di
ritorno a Lutero, per comprendere se si è nel bene o nel male. Si parla quindi
dell’importanza di recuperare la confessione, essendo Lutero uno che ha sempre
dato moltissima importanza ad essa. Questa corrente, se noi cattolici avremo
pazienza nello studiare Lutero, potrebbe favorire un dialogo ecumenico
profondo.
Il modello della scolastica barocca
Siamo nel periodo in cui inizia a dominare l’umanesimo
rinascimentale: non siamo più a Parigi, città che ha determinato la storia
della teologia per diversi secoli. Tutto si sta spostando verso la Spagna.
Rimane la squadra dei domenicani e al posto dei francescani entrano in campo i
gesuiti. Il tema che divide le due scuole è quello della grazia; gesuiti e
domenicani hanno però un forte punto di convergenza: la grande opera di San
Tommaso d’Aquino. Tommaso viene spiegato però in prospettive tematiche diverse;
mentre i domenicani si incentrano sulla loro interpretazione della teologia e
della dogmatica di Tommaso, i gesuiti si concentrano di più sulla morale,
sull’azione, essendo più legati alla vita missionaria, attiva.
La mente domenicana è Francisco
de Victoria, favoloso teologo di Salamanca. Siamo nel periodo del forte
contrasto riforma - controriforma, ma anche in cui la modernità è una
preoccupazione, in particolare il colonialismo. Francisco era vicino a
Bartolomeo las casas, grande denunciatore delle ingiustizie commesse verso gli
Indios. Francisco comincia ad inglobare la sfera del diritto, perfino del
diritto internazionale: la teologia comincia a parlare di stato. Accanto a lui Domenico di Soto, Domenico Bagnes oltre ai
gesuiti Gregorio di Valencia e Francesco Suarez. Siamo in un periodo
in cui le scienze sono preoccupate dell’epistemologia. Si parla molto
dell’importanza delle fonti. Così lo stesso ritorno a Tommaso è percepito come
un ritorno alle fonti. Inoltre Salamanca vuole recuperare un pensiero sicuro ed
autorevole. Emerge dunque una nuova parola, nuova come ossessione:
l’auctoritas. Una fonte dev’essere autorevole, affinché un pensiero lo sia. Si
comincia a parlare di infallibilità, anche nel mondo delle scienze.
120109
Nella visione del magistero neo-patristica o neo-ortodossa è
centrale il canone. il problema è come interpretare i canoni dei concili, chi
ha il diritto di interpretarli all’interno della teologia ortodossa. Mentre la
teologia cattolica ha acquisito l’idea dell’interpretazione del dogma, la
teologia ortodossa non sa come interpretare i suoi canoni, formulati secoli fa
in contesti diversi tra loro. Nasce così una prassi della cosiddetta oikonimia, che nel contesto ortodosso
significa derogare da una imposizione che il canone dà. I teologi scelgono così
di interpretare seriamente alcuni canoni al discapito di altri.
Bonhofer,
evangelico luterano, sostiene che al centro del concetto del magistero ci sia
la parola di Dio. allo stesso tempo dice che la Chiesa deve obbedire alla
parola, seguirla e sottoporre ad essa ogni suo essere e parlare. Poi la Chiesa
deve continuare ad esercitare il suo magistero nella fedeltà alla parola di
Dio: la Chiesa non deve tacere, dire cosa è bianco e cosa è nero. Questo tema è
sentito da B., perché egli si trova in un periodo storico (anni venti e trenta)
in cui la chiesa evangelica non prende una posizione chiara di fronte alle
leggi razziali di Hitler. La chiesa ha una grande responsabilità anche pubblica
verso la parola.
Fede e ragione
Molti modelli nella loro diversificazione dipendono dal
rapporto che si è creato tra fede e ragione. Partendo da questa constatazione
un primo dato che viene affermato è che fede e ragione sono due realtà le quali
non sono a priori in contraddizione perché stanno in rapporto di originaria
unità facendo entrambe parte della realtà dell’uomo. «Tutto l’uomo è credente,
tutto l’uomo è colui che ragiona» (Agostino). C’è un’istanza antropologica che
fa si che queste due realtà si incontrino nel loro nucleo originario. Nella fides et ratio si parla di una fede
naturale e di un pensare naturale. L’uomo dalla sua nascita proprio perché uomo
deve esercitare la propria fede e ragione, magari passo dopo passo, ma lo fa.
Così diceva anche S. Tommaso: «gratia supponit e perficit naturam». C’è uno strato
naturale su cui ci basiamo: questa è l’intenzione, una delle chiavi di lettura
della fides et ratio.
Se si è spesso arrivati ad un duro scontro tra fede e
ragione, se tra le due si è costruito un muro, è accaduto perché c’è stata e
c’è una forte riduzione di ciò che è la ragione e di ciò che è la fede. Se io
riduco la ratio a qualcosa di solamente dimostrativo e la fede ad un salto
irrazionale nel buio, se estremizzo i concetti, si arriva inevitabilmente ad
uno scontro. I concetti di ratio e fede sono invece complessi, molto più ricchi
di quanto possiamo pensare. Anche gli studi di oggi ci dimostrano quanto la
razionalità non sia solo la capacità mnemonica, ma anche speculativa o estetica
(comunicare per mezzo di forme estetiche, cromatiche), motoria (legata alla
comunicazione attraverso il corpo). Quando parlo della ratio devo stare dunque
attento alla riduzione ad un unico aspetto. Già dal punto di vista
terminologico dobbiamo renderci conto che la parola ratio va affiancata da
altri termini i quali completano l’insieme di un pensiero: la parola ratio
indica qualcosa di rigoroso, di dimostrativo. Poi c’è la parola intellectus,
che ha a che fare con le antiche parole Logos e Sofia. Così la parola Logos che
è talmente piena di significati che una sola definizione non basta: contiene
riferimenti alla oggettività e alla soggettività, alla vita di chi la esercita.
Poi la parola Sofia; il Sofos di
Aristotele è l’unità tra pensiero o vita, pensiero e virtù. Così nella fides et ratio si parla molto di Sofia,
di una ragione che nasce dalla consapevolezza di un cammino di conoscenza che
va fatto nell’umiltà e nel rispetto della verità che ti attira.
Il dogma
Noi come teologi dobbiamo far riferimento a quelle verità di
fede che si chiamano dogmi, quelle costanti epistemologiche proprie anche delle
scienze matematiche, per esempio. La nostra epistemologia conosce una
importante istanza: il dogma.
Cos’è il dogma? Evidenziamo cinque aspetti:
-
Dal punto di vista del contenuto è una verità
rivelata.
-
Per quanto riguarda la sua forma è una
proposizione dottrinale. Chiunque deve sapere la formulazione ufficiale del
dogma se se ne vuole interessare.
-
Il terzo aspetto riguarda il piano oggettivo: il
dogma è una verità infallibile di fede. Non si può pensare di cambiare qualcosa,
anche solo qualche sfumatura del dogma.
-
Il dogma ha anche applicazioni soggettive sul
credente: il dogma cioè obbliga all’assenso personale, deve interpellare nella
interiorità.
-
Il dogma comunque rimane una formulazione che
volendo fissare una verità di fede, viene fatta nel corso della storia e porta
comunque il timbro della storia dentro di sé. Ciò non significa che il dogma
mariano, per esempio, valga solamente per alcuni periodi.
La riflessione sul dogma ci invita a pensare che la Teologia
non può essere mai una vicenda privata, ma sempre avrà bisogno di una capacità
di confessare l’eccedenza delle istanze veritative normative per me e per te. I
dogmi sono come un faro da seguire lungo il cammino della conoscenza. La
fedeltà al dogma è uno dei presupposti fondamentali della ecclesialità di ogni
studente e teologo. I dogmi sono fissati in maniera intelligente ed ispirata
affinché il loro discorso possa aiutare alla ricapitolazione finale di tutto in
Cristo.
Una cosa è il depositum fide, un'altra è la forma con cui
queste verità vengono espresse; ciò non significa che la Teologia cattolica sia
sclerotizzata. Se il dogma contiene una verità rivelata, questa verità stessa
ha bisogno di essere interpretata, vuole essere espressa attraverso una forma.
La teologia non ama espressioni vaghe, ma chiare e precise, ma allo stesso
tempo la teologia sa che ogni definizione è in rapporto di asimmetria con la
verità rivelata.
Rispetto a Calcedonia, per esempio, molti teologi hanno
preferito affermare una verità in positivo, invece che attraverso la via
negativa, come il concilio aveva fatto. La teologia interpreta quindi i dogmi,
ma le formule di definizione vanno trattate con rispetto e consci della loro
oggettività. La mentalità ecclesiale deve essere non la cancellazione della
tradizione, ma il saper accoglierla facendo un passo in avanti. Nella teologia
non può esserci arbitrio soggettivista: bisogna tener conto con rispetto
dell’antichità.
Così rispetto ai dogmi le forme vecchie vanno conosciute e
studiate affinché possa formulare forme interpretative del dogma che siano
nuove. Ex opere operato: la
celebrazione ha in sé una oggettività, ogni sacramento celebrato poggia su una
oggettività che ha a che fare con il vangelo di Cristo che si vuole rivelare,
si poggia su una azione di Dio salvifica che accade indipendentemente dalle
condizioni psico fisiche di chi celebra. Della Teologia si deve dire lo stesso:
anche se avete avuto professori che sono umanamente un disastro, se non hanno
alterato le costanti teologiche hanno insegnato la verità. C’è però anche da
dire che la credibilità (non quella oggettiva) è legata alla santità di chi è
prete o teologo. Più completa è la “fides qua” del teologo più maturo e fecondo
è il suo pensiero teologico. Questa è la croce di un teologo che dovrebbe
cercare di tenere viva nella coscienza la parola che annuncia.
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