Morale IV
- “ADORERANNO IL PADRE IN SPIRITO E VERITA’”
1.1 La virtù di religione
La religione può essere studiata da prospettive diverse: ovviamente la
nostra prospettiva sarà quella teologica. Della religione parla anche la
teologia fondamentale: quale dunque la specificità dell’approccio della
teologia morale?
Potremmo partire dalla definizione che Tommaso dà di religio: essa è ordo ad Deum: in questa definizione
tutto si gioca sulla parola ordo,
riferita a Dio. Questa definizione è di per sé valida per tutte le religione,
nella prospettiva cristiana Deus è
ovviamente il Dio rivelatosi in Gesù Cristo. Ma cosa significa ordo, che noi traduciamo generalmente
“ordine”? La parola latina è una parola ricca di significati. Nell’ordo di ogni religione vi è anzitutto un
aspetto costitutivo, che identifica una religione: nella religione cristiana è
l’evento fondatore del Cristo morto e risorto; ma vi è poi anche, per esempio,
la dimensione cultuale o quella dogmatica, studiata da altre discipline come la
liturgia e la dogmatica. La teologia
morale è lo studio dei vari problemi morali che fanno riferimento ai
cristiani e perciò tutto quello che il cristiano è chiamato a fare per rendere
culto a Dio ed essere obbediente alla sua legge e alla sua Rivelazione. In senso
oggettivo, la religione è ordo; in
senso soggettivo, la religione è il rapporto del cristiano con Dio e dunque è
da intendere la religione come virtù di
religione.
Un altro modo per chiarire questa questione è la via linguistica. Il
termine religio ha una duplice etimologia: nel suo De natura deorum, Cicerone affermava che questo termine deriva dal
verbo relegere, che significa “prestare
attenzione con la mente e il cuore, rendere culto alla divinità”; il retore
cristiano Lattanzio faceva derivare questo termine dal verbo religare, sottolineando il legame che la
religione instaura fra l’uomo e Dio. Agostino è sicuramente d’accordo con
Cicerone, ma in un passo del De civitate
Dei Agostino intravede nella religione un re-eligere, cioè uno “scegliere di nuovo”, guardando anche quella
che era stata la sua esperienza personale.
Alla luce di questo, la virtù di religione è la virtù mediante la quale si
rende culto a Dio riconosciuto come Signore, manifestando in tal modo quella
che è la propria fede. Sappiamo che
possiamo distinguere tra fides quae e
fides qua. In un certo qual modo la fides quae può essere messa in relazione
con la religione in senso oggettivo, mentre la fides qua con la religione in senso soggettivo. Ma possiamo anche
distinguere: mentre la fede designa più il cammino di Dio verso l’uomo
(dimensione discendente), la religione esprime maggiormente la dimensione
ascendente del cammino dell’uomo verso Dio. È anche vero che la fede chiede la
religione, ovvero la ricerca di Dio da parte dell’uomo.
Nella suddivisione delle virtù, la fede è virtù teologale, nel senso che viene da Dio e ha Dio come oggetto. La
religione non può invece essere detta virtù teologale, ma invece è virtù
morale, che attiene maggiormente alle virtù cardinali, in maniera particolare
alla virtù della giustizia, se è vero
che la giustizia è la virtù per la quale si rende a ognuno ciò che è suo (anche
a Dio bisogna rendere ciò che è suo). Oggetto della virtù di religione non è
tanto Dio, quanto invece gli atti
dell’uomo.
In S. Th. II-II, qq. 81-100,
Tommaso parla della virtù di religione, collocandola nelle virtù morali.
Tommaso afferma che le virtù teologali si applicano a Dio come loro oggetto: le
virtù teologali comandano la virtù di religione, che fa compiere all’uomo atti
rivolti a Dio, in ordine a Dio (siccome credo, spero e amo, allora compio atti
per esprimere la fede, la speranza e la carità). Ogni opera virtuosa fa capo
alla virtù di religione, dal momento che è ordinata dalla virtù di religione a
quello che è il suo fine proprio, che è la maggior
gloria di Dio. La virtù di religione connota gli atti di tutte le altre
virtù affinché siano offerta, sacrificio a Dio.
Alla luce di questo, vediamo come il culto cristiano non riguarda solo la
sfera liturgica, ma si allarga a tutta la vita (cfr. Rm 12,1), dal momento che
la religione converte in offerta a Dio tutti gli atti virtuosi, facendo sì che
gli atti virtuosi non rimangano fini a se stessi (è il pericolo che i Padri
definivano filautia: è l’amore di sé
che dimentica Dio come origine e fine).
La religione si pone
dunque in rapporto sia con le virtù teologali sia con le virtù cardinali.
1.2 Religione
ed esperienza religiosa
In nome di cosa possiamo dire che un atto è buono o cattivo? Diversi
sostengono che oggi sono crollati i fondamenti tradizionali, ovvero Dio che
manifesta la sua volontà attraverso la legge (fondamento religioso) e la
metafisica. La religione non rappresenta più un punto di riferimento comune per
le società occidentali. In materia di fede e di comportamenti morali, lasciata
alle spalle l’era delle certezze, saremmo entrati nell’era delle convinzioni.
Della modernità vengono date diverse interpretazioni, perciò la
comprensione dei suoi contenuti non è semplice; tentiamo di descriverne alcune
caratteristiche:
-
la modernità
è esito di un’evoluzione che parte dalla fine del Medioevo, da quello che viene
chiamato nominalismo: il soggetto
personale viene affermato come prima realtà del mondo;
-
la modernità
è legata al progresso e alla definizione delle scienze sperimentali. Le società
moderne, più che scientifiche, sono diventate tecniche o tecnologiche, fino ad
arrivare a quel postulato per cui ciò che è tecnicamente possibile è anche
moralmente possibile;
-
gli antichi
perdono valore: è la posizione di alcune posizioni radicali dell’Umanesimo;
-
ma uno dei
più importanti caratteri della modernità è quello della secolarizzazione. Il termine non ha un significato univoco. Nel
secolo scorso quella della secolarizzazione è divenuta una vera e propria
bandiera. Il termine secolarizzazione
fa riferimento alla parola latina saeculum,
che traduce il greco aion: il termine
saeculum designa il mondo nella sua
durata temporale (mentre il termine mundus
ha un significato maggiormente fisico). I saecularia
erano, nel Medioevo, i beni fisici, inferiori e subordinati ai beni superiori
ed eterni che sono i beni spiritualia.
Storicamente vi è stata un’evoluzione di
significato del termine “secolarizzazione” (termine che di per sé esprime un
dinamismo, un processo). Il termine aveva innanzitutto un senso giuridico
canonico: era il permesso dato ad un religioso di uscire fuori del suo
monastero o convento; ma vi è anche un altro significato giuridico-politico:
indicava la sottrazione di determinati beni dalla sfera dell’autorità
religiosa. La nozione filosofico-storica e culturale è un prodotto del XIX
secolo: con questo termine si designa la formazione della cultura e dell’etica
della società laica e borghese, sottolineando l’autonomia e l’emancipazione nei
confronti della societas christiana
(comportando in tal modo un processo di de-cristianizzazione,
de-ecclesializzazione). In ogni significato troviamo questo elemento comune: secolare è ciò che prima apparteneva
alla dimensione del sacro, mentre ora appartiene alla dimensione mondana, profana;
la secolarizzazione è il fenomeno per cui le realtà della vita umana vengono
vissute non solo in modo non sacrale, ma in modo del tutto autonomo rispetto
alle norme e alle istituzioni religiose.
Il secolo XVIII è un processo contro Dio, quasi un chiedere conto a Dio del
perché e del come: l’uomo avrebbe dato fiducia a Dio, ma Dio avrebbe tradito la
fiducia dell’uomo. Nel secolo XIX il processo contro Dio si trasforma in un
rifiuto di Dio (“Dio è morto”): “processare” Dio significa attribuirgli importanza.
Il XX secolo è caratterizzato dall’avvento dell’uomo-demiurgo: l’uomo occupa il
posto di quel Dio che è ormai assente e rifiutato.
L’esito di tutto questo può essere definito con due aspetti essenziali:
-
l’autonomia
dell’uomo, del suo modo di pensare e di vivere nei confronti di ogni
riferimento religioso o metafisico;
-
la volontà
dell’uomo di derivare da sé gli orientamenti e le norme che considera
convenienti. Qui si innesta la questione delle varie interpretazioni della democrazia: deve prevalere il criterio
della maggioranza come criterio di moralità?
Qualcuno ha parlato di disincanto
del mondo: il mondo non crede più alla magia, agli spiriti, etc. e dunque,
sebbene profondamente diversa da queste realtà, anche alla religione. Ma è
davvero così? La situazione odierna si presenta come complessa e
contraddittoria. Metz aveva parlato di “religione sì, Dio no”; il sociologo
italiano Garelli ha intitolato un suo studio Forza della religione e debolezza della fede, mettendo quasi in
contrapposizione religione e fede. Si parla oggi di un’indifferenza religiosa,
ma allo stesso tempo una ricerca del sacro e del senso, favorita anche dalla
progressiva perdita di fiducia nelle ideologie e nella scienza. Il sociologo
francese, descrivendo la situazione religiosa odierna, ha parlato di religioni a la carte, cioè secondo i
propri gusti, che porta anche a diversi eclettismi e selezioni all’interno
delle religioni stesse. I rischi di tutto questo sono vari: relativismo e
integralismo (il pluralismo genera incertezze e questo potrebbe portare a
rispondere con la forza).
Un altro rischio, molto più sottile, è quello dell’assorbimento della fede
nella religione o nell’etica: il cristianesimo è una fede, non può essere
ridotta ad una sorta di religione civile o culturale, per cui essere cristiani
non è tanto credere in Cristo, ma avere determinati valori e assumere
determinati comportamenti morali. La fede in tal modo diventa subalterna di una
religiosità non connotata dal senso di un’alterità di Dio. Questa prevaricazione
della religione sulla fede comporta come conseguenza un’eliminazione della
tensione escatologica. Il cristianesimo dunque non deve essere ridotto alla sua
dimensione religiosa morale: il cristianesimo è una fede, che è risposta
all’evento di grazia di Cristo. La fede cristiana, fondata nella Rivelazione,
trascende la religione, in cui è sottolineato l’elemento umano: ma poiché la
Rivelazione contiene anche una rivelazione dell’uomo a se stesso, ecco come la
fede va a sostenere anche l’elemento religioso dell’uomo.
La GS vede come una delle cause dell’ateismo e della areligiosità proprio
nel distacco tra fede e vita. In molti c’è purtroppo una concezione
magico-sacrale dei riti e, accanto a tale concezione, vi è anche la pretesa di
verificabilità come criterio applicato ai sacramenti. Questa concezione
magico-sacrale esprime da un lato un’esigenza di verità, ma dall’altro rischia
di portare ad una concezione magica. Prova di questo sono le controversie circa
l’efficacia sacramentale che vi sono state nella storia della Chiesa. Il
criterio di verificabilità applicato ai sacramenti fa riferimento ai bisogni
delle persone, quasi che i sacramenti debbano appunto soddisfarli e ciò
dovrebbe essere automatico (dovrei poter verificare gli effetti della grazia
sacramentale nel soddisfacimento di questi bisogni).
In Eb 7, 24-27 c’è un termine fondamentale per la comprensione dell’evento
cristiano: è il termine efapax, il
quale è formato dalla preposizione epi
e dal termine apax, e significa “una
volte per sempre, una volta per tutte”. Tutto il mistero pasquale è in tal
senso efapax. La nozione di sacramento
si ricollega proprio a questa realtà: la categoria della sacramentalità, intesa
non in senso univoco (applicabile cioè ai soli 7 sacramenti), ha come suo
analogato principale proprio Cristo. In Rm 12,1 si parla di logikèn latreian, di culto secondo logos: ma Cristo è il Logos, perciò qui
si potrebbe far riferimento ad un culto secondo Cristo. Il culto perciò che
dobbiamo rendere a Dio deve sempre conservare sempre la struttura
dell’incarnazione, dal momento che caro
cardo salutis: quella carne che il Verbo ha assunto rimane per sempre. Ogni
atto di culto giunge a Dio per mezzo di Cristo, che è l’apertura perenne della
nostra finitezza e creaturalità al Dio infinito ed eterno.
Il tema religione-culto può essere visto in diverse discipline. Qui non
esamineremo il culto in chiave liturgica, ma guarderemo al culto nella
prospettiva della virtù di religione. La definizione di Tommaso d’Aquino nella Summa rimane una definizione chiara e
precisa: religio è la virtù che porta
a dare a Dio il culto che a lui è dovuto. Vi sono tante forme di culto: ma qual
è il culto autentico che porta a Dio? Nel progresso della Rivelazione vetero e
neotestamentaria si mostra sempre più e sempre meglio quale sia l’autentico
culto, che non corrisponde all’offerta di esseri umani o di animali, ma
all’offerta della propria vita. Vediamo ora quello che è il culto secondo la
Rivelazione ebraico-cristiana contenuta nella Scrittura, per arrivare a definire
quale deve essere il culto nella religione cristiana.
Il termine culto ha la stessa
etimologia del termine cultura,
ovvero il verbo colere, che è
fondamentalmente azione dell’uomo:il culto è azione dell’uomo, per trasformare
e per esprimere qualcosa, così come l’uomo con la cultura trasforma la natura o
fa esprimere la natura con le sue potenzialità. Come però la cultura ha bisogno
di regole (sono gli uomini stessi a darsi regole per le espressioni culturali),
anche il culto necessita di regole: Dio stesso interviene nella Rivelazione per
trovare regole che permettano che il culto sia espressione di una religione
vera, rispettosa di Dio e dell’uomo. Il culto è fondamentalmente sottomissione ad una persona: vi sono
talora culti dati a cose o a uomini, che vengono ritenuti divinità, cadendo
così nell’idololatria. L’uomo è
chiamato a riconoscere Dio come l’unico Signore e ad attribuire a Dio il culto
che gli è dovuto, non solo con sacrifici, ma primariamente con la propria vita.
Il culto ha una duplice sfaccettatura, personale
e comunitaria: in Es 19,5-6 si
parla di popolo di sacerdoti e di nazione santa, dove l’espressione
“regno di sacerdoti” non deve essere inteso come un regno in cui ci sono anche
dei sacerdoti, ma un regno dove tutti sono sacerdoti; il patto sinaitico pone
il popolo di Israele a servizio di Dio. Cristo si colloca all’interno
dell’orizzonte cultuale ebraico e da una parte si pone in obbedienza ad alcune
prescrizioni rituali, ma dall’altra le supera: Cristo infatti è il vero tempio
in cui abita Dio, il sacerdote sommo ed eterno che con il sacrificio di sé
offre a Dio il culto. Pertanto gli attributi del popolo d’Israele passano al
nuovo popolo di Dio, che è la Chiesa (cfr. 1Pt): l’atteggiamento di adorazione
del popolo della Prima Alleanza diviene ora l’atteggiamento del nuovo popolo di
Dio.
Il cristiano, che nel Battesimo diviene servo di Dio, è chiamato ad adorare
Dio.
Concludendo, possiamo dire che il culto per il NT è fondato e motivato
dalla persona e dall’opera di Cristo Gesù: egli è il nuovo tempio (perciò esso
può essere distrutto), è il sommo ed eterno sacerdote, è il sacrificio vero e
perfetto (non c’è più bisogno di altri sacrifici), è il servo di Dio nella sua
umanità. Cristo fa della Chiesa e dei credenti templi viventi, sacerdoti,
sacrifici, servi di Dio. In questa prospettiva il culto cristiano è la risposta
che i membri del popolo di Dio sono chiamati a dare all’opera salvifica di Dio
mediante la fede, la speranza e la carità, attuate nel rito sacro e nella vita
morale, in una profonda unità fra queste due dimensioni. In tal modo si
realizzano le 3 note costitutive della sacramentalità: memoria (è lo ziqqaron,
l’anamnesis delle cose meravigliose
operate da Dio), presenza (attualizzazione
qui ed ora dell’opera di Dio: non è un semplice ricordo), attesa (prefigurazione dell’eschaton,
dove non ci sarà più bisogno di sacramentalità essendo tutto e tutti in
Cristo).
Questa espressione del culto va contro ogni concezione magica: infatti non
è l’uomo che fa in modo che Dio agisca, ma è Dio che liberamente e
gratuitamente agisce. La risposta umana non è la risposta ad un Essere supremo,
ma al Dio unitrino che in Cristo si è rivelato.
Passiamo ora a parlare della devozione.
La devozione è una categoria che vuole esprimere la caratteristica del servizio, che qualifica Cristo (servo di
Dio) e che dovrebbe qualificare la comunità di coloro che sono i servi di Dio.
La devozione esprime una caratteristica tutta speciale del servire Dio: essa è voluntas prompte faciendi, secondo
quanto dice Tommaso. Essa è dunque la disponibilità espressa attraverso la
prontezza. La devozione dunque non è un dare o offrire qualcosa, ma offrire se
stessi in questa disponibilità ad essere servi di Dio.
Icona biblica di devozione è sicuramente Maria nel mistero della
visitazione, quando prontamente e in fretta essa si mette in viaggio per andare
da sua cugina Elisabetta. Etimologicamente, il termine devozione riprendere il
termine votum: il voto è offerta a
Dio non di qualcosa, ma della propria a servizio di Dio. La devozione è
l’autodisporsi della persona a servizio di Dio, che parte dal riconoscimento
primo della grazia di Dio, alla
quale risponde la responsabilità umana. Il primo devotus in tal senso è lo stesso Cristo Gesù in quanto Figlio.
Nei sacramenti si oggettiva l’incontro fra il cristiano e Cristo. Con il
Battesimo il cristiano diviene figlio di Dio, acquistandone la dignità (cfr.
Leone Magno). La morale cristiana è morale sacramentale
e in tal senso si contrappone a quelle morali dette dell’”auto perfezionamento”,
in cui il rapporto con Dio è solamente uno dei comportamenti da vivere: la
morale è invece fondata sull’iniziativa di Dio.
In questa prospettiva i sacramenti non sono solo degli aiuti o dei doveri
per il cristiano (nei sacramenti non vi è solo illuminazione e fortificazione),
ma sono elevazione ontologica e
dunque fondamenti della vita morale cristiana.
(manca una lezione qui)
Il carattere sacramentale è res et
sacramentum nella struttura tripartita dei sacramenti: esso è quell’effetto
che si realizza sempre quando il sacramento è celebrato validamente. Anche se
non c’è l’effetto di grazia (quando per esempio chi riceve il sacramento pone
l’ostacolo), il carattere si realizza. Essendo il carattere res et sacramentum, esso non è solo
l’effetto prodotto (res), ma ha anche
carattere di segno (sacramentum). In
quanto segno, il carattere è:
-
signum
configurativum: il sacramento
configura a Cristo in quello che è l’essere stesso di Cristo;
-
signum
partecipativum: essendo
configurati a Cristo, si partecipa di Cristo, alla sua potestà, alla sua
missione. La potestas di Cristo è il
potere di ricevere gli altri sacramenti: in quanto battezzato, il cristiano
riceve il sacerdozio di Cristo ed è abilitato a trasmettere la ricchezza
cristiana;
-
signum
deputativum: indica la nostra
destinazione al culto. Partecipando del sacerdozio di Cristo, il cristiano è
abilitato a celebrare il culto;
-
signum
obligativum: esso impegna
l’uomo. Essendo configurato a Cristo, il cristiano è chiamato ad essere
conforme al suo essere.
Partiamo ora da una affermazione classica della teologia: sacramenta sunt propter nomine, non propter
angelos. Per questo i sacramenti devono essere celebrati in verità e
pienezza, rispettando la struttura antropologica e i sacramenti stessi.
I sacramenti hanno un’efficacia integrale, si rivolgono a tutto l’uomo,
sono per la salvezza dell’uomo. L’uomo è anima e corpo: per molto tempo si è
sottolineata unicamente l’anima, dimenticando la realtà corporale. Già i Padri
affermavano, per esempio, che il Battesimo rinnova tutto l’essere dell’uomo. Ma
l’uomo non è solo individuo, ma fa parte di una comunità, della Chiesa. Ecco
allora un secondo aspetto, quello ecclesiale,
comunitario. Qui bisogna mettere in
evidenza il potere della Chiesa sulla realtà sacramentale: i sacramenti non
sono cosa nostra: i sacramenti sono atti della Chiesa, dunque appartengono alla
Chiesa.
Dobbiamo perciò parlare della potestas
della Chiesa sui sacramenti, che è un punto molto delicato. Il Concilio di
Trento, sessione 21, cap. 2, afferma che la Chiesa ha il potere perpetuo di
stabilire e di mutare ciò che, a seconda del variare delle situazioni del tempo
dell’uomo, può risultare più conveniente all’unità dei fedeli e alla
venerazione dei sacramenti, fatta salva però la loro sostanza. Ma come va intesa la sostanza dei sacramenti? In SC si
dice che la liturgia consta di una parte immutabile perché di istituzione
divina e di una parte suscettibile di cambiamento. La sostanza del sacramento è
ciò che è di istituzione divina: il problema che qui si apre è definire che
cosa sia di istituzione divina e come bisogna intendere questa istituzione
divina. Il canone 841 del CIC dice che spetta alla suprema autorità della
Chiesa definire quelli che sono i requisiti per la validità dei sacramenti:
questi requisiti non coincidono con l’istituzione divina.
I riformatori protestanti negavano alcuni sacramenti perché non vi erano
testi biblici della loro istituzione oppure affermavano che il modo in cui la
Chiesa celebra i sacramenti non è quello che Cristo ha voluto. Perciò molti
autori, già nel Medioevo, cercavano si rinvenire i passi biblici in cui i
sacramenti venivano istituiti. La riflessione teologica del secolo scorso ha
invece insistito sulla sacramentalità di Cristo, abbandonando questa prospettiva.
Il can. 213 del CIC sottolinea il diritto dei fedeli di ricevere dai
pastori gli aiuti derivanti dai beni spirituali della Chiesa. Ma a questo
diritto corrispondono anche precisi doveri: essere in comunione con la Chiesa,
essere ben disposto a ricevere i sacramenti, etc. In tutto questo i pastori
della Chiesa hanno anche precisi doveri.
I requisiti per una celebrazione degna dei sacramenti sono:
-
la fede: al can. 836 si afferma che,
poiché il culto cristiano è opera che procede dalla fede e in essa si fonda, i
ministri sacri devono provvedere a illuminarla soprattutto con il ministero
della Parola dalla quale la fede nasce e con la quale la fede si nutre. Al can.
840 si afferma che i sacramenti sono segni per mezzo dei quali la fede viene
irrobustita. Per ogni sacramento il CIC fa poi delle specificazioni su questo;
-
l’annuncio della Parola e della
catechesi: questa necessità non tocca la validità, ma riguarda la maniera degna
di ricevere i sacramenti;
-
una partecipazione attiva e fruttuosa;
-
un contesto celebrativo: i sacramenti sono
amministrati da un ministro, ma un contesto celebrativo mette in risalto che è
l’intera assemblea, presieduta dal ministro, che celebra (cfr. can. 837: le
azioni liturgiche, per il fatto che comportano per loro natura una celebrazione
comunitaria, vengano celebrate con la presenza e la partecipazione attiva dei
fedeli);
-
fedeltà ai libri liturgici approvati: come intendere qui fedelmente? Tale fedeltà è segno di comunione ecclesiale: inoltre
già i libri liturgici stessi prevedono eventuali adattamenti.
Uno dei temi più complessi è quello del rapporto tra fede e sacramenti. I
sacramenti non suppongono unicamente la fede, ma anche la nutrono, la irrobustiscono
e la esprimono.
Consideriamo due testi: Mc 16,15-16 e SC 59. Nel NT, sia i Sinottici che
Paolo, troviamo accenni molto importanti circa la fede in rapporto ai
sacramenti. Le controversie del IV secolo hanno un effetto positivo, dal
momento che mettono in luce una nuova dimensione del problema: permettono di
sottolineare come l’efficacia dei sacramenti dipende dalla Chiesa che li ha
ricevuti nella fede e non dal singolo ministro. Questo dato, che nel NT è più
vissuto che esplicitato, si impone soprattutto nel mondo latino a motivo delle
deviazioni ereticali e dunque della necessità di chiarire le questioni: in
questo sicuramente è Agostino ad avere una grandissima importanza. Agostino
identifica la Chiesa come la madre dei credenti. Nella teologia dei Padri greci
era dominante il ruolo insostituibile della fede della persona per partecipare
al mistero di Cristo nel sacramento: la partecipazione deve essere infatti
fruttuosa. Ecco dunque la necessità della fede ortodossa, coerente con il mistero. Questa fede, che permette di
accedere al mistero, è nutrita e consacrata dal sacramento: perciò Basilio
affermava che fede e sacramento sono due mezzi di salvezza legati l’uno
all’altro.
Nella riflessione medievale troviamo diversi autori. L’elaborazione
proposta da alcuni autori non è più ora giustificata da deviazioni ereticali,
ma si è ormai arrivati alla consapevolezza del settenario sacramentale e di
cosa sia sacramento e di come esso sia efficace. I sacramenti sono segni
destinati a rappresentare i misteri redentori del Cristo ai quali la Chiesa
aderisce per mezzo della sua fede. Dunque, per mezzo della fede della Chiesa e
dell’oggetto della fede (mistero redentore di Cristo), i sacramenti ricevono il
loro significato soprannaturale e la loro efficacia di grazia. Per quanto
riguarda il soggetto che riceve i sacramenti, Tommaso afferma che i sacramenti
sono una protestatio fidei,
un’attestazione di fede. In questa prospettiva, la fede personale ha un ruolo
secondario rispetto alla fede della Chiesa: dicendo secondario, non si vuole
dire che non serva a nulla, anzi la fede personale ha comunque una sua
importanza, perché da essa dipende l’efficacia di grazia del sacramento. Di
conseguenza la fede del ministro, dice Tommaso riprendendo Agostino, può anche
mancare senza che per questo il sacramento cessi di essere valido ed efficace:
il suo valore di sacramento del Cristo è assicurato anteriormente dalla fede
della Chiesa.
Una questione è quella del votum
sacramenti: si pensi al caso in cui qualcuno muore prima di essere riuscito
a ricevere il Battesimo. In tal caso basterebbe il desiderio del sacramento per
la salvezza. Ovvio che questa soluzione non venne accettata da tutti; alcuni,
proprio per risolvere questo problema, finirono con l’inventarsi il limbo. Il votum sacramenti, inizialmente riferito
al solo Battesimo, viene poi allargato anche ad altri sacramenti.
Nel XVI secolo la teologia dei riformatori va ad ignorare l’edificio
dottrinale della Scolastica che la Chiesa aveva fatto proprio e va ad esaltare
la potenza giustificatrice della fede, anche se molto spesso non si sa con
precisione cosa sia questa fides. La
salvezza non è dunque per mezzo del sacramento, ma in occasione del sacramento
(sempre indipendentemente da esso) la grazia giunge al credente. Contro questa
posizione dei riformatori si leverà il Concilio di Trento; dopo il Tridentino,
i riformatori esaspereranno il valore della fede, mentre i teologi cattolici
quello dei sacramenti.
Il Concilio di Trento, sessione VI, cann. 6 e 8, afferma che i sacramenti
producono effetti per se stessi: se qualcuno negherà che i sacramenti producano
la grazia ex opere operato e
affermerà che per ottenere la grazia sia sufficiente la fiducia di ottenere la
grazia, sia scomunicato. Cosa significa ex opere operato? In un certo senso
esso equivale all’actum: è l’atto
infatti che è stato operato. Ma di che si tratta? Fondamentale è tenere
presente che l’ex opere operato non
vuole favorire una concezione magica dei sacramenti. L’espressione opus operatum nasce di per sé in
teologia per indicare la morte di Cristo in croce; chi utilizzò questa
espressione parlava anche dell’opus
operans, ovvero di chi compie quell’opera. Questa distinzione viene
applicata, da Pierre Depoitier, per la prima volta al Battesimo per indicare
che il Battesimo è valido indipendentemente da chi lo amministra (opus operantis), ma di per sé (opus operatum). Guglielmo di Auxerre,
continuando la riflessione, distingue tra sacramenti veterotestamentari e
sacramenti neotestamentari: i primi hanno un’efficacia ex opere operantis (per l’attività soggettiva di chi fa questi sacramenti),
mentre i secondi hanno un’efficacia ex
opere operato (per il fatto stesso di porre il sacramento); in Guglielmo
non è assente la concezione che questa efficacia venga dalla morte e dal
mistero pasquale di Cristo. Entrate dunque queste espressioni nell’uso comune,
il Tridentino le riprenderà.
Ma quale valore per la fede? La fede è richiesta perché il soggetto possa
accedere al sacramento e possa goderne l’efficacia. L’affermazione della
necessità della fede risulta in quello che è il caso estremo del pedobattesimo:
dov’è la fede nel pedobattesimo? Innanzitutto nella Chiesa, ma soprattutto nel
Battesimo stesso, attraverso cui la fede viene infusa.
A tal proposito esistono due modi di leggere i sacramenti:
-
nei Padri
della Chiesa la tendenza è quella di vedere una celebrazione continuata del
sacramento, di leggere l’evento sacramentale non rigidamente collocato in quel
momento, ma in tutto un dinamismo. In qualche maniera una persona inizia ad
essere cristiana quando si rivolge al vescovo e chiede di diventare cristiano:
già questo è un entrare dentro, una initiatio
(in-eo = entrare dentro”). Questa
iniziazione ha delle tappe, dei periodi, e non si conclude quando si riceve il
sacramento: dopo il sacramento, infatti, si aveva la mistagogia;
-
dalla Scolastica
in poi, si afferma l’esigenza di fissare il momento preciso in cui il
sacramento è fatto e di individuare ciò che è necessario per il sacramento. Per
la validità del sacramento sono richiesti il consenso del soggetto e, da parte
del ministro, l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa: per la validità non
sono richiesti né la fede del ministro né la fede di chi riceve il sacramento.
La validità dunque viene dalla Chiesa e da quella parola stabilita per il
sacramento: la Chiesa applica, per mezzo della sua fede, al gesto rituale
compiuto quel significato spirituale e quell’efficacia che vengono dal mistero
redentore di Cristo.
Non c’è un problema unico e dunque una soluzione unica del rapporto
fede-sacramento: ma vi sono diversi problemi connessi fra loro. Questo perché
sia al termine fides sia al termine sacramentum dobbiamo dare significati
differenti. Quando parliamo di fides,
di quale fede parliamo? Quella del soggetto? Quella del ministro? Quella della
Chiesa? La fides quae o la fides qua? Stesso discorso per la parola
sacramentum. Il Tridentino utilizza
il termine sacramentum in modo
univoco, riferendosi ai 7 sacramenti, che però sono considerati in maniera
gerarchica così come aveva già fatto Tommaso (Battesimo ed Eucarestia hanno
un’importanza maggiore).
Possiamo sintetizzare tutto questo discorso con 3 frasi di Tommaso
d’Aquino:
-
sacramenta
sunt quaedam signa protestantia fidem: i sacramenti sono segni che attestano la fede. La protestatio non avviene solo con le parole (come per la professio), ma è un’attestazione della
fede della Chiesa cattolica in tutta l’ampiezza dei suoi contenuti. Essi sono
la proposta di fede dell’iniziativa salvifica di Dio. Vi è dunque
un’oggettività della fede. Ciò che dà contenuto e consistenza alla fede
cristiana è appunto il mysterion di
cui nei sacramenti si fa memoria: partecipando ai sacramenti io compio un atto
di fede, ma i sacramenti proclamano la fede stessa;
-
sacramenta
sunt continuatio fidei: i
sacramenti sono continuazione della fede. Vi è una linea di continuità tra fede
e sacramenti, che non sono due vie alternative di salvezza (il rischio della
Riforma). Se la fede viene ridotta alla fede pensata, cioè all’accettazione di
una dottrina, piuttosto che al coinvolgimento in vita e se la pratica
sacramentale viene ridotta ad un semplice gesto di coerenza e di obbedienza
verso la dottrina accettata, ecco che non si può più parlare di continuità. La
fede non è solamente condizione fondamentale per il sacramento, ma è inizio
dell’incontro sacramentale;
-
sacramenta
proportionantur fidei: vi è
una proporzionalità tra sacramenti e fede. Essi sono strutturalmente affini: la
struttura della fede è analoga a quella dei sacramenti e viceversa, in quanto
entrambi sono in questa economia di salvezza per questo tempo in tensione
escatologica (nell’eschaton non vi
saranno né fede né sacramenti). Sia la fede sia i sacramenti esigono una
crescita costante e progressiva, in cui bisogna rispettare entrambe le parti;
Dio fa la sua parte donando se stesso negli eventi sacramentali e donando la
fede, ma anche l’uomo deve fare la sua parte per incontrare Dio. La storia si
realizza nell’eschaton e quest’ultimo
entra nella storia. La fede e i sacramenti hanno valore provvisorio: come già
detto, essi non vi saranno nell’eschaton.
I sacramenti sono già partecipazione della vita divina, ma verranno superati
dalla comunione piena con Dio.
Vediamo ora come la celebrazione sacramentale è compiuta da vari attori: ma
un ruolo particolare lo svolge colui che è il ministro. Il ministro pone dei gesti,
in cui va individuata la cosa necessaria. È necessario sapere cosa è richiesto
per la valida celebrazione e per la lecita celebrazione.
Per ciò che riguarda il ministro dei sacramenti, egli agisce in nome di
Cristo e della Chiesa: egli è sempre una persona e deve essere perciò in grado
innanzitutto di intendere e di volere. In 5 sacramenti si richiede che il
ministro che li amministra sia consacrato: Confermazione, Eucarestia,
Penitenza, Ordine e Unzione degli Infermi, mentre il Battesimo e il Matrimonio
si differenziano (può battezzare anche un ministro non consacrato, addirittura
un non battezzato; per il Matrimonio, ministri del sacramento sono gli sposi,
impostazione che non è divisa dalle Chiese orientali, dove il ministro del
sacramento rimane il celebrante). Un’altra distinzione è fra ministro ordinario
e non ordinario. I due requisiti per la validità del sacramento inerenti il
ministro sono:
-
la potestà di amministrare quel sacramento:
nel sacramento della Penitenza, oltre alla potestà di Ordine, vi deve essere
anche la facoltà di poter confessare. Attenzione: non si richiede la potestà di
Ordine e quella di giurisdizione (come affermava la vecchia normativa vigente),
ma si richiede la potestà di Ordine e la facoltà di esercitarla. Può invece celebrare
l’Eucarestia il sacerdote validamente ordinato. Ministro della Unzione degli
Infermi è ogni sacerdote e soltanto il sacerdote;
-
l’intenzione di amministrare quel
sacramento. La formula, introdotta quasi sicuramente nel XIII da qualche
teologo o canonista, è quella dell’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa.
Tale intenzione non è la comprensione che il ministro ha del significato del
sacramento, ma è l’atteggiamento personale che esprime la propria lealtà nei
confronti di quel rito, è la volontà di compiere quel gesto secondo quello che
la Chiesa intende fare con quel gesto e dunque ciò che Cristo intende fare (la
Chiesa non può volere ciò che non vuole Cristo). L’intenzione può essere di
vario tipo: il CJC non entra in merito alle questioni sollevate da giuristi e
moralisti lungo i secoli. L’intenzione può essere interna (interna alla persona) o esterna (manifestata all’esterno), abituale (precede ma non accompagna il rito), virtuale (precede e causa, accompagna il rito) o attuale: per la celebrazione della
Messa è sufficiente l’intenzione interna e non necessariamente attuale. L’intenzione
condizionata è richiesta espressamente nel caso di Battesimo, Confermazione e
Ordinazione, mentre in altri casi va usata la condizione in tutti i casi in cui
il sacramento è esposto a pericoli gravi: la condizione deve essere passata o
presente; se è futura, esso è certamente nullo. Se per esempio io non so se una
persona sia stata battezzata e questa persona richiede un altro sacramento, io
devo battezzarlo con la condizione che quel Battesimo è valido solo se egli
effettivamente non era stato battezzato precedentemente.
Di per sé, per la validità del sacramento, non si richiede dunque la fede e
lo stato di grazia del ministro: certo, è auspicabile che il ministro sia in
stato di grazia e nella fede. Ecco allora che vi sono elementi per la liceità
dei sacramenti, tra cui rientra lo stato di grazia del ministro o dei ministri
nel caso degli sposi. Per la liceità vi deve essere anche la licenza di
celebrare il sacramento, quando si tratta di ministro non ordinario, e
l’immunità da censure canoniche.
Circa il soggetto ricevente i sacramenti, è necessario che egli sia capace di ricevere i sacramenti. È
capace di ricevere il Battesimo unicamente un uomo che non sia battezzato; è
capace di ricevere la Confermazione ogni battezzato che non l’abbia già
ricevuta; è capace di ricevere l’Eucarestia ogni battezzato che non sia
impedito dal diritto; è capace di ricevere la Penitenza ogni battezzato che sia
pentito dei propri peccati; è capace di ricevere l’Unzione degli Infermi il
credente che, raggiunto l’uso di ragione, si trova in pericolo per vecchiaia o
malattia; è capace di ricevere l’Ordine ogni battezzato di sesso maschile; è
capace di contrarre matrimonio il battezzato giuridicamente abile. Se il
soggetto che richiede il sacramento è privo della capacità di riceverlo, il
ministro deve negare il sacramento; invece i ministri sacri non possono negare
il sacramento a quanti lo chiedono opportunamente, sono ben disposti e non
hanno alcune proibizione dal diritto. Non possono accedere per esempio
all’Eucarestia coloro che ostinatamente perseverano in peccato grave e
manifesto. La morale distingue tra peccatore pubblico e occulto: il
peccatore pubblico è quel fedele la cui situazione di peccato è conosciuta.
Il can. 844 prevede i casi di “intercomunione”: partendo dal presupposto
che i ministri cattolici amministrano lecitamente i sacramenti ai soli fedeli
cattolici, i cattolici possono chiedere i sacramenti della Penitenza, dell’Eucarestia
e dell’Unzione a ministri di chiese in cui tali sacramenti sono validi. Questo
vale anche viceversa.
Per ricevere ogni altro sacramento è necessario il Battesimo. Per ricevere
l’Ordine Sacro si esige il sesso maschile, per ricevere la Penitenza e il
Matrimonio si esige l’uso di ragione, per esigere l’Unzione degli Infermi si
richiede lo stato di infermità grave o di vecchiaia e che sia stato raggiunto
l’uso di ragione (lo deve aver raggiunto anche in passato, non è necessario che
abbia attualmente l’uso di ragione). Perché questa scelta circa l’Unzione degli
Infermi? Perché, avendo questo sacramento carattere penitenziale, uno che non
ha uso di ragione non ha potuto commettere peccato.
Il soggetto che riceve i sacramenti, quando è capace di atti umani, deve
avere l’intenzione di ricevere quel sacramento: i sacramenti non possono essere
amministrati contro la volontà di chi li riceve (ci vuole almeno l’intenzione
abituale, implicita). Per la validità del sacramento, nel soggetto che lo
riceve, non si richiede la fede: certamente, perché la celebrazione del
sacramento sia fruttuosa, si richiede la fede e lo stato di grazia.
Per quanto riguarda il segno sacramentale, si utilizzano le categorie
ilemorfiche (materia e forma). I due elementi che costituiscono il segno
sacramentale devono essere:
-
certi e integri: bisogna essere
moralmente certi della materia e della forma del sacramento. Non è consentito
l’uso di probabilismi. Circa l’integrità, il cambiamento può essere sostanziale
o solo accidentale: una mutazione sostanziale della materiale o della forma
rende un sacramento nullo, mentre se il mutamento è accidentale, il sacramento
non è nullo (al massimo potrà essere illecito);
-
convenientemente
uniti fra loro: vi deve essere una
simultaneità delle parole della consacrazione e gli elementi materiali che
devono essere lì presenti.
-
applicati
dallo stesso ministro nei confronti dello stesso soggetto: i sacramenti non
possono essere “concelebrati”.
Una questione di cui dire è la comunione per i celiaci (la celiachia è
un’intolleranza al glutine): il celiaco deve astenersi in modo tassativo dal
mangiare alimenti contenenti glutine. Di per sé il celiaco può accostarsi alla
comunione bevendo al calice, sebbene è preferibile che il calice sia diverso da
quello principale, nel quale si fa l’immixtio.
È possibile però produrre anche ostie con amido di frumento con una percentuale
di glutine molto bassa, idonee per la comunione dei celiaci.
1.3 Adoro
l’unico Signore
Il riconoscimento di Dio come l’unico Signore deve essere fatto vivendo le
virtù teologali: nel CCC 2083ss. si afferma proprio questo. Questo
riconoscimento avviene nell’adorazione di Dio e praticando i comandamenti, in
maniera particolare i primi 3 che fanno riferimento a Dio: da essi emergono i principali
doveri, ma anche i peccati che si oppongono a questi comandamenti.
L’adorazione è il riconoscimento di Dio in quanto Dio: è dunque un
atteggiamento dell’uomo nei confronti della divinità. L’adorazione acquista
delle particolarità rispetto alle altre religioni. Non dobbiamo intendere però
l’adorazione solo come un fatto cultuale, che si esaurisce unicamente in forme
esterne; è necessario invece ricordare alcune espressioni evangeliche, come la
risposta di Gesù all’ultima tentazione (“Adora
solamente il Signore, a lui solo rendi culto”). È ovvio che poi
l’adorazione trova anche delle espressioni esteriori. Il termine greco latreia
indica appunto l’atteggiamento di adorazione, tanto che si parla di idolatria
per l’adorazione di qualcosa che non è Dio. Agli angeli e ai santi il culto non
è di latreia, ma di doulia (per la Vergine Maria si parla di
iperdulia).
Vi sono 3 specificazioni dell’adorazione:
-
ringraziamento: il ringraziamento per eccellenza è l’Eucarestia;
-
domanda: la domanda nasce dalla consapevolezza del proprio nulla che porta a
rivolgersi che tutto dona. Bisogna stare attenti, nella preghiera di domanda,
all’egoismo (chiedere solo per sé), al materialismo (chiedere solo cose
materiali) e all’ingratitudine;
-
propiziazione: questo termine deriva dal latino propitiatio,
derivante da propitius, che a sua
volta deriva da prope, che significa
“vicino”. Con il peccato noi ci siamo allontanati da Dio: si invoca dunque il
ritorno della vicinanza di Dio. Legato al concetto di propiziazione è il
concetto di riparazione, presente
nella tradizione spirituale soprattutto dal XVI-XVII sec. in poi.
Da tutto questo scaturisce il divieto di adorare altre divinità. La
tradizione teologico-morale (in particolare Tommaso) ha evidenziato,
sviluppando la trattazione sulla virtù di religione, ciò che va contro la
religione, sia per eccesso sia per difetto: Tommaso recepisce la tradizione
latina per cui in medio virtus stat.
Possono esserci infatti degli atteggiamenti contrari alla virtù che possono
essere per eccesso o per difetto: questa impostazione la si ritrova per tutte
le virtù di cui Tommaso va a trattare.
I vizi connessi alla virtù di religione sono la superstizione e l’irreligiosità.
Se dunque ciò che va rispettato è l’ordo
ad Deum (religio), superstizione
e irreligiosità costituiscono un dis-ordo.
La superstizione è un mosaico di comportamenti, a seconda che il culto a
ciò che non è Dio sia indebito, falso, etc., mentre per irreligiosità si
intende il non trattare Dio come Dio e si può concretizzare nella simonia, nel
sacrilegio, nella bestemmia, nel tentare Dio, etc. La superstizione può
avvenire in 2 modalità:
-
ratione
modi: in questa modalità è il
modo che è sbagliato, anche se il riferimento è di per sé a Dio (può essere un
culto superfluo oppure falso). All’interno di questa categoria troviamo anche
le forme di divinazione e di magia;
-
ratione
rei quae cognitur:
(prendere appunti da qualcuno:
saltata lezione)
Nella trattazione dei peccati contro la virtù di religione, oltre alla
superstizione (v. lezione precedente), vi è l’irreligiosità: mentre la tentazione di Dio, il sacrilegio e la
simonia fanno riferimento al primo comandamento, la bestemmia fa riferimento al
secondo.
Per tentazione di Dio si deve intendere l’essere tentato di Dio da parte di
una creatura: esempi di questo li si ritrova anche nella Scrittura (Gesù stesso
viene tentato da Satana e Gesù risponde: Non tenterai il Signore tuo Dio).
Tentare Dio significa pretendere di far fare a Dio quello che l’uomo vuole
oppure può essere tentazione di Dio il metterlo alla prova dovuto ad una fede
smisurata ma scriteriata.
Il termine sacrilegio deriva dal
latino sacrum laedere: si tratta di
qualcosa che non va fatto nei confronti di qualcosa che è sacro. Si tratta
dunque di quei comportamenti lesivi di ciò che è consacrato e di chi è
consacrato (in tal senso un sinonimo di sacrilegio è profanazione): si possono
avere sacrilegi personali, locali (riguardanti luoghi) e reali (riguardanti
cose); da considerarsi a parte è il sacrilegio
eucaristico, da inserirsi in una categoria tutta speciale. La Chiesa è
intervenuta circa tutto questo per tutelare persone, luoghi e realtà sacre. Il
carattere sacro di una persona viene dato o dall’Ordine Sacro o dalla
consacrazione religiosa, senza nulla voler togliere al fatto che tutti i
cristiani, in virtù del Battesimo, sono stati santificati. Dunque assume
caratteristica di sacrilegio personale tutta una serie di azioni (es. violenza,
peccato contro la castità, calunnia). Nel diritto canonico la Chiesa è
intervenuta dando alcune specificazioni: per alcune forme di peccato essa ha
stabilito anche una pena canonica latae
sententiae (mentre in altri casi la pena può essere ferendae sententiae); si guardi, per esempio, al can. 1370 che si
riferisce alla violenza contro le persone consacrate: chi usa violenza fisica
contro il Romano Pontefice incorre nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica; chi usa violenza
fisica contro un vescovo cade nell’interdetto latae sententiae (se chierico viene sospeso); chi usa violenza
fisica contro un chierico o un religioso per disprezzo della fede e della
potestà ecclesiastica viene punito con una giusta pena.
Il sacrilegio locale si può avere per esempio verso una chiesa o verso un
cimitero benedetto; esso può avvenire in diversi modi: il commettere un
omicidio in un luogo sacro, etc. A tal riguardo il CJC ha diversi canoni: il
can. 1205 afferma che sono sacri quei luoghi che sono destinati al culto divino
o alla sepoltura dei fedeli mediante la dedicazione o la benedizione; in questi
luoghi è vietata qualsiasi cosa sia aliena alla santità del luogo. L’Ordinario
può permettere, per determinate occasioni, un uso diverso, che però non sia
contrario alla santità del luogo. Il can. 1211 afferma che i luoghi sacri sono
profanati se in essi si compiono azioni ingiuriose che creino scandalo e che
rendano il luogo non più adatto a svolgervi azioni sacre. Infine guardiamo al
sacrilegio reale. Si può far riferimento al can. 1171, dove si specifica che
sono cose sacre quelle che sono state destinate al culto divino con la
dedicazione e la benedizione. Esse devono essere trattate con riverenze e non
devono essere utilizzate per usi profani o impropri, anche se sono in possesso
di privati. Il can. 1376 afferma che chi profana una cosa sacra sia punito con
giusta pena. L’Eucarestia è il sacrilegio per eccellenza: nell’Eucarestia vi è
la presenza reale e sostanziale di Cristo. Nel can. 1367 si afferma che per chi
profana le specie consacrate vi è la scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica.
Il termine simonia deriva da
Simone Mago, che voleva acquistare il potere di imporre le mani e di comunicare
il dono dello Spirito Santo: Pietro gli si oppose risolutamente. La simonia è
l’illecita commutazione di beni temporali con beni spirituali o con altri beni
temporali connessi con beni spirituali. Chi per simonia celebra o riceve un
sacramento deve essere punito con l’interdetto o la sospensione (can. 1380). Un
aspetto particolare della questione si può intravedere nel can. 1385, ma viene
ampiamente trattato in altri canoni del CJC (come il can. 945): secondo il can.
1385 chi trae illegittimamente profitto dall’elemosina della Messa o della
celebrazione dei sacramenti sia punito con una censura o con una giusta pena.
Nel can. 945 si afferma che, secondo l’uso approvato dalla Chiesa, ad ogni
sacerdote che celebra o concelebra una Messa è lecito ricevere (e non chiedere)
un’offerta affinché applichi la Messa per una determinata intenzione. La
legittimità di offrire la Messa per l’intenzione di un offerente non pregiudica
l’universalità dell’Eucarestia come sacrificio per tutta la Chiesa: il fatto di
aver ricevuto un’offerta per una determinata intenzione non toglie il fatto che
il sacerdote possa celebrare anche per altre intenzioni. L’offerta del fedele
dovrebbe essere il segno dell’unione del fedele alla preghiera del sacerdote:
esso non è un pagare la celebrazione (sarebbe simonia). Inoltre l’offerta della
Messa è segno anche della comunione di beni, mediante la quale i fedeli
partecipano al sostentamento dei ministri e delle opere della Chiesa (can.
946): si tenga conto infatti che in diversi Paesi l’offerta della Messa diviene
l’unico sostentamento. In sintesi, circa l’offerta della Messa:
-
si riceva e
non si chieda l’offerta;
-
si ricordino
anche nella preghiera le altre necessità oltre quella per cui è stata data
l’offerta.
Per il sacerdote che ha ricevuto un’offerta per applicare la Messa vi è un
obbligo grave di giustizia: qualora un sacerdote non può o non riesce ad
adempiere questo obbligo, egli è tenuto o a restituire l’offerta o affidare ad
un altro sacerdote quell’intenzione. Vi sono delle offerte di Messe manuali e
delle offerte di Messe fondate: per offerte manuali si intendono quelle che il
fedele dà di mano propria, che non sono vincolate a nessun luogo o persona
determinati (possono essere date a qualsiasi sacerdote); per offerte fondate si
intende quelle offerte che sono legate a rendite di fondazioni costituite in
passato che comportano obblighi. Esempio di quest’ultimo caso è il fatto che i
parroci e i vescovi hanno l’obbligo di celebrare ogni domenica la messa pro populo, connessa al beneficio
ecclesiastico ricevuto. Al can. 947 si afferma che deve essere tenuta lontana
dall’offerta della Messa qualsiasi apparenza di commercio. Al can. 948 si dice
che deve essere celebrata una Messa distinta per ciascuna delle intenzioni per
cui è stata data un’offerta, anche se esigua: non si possono dunque cumulare le
offerte. Al can. 950 si pone il caso che un offerente dia un’offerta senza
specificare il numero delle Messe da celebrare: il numero delle Messe dovrà
essere computato in ragione dell’offerta stabilita, a meno che non si possa
almeno presumere quella che era l’intenzione del sofferente. In caso il
sacerdote celebri più Messe, egli può celebrare ognuna di queste Messe secondo
l’intenzione dell’offerente, a condizione che tenga per sé l’offerta di una
sola Messa, mentre le offerte delle altre devono essere versate per gli scopi
determinati dall’Ordinario del luogo, a meno che non sia il giorno di Natale
(qui c’è la possibilità di prendere 3 offerte) oppure quando il Vescovo
diocesano ha stabilito che al sacerdote che bina o trina sia consentito di
trattenere una parte dell’offerta a titolo estrinseco. La determinazione
dell’importo dell’offerta della Messa è di competenza dei Vescovi della
provincia (o regione) ecclesiastica: a questa determinazione dovranno attenersi
tutti i sacerdoti diocesani e religiosi e non è lecito chiedere una somma
maggiore (al massimo può accettarla), sebbene possa accettarla. Il can. 953
prescrive che non si può accettare un numero di offerte superiore a quelle che
il sacerdote può poi adempiere entro un anno. Il can. 954 ricorda che è
possibile far celebrare una determinata Messa altrove (leggere i canoni fino al
can. 958).
Circa le Messe gregoriane (prendono nome da papa Gregorio Magno), esse sono
quelle Messe che vengono celebrate per 30 giorni di seguito per una determinata
intenzione: queste Messe devono essere celebrate di seguito (anche se non
proprio in maniera strettissima). Circa le Messe plurintenzionali o collettive,
vi è decreto Mos iugiter della
Congregazione per il Clero (1991), che è intervenuto su questa prassi che ha
iniziato a diffondersi in diversi Paesi negli anni Ottanta: si cumulavano le
offerte di tante Messe e le si soddisfacevano in un’unica Messa con
un’intenzione chiamata collettiva. Nel
caso in cui gli offerenti, previamente ed esplicitamente avvertiti, consentano
liberamente che le loro offerte siano cumulate con altre in un’unica offerta,
si può soddisfarvi con un’unica Messa: in questo caso vi devono essere
pubblicamente indicato il giorno e l’ora in cui la Messa verrà celebrata, senza
che questo avvenga per più di due volte a settimana. Al celebrante, in tal
caso, è stabilito trattenere una sola offerta, mentre le offerte eccedenti
andranno all’Ordinario che le destinerà per i fini stabiliti.
Passiamo ora al secondo comandamento: “non nominare invano il nome di Dio”,
perciò “rispetto il nome santo di Dio”. Tradizionalmente il peccato relativo a
questo comandamento è stato sempre considerato la bestemmia: tuttavia questa visione è molto riduttiva. Primo punto
che andremo a trattare è quello della glorificazione del Nome di Dio; secondo
punto è quello relativo alle promesse: qui si colloca il giuramento, il voto e,
eventualmente, anche lo scongiuro; terzo punto sarà quello relativo alla
bestemmia.
Circa il Nome, dobbiamo dire che
con esso si intende l’essenza: nella nostra cultura oggi si è un po’ perso il
valore del nome. Nel caso del Nome di Dio, qui troviamo l’espressione
dell’essenza di Dio: ecco perché il Nome di Dio non veniva pronunciato e
nemmeno doveva essere conosciuto. Nessuno dunque può capire, comprendere Dio (nel senso latino di capere, cum-prehendere). Noi stessi oggi veniamo battezzati nel
nome della Trinità. Il Nome è dunque memoriale: pronunciando il Nome di Dio, si
può dire che celebriamo un memoriale, nel senso forte del termine, cioè non si
tratta della semplice memoria, ma si tratta dello ziqqaron ebraico (ha sempre valenza tripartita: ricordo di ciò che
è avvenuto, attualizzazione nel presente, prefigurazione e attesa delle realtà
future). Battezzando nel Nome della Trinità, noi facciamo memoria delle grandi
opere di Dio nella storia della salvezza e dell’evento di Gesù Cristo. Il Nome
è anche glorificazione: è questa la missione del popolo eletto, ovvero
portare a conoscenza di tutti il Nome dell’unico in cui c’è salvezza. È chiaro
che non ci si può fermare solo ad una interpretazione strettamente cultuale del
Nome, ma l’essere come tale del credente e quindi tutto il suo agire deve
qualificarsi come invocazione del Nome.
Vediamo le promesse nel Nome di
Dio. Si tratta di chiamare Dio a garante di un giuramento, di una promessa: si
chiama a garante qualcuno solo se ci si fida. Tale promessa può assumere la
caratteristica di voto. Circa il giuramento, bisogna subito precisare che vi
sono diversi tipi di giuramento: vi è un giuramento assertorio (si giura su una asserzione) e un giuramento promissorio (riguarda una promessa).
Tommaso, in S. Th II-II, q. 89, a . 2, si chiede se sia
lecito giurare: egli afferma che il giuramento è lecito e onesto in se stesso:
tuttavia in esso vi è sempre un rischio, dal momento che si può usare male del
giuramento. La giustificazione del giuramento da parte di Tommaso è
strumentale. Un giuramento falso è lo spergiuro.
Quando uno fa un giuramento sono necessarie 3 qualità: iustitia (oggetto del giuramento deve essere lecito), iudicium (ci vuole una buona ragione
per giurare e ci vuole prudenza nel farlo) e verità (necessario è giurare su una cosa vera). Nel can. 1199 si
afferma che il giuramento, ovvero l’invocazione del Nome di Dio a testimonianza
della verità, deve essere secondo verità, giudizio e giustizia. Il giuramento
fa parte della vita dei popoli: perché Gesù lo disapprova? Questo perché esso
era diventato una cosa comune ed usuale, per cui si giurava su qualsiasi cosa. Circa
il votum, questo termine latino ha
diversi significati: il volere qualcosa oppure un proposito non sono un voto;
il voto invece è l’enunciazione di un proposito per mezzo di una promessa. È
certo che ci deve essere una volontà, ma ciò che caratterizza è il voto è la
enunciazione di tale promessa. Se è una promessa, essa riguarda evidentemente
il futuro. Il voto deve esprimere una scelta di vita, deve avere un suo valore
personalistico: il voto è una promessa fatta a Dio riguardante se stessi. Si
parla di voto reale se l’oggetto
della promessa è una cosa; se invece l’oggetto della promessa è un’azione si
parla di voto personale; si parla di voto misto se partecipa della natura sia
del voto reale che del voto personale. In ogni caso il voto è sempre azione di
una persona. Nel can. 1191 si definisce il voto come una promessa deliberata e
libera di un bene possibile e migliore fatta a Dio, che deve essere adempiuta
per la virtù di religione: la promessa perciò deve essere libera (conosciuta e
voluta), deve riguardare un bene (e non un male) che sia possibile e migliore
(qui per migliore si intende generalmente “migliore dell’opposto”). Il voto
cessa secondo determinate regole, si può dispensare dai voti da parte di chi ne
ha la potestà, Ordinario del luogo circa i voti è il parroco per i suoi
parrocchiani e per i forestiere; l’opera promessa può essere commutata in una
migliore o di pari importanza. Lo scongiuro
è il tentativo di far fare qualcosa ad un altro invocando il nome di Dio: si
richiede dunque la comune fede in Dio, dove una richiesta viene avvalorata
dall’invocazione di Dio; una forma particolare di scongiuro è l’esorcismo, che è uno scongiuro fatto non
ad una creatura umana, ma al demonio. Al can. 1172 si afferma che può proferire
esorcismi solamente colui che ha ricevuto il mandato dall’Ordinario del luogo.
La bestemmia, propriamente
parlando, non è solamente quella pronunciata con la bocca (oris), ma può essere anche un pensiero o un gesto. La bestemmia in
quanto tale è grave, tuttavia vi può essere il caso in cui esso può divenire
anche peccato veniale o, talora e secondo alcuni, non è nemmeno peccato (quando
non vi è l’intenzione di offendere Dio). Il rischio in molti casi è però che la
bestemmia diventi un intercalare.
Guardiamo ora al terzo comandamento:
ricordati del giorno di sabato per
santificarlo. Gesù, da buon ebreo, ha osservato il sabato. Il tempio e il
sabato erano la presenza di Dio nello spazio e nel tempo: Gesù proclama che il
tempio sarà distrutto, perché c’è il nuovo tempio che è la sua stessa persona.
Dopo la Pasqua e la Pentecoste gli apostoli hanno continuato ad osservare il
sabato, ma hanno cominciato a far memoria anche del giorno dopo il sabato. In
SC 106 si afferma che secondo la tradizione apostolica, che ha origine dallo
stesso mistero pasquale di Cristo, la Chiesa celebra la resurrezione del
Signore in quel giorno che si chiama giustamente domenica.
Nel Magistero abbiamo due documenti inerenti la domenica: la Dies Domini di Giovanni Paolo II e un
documento della CEI, Il giorno del
Signore. In quest’ultimo documento si afferma che dall’evento della
resurrezione il cristiano non può più vivere senza celebrare il mistero
connesso a questo giorno: prima di essere una questione di precetto, è una
questione di identità; dal precetto infatti si può anche evadere, dal bisogno
no. La domenica è un giorno donato dal Signore al suo popolo.
Si assiste gradualmente, nella teologia, ad una ricchezza di riflessioni e
di espressioni per designare la ricchezza di questo giorno: è questo il dies dominicus, ma anche dies Christi, dies Ecclesiae, dies dierum,
dies hominis, dies octava, etc. La settimana è legata alla natura, alle fasi
lunari. In antichità ogni giorno era dedicato ad una divinità: il primo giorno
della settimana era dedicato al Sole. Nella settimana ebraica il primo giorno
della settimana era il primo giorno dopo il sabato, mentre il settimo era lo shabbat, in cui Dio all’inizio dei tempi
si era riposato. Nel primo giorno della creazione Dio aveva creato la luce:
dunque i cristiani vedono nel Signore Gesù la vera luce. Il primo giorno per i
cristiani diviene la domenica, che è allo stesso tempo giorno primo e ottavo,
anticipo e pregustazione dell’eternità di Dio. Si sviluppa una vera e propria
teologia dell’ogdoade, anticipata
nelle 8 persone che si erano salvate nell’arca di Noè.
Nei primi secoli i cristiani lavorarono di domenica. Nel momento in cui non
vi furono più pericoli di confusione con l’ebraismo, i cristiani ripresero
concetti e prassi propri dell’ebraismo: si pensi alla terminologia sacerdotale
utilizzata per i sacerdoti della Nuova Alleanza. Più tardi si concesse ai
cristiani di poter riposare nel giorno di domenica, proprio come gli Ebrei
riposavano nel giorno di sabato.
In molte nazioni e culture si è verificato il passaggio dal giorno del
Signore al weekend, dove non ci si rende conto che la domenica non è il fine
settimana, ma l’inizio di essa. In passato si distingueva tra opere servili,
opere liberali e opere miste: questa distinzione riguardava il precetto della
domenica, per cui in giorno di domenica non si doveva lavorare, cioè non
dovevano essere fatte le opere servili (erano i lavori che facevano gli
schiavi). Le opere liberali erano invece le opere proprie degli uomini di
condizione libera (leggere, scrivere, suonare, etc.): queste potevano essere
fatte di domenica. Le opere miste sono quelle che non dipendono da nessuna
professione e possono essere fatte indistintamente da tutti (viaggiare,
giocare, etc.). Oggi questa distinzione è ampiamente superata. Il CJC, su
questo tema, ai cann. 1244-1245, si precisa chi può determinare o abolire i
giorni di festa o di penitenza. Il Vescovo o anche il parroco, per giusta causa, può dispensare
dal precetto festivo o da una penitenza. Al can. 1246 si dice che, per la
tradizione apostolica, il giorno di domenica deve essere osservato come il
giorno festivo primordiale; poi vi sono elencate tutte le altre solennità, che
le Conferenze Episcopali poi possono spostare di domenica o eliminare il
precetto. Al can. 1247 si afferma che i fedeli, la domenica, sono tenuti a
osservare il precetto e sono tenuti dall’astenersi da quei lavori o affari che
impediscono di rendere culto a Dio, che turbano la letizia di questo giorno o
non permettono un sano riposo della mente e del corpo. Al can. 1248 si afferma
che soddisfa il precetto domenicale chi assiste alla Messa dovunque essa venga
celebrata, nello stesso giorno di festa o nel vespro del giorno precedente
(l’indicazione data è dalle 16
in poi). In mancanza di ministro sacro o per una grave
ragione, poiché ad impossibilia nemo
tenetur, si raccomanda che i fedeli prendano parte alla Liturgia della
Parola oppure attendano per un congruo tempo alla preghiera personale o in
famiglia o in gruppi di famiglie.
- MORALE PERSONALE SESSUALE
Questa tematica è stata suddivisa in 3 parti: mentre la terza parte
presenta i peccati che vanno contro l’ordo
amoris, le prime due parti sono delle strade da percorrere e sono la “via del rispetto” (qui sono raccolti i
diversi aspetti della questione, portandoli ad un certo ordine e ad una certa
unità, a partire dalla prospettiva del rispetto di sé e del prossimo) e la “via della vocazione” (in cui sarà
maggiormente trattata la prospettiva della vocazione matrimoniale).
Su queste tematiche la morale ha diverse impostazioni. In questo settore
non si può non seguire il metodo stesso dei Padri conciliari utilizzato in GS: sub luce Evangelii et humana experientia.
Perciò bisognerà conoscerà prima alcuni dati che attengono alle scienze umane
(psicologia, biologia, etc.).
Innanzitutto bisogna capire cosa si intende per maschile e femminile.
Bisogna fondare i dati di una teologia morale sessuale sulla base di una solida
antropologia: in passato molti errori sono derivati dall’ignoranza (per
esempio, tante conoscenze riguardanti la biologia sono infatti di tempi recenti,
come anche molte conoscenze psicologiche: tuttavia bisogna tener conto che non
vi può essere certezza assoluta su questi dati) oppure dallo scollamento tra
morale e antropologia sessuale, quasi che la morale nella sua riflessione non
debba tener conto dei dati provenienti dall’antropologia.
Mentre nel passato la domanda ricorrente sulla sessualità era di tipo
finalistico (ci si chiedeva il fine della sessualità), oggi si deve partire da
una domanda sul valore della sessualità e su quale posto la sessualità occupi
all’interno di una visione integrale, olistica, dell’uomo, visione che molto
spesso le scienze non riescono a mantenere, soffermandosi invece su delle parti
della persona stessa.
Diamo innanzitutto una definizione-descrizione della sessualità umana: essa
è componente fondamentale della
personalità, modo di essere e manifestarsi, di comunicare con gli altri, di
esprimere quello che è l’amore umano; essa caratterizza l’uomo e la donna non
solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico e spirituale e su ogni
aspetto della sua vita. Ogni persona umana è sessualmente connotata in
tutti i vari ambiti della sua persona: la sessualità non è qualcosa che noi
abbiamo, ma è qualcosa che noi siamo (della sessualità infatti non si può fare
a meno, come di una cosa che si ha: la sessualità è costitutiva della persona
in tutti i suoi aspetti), è una conformazione dell’essere personale. Certamente
la sessualità appare evidentemente sul piano biologico, meno su quello
psicologico, meno ancora su quello spirituale.
Non dobbiamo confondere la sessualità con la genitalità: quest’ultima è la
sessualità che coinvolge direttamente la sfera genitale, ma la genialità non è
l’unica specificazione della sessualità, si deve distinguere tra una relazione sessuata (tutte le nostre relazioni sono
sessuate: la propria sessualità non può essere mai dismessa) e una relazione sessuale genitale. Se la sessualità è
comunicazione e relazione, significa che la sessualità ha un suo linguaggio ben
preciso (la sessualità è un esse ad, tende a comunicare se
stessa). Ma la sessualità è anche esse
cum, proprio per questa sua natura relazionale (triplice è la dimensione
dell’ordo della sessualità: esse in, esse ad, esse cum). Ogni
relazione interpersonale è segnata dalla sessualità, dal momento che la
sessualità è modalità di espressione costitutiva dell’uomo libero e amante. Le
relazioni interpersonali devono essere sempre all’insegna del rispetto: è il
rispetto del mistero della persona, e dunque non solo il rispetto della persona
dell’altro, ma anche il rispetto di se stessi.
Inoltre, se è vero che noi siamo animali e che negli animali vi è un
istinto sessuale, è vero che la sessualità ha un suo fondamento istintuale ed è
finalizzata alla riproduzione. La riproduzione è infatti un fenomeno necessario
nel ciclo vitale. Esiste tra i viventi una riproduzione asessuata e una
riproduzione sessuata: quest’ultima si ha quando vi è un concorso tra maschile
e femminile; nella riproduzione asessuata vi è una stabilità biologica ed essa
corrisponde ad una sorta di “fotocopia”, mentre nella riproduzione sessuata vi
è una grande variabilità, specie per quanto riguarda proprio l’uomo.
Il fatto biologico, fisico non è criterio tout-court della moralità: ma per la moralità entrano in gioco
altri fattori.
Nell’uomo la sessualità entra nel mondo della coscienza: siamo all’ultimo
grado di evoluzione, questo è indubbio. All’interno dell’esistenza umana
abbiamo una differenziazione sessuale, maschile e femminile; è vero che
esistono dei casi di intersessualità, di cui parleremo, ma nella quasi totalità
degli uomini vive nella differenziazione sessuale. Si tratta di un processo
biologico attraverso cui vi è uno sviluppo a partire da quello che è il primo
stadio di determinazione sessuale: tale sviluppo si ha sia nella fase
pre-natale, sia nella fase post-natale. Tale sviluppo inizia fin dal momento
della fusione dei gameti, del concepimento: la prima determinazione della
sessualità è quella genetica,
stabilita all’atto della fecondazione, che corrisponde all’assetto cromosomico:
nell’ovulo infatti ci sono quel determinato numero di cromosomi più x e negli
spermatozoi ci sono quel determinato numero di cromosomi più x e y.
Possono verificarsi delle “disgenesie” gonadiche, che sono due sindromi
note con il nome dello scienziato che le ha evidenziate: sono le sindromi di
Turner (quando nel caso di una donna, alla coppia di cromosomi manca una “x”) e
di Ghynefelter (si ha il caso di un maschio con “xxy”), che possono provocare
l’ermafroditismo (si ha quando si hanno allo stesso tempo tessuti ovadici e
tessuti testicolari) o lo pseudoermafroditismo (si ha quando vi è una
discordanza tra le gonadi e i genitali). Vi possono essere anche altre sindomi,
come la sindrome di Moris (che determina lo pseudoermafroditismo maschile: si
tratta di una donna con organi genitali interni maschili). Questi casi non sono
situazioni di transessualità, ma sono piuttosto situazioni di intersessualità: nella transessualità
non vi è discordanza tra genetico e gonadico, mentre il problema si pone a
livello psicologico.
Ma oltre alla sessualità biologica vi è anche una sessualità psichica, consistente nella presa di
coscienza della propria sessualità biologica e nel vivere e atteggiarsi in
conformità ad essa. In ogni cultura infatti vi sono determinazioni e stereotipi
comportamentali legati al maschio o alla femmina: si pensi alla estetizzazione,
per cui determinati ornamenti sono propri del maschio e altri sono propri della
femmina. Qui interviene la complessa questione dell’identità. Negli ultimi decenni si è assistito a questa
differenziazione, quella tra identità sessuata (che è la coscienza
dell’identità psico-biologica, dove la prevalenza è biologica, del proprio
sesso e della differenza con l’altro sesso) e identità di genere (coscienza
socio-culturale del ruolo che persone di un determinato sesso svolgono
all’interno della società). Da questo punto di partenza, si è poi passati ad un
allargamento ed esasperazione dell’identità di genere. Soprattutto per alcune
teorie sociologiche, dette ostruzioniste,
l’identità sessuale di genere sarebbe non soltanto il prodotto dell’interazione
tra l’individuo e la comunità, ma sarebbe anche indipendente dall’identità
sessuale biologica: perciò il genere maschile e femminile sarebbero solamente
dei fattori sociali e dunque, nella vita sociale, vi sarebbe posto anche per
altri generi che si potrebbero formare nella società. Il termine “genere” si
riferisce alla cultura, mentre il termine “sesso” si riferisce a natura.
Un altro aspetto è quello dell’evoluzione della persona, così come è stata
indagata da Freud. Nel 1905 egli pubblicò i tre saggi sull’evoluzione sessuale,
in cui la tendenza è stata quella di guardare allo sviluppo della persona in
termini sessuali. Sebbene questo approccio sia stato criticato, bisogna
cogliere le intuizioni positive di Freud. Sebbene la sua teoria risenta di un
certo maschilismo, egli afferma che:
-
l’impulso
sessuale, nelle sue elementari componenti, svolge un ruolo determinante in
quello che è lo sviluppo psico-affettivo di ogni individuo;
-
questo
impulso è già attivo nell’infanzia: l’idea prevalente era che vi fosse una
sovrapposizione tra sessualità e attività riproduttiva. Nel quadro di questo
sviluppo psico-affettivo dell’individuo, la sessualità integra progressivamente
alcuni elementi e, solo in presenza di tali elementi, vi è una maturazione
della persona: ecco perché si può parlare effettivamente di adulto;
-
Freud
descrive alcune fasi nell’evoluzione di questo sviluppo psico-affettivo,
partendo dall’infanzia per passare poi alla fase della pubertà e
dell’adolescenza.
Tutto questo è interessante anche per la morale. Se non c’è questo sviluppo
armonico e ordinato, questo passaggio tra le fasi infantili e poi attraverso la
fanciullezza, si verificano dei blocchi nella persona. Andando oltre Freud, si
potrebbe affermare che questo processo di sviluppo inizia fin dal momento del
concepimento, sebbene è ovvio che nelle fasi pre-natale è difficile che vi
possano essere circostanze che creino blocchi psicologici.
Chiariamo ora alcuni punti circa l’impostazione della morale sessuale.
Nella morale sessuale esistono due impostazioni evidenti, note e conosciute, e
una terza impostazione meno evidente e meno elaborata, ma talora sottesa. Vi
sono un’impostazione finalistica,
un’impostazione personalistica e
un’impostazione patologica.
L’impostazione di tipo finalistico fa questa equivalenza: l’ordine lo si
ritrova nel fine della sessualità e il fine della sessualità va individuato
nella procreazione e nella riproduzione, con una preminenza data all’aspetto
biologico. Questa impostazione finalistica della sessualità giustifica
l’esercizio della sessualità nella sua finalità procreativa: se il fine
primario della sessualità è la procreazione, la sessualità viene qui intesa in
senso ridotto, ovvero circoscritta alla genialità. Quindi ogni attività
sessuale è giustificata e regolata dalla procreazione: di conseguenza ogni uso
della sessualità che non sia giustificato dal fine della procreazione o che sia
opposto a questo fine è peccaminoso (sia se è contro il fine, sia che è al di
là del fine). Alcuni moralisti distinguono poi tra fine primario e fini
secondari della sessualità. In questa prospettiva, ogni piacere sessuale (delectatio venerea) contro la finalità
procreativa e fuori del contesto matrimoniale (che autorizza la procreazione) è
da considerarsi illecito. In questa impostazione si dimentica però un aspetto
fondamentale, presente già in Tommaso d’Aquino: la natura dell’uomo è intellectus et ratio. In una prospettiva
più moderna, potremmo parlare di una natura spirituale dell’amore: ogni
riferimento alla natura biologica ha senso unicamente in questa prospettiva. Si
pensi per esempio al caso di una donna impossibilitata a procreare o al caso di
due anziani liberi da vincoli che vogliono sposarsi: in questa prospettiva
finalistica queste persone non potevano sposarsi.
Ed ecco perciò l’impostazione personalistica,
che fa riferimento all’amore come significato umano della sessualità: l’amore è
una proprietà intrinseca alla sessualità stessa. Nell’impostazione finalistica
si ricerca e si trova fuori della persona il valore della sessualità, qui
invece nella persona stessa. Nell’elaborazione giuridica messa in atto da
Orlando Bandinelli, divenuto poi papa Alessandro III, si distingue tra lo ius in corpus e l’esercitium iuris. Il problema era quello trattato in alcuni
trattati di mariologia: il matrimonio tra Maria e Giuseppe era un vero
matrimonio, se esso è finalizzato alla procreazione? Bandinelli afferma che nel
matrimonio si ha lo scambio dello ius in
corpus, ma non è detto che poi si eserciti questo diritto: si ha un
matrimonio rato e non consumato, che non è nullo, ma può essere sciolto. Nell’impostazione
personalistica si dà valore alla sessualità come linguaggio dell’amore come
qualità umana: l’amore è tipicamente umano. Scoprendo dunque quello che è il logos creatore in forza della creazione,
va scoperto il telos, che non viene
dal di fuori, ma è in quello che si è e che costituisce la comunità di vita e
di amore fra gli sposi. Il criterio personalistico afferma il significato
dell’amore fondato sulla natura, non intesa in senso biologico, ma nel senso
della natura personale.
L’impostazione patologica mette in risalto gli aspetti negativi: certamente
dai vizi possiamo risalire alle virtù, ma non possiamo impostare tutto dalla
prospettiva di ciò che è peccato; in questo senso l’impostazione patologica ha
dei legami con quella finalistica.
L’ordine morale oggettivo della sessualità deve avere dei criteri, delle
regole: deve avere cioè una grammatica e una sintassi. A proposito di questo
dobbiamo rispondere ad alcune domande fondamentali, che talora è molto
difficile anche porsi: io chi sono? L’altro chi è? Cosa dico, cosa voglio dire?
Come lo dico? A chi lo dico? Perché lo dico? Il criterio, dato che siamo
all’interno di un linguaggio, non può non essere quello della verità, che poi
trova espressione nella veridicità. La verità non si esaurisce nel non dire
bugie. L’impostazione personalistica, tenuto presente quanto abbiamo detto,
intende scoprire il valore e il significato etico nell’evoluzione della
persona: si tratterà dunque di educazione (e-ducere:
tirar fuori dal bene e dalla verità della persona; esso implica sempre un in-ducere). Nell’Humanae Vitae Paolo VI descrive le caratteristiche dell’amore: in
quanto umano, l’amore è allo stesso tempo sensibile e spirituale, è poi totale,
fedele ed esclusivo, ed è fecondo. Queste caratteristiche sono comunque le
caratteristiche dell’amore, in ogni caso. Qui la fecondità va intesa non
principalmente come fecondità fisica (in un senso riproduttivo), che invece
potremmo definire fertilità. La persona è chiamata ad operare un passaggio
continuo da ciò che è disorganizzato (come è tipico nella comprensione
infantile) a ciò che è organizzato. Non basta distinguere, come fa Maritain
riprendendo S. Tommaso, tra amor
concupiscentiae (che è una contraddizione in termini: se è amore, non può
essere di concupiscenza) e amor
benevolentiae: bisogna invece chiedersi se nel rapporto d’amore con
l’altro/a cerco la mia felicità o quella dell’altro, e se l’amore può essere
considerato tale o meno.
Appena promulgata l’enciclica Humanae
vitae (1968), a fronte delle critiche che si sollevarono contro il testo,
in un discorso fatto qualche giorno dopo, Paolo VI ha voluto dare una piccola
esegesi dell’enciclica, e in particolare di quello che può essere ritenuto il
punto più problematico (nn. 11-14), riprendendo il pensiero di Marteley, che
parla di verità e comunicazione della sessualità.
Molto importante per il nostro discorso è il verbo latino spicere, che significa “guardare”, e che
andremo a coniugare con le varie preposizioni:
-
ad-spicere: da questo verbo deriva aspectus,
che rimanda a qualcosa di esterno;
-
circum-spicere: significa stare attenti, cauti;
-
de-spicere: è un guardare dall’alto in basso. Ecco allora il dispectus, che può diventare disprezzo quando si guarda l’altro con
superiorità;
-
sub-spicere: è un guardare dal basso in alto. In esso c’è l’ammirare, ma c’è
soprattutto il suspectus di chi non
si fida e ha paura;
-
in-spicere: guardare dentro, penetrare. Da qui deriva il verbo italiano ispezionare;
-
prospicere: è un guardare avanti, un tenere d’occhio. Il prospectus ha una sua valenza positiva: il prospiciens è colui che tiene d’occhio. In tutti queste
preposizioni (tranne la prima e quest’ultima) si coglie una valenza negativa;
-
cum-spicere: indica un guardare insieme. Di qui deriva il termine cospetto;
-
per-spicere: significa un guardare sino in fondo, un cogliere, comprendere: il per fa riferimento ad una trasparenza
che viene attraversata;
-
re-spicere: nel re non vi è innanzitutto il
riferimento ad una ripetizione, ma con esso si un’attenzione particolare: il respectus è l’essere attenti.
Dietro queste parole vi è un modo di essere al mondo e di relazionarsi con
gli altri, tenendo conto del tutto e delle particolarità. In tal modo il
soggetto inizia a cogliersi come diverso dagli altri viventi (nell’uomo non c’è
solo un istinto di vita come quello presente negli animali) e a scoprirsi
differente dagli altri umani. Lo spicere
è innanzitutto un guardare se stessi e poi anche gli altri. Rispettando (re-spicere) e guardando in profondità (perspicere) gli uomini, si coglie la
diversità e l’originalità di ognuno.
Nella comunicazione, perché essa sia autentica, bisogna rispettare la
verità: perciò anche nella sessualità, che è il linguaggio dell’amore. L’uomo
ha la capacità di orientare, indirizzare quelle che sono le pulsioni, a
differenza degli animali: ovviamente per far questo è necessaria un’educazione
sessuale. Non sempre l’evoluzione sessuale della persona è così tranquilla e
lineare e non sempre sbocca in un esercizio adulto e libero della propria
sessualità, a seconda di quella che è la scelta di vita che la persona fa: vi
sono talora dei blocchi a livello di maturità o delle deviazioni che sono
patologie sessuali. Nel linguaggio si parla di perversioni, deviazioni,
disturbi, disfunzioni, etc.: abbiamo diverse tipologie di comportamenti. Nel
1886 il dottore Richard von Krafthebing pubblicò un testo dal titolo Psicopatia sexualis: questo testo ha
dato origine ad una classificazione delle psicopatologie sessuali; vi sono
delle patologie fisiche e vi sono delle patologie psichiche. Altri testi
importanti sono i saggi sulla psicosessualità di Freud. Altri riferimenti che
hanno influenzato la valutazione su questo sono dati dal DSM-IV (Manuale diagnostico e statistico dei
disordini mentali): tra i disturbi sessuali vengono posti determinate
disfunzioni, tra cui anche disturbi dell’identità di genere. La patologia può
essere di tipo organico e di tipo psicologico-comportamentale: quelle di tipo
organico sono quelle in cui vi sono dei deficit anatomici (che possono essere
ereditarie, acquisite). A riguardo è stata fatta la suddivisione tra oggetto e
funzione: vi sono delle deviazioni che riguardano l’oggetto della sessualità e
altre che riguardano la funzione, i modi della sessualità. Se assumiamo come
normale un rapporto sessuale tra un uomo e una donna adulti, dal quale può
venire un concepimento, quali sono le anomalie che riguardano l’oggetto della
sessualità? Sono l’omosessualità, il feticismo, la necrofilia, la zoofilia, la
gerontofilia, la pedofilia: il feticismo fa riferimento ad un oggetto, dove
perciò l’eccitazione sessuale, l’orgasmo, viene da una parte del corpo o da un
oggetto; la zoofilia viene indicata in termini classici con il termine bestialitas (rapporto sessuale tra un
uomo e un animale); la necrofilia indica un rapporto sessuale con un cadavere o
avvenuto in ambiente funerario; la gerontofilia indica un rapporto sessuale con
un anziano, mentre la pedofilia indica rapporti sessuali con un bambino. Circa
i modi e le espressioni della sessualità, si hanno anomalie dove vi è una
erotizzazione sostitutiva: è il caso del sadismo, del masochismo o del
sadomasochismo (l’eccitazione sessuale viene dal procurare violenza al partner
nel sadismo, oppure dal procurarsi violenza nel masochismo); oppure è il caso
dell’esibizionismo (l’eccitazione viene dal guardare nudi o da altre forme di
esibizionismo) o del guardonismo (procurarsi eccitazione dal guardare scene di
sesso), oppure quello del narcisismo (l’individuo è innamorato di se stesso).
Abbiamo 3 modelli di comportamento nella vita sessuale, fondati su 3
elementi diversi, che sono gli istinti, i sentimenti e le convenzioni:
-
modello istintuale: il criterio in questo modello
non è quello del bene, ma quello del benessere, che è benessere
fisico-psicologico. Perciò è necessario dar sfogo agli istinti per stare bene,
dal momento che si ritiene che ogni regolazione è repressione: perciò questa
energia irresistibile sessuale si accumula pericolosamente se non la si
scarica. L’istinto non viene vissuto come veicolo di apertura d’amore verso
l’altro, ma viene vissuto in maniera individualistica ed egoistica;
-
modello romantico: nell’esperienza della
sessualità emerge la centralità del soggetto, con i propri sentimenti e le
proprie emozioni. Poiché questa impostazione è fondata sul sentire, coloro che
soggiacciono a questo modello ricerca l’esperienza, considerata necessaria per
l’amore fra due persone;
-
modello illuministico: si parte da un
atteggiamento di sospetto nei confronti della società e delle norme sociali.
Perciò si ritiene che la norma sociale sia e debba essere soltanto una
convenzione: si acconsente che vi siano delle norme e delle regole che
diminuiscono la libertà di ciascuno affinché vi sia una convivenza il più
pacifica possibile, ma si nega alla norma un’obbligazione morale assoluta.
Conviene che ci siano delle norme, ma esse debbano esserci solamente se
conviene. In una società ideologicamente pluralista la convenzione civile deve
passare attraverso un consenso comune e partecipato: questo però non può
significare un consenso arbitrario. Il consenso infatti dovrebbe nascere da ciò
che è valido di per sé e non da ciò che può essere utile e conveniente per me.
Per una vita sessuale corretta è dunque necessaria un’educazione. Alla base
di una vita comune, di ogni amore è necessaria una fedeltà e una educazione dei
sentimenti e, solo se c’è questo, c’è anche la volontà di mettere al mondo dei
figli.
2.1 La via della vocazione
Ponendoci nella prospettiva dell’educazione, vi sono diversi tipi di
educazione: all’amore, alla sessualità, alla castità, alla sponsalità, etc.;
esse sono fra loro strettamente collegate.
Circa l’educazione all’amore, facciamo solo qualche sottolineatura.
Innanzitutto ricordiamo quella definizione-descrizione di GS 49 (questa
definizione è in relazione al matrimonio): la caritas abbraccia quelli che sono i sentimenti, e nobilita quelle
che sono anche le manifestazioni esterne fra un uomo e una donna. Sull’amore
tante sono state le riflessioni in passato: talora esse, più che aiutare a
capire, hanno confuso il discorso. Il termine amor infatti ha molteplici significati; Tommaso parla di amor come idem velle et idem nolle, come esse
quodammodo unum. La distinzione scolastica tra amor concupiscentiae et amor
benevolentiae rischia di essere equivoca: la concupiscenza infatti non può
essere amor. Riprendendo la
distinzione tra eros e agape, dobbiamo dire che queste due
forme di amore devono integrarsi fra loro. Il sentimento può essere una
meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell’amore.
L’educazione alla sessualità non è semplice informazione, sebbene essa sia
necessaria. Sottolineiamo due punti. Innanzitutto riprendiamo un documento del
Pontificio Consiglio per la Famiglia del 1995: essi sono degli orientamenti
educativi in famiglia. In questo documento (dal n. 64 in poi) vengono presentati
4 principi sulla informazione a riguardo della sessualità:
-
ogni bambino
è una persona unica e irripetibile e deve ricevere una formazione
individualizzata: sono i genitori nella posizione migliore per decidere quando
e come;
-
la dimensione
morale deve far parte sempre delle loro spiegazioni: non ci si può solamente
fermare ad una informazione biologico-sanitaria;
-
la formazione
alla castità e opportune informazioni sulla sessualità devono essere inserite
nel contesto più ampio dell’educazione all’amore: i punti devono essere
collegati e non separati;
-
i genitori
devono impartire questa informazione con estrema delicatezza, ma in modo chiaro
e nel tempo opportuno.
Emergono qui alcuni criteri in relazione a questa ultima affermazione: adeguamento,
progressività, tempestività, integrazione, verità, personalismo. Circa il
personalismo, bisogna sempre tenere presente il mistero della persona; circa la
verità, essa consiste nel non dire bugie in questo ambito; circa l’adeguamento,
esso è il tenere conto dell’età e del sesso di colui che viene educato; circa
la progressività, essa è la progressione nell’informazione; la tempestività
serve ad evitare il radicarsi di idee sbagliate; integrazione significa che
l’informazione va integrata nella più vasta educazione della persona, prendendo
spunto dall’esperienza di vita della persona.
Vediamo ora l’educazione alla castità. Nel documento citato, dal n. 16 al
n. 25, si parla del rapporto tra amore vero e castità e specificamente sulla
castità come dono di sé. Trattare della castità nell’ambito della teologia
morale o nella formazione o nella catechesi non è così facile, soprattutto se
ci rifacciamo a quella che è una tradizione secolare a riguardo nella quale
siamo cresciuti e che ha imposto un certo modello, del quale siamo ancora
eredi.
Nei trattati classici di morale veniva data prima un significato etimologico
di castitas e poi un significato
reale. Circa la notio etimologica di
castità, il termine latino castus
deriva dal greco katharos (“puro”);
secondo Isidoro di Siviglia, l’origine di questa parola sarebbe da
“castrazione”, perciò casto significherebbe “castrato”. Alcuni autori più
recenti fanno derivare castus da candere, che significa “diventare
bianco”, mentre il termine castitas
deriverebbe da castigatio, “castigo”
della concupiscenza. La nozione reale di castità, in questo caso, è quella di
virtù morale che separa l’animo dalle illecite voluttà della carne affinché noi
non usiamo di questi al di fuori di quello che è l’ordine prescritto della
ragione; secondo Noldin, la castità è quella virtù morale che esclude o modera
l’appetito del piacere venereo. Questa impostazione è però riduttiva.
A tal riguardo, il CCC ha modificato l’impostazione circa la descrizione
della castità (n. 2337), anche se lo stesso CCC, quando tratta del vizio
opposto alla castità (lussuria), utilizza la vecchia definizione. Della castità
si dice che essa esprime la positiva integrazione della sessualità nella
persona. La sessualità diventa personale e veramente umana quando è integrata
nella relazione tra persona e persona, nel dono reciproco tra uomo e donna; la
virtù della castità comporta l’integrità della persona e l’integralità del
dono. Questa definizione è quasi perfetta: la castità infatti, essendo virtù
umana, non va inquadrata solamente all’interno della prospettiva matrimoniale.
Facciamo riferimento ora all’esortazione apostolica Pastores dabo vobis (n. 44): “l’uomo
non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere
incomprensibile: la sua vita è priva di senso se non gli viene rivelato
l’amore, se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta. Si tratta di un
amore che coinvolge l’intera persona in tutte le sue dimensioni e che si
esprime nel “significato sponsale” del corpo umano, grazie al quale la persona
dona se stessa all’altra e la accoglie. Alla comprensione e alla realizzazione
di questa verità dell’amore tende l’educazione alla sessualità rettamente
intesa, che sia pienamente personale e che faccia posto alla stima e all’amore
per la castità”. Se volessimo dare una definizione al positivo di castità,
riprendendo anche quanto viene detto nel CCC, possiamo dire che la castità è
amore che si realizza, che cresce e che si rinnova, è la vera educazione
dell’amore, è la sessualità messa a servizio dell’amore; non si tratta di
definizioni scientifiche di castità, ma esse colgono l’essenza in una visione integrale
della persona. La virtù di castità, come dice il CCC, implica l’integrità della
persona umana e l’integralità del dono: queste due dimensioni vengono spiegate
nei numeri successivi (l’integrità della persona nei nn. 2338-2245: non
doppiezza, etc.; l’integralità del dono nei nn. 2346-2347).
Qual è dunque il significato delle norme proibenti proposte dalla morale?
Le norme proibenti servono ad educare, quindi vanno colte sempre nell’opera di
maturazione e di crescita della persona, proprio perché la fedeltà all’amore
esige anche questa parte negativa (dominio di sé, sacrifici), sempre però in
funzione della crescita positiva dell’amore.
Facciamo riferimento a due frasi di Tommaso: non potest esse operatio perfecte bona nisi etiam adsit delectatio in bono
(“non può esserci azione perfettamente buona se non c’è anche gioia nel bene”);
virtus in propriis delectatur (“la
virtù trova piacere in ciò che le è proprio”), perciò la tristezza per quelle
cose legate alla virtù non può stare insieme con la virtù. La vera perfezione
si ha solo quando si ha gioia nel bene: le rinunce acquistano senso quando
vengono fatte proprie in funzione dei valori che quelle rinunce vogliono
difendere; se la rinuncia produce tristezza, significa che c’è ancora qualcosa
di imperfetto. Perciò la continentia
non si identifica ancora con la castitas.
Un’altra virtù è quella della pudicitia,
che fa riferimento all’intimità della persona: ma se la persona è corpo-anima,
allora la pudicizia non si riferisce soltanto all’intimità del corpo, ma si
riferisce anche e soprattutto all’anima. Si è cercato di spiegare che cosa sia
quel moto naturale che è il pudore e come su di esso si innesti la virtù, che
si preferisce chiamare “pudicizia” proprio per distinguerlo dal pudore, che in
quanto tale non è virtù, ma è un moto naturale. Ogni persona cerca di
proteggere e di nascondere l’intimo di sé: esso deve essere perciò tutelato,
tanto che la Chiesa stessa ha messo da parte, nel corso della storia, la penitenza
pubblica. La pudicizia è un aiuto per la castità.
Nella morale tradizionale si è distinto tra castitas perfecta e castitas
imperfecta. Vi sono alcuni luoghi comuni sulla castità: alcuni affermano
che essa era una virtù tempo fa e non oggi, altri ritengono che la castità
riguardi solamente i consacrati, altri ancora pensano che la castità riguardi
solo il periodo prematrimoniale, altri ritengono che castità matrimoniale sia
non avere rapporti prematrimoniali, altri che la castità riguardi solo l’anima.
L’elemento formale della castità è uguale per tutti (riguarda tutti): la
castità è certamente virtù cristiana, ma è già virtù umana, ed è la
disposizione abituale a valutare e vivere la sessualità secondo le esigenze
della natura umana; il modo concreto di vivere la sessualità ovviamente varia
poi a seconda dei diversi stati di vita. Ed è qui che si inserisce la
distinzione tra castitas perfecta e castitas imperfecta, distinzione che
potrebbe causare fraintendimenti (per cui la castità perfetta sarebbe
l’astensione da ogni uso corporeo della sessualità, mentre la castità dei
coniugati non sarebbe perfetta). Ma se intendiamo così i termini, i coniugati
non potrebbero vivere la perfezione.
Sicuramente la castità è virtù umana, ma essa rimane sempre frutto di una
donazione divina più che di una conquista umana: essa è un agire secondo
verità, in quanto la sessualità ha un suo linguaggio che deve essere espletato
in base al proprio stato di vita. Non possiamo però dire che un vergine sia più
perfetto di un coniugato, ma è lo stato di vita ad essere più perfetto
dell’altro, in quanto anticipa quella che è la condizione definitiva del Regno.
Quando si parla della castità
prematrimoniale, molto spesso ci si riferisce ai rapporti prematrimoniali. È
questo un discorso che si colloca molto bene nell’ambito della preparazione al
matrimonio. È questa una questione variamente trattata. Alcuni trattano dei
limiti entro cui un rapporto tra un ragazzo e una ragazza deve stare; altri si
limitano a parlare della capacitas al
matrimonio, ridotto però alla capacitas
fisica, che porta poi a parlare di impedimenti inerenti il matrimonio. Su
questo tema due erano i consigli che venivano dati: 1) numquam solus cum sola: era una norma di prudenza; 2) nisi caste saltem caute (se non
castamente, almeno prudentemente): ma questa cautela poteva assumere varie
forme, come il ricorso a pratiche contraccettive. Questa impostazione è molto
parziale. Vi è comunque una consapevolezza di fondo: lo stato di fidanzati
costituisce un’occasione prossima di peccato, se evidentemente i due sono molto
intimi fra di loro; è chiaro però che la questione non può essere presentata
così. Perciò i documenti ufficiali hanno significato un mutamento di
prospettiva: il tempo di fidanzamento non è solo un tempo di preparazione al
matrimonio, ma è tempo di crescita, di responsabilità e di grazia (CEI, Direttorio per la pastorale familiare,
1993). Ciò non toglie che vi siano problemi, che ci si possa trovare dinanzi a
rapporti prematrimoniali e che bisogna dare delle indicazioni anche a queste
persone. Il matrimonio non è semplicemente qualcosa di privato fra due persone,
ma ha implicazioni sociali: una visione privatistica del rapporto
interpersonale non ha valore e senso. Nell’esortazione apostolica Familiaris consortio si parla di una
preparazione al matrimonio che non è solo immediata, ma anche remota,
assimilata quasi ad una forma di catecumenato. Indichiamo alcuni criteri per un
discernimento etico nella valutazione della sessualità:
-
principio di differenza: la differenza tra maschio e
femmina non è solamente una differenza di tipo culturale, ma è fondata nella
natura. Essa va difesa e ciascuno ha il compito di esprimere la propria
mascolinità o la propria femminilità. La differenza non è per la solitudine o
l’egoismo, ma è per il completamento, per l’arricchimento e la donazione. Nella
scelta coniugale è una scelta di donazione ad una persona;
-
criterio
della maggioranza: esso è un
criterio sociale opinionista. Qui cadiamo nel relativismo più totale;
-
in altri casi
si supplisce alla mancanza di valori con norme minimali;
-
anche il
criterio religioso può essere problematico, in quanto questo può portare a seri
problemi in nazioni in cui il criterio di moralità è stabilito dal testo sacro
di una religione ed esso lo si fa valere per tutti.
Quali criteri allora? Ecco alcuni:
-
criterio di totalità: si deve considerare la
persona nella sua totalità. La sessualità non è una parte, ma è dimensione
costitutiva della persona;
-
criterio di affettività: è apertura all’altro
contro ogni egoismo;
-
criterio di fecondità: non vi può essere un amore
infecondo, è una contraddizione in termini;
-
criterio di fedeltà: è essenziale per una piena
espressività dell’amore. Dicendo fedeltà non ci si riferisce semplicemente a
mancanza di tradimento: la fedeltà è continua adesione al progetto condiviso, e
in questo non è ripetitività ma è creatività in un affidarsi reciproco;
-
criterio di socialità: se è evidente che vi sia un
aspetto di riservatezza, è anche vero che ogni cultura e ogni popolo pongono
delle regole, dal momento che l’amore fra due persone coinvolge la società. La
norma sociale è garanzia dell’intimo valore della sessualità, che non è mai
totalmente privata.
Nella valutazione della moralità di un atto non si deve unicamente
considerare il lato oggettivo di un atto, ma è necessaria anche una valutazione
soggettiva, personale (intenzioni, circostanze, etc.): quindi un atto
oggettivamente cattivo potrebbe non esserlo soggettivamente.
I due criteri più condivisi di valutazione degli atti sono l’ordo amoris (per cui un atto è moralmente
buono quando si addice a questo ordo)
e la recta ratio.
Tommaso definisce la lussuria in questo modo: in hoc quod aliquis non secundum rectam rationem delectatione venerea
utitur. Ma cosa è la recta ratio
e come essa impone di comportarsi? Il CCC così definisce la lussuria: è un
desiderio disordinato o una fruizione sregolata. A differenza della definizione
di Tommaso, nel frui non vi è
negatività, presente invece nell’uti.
Inoltre il CCC continua affermando che il piacere sessuale è moralmente disordinato
quando è ricercato per se stesso al di fuori della finalità di procreazione e
di unione. Come vediamo si inserisce qui il discorso sulle finalità. Ma, dopo
l’Humanae vitae, che ha parlato non
di finalità, ma di significati, è ancora plausibile parlare di finalità? È
questa una critica.
La virtù di castitas è conforme
all’ordo amoris e alla recta ratio. Ad essa si oppone la luxuria,
di cui ora andiamo a parlare. Agli inizi della letteratura cristiana il vizio
contrario alla castità è chiamato in greco porneia:
questo termine, presente nel NT e utilizzato da Evagrio Pontico, fa riferimento
ai peccati nell’ambito della sessualità. Alcuni autori di lingua latina parlano
invece di fornicatio, tra cui
Cassiano: questo termine è quello usato nella Vulgata come traduzione di porneia;
il termine fornicatio ha però nella
lingua latina e nel contesto cristiano un uso più ristretto: stando a Isidoro
di Siviglia, il termine deriverebbe da fornix
(“fornice, arco”), che era il luogo dove erano solite fermarsi le prostitute.
Gregorio Magno, nei suoi Moralia,
definisce luxuria questo peccato e
non più fornicatio: il termine luxuria deriva da luxus (“lusso”) e indica l’eccesso, l’esagerazione per ciò che
riguarda l’uso della sessualità; questo termine raccoglie i vari atti attinenti
il corpo e la sessualità in una prospettiva moralmente negativa. Dobbiamo ora
vedere quali sono i peccati che rientrano in questo ambito della lussuria, come
vizio opposto alla virtù di castità.
Nella tradizione cristiana diversi autori sottolineano che nella lussuria è
coinvolto tutto l’uomo, con i suoi sensi. Ma la lussuria è sì vizio del corpo,
ma è anche e forse soprattutto vizio dell’anima: si pensi a Mc 7 dove si dice
che dal cuore degli uomini escono i propositi di male. Gli autori cristiani
sottolineano che la lussuria è anzitutto vizio dell’anima, che perciò richiede
una lotta interiore per purificare il cuore: Cassiano affermava che la
purificazione di questo vizio dipende essenzialmente dalla perfezione del
cuore; nel De civitate Dei, Agostino
parla della lussuria non come di vizio dei corpi belli attraenti, ma è il vizio
dell’anima che ama in maniera perversa i piaceri corporei. Molto spesso gli
autori collegano la lussuria alla gola.
Circa la lussuria, Tommaso distingue i peccati contra naturam e quelli iuxta
naturam. Di per sé, con il termine natura,
si intende ciò che per natura (per i cristiani, per volere del Dio cristiano)
si richiede per la generazione e la procreazione. I peccati iuxta naturam sono quei peccati in cui
si cerca il piacere sessuale per mezzo di atti che per loro natura sono
ordinati alla generazione: dal punto di vista fisico si conserva quello che è
l’ordine naturale della copula, ma sono peccati perché, pur essendo iuxta naturam, vi sono altre cose che
non sono ordinate (si pensi, per esempio, all’adulterio: il rapporto sessuale
avviene secondo natura, ma si pone contro la virtù di giustizia; o si pensi
all’incesto che va contro la pietas;
si pensi al sacrilegio carnale, rapporto con un consacrato, che va contro la
virtù di religione). I peccati contra
naturam sono di vario tipo: per esempio, la masturbazione; oppure nel caso
di un rapporto con un essere non umano; oppure nel caso di rapporto con un
omosessuale; un caso di peccato contra
naturam potrebbe essere anche l’uso di metodi contraccettivi.
Nella valutazione dei peccati contro la castità vi sono situazioni più
problematiche dal punto di vista sociale. Nel CCC, dal n. 2352 in poi, si accenna ad
alcuni di questi comportamenti o atteggiamenti: nel libro si parla
dell’autoerotismo, della prostituzione e in maniera particolare
dell’omosessualità. Già con la dichiarazione Persona umana della CdF (1975) il Magistero è intervenuto su alcuni
comportamenti nell’ambito della sessualità visti nella prospettiva della
persona umana: si parla della masturbazione, dell’omosessualità (sulla quale
sono il Magistero è tornato, nella lettera Homosexualitatis
problema).
Riguardo alla masturbazione, è preferibile parlare di autoerotismo. Questa
problematica va vista distinguendo se si colloca nella scoperta della propria
sessualità e delle proprie potenzialità o se si colloca nel comportamento di
una persona adulta. Esso è un peccato contra
naturam: ma più che contrario alla natura biologico-riproduttiva, è
contrario alla natura affettivo-relazionale, in quanto si qualifica contro l’ordo amoris, dal momento che non esprime
la dialogicità e la donazione ed è assente la fecondità. Ecco allora la
distinzione fatta da alcuni autori tra atteggiamento masturbatorio (in tal caso
vi è una personalità orientata in maniera egocentrica: è costitutivo) e
comportamento masturbatorio (che non è costitutivo). Al n. 9 Persona umana scrive che l’immaturità
dell’adolescenza, che può talvolta prolungarsi oltre questa età, lo squilibrio
psichico o l’abitudine contratta possono influire sul comportamento, attenuando
il carattere deliberato dell’atto e facendo sì che non vi sia sempre colpa
grave. Certamente non bisogna partire sempre dal presupposto che si rientri in
queste attenuanti.
Per quanto riguarda la prostituzione, il problema non può essere valutato
solamente nella considerazione di una moralità soggettiva personale, ma va
valutato anche in prospettiva sociale. Se vediamo qualsiasi definizione di
prostituzione presente in dizionari del secolo scorso, si definisce come il prestarsi a rapporti sessuali con tutti e
sempre dietro pagamento. Ma essa non può essere ridotta solamente a questo:
molto spesso, dietro questo fenomeno, vi sono delle vere e proprie associazioni
a delinquere. Legato a molte situazioni dove è coinvolta la sessualità, è il
problema della violenza: la violenza sessuale non è solo quella comunemente
intesa, ma ve ne sono varie forme (alcune forme di pornografia sono forme di
violenza sessuale; si pensi alle violenze interne alla famiglia o
intraconiugali, etc.).
Guardiamo ora al fenomeno dell’omosessualità.
Il termine “omosessualità” è moderno. Nel leggere il fenomeno ognuno deve
tenere presente che ciò è condizionato dal contesto in cui si è inseriti. Nel
2003 sono state pubblicate alcune considerazioni circa i progetti di
legalizzazione di alcune unioni omosessuali; nel 2005 la Congregazione per
l’Educazione Cattolica ha pubblicato un documento sui criteri di discernimento
per quanto riguarda persone omosessuali.
La Scrittura parla certamente di comportamenti riconducibili a quella che
oggi chiamiamo omosessualità, anche se i vari testi (Gn 19, Lv 18; Lv 20; 1Cor
6,9; Rm 1,26-27) danno delle indicazioni, ma non sono precisi in merito, tanto
che le interpretazioni degli esegeti smentiscono talora le interpretazioni
classiche. Nella valutazione, si dovrebbe sempre distinguere tra la valutazione
dell’omosessualità e la valutazione della persona.
Va chiarita la differenza tra tendenza
e comportamenti: la tendenza è un
orientamento psico-affettivo per persone dello stesso sesso, ma essa non
necessariamente si esprime a livello sessuale genitale; il comportamento invece
si pone a livello di atti. Questa distinzione è tenuta in considerazione sia
nella dichiarazione Persona humana
sia nella lettera Homosexualitatis
problema: si dice che da un punto di vista morale la condanna non è della
tendenza in quanto tale, ma degli atti della persona omosessuale. In quanto
tale, la tendenza è un disordine oggettivo rispetto all’ordine morale, ma ciò
non significa che sia in se stesso qualcosa di peccaminoso. È un discorso
analogo a quello della concupiscenza. Il Concilio di Trento, nel decreto sul
peccato originale, ha considerato la concupiscenza non un peccato vero e
proprio, ma è la tendenza alla base del peccato.
L’omosessualità può essere vissuta nelle tipologie più varie, dal
libertinismo totale (dove si giunge a forme di perversione), ad una
omosessualità vissuta nel nascondimento. Inoltre diverse possono essere le
cause dell’omosessualità: di ordine biologico (malfunzionamento di qualcosa a
livello ormonale), di ordine psicologico o psichiatrico (si pensi a traumi
vissuti in infanzia o a ruoli deficitari delle figure parentali).
- IL MATRIMONIO
In passato la trattazione sul matrimonio era essenzialmente composto da
tesi che miravano a dimostrare la sacramentalità e le proprietà del matrimonio:
la dimostrazione di queste tesi viene fatta servendosi di argomenti tratti
dalla Scrittura, dalla Tradizione, da motivi di convenienza. Il problema di questo
metodo manualistico è quello di ridurre la Scrittura ad un insieme di dicta probantia. Un altro metodo è
quello allegorico-spirituale: nella Tradizione abbiamo autori che utilizzano
allegorie, soprattutto per spiegare la Scrittura (v. Bernardo).
Il metodo proposto dal Vaticano II per la teologia (OT 16) è il metodo
chiamato “storico-genetico”: si parte dalla Scrittura, si percorre la
Tradizione, per poi fare l’esposizione sistematica. Questo metodo, che si può
utilizzare bene per molti trattati della teologia sistematica, è più difficile
da utilizzare per altri trattati (es. morale della vita). Essa è però
utilizzabile per i sacramenti, e dunque anche per il matrimonio.
Alcuni hanno definito il matrimonio come il “sacramento antico”: esso è
presente da sempre nella storia dell’uomo, fin dall’origine della creazione.
Circa il matrimonio, sembrerebbe dunque che Cristo non inventa nulla: ma allora
in che senso il matrimonio è sacramento della Nuova Alleanza? Cosa è che fa sì
che il matrimonio sia sacramento, teologicamente parlando? Il fatto che i due
siano battezzati fa sì che il loro matrimonio sia sacramento: soltanto in
questa chiave possiamo leggere le varie testimonianze, tra cui la pericope
delle nozze di Cana, in cui lo sposo viene ad essere colui che è stato invitato
alle nozze, Cristo (a Cana inizia lo sposalizio di Cristo con l’umanità). La
categoria della sponsalità può essere una categoria con cui leggere la storia
della salvezza, per riflettere sulla realtà del matrimonio: ed è la scelta che
si è fatto.
Un altro metodo che può essere usato è un metodo più liturgico: i
sacramenti sono realtà celebrate nella liturgia, variata nel corso dei secoli;
circa il matrimonio, si è passati da una quasi non-liturgia (per molti secoli
il matrimonio si è celebrato senza una consapevolezza che quello era un atto
liturgico-sacramentale) a una celebrazione liturgica ricca di testi eucologici
e scritturistici. I testi hanno però una valenza diversa, alcuni sono più
ricchi e altri meno.
La Scrittura non è un trattato sul matrimonio, ma essa parla del matrimonio
dalle prime pagine fino alle ultime. Dire “matrimonio” è restrittivo, se non
addirittura equivoco: il termine matrimonio,
etimologicamente, deriva da matris munus (in
contrapposizione al patris munus),
poiché è la donna a portare il peso e il compito di esso, dal momento che il
matrimonio viene visto unicamente nell’orizzonte della procreazione. Anche il
termine sposalizio può essere
ambiguo: lo sponsor è colui che promette di dare un contributo; la radice spondeo fa riferimento a qualcosa che
inizia ma che ancora non c’è.
In alcune zone sussiste ancora la tradizione della caparra, che prima
veniva data negli sponsalia (sorta di
fidanzamento ufficiale) alcuni anni prima, mentre ora è ridotta a livello
rituale e simbolico. In tal senso quella del matrimonio è dunque una
celebrazione continuata, che il diritto canonico e civile cerca di ordinare. I
due sono considerati sposati quando esprimono il loro consenso: ma la questione
è molto complessa. Tuttavia questa concezione legata “al momento” in cui viene
espresso il consenso dovrebbe cedere talora il passo ad una concezione più
ampia, in cui il matrimonio viene visto come progressivo.
Questa progressività emerge già nell’AT. Ai nn. 9-11 della Deus caritas est Benedetto XVI parla
della nuova immagine di Dio e della nuova immagine dell’uomo. Nelle culture che
circondano il mondo biblico l’immagine degli dèi rimane poco chiara e
contradditoria; nella storia del popolo di Israele invece Dio si rivela sempre
più chiaramente. Tutti gli altri dèi non sono Dio e tutta la realtà in cui
viviamo risale a Dio ed è da lui creata. Dall’AT emerge che Dio ama l’uomo e il
suo amore è elettivo, si concretizza nell’amore per un popolo e questo amore
può essere configurato come eros che
tuttavia si identifica con l’agape.
Se questa è l’immagine di Dio, segue quella dell’uomo. Ai primi capitoli della
Genesi si parla della solitudine dell’uomo, che nel paradiso terrestre non
trova nessun aiuto che gli sia corrispondente: l’idea che l’uomo sia
costituzionalmente incompleto e in cammino per trovare la sua completezza
nell’altro sesso è presente nel testo biblico (ecco il senso della profezia: “Per questo l’uomo abbandonerà…”). Due
sono quindi gli aspetti importanti:
-
l’eros è come
radicato nella natura dell’uomo;
-
l’eros
rimanda l’uomo al matrimonio, cioè ad un legame che ha le caratteristiche di
unicità e definitività.
All’immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico. Il
matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona dell’amore
di Dio per il suo popolo e viceversa; il modo di amare di Dio diventa la misura
dell’amore umano.
In Dt 6,4 ritroviamo un’affermazione di monoteismo; in Dt 5,7 e in Es 20,3
(sono le due versioni del Decalogo) abbiamo il comando di non avere altri dèi
di fronte al Signore. Questo comando non è un’affermazione di monoteismo, ma di
monolatria (le due cose non coincidono, sebbene l’affermazione di monoteismo
richiede la monolatria): monolatria significa che Israele deve rendere culto
unicamente al Signore, non interessandosi agli dèi che gli altri popoli
adorano. Il problema qui è l’uscire fuori di Israele da quello che è il mondo
in cui egli si trova: la presa di coscienza della propria identità è possibile
a partire dalla rivelazione di Dio.
Gli antichi, quando parlavano di sessualità, non potevano spiegarsi
scientificamente, ma vedevano in essa una manifestazione particolare della
fecondità della natura e sapevano che dipendevano da essa per la propria
sopravvivenza e per quella della propria specie. Per spigare questa fecondità,
essi la riferivano al comportamento sessuale delle divinità, immaginate come
sessuate (maschi e femmine). Nei confronti di queste divinità, l’uomo si pone
con i cosiddetti riti magici. Quando Israele si insedia in Canaan ritrova forme
rituali che anche Israele aveva molto prima, ovvero il culto degli dèi della
fecondità: l’adoratore di queste divinità cercava di procurarsi il favore della
fecondità, quella delle mogli, del bestiame e della terra. Quando si parla di
prostituzione sacra, il termine non va inteso primariamente al significato
negativo che diamo oggi, ma il rapporto sessuale con la prostituta sacra
dovrebbe rendere favorevole la divinità perché si realizzi la fecondità della
moglie, del bestiame e della terra. Il cammino che Israele ha dovuto fare per
liberarsi da tutto questo è stato lungo e difficile: esso è stato possibile
soltanto nella rivelazione che non esiste un olimpo di divinità, ma vi è un
unico Dio. Quest’unico Dio non ha accanto a sé una dea compagna, ma è uno e
unico: perciò vengono rimossi tutti i riti che derivavano da una concezione di
nozze divine e rapporti sessuali divini. La conseguenza fondamentale relativa
alla realtà sessuale è questa: essa è buona in quanto direttamente voluta dal
Dio Creatore; essa non richiede nessun’altra consacrazione, ma è buona
originariamente, legata al fatto stesso della creazione.
In questa chiave vanno lette tutte le riflessioni sull’amore e sulla
sessualità. Per parlare dell’amore di Dio per il popolo, i profeti iniziano ad
utilizzare l’immagine e l’esperienza dell’unione coniugale, affermata in
Genesi, che però cade sotto la realtà del peccato. Proprio questa esperienza
coniugale, buona in sé ma talora vissuta infedelmente nel peccato, permette di
parlare del rapporto tra Dio e il popolo.
Per quanto riguarda l’ordine della creazione e il dramma del peccato (ciò
che emerge dai primi 3 capitoli di Genesi, ma dall’intera storia dell’umanità),
possiamo cogliere alcuni elementi:
-
la sessualità
è una realtà ambigua: essa è principio ordinatore della differenza, ma anche
fattore di divisione. Positivamente è condizione di possibilità di una vera
relazione;
-
le coppie di
patriarchi mostrano come la sessualità, sotto la benedizione di Dio, diventa
creatrice di storia, di vita, di amore. Questa è una riflessione che non solo
intepreta la differenza come ordinatrice del mondo, ma come condizione di
possibilità di una vera relazione. Quello che è un limite (la differenza) è
necessario perché vi sia unione e riconoscimento reciproco. Nel racconto di Gen
2 la sessualità è possibilità di confronto, dono del Creatore perché l’uomo
possa sperimentare l’alterità, che non è soltanto l’alterità della donna, ma è
anche l’alterità di Dio. In tal senso la sessualità umanizza l’uomo, dal
momento che gli permette di confrontarsi con la realtà strutturante del limite.
La sessualità dunque può portare a riflettere su Dio. Quando la sessualità
viene vissuta nel disordine, essa viene portata ad essere idolatria: è questo
che viene visto nel racconto delle origini. La tradizione biblica ci dice che
se la sessualità viene vissuta come un mezzo per rifiutare l’alterità e il
limite, essa allora diventa segno di un disconoscimento di Dio. Il rischio più
grande che la sessualità fa correre all’uomo è quello di chiudersi
nell’autosufficienza, per cui gli altri non hanno senso e funzione se non
quella di servire all’edificazione del proprio io. Ingannandosi su se stesso,
sul senso del limite che la sessualità segna nel suo corpo, l’uomo si inganna
su Dio, poiché fa diventare Dio un tiranno. La conseguenza è che la relazione
uomo-donna viene turbata, sommersa dalla paura, dal risentimento, dall’accusa,
dal sospetto. La bontà della sessualità, della differenziazione uomo-donna, è
legata per l’uomo, unica creatura capace di intendere e di volere, al
riconoscimento dell’alterità di Dio e dell’esperienza positiva del limite. Per
il fatto stesso di essere stato creato sessuato, questo suo essere sessuato è
fondamentale nelle sue relazioni con l’alterità. Ecco perché alcuni Padri della
Chiesa interpretano il peccato originale come legato alla sfera sessuale.
Le conseguenze del peccato sono negative: si pensi al dominium, che dovrebbe essere esercitato in relazione al Dominus, ma che invece diviene
sopraffazione. Non è un caso che, subito dopo, si narra che Lamech prende due
mogli, contravvenendo a quell’ordine voluto dal Creatore: Lamech è questo
sanguinario iniziatore della vendetta senza fine (non è un caso che colui che
dà inizio a tale violenza dà inizio anche alla poligamia). Il peccato genera
anche altri peccati: prostituzione, adulterio, etc.
Nella riflessione profetica, possiamo rinvenire una volontà di elaborare
una teologia del matrimonio? Probabilmente no, ma ciò non toglie che nei
profeti vi sia una certa teologia del matrimonio. I profeti hanno sempre il
ruolo di richiamare l’alleanza e le sue esigenze. Per descrivere la realtà
dell’alleanza, si inizia ad utilizzare le categorie coniugali, l’esperienza
stessa nuziale (viene talora anche descritta con immagini contrattuali). Colui
che ha maggiormente utilizzato queste categorie coniugali è sicuramente il
profeta Osea; vi sono anche testi significativi in Isaia, in Geremia e in
Ezechiele.
Per quanto riguarda l’esperienza di Osea, egli è chiamato a portare il
messaggio divino non soltanto con le parole, ma addirittura con la propria
vicenda di vita. Evidentemente questo può turbare chi si accosta al testo di
Osea senza possedere dei criteri ermeneutici ed esegetici, dal momento che ad
Osea viene ordinato di prendere in moglie una prostituta e di chiamare i suoi
figli con nomi non bellissimi. Il disgraziato matrimonio di Osea può essere
assunto nella chiamata profetica per descrivere il rapporto di Dio con il
popolo e del popolo con Dio. Osea è chiamato, nonostante tutto, a rimanere
fedele, così come Dio rimane fedele al suo popolo.
Dai vari testi profetici si possono ricavare alcune parole chiave, dietro
le quali ci sono i temi fondamentali, specie quello dell’alleanza, letta
secondo le categorie sponsali e nuziali: per questo i termini che ora andremo
ad indicare passano a riferirsi alla realtà sponsale stesso. Queste le parole: hesed (amore segnato da bontà,
compassione, tenerezza), ‘emunah
(fedeltà: è l’amen definitivo che i due si scambiano), qin’ah (gelosia, intesa non nel senso negativo, ma intesa come
amore esclusivo e totale, che non ammette concorrenti), ahabah (è il desiderio profondo, che fa sì che l’uomo prediliga una
determinata donna).
Al di là di alcuni testi particolari, dobbiamo mettere in evidenza i valori
che emergono progressivamente nella Rivelazione, valori come la fedeltà,
l’indissolubilità, etc., che vengono visti nel principio creatore di Dio. Uno
dei principi che ritroviamo nella Scrittura è l’endogamia, alla quale talora si viene obbligati: il motivo di essa
è unicamente la fede nell’unico Dio. Pensiamo al libro di Tobia, in cui è
applicata la legge dell’endogamia per quanto riguarda Sara. Un libro molto
importante è il Cantico dei Cantici,
in cui tutto appare così profano, tanto che anche all’interno dello stesso
mondo ebraico questo libro è stato accettato faticosamente. Nella Mishna si afferma però che nessuno al
mondo è degno del giorno in cui il Cantico è stato scritto, essendo il più
sacro fra tutti i libri; parole di lode per il Cantico le ha anche Origene:
beato chi canta i cantici della Scrittura, ma beato chi medita il Cantico; papa
Giovanni Paolo II, nelle sue catechesi del mercoledì, definisce il Cantico come
il cantico per eccellenza.
Il Cantico dei Cantici è una raccolta di canti d’amore o un dramma lirico:
c’è chi dice che potrebbe essere stato composto in Egitto e che l’autore
potrebbe essere addirittura una donna. Qualcuno dice che sono due gli stadi di
composizione dell’opera: vi è un’opera lirica che voleva cantare l’amore fra
uomo e donna (non tanto due sposi) e poi vi sarebbe stata un’interpretazione
posteriore che ha trasposto queste
figure nell’immagine profetica del matrimonio. In questo testo è descritta
tutta la dinamica dell’amore, nella sua genesi, nel suo lasciarsi, nella
bellezza del ritorno e del ritrovamento. È interessante allora ciò che è stato
sottolineato da Shulaqi, per cui il Cantico condensa in sé l’esperienza della
Genesi, dell’Esodo e dell’esilio: in esso vi sarebbe quindi la storia di
Israele e, in essa, la storia dell’umanità intera.
Passiamo al NT. Dobbiamo leggere tutto alla luce della categoria della novità evangelica, che non annulla ciò
che viene prima, ma lo porta a compimento. Gesù è lo Sposo che sposa l’umanità,
che è un assumere la natura umana: tutto il NT va letto perciò in questa chiave
sponsale
I testi neotestamentari non sono però tantissimi: ne prendiamo in
considerazione tre, ovvero Mt 19 (Mc 10), 1Cor 7 ed Ef 5.
Circa Mt 19 e Mc 10, i farisei sottopongono a Gesù la problematica
questione circa il divorzio. La domanda è molto sottile: è lecito ripudiare la
propria moglie per qualsiasi motivo? Si voleva introdurre Gesù nella polemica
tra le due maggiori scuole farisaiche. La scuola di Shammai affermava che la moglie
non poteva essere ripudiata per qualsiasi motivo, mentre la scuola di Hillel
era molto più rilassata. A questa questione è legato Dt 24,1: il marito può
consegnare alla moglie un libello di ripudio quando ella non trovi grazia ai
suoi occhi perché lui ha trovato in lei qualcosa di vergognoso. Gesù rimanda
all’ordine stabilito dal Creatore al principio: ed è questo punto che i farisei
si richiamano a Dt 24. Nel testo di Mt è presente la famosa clausola “eccetto il caso di porneia”: ma come interpretare questa clausola?
Bisogna innanzitutto tener presente un criterio interpretativo fondamentale: la
Bibbia va interpretata con la Bibbia. La chiave di interpretazione la
ritroviamo in At 15,29 e At 21,25, dove viene utilizzato il termine porneia per indicare una delle
situazioni dalla quale i pagani dovevano astenersi per poter passare al
cristianesimo. La quasi totalità delle interpretazioni date lungo la storia
parte con l’idea che in Mt 19 porneia
significhi adulterio. Il senso che dà At è quello di Lv 18, che prescriveva il
divieto di sposarsi tra consanguinei, cosa invece permessa fra i pagani e
tollerata dai giudei nel caso di proseliti. Queste unioni erano considerate
unioni di porneia. Qui Mt allora dice
che chi ripudia la propria moglie commette adulterio, eccetto nel caso di porneia, in cui la donna non è la
propria moglie e non potrà mai diventarlo. Dinanzi a queste parole di Gesù, i
discepoli concludono che non conviene sposarsi. Infine si va riferimento
all’eunuchia per il Regno.
È in questa prospettiva del valore del Regno che va visto anche 1Cor 7. Se
i sinottici leggono tutto nell’ottica del Regno, Paolo legge tutto nella logica
del dono (charisma) che viene da Dio. Qui viene sottolineato che la verginità
è segno profetico del Regno e dunque, per questo motivo, è migliore della vita
coniugale, ma solo nella prospettiva dell’eschaton:
non sono i vergini migliori degli sposati, non si tratta di un giudizio delle
singole persone, ma è una valutazione della condizione, dello stato di vita.
Circa gli sposi, il senso alla loro unione coniugale viene dato dal Signore
(essi si sposano infatti nel Signore). 1Cor 7, visto nell’insieme della
lettera, fa emergere che nessuno stato di vita è incompatibile con il
cristianesimo.
Infine Ef 5. Questo testo deve essere inquadrato all’interno della cultura
del tempo: la società al tempo di Paolo era strutturato in un modo di cui Paolo
non poteva non tenere conto. Il v. 21, di carattere introduttivo, è molto
importante: in esso si invita a stare sottomessi l’uno all’altro nel timore di
Cristo. Paolo si riferisce poi ai 3 rapporti fondamentali della famiglia
antica: moglie-marito, genitori-figli, schiavi-padroni. Se si è diventati
cristiani, queste relazioni vanno vissute nel Cristo. Paolo sviluppa poi il
parallelo tra il rapporto marito-moglie e quello Cristo-Chiesa: questo
parallelo viene sviluppato però non per fondare le differenze tra marito e
moglie, ma per dare fondamento alle esortazioni, che invitavano all’amore
reciproco; Cristo infatti muore per dare la vita alla Chiesa. Al v. 32 Paolo
parla di mega mysterion, che è
l’unione fra Cristo e la Chiesa, l’unione fra il nuovo Adamo e la nuova Eva; il
primo mistero è la creazione dell’uomo e della donna, è il fatto che l’uomo
lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie: questo mistero
dell’origine deve essere guardato da ogni uomo. Se dunque gli sposi sono nel
Signore, essi non devono guardare unicamente alla prima coppia (Adamo-Eva), ma
essi devono guardare alla nuova coppia, nella quale c’è l’inizio dei tempi
ultimi: nell’eschaton questa unione
sarà piena. Il parallelismo perciò è imperfetto, nel senso che da un lato il
marito è riferimento a Cristo e la moglie alla Chiesa, dall’altro però sia il
marito sia la moglie fanno parte della Chiesa. Il matrimonio ha una bontà
originaria fondata dalla creazione: non c’è bisogno perciò di sacralizzarlo
(come facevano i miti), ma vi è un atto buono di fondo da parte del Creatore. Tuttavia
il matrimonio non è lo stato perfetto, ma lo stato perfetto è quello dell’eschaton, di cui la verginità è segno.
Partiamo ora da un’affermazione: il matrimonio è l’unico sacramento che già
esiste in quanto tale non solo nell’AT, ma già nell’umanità stessa; non a caso
se ne fissa l’istituzione all’inizio della Genesi, nell’atto creatore. Nell’enciclica
Arcanum divinae sapientiae di Leone
XIII il matrimonio è per sua natura una realtà sacra e religiosa: ma come
esprimere questa realtà? Ecco allora che si è avviata una riflessione su quello
che viene chiamato “matrimonio naturale”, fondato cioè sulla natura. Un
problema che viene posto a questo livello è quello se il matrimonio deve essere
considerato unicamente nella forma monogamica o poligamica (o nella forma della
poliginia o nella forma della poliandria).
Un problema è anche quello del nome dato a questa realtà. Il Catechismo del Concilio di Trento
afferma che il matrimonio viene detto tale dal fatto che una donna soprattutto
per questo deve sposarsi, per diventare madre oppure perché compito della madre
concepire, partorire ed educare la prole.
Parlando del matrimonio, dobbiamo distinguere tra matrimonium in fieri e matrimonium
in facto esse: il matrimonio va
considerato sia nel suo atto iniziale sia nella realtà permanente che ne
deriva; non a caso alcuni autori, come il Bellarmino, fecero un parallelo tra
Eucarestia e matrimonio: come nell’Eucarestia si considera sia ciò che fa sì
che vi sia l’Eucarestia sia la realtà permanente, così per il matrimonio. Per
quanto riguarda il matrimonium in fieri, si devono distinguere la dimensione liturgica
e quella giuridica; per quanto riguarda il matrimonium in facto, vi sono anche
qui 2 dimensioni: la vita coniugale fra i due coniugi e la procreazione. A tal
proposito, Agostino individuava i cosiddetti tria bona del matrimonio:
-
bonum fidei: qui fides è da intendersi come
fedeltà. Perciò si fa riferimento qui alla fedeltà;
-
bonum sacramenti: è da intendersi nel senso della indissolubilità;
-
bonum prolis: è dato dai figli.
Questi tria bona sono stati
separati: nei primi due sono state individuate le due proprietà essenziali del
matrimonio (unità e indissolubilità), mentre nel terzo si è visto il fine del
matrimonio. L’impostazione che venne data alla questione fu essenzialmente
finalistica e subì alcune correzioni nel corso dei secoli. Ma questa impostazione
aveva dei problemi: il fine è fuori del matrimonio e allora come spiegare il
matrimonio senza figli? È valido questo matrimonio? Questo era solo qualcuno
dei problemi. Il Vaticano II ha privilegiato una impostazione personalistica,
senza far venire meno la prospettiva finalistica. In GS il Vaticano II ha
cercato di trovare una sintesi introducendo la nozione di matrimonio come communitas o consortium o communio vitae et amoris ordinata alla
procreazione. Bisogna porre attenzione a questo passaggio importante avvenuto
nel Vaticano II.
L’intervento del diritto si pone soprattutto a livello del matrimonium in fieri, nel fissare quale
sia quell’atto che dà origine al matrimonio e di fissare ciò che impedisce il
matrimonio. Circa ciò che fa il matrimonio, è prevalsa la teoria consensualistica: è il consenso fra i
due coniugi a fare il matrimonio. Altri elementi hanno reso la questione più
complessa.
Un primo elemento è sicuramente la questione della sacramentalità del matrimonio e della struttura sacramentale. Circa
la struttura sacramentale, dalla Scolastica si afferma che il sacramento ha una
natura ilemorfica e un ministro: perciò per ogni sacramento si va alla ricerca
della sua materia, della sua forma e del suo ministro. Per il matrimonio i
problemi sono immensi, in quanto il matrimonio è un sacramento atipico: il
matrimonio veniva celebrato in varie forme e le preoccupazioni a riguardo erano
state molto poche. Si pongono due questioni. Una prima questione emerge nel XII
sec. ed è quella della validità, che
però non è nel caso del matrimonio limitata al matrimonio in fieri, ma tocca anche quello in
facto esse: per quanto riguarda il matrimonio in fieri si individua nel consenso l’elemento che dà validità al
matrimonio. Ma se non avviene la copula nel matrimonio in facto esse? Si cerca allora di risolvere la questione.
La doppia normativa, civile e religiosa, per i matrimoni, presente in molti
Stati moderni, ha dato luogo a complessi problemi esistenziali, etici,
disciplinari: per esempio, si può essere spostati civilmente ma non
religiosamente, o viceversa; dopo un divorzio ci si può risposare per la legge,
ma per la Chiesa questa seconda unione non è un matrimonio; etc. Ecco perché ci
sono stati diversi interventi per cercare di chiarire i termini di queste
questioni, anche perché non si possono dare risposte univoche a situazioni
diverse.
Per molti secoli i cristiani non si sono sposati in chiesa: questo è
evidente nei primi secoli, quando le chiese non c’erano ancora. Ci si sposava
in casa: i cristiani si sposavano come gli altri, secondo le usanze
tradizionali del popolo a cui appartenevano. Essendoci un’origine mediterranea
del cristianesimo e la prassi matrimoniale mediterranea era abbastanza
uniforme, è prevalsa questa: ci si sposava nella casa della sposa, con un
insieme di riti; l’importanza veniva data a quella che i Romani chiamavano consensus (“ubi Caius, ibi Caia”), sebbene il matrimonio non fosse legato
esclusivamente alla formulazione del consenso, dal momento che anche i genitori
dei nubendi avevano un ruolo determinante nell’ambito del matrimonio.
Ovviamente il cristianesimo escluse i riti tipicamente pagani, come la
consultazione degli aruspici. Una novità tipicamente cristiana era la presenza
del vescovo o del presbitero alla celebrazione nuziale, presenza che però non è
obbligatoria, sebbene spiritualmente opportuna. Momento importante è costituito
dalla velatio: le donne dovevano
portare il velo e, al momento del matrimonio, le veniva cambiato il velo (di
colore diverso ora).
Nel corso del tempo, si passa però dalla oikos alla paroikia:
siamo nell’epoca in cui vengono costruite le chiese, in cui il cristianesimo si
è affermato nell’Impero. Durante il corteo nuziale dalla domus della sposa, dove avvenivano le nozze, fino alla nuova casa,
si passa e ci si ferma dinanzi alla chiesa (in
facie Ecclesiae) e il vescovo (o il presbitero) benedice gli sposi: abbiamo
formulari antichi di benedizioni. Questo gesto liturgico viene perciò
affiancato al consenso matrimoniale. Questa benedizione diventa via via in medio Ecclesiae, celebrata cioè nella
chiesa e all’interno della comunità. Quanto detto è il segno della
sollecitudine della Chiesa verso la realtà matrimoniale, nei confronti della
quale regnava il disinteresse più assoluto da parte di altre istituzioni: lo
Stato si disinteressava quasi totalmente del matrimonio. Ma se il matrimonio
veniva celebrato in questa maniera, quale la materia e la forma del matrimonio?
E chi è il ministro? Sono quesiti problematici. Si possono indicare 3 passaggi
che mettono insieme la ritualità con quella che è la stessa vita coniugale, per
indicare che il matrimonio è una realtà che progredisce:
-
per sponsalia incipit: gli sponsalia
sono una sorta di fidanzamento ufficiale, dove ci si promette di sposarsi.
Dunque il matrimonio, in un certo senso, inizia: fondamentale negli sponsalia è la caparra;
-
per nuptias confirmatur: le nozze confermano la promessa fatta;
-
carnali copula absolvitur: la realtà matrimoniale arriva alla completezza
attraverso il rapporto sessuale.
Nel decreto Tametsi del Concilio
di Trento (1563), parlando del matrimonio e della forma canonica del
matrimonio, sia a motivo delle critiche formulate da Lutero e dai riformatori,
sia a motivo del nascente interesse degli Stati per la realtà matrimoniale, sia
perché era ambiguo affermare che ci si doveva sposare in chiesa riconoscendo
però validi anche quando essi venivano celebrati clandestinamente in casa, il
Concilio obbliga ogni battezzato a presentarsi al proprio parroco con due
testimoni per contrarre un matrimonio valido, per scambiare un valido consenso
matrimoniale. Si sperava che con questo decreto, imponendo la forma canonica
obbligatoria, si risolvessero i problemi sorti riguardo al matrimonio: questa
decisione risolse alcuni problemi, ma aprì nuovi problemi. Per entrare in
vigore, questo decreto doveva essere promulgato, reso pubblico: tuttavia ciò fu
possibile solamente nei luoghi in cui il decreto era stato promulgato e per 3
secoli non dappertutto la forma canonica potrà essere applicata (ci vorrà
l’intervento di Pio X, con il decreto Ne
temere, a risistemare questa questione). Ma il decreto apriva un nuovo
problema: se nel matrimonio clandestino c’è il consenso, perché non è valido il
matrimonio e perché bisogna necessariamente la forma canonica? Quest’ultima
prevede che gli sposi si presentino dinanzi al proprio parroco con due
testimoni: ma quale il ruolo del ministro? Su questo punto, la teologia
occidentale ha risolto le cose in maniera molto superficiale, affermando che
ministri del matrimonio sono gli sposi e il parroco è il testimone qualificato
del consenso manifestato. Ma il parroco compie un actus sacer, non può essere considerato un semplice testimone. La
tradizione orientale invece ha fatto una scelta ben diversa: il sacerdote è il
ministro della celebrazione.
Molto importante per questa questione è il rapporto tra contratto e sacramento. Il matrimonio è un contratto, anche se sui generis, e ha una sua
caratterizzazione naturale; ma il matrimonio è anche un sacramento. Vi è dunque
un’identità tra contratto e sacramento? Vi una identificazione? Possono essere
separati? La condizione di battezzato fa perdere, in un certo senso, il diritto
al matrimonio naturale, imponendo al battezzato la celebrazione del
matrimonio-sacramento. Per la comprensione dei sacramenti è necessaria la fede,
di cui i sacramenti sono espressione: è possibile contrarre matrimonio valido
tra due battezzati che affermano di non avere fede? Nessuno può dire quanti si
accostano al matrimonio con una fede capace di assumersi le promesse che essi
vanno a fare nel matrimonio. In Familiaris
Consortio 68 papa Giovanni Paolo II mette in guardia dallo stabilire nuovi
criteri di ammissione al matrimonio riguardanti il grado di fede dei nubendi.
Nel suo discorso alla Rota Romana dello scorso anno, Benedetto XVI, richiamando
che il matrimonio è sacramento di una realtà già presente nell’ordine naturale
della creazione, il matrimonio, pur essendo sacramento, non si riferisce ad
un’attività specificamente orientata al conseguimento di fini direttamente
soprannaturali, ma per sua natura è orientato al bene dei coniugi e alla
generazione e alla educazione della prole. L’oscurarsi della dimensione
naturale del matrimonio oscurerebbe anche la sacramentalità del matrimonio
stesso. Esiste perciò un fondamentale diritto del battezzato al matrimonio
cristiano, derivante dal diritto al matrimonio di ogni uomo e dalla coincidenza
tra matrimonio valido e sacramento del matrimonio per il battezzato. Allorché
il consenso viene posto da due battezzati senza fede o con fede debole o in
peccato mortale, il matrimonio è valido se l’intenzione è quella di celebrare
effettivamente il matrimonio unico e indissolubile, sebbene quel matrimonio
possa essere poco fruttuoso ed espressivo. Il matrimonio è e resta
primariamente un dono di Dio a coloro che accolgono la salvezza: l’esistenza
oggettiva di un sacramento non dipende dalla fede soggettiva di chi li riceve. Pur
non essendo ispirati dalla fede, i nubendi hanno diritto al sacramento della
fede, purché vi siano le proprietà essenziali.
Il matrimonio è sia una realtà interpersonale, nell’ambito della coppia che
vive una comunione di vita e di amore ed è aperta alla procreazione; ma allo
stesso tempo il matrimonio è una realtà sociale avente carattere pubblico.
La teologia e l’etica cattolica ha dato un insegnamento sul matrimonio,
visto come uno e indissolubile; ma vi è anche un insegnamento circa la morale
coniugale: non si tratta perciò di un insegnamento di carattere unicamente
dogmatico, ma anche di carattere morale. Questa dottrina è presente nel secolo
XX, dove vi è un interesse sempre più ampio della Chiesa per le tematiche che
riguardano la morale e la vita matrimoniale. Ricordiamo particolarmente 3
testi: l’enciclica Casti connubii di
Pio XI (1930), GS (in particolare 49-51) e l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI (1968); gli insegnamenti successivi di
Giovanni Paolo II si muovono alla luce di questi documenti. Per riferirsi a
questi documenti è necessario riferirsi al testo latino: le traduzioni appaiono
talora davvero fuorvianti. Tre sono i capisaldi di questa morale matrimoniale:
-
riconoscimento
della legge naturale, cioè di una
legge fondata sulla natura della persona: questa è particolarmente affermata
dall’Humanae vitae. La legge naturale
non è da intendersi nel senso delle scienze naturali. La legge naturale è
invece una legge che Dio stesso ha posto nell’uomo: è la legge di Dio posta
nell’uomo, pur con tutte le difficoltà che l’uomo ha di riconoscere questa
legge che è nella sua natura;
-
l’esercizio
della sessualità che va attuato nel
matrimonio: pur nel riconoscimento della sessualità come valore, l’esercizio di
essa deve essere attuato nel matrimonio, che diviene la discriminante;
-
criterio
della verità e dell’amore: questo criterio emerge soprattutto
nel magistero di Giovanni Paolo II, ma già presente in quello di Paolo VI.
Insieme a questo dobbiamo tenere presenti due fondamentali verità di fede:
-
dall’affermazione
Dio è Amore e Padre, nell’Humanae Vitae
Paolo VI ricava le caratteristiche dell’amore coniugale e le caratteristiche
della paternità responsabile; ecco perché nell’HV, più di procreazione, si parla
di paternità responsabile (è chiaro però che essa si applica non solo al
marito, ma anche alla moglie);
-
l’affermazione
che Dio è Signore: il dominium che
l’uomo deve esercitare nel mondo deve essere esercitato sempre in relazione al Dominus. Perciò i coniugi sono chiamati
ad essere ministri e non arbitri, e sono
chiamati ad usufruire (frui) e non a usare (uti), che hanno
un’evidente derivazione agostiniana. Ecco allora che l’uomo non può fissare
criteri di comportamento a suo piacimento, ma deve sempre comportarsi
rispettando la natura (legge naturale) e l’ordine stabilito da Dio Creatore.
Qui si collocano il progetto di fecondità della coppia nella responsabilità e
le scelte sul piano esecutivo: sono i due stadi di quella che è la vita della
coppia, chiamata ad essere comunità di vita e di amore. Si tratta dunque di un
no a tutto ciò che è contro l’ordine di Dio, contro la verità e contro l’amore.
Nell’HV Paolo VI parla del matrimonio come di segno con due significati:
egli non propone una lettura del matrimonio nella prospettiva finalistica, ma
nella prospettiva significativa.
(leggere prima HV 8)
Quali caratteristiche ha l’amore coniugale? HV 9 dice che esso è un amore
integralmente umano e perciò è allo stesso tempo sensibile e spirituale: perciò
bisogna rifiutare ogni forma di riduzionismo in tal senso e perciò ogni forma
di angelismo o di materialismo. Inoltre l’amore coniugale è un amor plenus, è una forma tutta speciale
di amicizia personale: i due coniugi sono chiamati a condividere ogni cosa.
Inoltre l’amore coniugale è un amore fedele
e esclusivo: così è nella volontà degli sposi allorché esprimono il
loro consenso, quando i due sposi assumono liberamente l’impegno del vincolo
matrimoniale. Infine questo amore è un amore fecondo, in quanto esso dona una nuova vita: riprendendo GS 50 si
afferma che il matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati per loro natura
alla procreazione. È nella natura stessa dell’amore quella di essere fecondo:
ma non si può restringere la fecondità unicamente alla fisicità, dal momento
che ne verrebbe che una coppia che non può procreare non può vivere un amore
fecondo. I coniugi sono chiamati ad essere cooperatori dell’amore di Dio
Creatore e interpreti di esso (GS 50): da questo deriva la responsabilità e il
dovere di formarsi un retto giudizio in quella che è la scelta procreativa.
Oggi una particolare tendenza è quella della convivenza, per cui, per paura
che poi il matrimonio fallisca, si vuole fare un periodo di prova convivendo. Ma
questa tendenza non ha fatto diminuire le separazioni, anzi. Questa necessità
di “prova” è un amore ripiegato su se stesso, che vuole giudicare e provare
l’altro, senza impegnarsi del tutto con l’altro in quanto non ci si fida
totalmente. Questo amore non costituisce coppia in quanto è infecondo: la prima
fecondità è dare vita all’altro, mentre qui ognuno pensa prima di tutto a se
stessi. Diventare coppia è il punto di arrivo di un lungo cammino insieme per
diventare come una cellula fecondata, in cui ciascuno ha messo la sua parte e
dalla quale nessuno può riprendersi la sua parte (sarebbe la morte): ovviamente
questa è un’analogia, dal momento che ognuno nella coppia rimane comunque una
persona. Chi non sa assumersi una scelta che è del tutto e per sempre è rimasto
ancora adolescente, non ha raggiunto una maturità. In una sua Lettera alle famiglie Giovanni Paolo II
raccomanda che la responsabilità non deve entrare in gioco solamente quando ci
si è già uniti all’altro, ma essa deve guidare anche l’assunzione di questo
impegno; stessa cosa vale per il discorso dei figli.
Al n. 10 l’amore coniugale richiede negli sposi la coscienza di una paternitas responsabile, sulla quale
oggi tanto si insiste e che va rettamente compresa. Proprio per intendere
rettamente cosa sia la paternitas conscia
dobbiamo considerarla secondo dei motivi che sono legittimi e connessi fra
loro. Questi aspetti della paternità responsabile sono 4:
-
in rapporto
ai processi biologici: conoscenza e rispetto delle loro funzioni. Perciò è
lecito usufruire di questi processi biologici: la fertilità della donna è una
fertilità ciclica. La conoscenza di questi processi biologici è una conoscenza
di cui la coppia può servirsi se intende avere un figlio o se intende non
averlo;
-
bisogna però
tener conto anche delle tendenze dell’istinto e delle passioni, che devono
essere controllate dalla ragione e dalla volontà;
-
in rapporto
alle condizioni fisiche, economiche, psicologiche e sociali: bisogna perciò
considerare le condizioni sia dei singoli coniugi sia della coppia, dal momento
che nessuna coppia è isolata da una società. Anche qui può significare due
scelte: la paternità responsabile si esercita sia con la deliberazione
ponderata e generosa di far crescere una famiglia generosa, sia con la
deliberazione presa per motivi seri di evitare temporaneamente o anche a tempo
indeterminato una nuova nascita;
-
la paternità
responsabile tende alla conformità con l’ordine morale stabilito di Dio e di
cui la retta coscienza è vera interprete.
Quando si tratta di comporre l’amore coniugale con la trasmissione della
vita, il carattere morale del comportamento non dipende solamente dalle
intenzioni dei coniugi, ma anche dall’oggettività della natura (legge
naturale).
Nella procreazione gli sposi non sono né padroni né arbitri, ma rientra
sempre la decisione fondamentale di Dio: gli sposi sono chiamati ad essere
ministri. Vi sono perciò due atteggiamenti mentali e pratici contrapposti: c’è
l’uti e c’è il frui (n. 13 di HV). Usare del dono dell’amore coniugale
distruggendo anche solo parzialmente il significato e la finalità del sono
stesso è un contraddire il piano di Dio e la sua volontà; usufruire invece del
dono dell’amore coniugale rispettando le leggi del processo generativo
significa riconoscersi non il padrone delle fonti della vita, ma piuttosto
ministro di questo disegno stabilito da Dio Creatore. Infatti l’uomo, come sul
suo corpo in generale non ha un dominio illimitato, così non lo ha sulle
facoltà generative in quanto tali, a motivo della loro ordinazione intrinseca a
suscitare la vita. Qui si può applicare un principio fondamentale nella morale:
l’uomo non ha dominio illimitato sul suo corpo, ma gli è lecito intervenire sull’integrità
del corpo unicamente per fini terapeutici.
Mentre il minister sa di poter
semplicemente usufruire del dono dell’amore coniugale ed in tal modo rispetta
anche le leggi naturali e i tempi della fecondità (come dice HV, anche se qui
l’espressione leges naturales è qui
abbastanza infelice), il dominus usa
invece del dono dell’amore coniugale.
Quando si tratta di individuare ciò che è specifico del comportamento dei
due coniugi nell’ambito del matrimonio, si parla di actus coniugii e non di atto sessuale: la valutazione di moralità
deve tenere conto dello stato matrimoniale. Si dice che l’atto coniugale ha una
sua ratio: questa ratio consiste nel fatto che vi è in
esso una significatio unitatis e una significatio procreationis, in modo che di
per sé l’uso del matrimonio (qui si parla di uso in quanto si riprende Casti
connubii di Pio XI) rimanga destinato a procreare la vita umana (HV 11).
Paolo VI legge l’atto coniugale in una nuova prospettiva: proprio per la sua
intima struttura, per la sua ratio, mentre
unisce profondamente gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite.
Ci sono perciò delle leggi inscritte nella natura stessa dell’uomo e della
donna. Nella logica della comunicazione, normalmente, un gesto, una parola è
segno se significante un significato. L’atto coniugale è un segno che per
natura sua è significante di due significati. La significatio unitatis è una significatio
diretta e legata direttamente alle persone, mentre la significatio procreationis non dipende soltanto dall’intenzione e
dalla volontà dei due coniugi, ma dipende anche da alcuni fattori umani. La
valutazione che qui Paolo VI dà, più che essere legata alle intenzioni della
persona, è una valutazione per se. Se
si interviene e si manipola uno di questi due significati, succede che viene
meno la ragione di segno, dal momento che il segno è significante di due
significati: il segno viene perciò ad essere sconvolto. Questi due significati
sono in una connessione inscindibile. Come la parola sta in rapporto
indissolubile con la verità, così il significato unitivo dell’atto coniugale è
indissociabile dal significato procreativo. Se dunque si pone un gesto che non
è rispettoso di entrambi i significati è come se si dicesse una bugia.
Per quanto riguarda la regolazione della natalità, HV 14 indica 3
comportamenti. Ma innanzitutto un chiarimento di termini. Con il termine contraccezione sin indicano quei
comportamenti che impediscono che avvenga il concepimento. Ecco i 3
comportamenti
-
interruzione diretta del processo generativo già
iniziato (aborto voluto e
procurato): per quanto riguarda questa modalità sono state aggiunte
recentemente due specificazioni, parlando di tecniche intercettive e tecniche contragestative
(termini utilizzati nella Dignitas
personae della CdF nel 2008). Le tecniche intercettive (es. spirale
introdotta nell’utero, pillola del giorno dopo, che bombarda l’embrione con
ormoni provocandone la morte) intercettano l’embrione prima che esso si
impianti nell’utero materno (l’embrione però si è già formato). Le tecniche
contragestative intervengono quando l’embrione si è già impiantato, e
impediscono che la gestazione vada avanti.
La pillola tradizionale consiste
nell’assumere ormoni che impediscono l’ovulazione: essa viene sospesa nel
periodo della mestruazione e l’assunzione viene ripresa subito dopo; ci si è
accorti però che questi ormoni provocavano effetti collaterali non irrilevanti.
Dunque, per evitare questo, si è fatto sì che non tutte le pillole fossero
uguali, ma avessero quantità di ormoni diseguali: per cui le pillole ora
vengono numerate in base al giorno in cui si devono assumere. Ma effetto di
queste pillole non è solo anovulatorio, ma esse possono avere effetti anche a
livello muco-cervicale e anche a livello dell’utero della donna, provocando un
intervento abortivo in caso di rapporto sessuale, dal momento che in questo
caso l’ovulazione non viene impedita.
Circa le tecniche contragestative,
abbiamo la RU486 (pillola del mese dopo) e le prostaglandine.
-
sterilizzazione diretta, che può essere perpetua o temporanea. Vi sono
varie tecniche di sterilizzazione;
-
atto che impedisca la procreazione: in questo ambito rientra la contraccezione, che
può essere meccanica o ormonale. Nella contraccezione meccanica si fa uso di
alcuni strumenti per impedire che vengano a contatto lo spermatozoo con
l’ovocita: è il caso del profilattico per il maschio e del diaframma per la
donna. Per contraccezione ormonale si intendono quei mezzi (ormoni) che
provocano un’alterazione o nella donna o nell’uomo, in modo tale che questa
alterazione impedisca il concepimento; in qualche maniera la contraccezione
ormonale è una specie di sterilizzazione.
HV 20 afferma che ci sono giuste cause per utilizzare legittimamente la
facoltà data dalla natura: qui si fa riferimento ai tempi della fecondità della
donna. L’uomo è chiamato a scoprire con intelligenza ciò che è presente nella
creazione e a usufruirne nel rispetto dell’ordine. Ecco allora che qui si
inseriscono dei metodi per l’accertamento della fertilità femminile. Si parla
di metodi di prima generazione, che sono di osservazione statistica; i metodi
di seconda generazione sono invece metodi post-ovulatori, laddove vi è
l’individuazione del sintomo, legati però anche questi metodi ad
un’osservazione statistica; i metodi di terza generazione sono metodi di
osservazione sintomatici: questa osservazione può anche servirsi di mezzi
tecnici che non manipolano, ma accertano la fertilità o meno della donna.
Scopo di questi metodi naturali è quello di individuare l’inizio e la fine
della fase fertile della donna, individuando il fatto dell’ovulazione.
L’ovulazione di norma avviene 14 giorni prima della mestruazione. Il ciclo
della donna dura 28 giorni: ciò è vero in teoria, ma non è vero in pratica.
Nell’ipotesi che la donna abbia un ciclo regolare, se l’ovulazione avviene 14
giorni prima della mestruazione, basterebbe avere un rapporto sessuale non tra
il 12° e il 16° giorno dopo la mestruazione.
Ma sono pochissime le donne ad avere un ciclo regolare. Inoltre il periodo
fisso della donna è quello post-ovulatorio, mentre il periodo pre-ovulatorio è
molto instabile: l’ovulazione può avvenire anche dopo 6-7 giorni o anche dopo
il 14° giorno successivo alla mestruazione. Il problema è perciò individuare
quando avviene l’ovulazione nella donna.
Altri metodi si basano sul coglimento di alcuni sintomi. Per esempio,
alcuni fanno leva sul rialzo termico che è il sintomo che l’ovulazione è
avvenuta. Vi sono anche altri sintomi, come quelli individuati dai coniugi
Billings: questo metodo aiuta a cogliere i mutamenti cervicali che avvengono
nella donna.
Nella valutazione morale di tutto questo è molto importante la legge della
gradualità (nota 185 libro), di cui ha parlato Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio: per poter arrivare
ad un comportamento morale è necessaria una conoscenza morale.
- LA RICONCILIAZIONE
Il sacramento della Penitenza viene anche chiamato “quarto sacramento”. Si
dice che oggi questo sacramento sia in crisi; ma questo sacramento deve essere
in crisi perché il sacramento della crisi.
Il termine greco krisis allude al
giudizio di Dio, che è giudizio di misericordia.
L’essenza del sacramento della Penitenza non è fissata, come invece è
stabilita per altri sacramenti: a costituire la materia della Penitenza sono
gli atti del penitente; in questo senso si può dire che il sacramento della
Penitenza è un sacramento “creativo”.
Innanzitutto vediamo il problema terminologico: come chiamare questo
sacramento? Diversi sono i termini utilizzati: Penitenza, Riconciliazione, sacramento
del perdono, confessione, conversione, contrizione (la contritio è quella perfetta, mentre la attritio non è perfetta come la contritio),
etc.
Il termine latino confessio ha sì
un significato, ma in sé indeterminato: la confessio
infatti è sempre confessio di
qualcosa. Si potrebbe rispondere con “confessione dei peccati”: ma questa ha il
suo valore se è confessione di lode, della fede, della vita; se non vi è
questo, che valore ha confessare i peccati? Confessare i peccati non è un
semplice dire ad un altro i propri peccati.
Si è iniziato ad utilizzare il termine confessio
per indicare il sacramento nel Medioevo, quando una parte del sacramento (la
confessione dei peccati) ha avuto il sopravvento su tutto.
Ma vediamo il termine latino paenitentia.
La tendenza è quella di ritenere che il termine esatto sia quello con il
dittongo “oe” (poenitentia), in
quanto vi sarebbe il riferimento alla pena. Ma il termine esatto è paenitentia. Ci torneremo.
Passiamo al termine reconciliatio,
che è entrato prepotentemente nell’uso, sebbene al Concilio Vaticano II questo
termine sia poco presente nei documenti: come mai, nonostante sia un termine
dimenticato per secoli nella teologia e nonostante l’uso limitato nel Vaticano
II, questo termine ha superato gli altri termini. Il motivo è un motivo
rituale, anche se alla conclusione della riforma liturgica di questo sacramento
non ha corrisposto la sostanza con la terminologia utilizzata. Spieghiamo
meglio.
Nell’antichità (primi 4-5 secoli), quando qualcuno era iscritto nell’ordine
dei penitenti, era perché aveva maturato la scelta di dare una svolta alla
propria vita, poiché aveva commesso peccati particolarmente gravi; questi
peccati li aveva confessati al vescovo oppure questi peccati erano pubblici ed
evidenti. In ogni caso, la confessione avveniva prima di essere iscritto
nell’ordine dei penitenti; dopo la confessione, egli doveva compiere un opus paenitentiae, che solitamente
durava per il periodo quaresimale, ma che poteva anche durare alcuni anni
(specie nei primi secoli). Dopo il compimento dell’opera penitenziale, vi era
la riconciliazione della Chiesa: il fedele veniva sì riconciliato (poteva ora
partecipare all’Eucarestia), ma rimaneva nell’ordine dei penitenti per tutta la
vita (rimanevano comunque degli interdetti). Questo sistema era unicamente per
i laici, perché i religiosi facevano già parte di un ordo.
Quando si è iniziata la riforma del sacramento della Penitenza, si sono
recuperate alcune delle forme rituali dei primi secoli, facendo una proposta di
riforma del rito della Penitenza rispetto a come veniva celebrato prima del
Vaticano II e proponendo 3 forme rituali. Queste 3 forme rituali previste nella
proposta di riforma sono state approvate e sono in uso; ma vi è stato un
cambiamento molto importante: la proposta di riforma proponeva che la prima
forma fosse quella della celebrazione della comunità con confessione e
assoluzione nella forma cosiddetta “generale” (l’attuale terza forma). Con
questo si voleva sottolineare l’aspetto di riconciliazione dei penitenti con la
Chiesa. Questo ordine non è però passato: questa forma è prevista come terza e
può essere utilizzata solo a determinate condizioni. È rimasta però la
terminologia, ovvero rito per la
riconciliazione con confessione e assoluzione generale: in questo caso è
l’assoluzione che è generale, ma la confessione è generica, dove la confessione generica è quella che facciamo anche
nell’atto penitenziale della Messa (non si specificano i peccati). Alla luce di
quanto detto, non è preciso parlare di sacramento della Riconciliazione, in
quanto essa costituisce solamente una parte; inoltre anche il Battesimo e
l’Eucarestia sono sacramenti di riconciliazione.
La prima forma è quella “classica”, mentre la seconda è la celebrazione
comunitaria del sacramento della penitenza (in cui confessione e assoluzione
restano individuali).
Ma guardiamo al concetto di riconciliazione,
che travalica il quarto sacramento, ma ci permette di chiarire una serie di
concetti teologici importanti. Il termine è un termine composto, re-conciliatio: ma questo re- non va inteso nel senso di
ripetizione (quasi si avesse una nuova conciliazione), ma nel medesimo senso di
religio, in cui il re-... Il termine reconciliatio fa riferimento al termine concilium, che esprime un “chiamare con”. Il termine reconciliatio è stato utilizzato per
tradurre il greco katallaghè,
anch’esso un termine composto. Per esprimere la ricomposizione di buoni
rapporti tra chi non andava d’accordo, per esprimere la ricomposizione del
rapporto fra uomo e Dio, è necessario eliminare quei fattori che hanno
comportato l’inimicizia. Di per sé questo si dovrebbe fare con l’espiazione.
Nel linguaggio biblico abbiamo 3 gruppi di vocaboli: uno di questi gruppi
rimanda al termine apokatastasis (è
un termine di valenza escatologica-apocalittica), un altro gruppo di termini
appartiene all’ambito cultuale (exilaskomai,
che si riferisce a quelle azioni che gli uomini fanno per placare e rendere
benevole le divinità), mentre il terzo gruppo di vocaboli ruota intorno al
sostantivo allos e che è pochissimo
presente nei LXX e poco presente nel NT (ma questo non vuol dire non sia
importante). Quello che è importante è che il verbo katallasso ha nella grecità un uso profano, ma viene introdotto e
utilizzato per indicare questa realtà nuova, straordinaria, che non deve essere
indicata con i termini tradizionalmente utilizzati per indicare quello che
l’uomo cerca di fare per placare la divinità. Non è infatti così: la
prospettiva necessita di essere rovesciata. Il soggetto della riconciliazione è
infatti Dio e non l’uomo: non è l’uomo che si riconcilia con Dio, ma è Dio che
riconcilia a sé l’umanità (Rm 5,11; Rm 11,15; 2Cor 5,18-20; etc.). La katallaghè di Dio è l’opera da lui
compiuta quando noi eravamo ancora nemici (Rm 5,10) e, dunque, precede ogni
azione umana, compresa la nostra penitenza e la nostra confessione dei peccati.
Non è un’azione dell’uomo che avvia la riconciliazione: essa è avvenuta per
l’opera di Cristo.
Intesa come azione di Dio in Cristo, la riconciliazione è il dono di Dio
per noi e per il mondo; a questo dono corrisponde, da parte dell’uomo,
l’accoglienza, che possiamo esprimere con il termine pistis, fede: il lasciarsi riconciliare con Dio di 2Cor 5,20 è un
appello alla fede. Il logos tes
katallaghès (2Cor 5,19) è dunque il Vangelo stesso. Essenza della
riconciliazione è la fine dell’inimicizia tra Dio e l’uomo, che è l’inizio
della nostra salvezza; alla parola della riconciliazione corrisponde poi la diakonia della riconciliazione, affidata
alla Chiesa. Dio ha dunque riconciliato il mondo a sé, si è rivolto verso la
creazione che giaceva in uno stato di inimicizia e ha cancellato questa
inimicizia.
Perciò non c’è nulla, né a livello umano né a livello della creazione, che
non sia già riconciliato: il Verbo, assumendo l’umanità, ha assunto e salvato
la realtà creata. In tal senso, riconciliazione
significa fine dell’inimicizia e dell’estraneità: il peccato è stato preso da
Gesù ed è stato annullato.
Una tipologia di questa realtà la si può trovare in Gen 32-33, nell’incontro
tra Giacobbe ed Esaù, due fratelli separati tra loro a motivo della
primogenitura: la separazione produce estraneità, che porta a vedere nell’altro
non ciò che è comune, ma ciò che diversifica. L’uomo che lotta con Giacobbe
fino all’alba è Dio: Giacobbe pensava che vi fosse una via diretta per arrivare
al fratello (presentargli un regalo), egli invece deve passare tramite Dio, è
con Dio la lotta fondamentale che egli deve affrontare. Solo un Giacobbe nuovo
può incontrare il fratello: la riconciliazione richiede sempre la conversione.
Nella riconciliazione umanamente considerata si può perdere; ma nella
riconciliazione non ricercata l’equilibrio delle parti pensando che solo così
essa possa avvenire. La riconciliazione invece sbilancia, fa uscire dalla
“logica delle equivalenze”, caratterizzata dalla giustizia, che tende a fare
equivalenza tra il delitto e la pena. Questi criteri umani non possono essere
applicati alla realtà divina: il ministro della Penitenza non può infatti dare
una penitenza adeguata a quello che è un peccato mortale nei confronti di Dio. La
riconciliazione avvenuta in Cristo fa sì che la Chiesa sia sacramento di
riconciliazione e fa sì che tutti i sacramenti attuino tale riconciliazione, al
di là delle nostre deficienze: l’evento unito attuato in Cristo può essere
sempre riattualizzato.
Il primo problema è quello che riguarda il senso del peccato. Il termine senso
è una parola sicuramente problematica, in quanto è una parola plurivalente:
quando parliamo di senso del peccato, si deve intendere la consapevolezza del
peccato, che nella confessione esprimiamo nell’ “atto di dolore”, dove vi è
unicamente la dimensione verticale (il dolore è espresso a Dio); nel Confiteor invece è presente anche la
dimensione orizzontale. Dunque, parlando di senso del peccato, esso può
implicare la sola dimensione verticale o anche la dimensione
orizzontale-ecclesiale.
Ma dire senso del peccato equivale a dire senso di colpa? Prendiamo il CCC
1849, dove la definizione di peccato
inizia cosi: il peccato è una mancanza
contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine
all’amore vero verso Dio e verso il prossimo a causa di un perverso
attaccamento verso certi beni. Esso ferisce la natura dell’uomo e attenta alla
solidarietà umana. È stato definito come una parola o un desiderio contrari
alla legge eterna (S. Agostino e S. Tommaso). Al n. 1850 si parla del
peccato come di offesa a Dio.
Esiste una difficoltà di definire il peccato.
Il senso di colpa e la coscienza del peccato non coincidono, anche se
possono intrecciarsi. Per parlare di peccato e perché ci sia coscienza del
peccato ci vuole necessariamente Dio: si tratta di una nozione di ordine
religioso, essa si colloca nell’orizzonte del concetto biblico di alleanza.
L’espressione “senso del peccato” è stata usata per la prima volta da papa
Pio XII nel 1946 in
un suo radiomessaggio inviato a Boston: in esso il papa affermava che il
peccato del secolo è la perdita del senso del peccato. La coscienza del peccato
richiede una conoscenza di Dio e una conoscenza di se stessi.
Il senso di colpa è una sensazione, è un vissuto emozionale, è un sentirsi
a disagio; questo senso di colpa è spesso aggravato dal carattere della
persona, dalle patologie che una persona può avere (il passaggio a forme di
nevrosi è frequente). Il senso di colpa è dunque totalmente diverso dal senso
del peccato. Molto spesso il senso di colpa è un rifiuto totale di sé e un
bisogno di “rimettersi a posto”, che molto spesso avviene mediante una seduta
psicanalitica o comunque psicoterapeutica. Qualcuno ha parlato di “confessione
psicanalitica” (altri hanno definito la confessione la “psicanalisi dei
poveri”). Ma dobbiamo fare attenzione.
Il termine confessione è ormai
utilizzato anche in ambiti profani. Il paziente che racconta allo
psicoterapeuta la propria situazione vuole liberarsi dal suo disagio: egli non
presenta la colpa come se fosse peccato, ma denuncia una situazione clinica, un
disturbo. Se la confessione viene talora sperimentata da alcuni come tentativo
da liberarsi da sensi di colpa, questo è vero: ma in questo modo la confessione
viene ad assumere un caratterizzazione di tipo magico.
Abbiamo visto come il peccato abbia trovato vari tentativi di definizione,
ma come esso emerga nella sola esperienza di fede, ovvero “di fronte a Dio”. In
2Sam 12 Davide prende coscienza del peccato quando il profeta Natan gli fa la
rivelazione; Davide esprime la coscienza del peccato affermando “ho peccato contro il Signore”. Il
peccato è coscienza, consapevolezza di fronte a Dio nell’esperienza di fede:
certo, vi è anche la disobbedienza verso una legge, ma questa è una legge di
Dio.
Nella Bibbia il peccato è essenzialmente “mancare il bersaglio, deviare”.
La Bibbia non ha definizioni, ma preferisce descrivere servendosi di quelle che
sono esperienze. La trasgressione, in qualsiasi ambito, costituisce sempre
un’infrazione di quello che è l’ordine in cui si è collocati da Dio e, dunque,
costituisce sempre un’offesa a Dio, un attentato alla sua sovranità che non
viene riconosciuta. Già nell’AT però è presente anche la dimensione sociale del
peccato, che si ritorce non solo verso il peccatore, ma anche contro la stessa
comunità, chiamata ad intervenire: se la comunità non interviene, infatti, le
conseguenze negative del peccato danneggiano la stessa comunità.
Il perdono dei peccati, che viene da Dio, passa nell’AT per alcune forme
rituali e viene espresso attraverso vari linguaggi: quello della vita di ogni
giorno (togliere, non ricordare, buttare via) o quello clinico (guarire,
risanare).
Anche nel NT il peccato si svela in una prospettiva di fede: è proprio
perché Dio si è rivelato in Cristo che l’uomo scopre il suo peccato.
Nel NT troviamo anche affermata la distinzione tra peccato mortale e peccato
veniale. In Reconciliatio et
paenitentia troviamo indicazioni molto utili su due tematiche: la
distinzione tra peccato mortale e peccato veniale, il rapporto tra peccato
personale e peccato sociale.
Partiamo dal rapporto tra peccato personale e peccato sociale (RP 16). Un
dato indiscutibile è che il peccato è sempre un atto di libertà della persona:
vi deve essere perciò la conoscenza che si sta compiendo un peccato e la
volontà di compierlo. Le prime conseguenze di questo atto libero sono sulla
persona stessa: in GS 13 si dice che il peccato che “minuit ipsum nomine a plenitudine consequenda eum repellens”. Si
può parlare di peccato sociale e di peccati sociali? Il tema è stato affrontato
in quel sinodo dei Vescovi (RP è esortazione apostolica post-sinodale); il
rischio di parlare di “peccato sociale” era quello di deresponsabilizzare la
persona. In RP Giovanni Paolo II dà 3 significati di peccato sociale:
-
riconoscere
che, in virtù di una solidarietà umana, il peccato di ciascuno si ripercuote in
qualche modo sugli altri. Commettendo un peccato, la persona indebolisce se
stessa nella sua capacità di compiere il bene: dunque è una perdita anche per
la societas. Si tratta allora di una comunione dei peccatori: a ciascun
peccato dunque si può attribuire il carattere di peccato sociale;
-
peccato
sociale è quel peccato che, per il loro oggetto stesso, costituiscono
un’aggressione diretta al prossimo (sono offesa a Dio in quanto offesa contro
il prossimo);
-
la terza
accezione riguarda i rapporti tra le varie comunità, rapporti non sempre in
sintonia con il volere di Dio (che vuole la pace, la giustizia). All’origine vi
è una qualche responsabilità personale di qualcuno, ma si deve ammettere che
realtà e situazioni, nel loro generalizzarsi e ingigantirsi come fatti sociali,
diventano quasi sempre anonime, come complesse e non sempre identificabili sono
le loro cause.
Ciò premesso, bisogna dire subito che non è legittima e accettabile
un’accezione del peccato sociale la quale, nell’opporre peccato sociale a
peccato personale, conduca a stemperare il peccato personale per ammettere solo
colpe e responsabilità sociali. Quando la Chiesa parla di peccati sociali,
questi casi di peccato sociale sono il frutto e la concentrazione di molti
peccati personali.
Passiamo alla distinzione tra peccato mortale e peccato veniale. Alcuni
teologi degli anni Sessanta del secolo scorso che avevano fatto una proposta di
triplice distinzione dei peccati:
-
peccato
veniale o lieve
-
peccato grave
o mortale
-
peccato per
la morte (secondo Schoonenberg)
Altri operano tale tripartizione: peccato veniale, peccato grave, peccato
mortale.
Anche nel Sinodo sulla riconciliazione e sulla penitenza è stata fatta la
proposta di una distinzione tripartita: il Papa lo dice nell’esortazione
apostolica al n. 17. questa ripartizione, dice il Papa, potrebbe mettere in
luce che tra i peccati gravi vi sia una gradazione: ma resta sempre vero che la
distinzione fondamentale resta sempre quella tra peccati contro la carità e
peccato che non uccidono la vita soprannaturale; tra la vita e la morte non si
danno vie di mezzo.
Nell’AT sappiamo che alcuni peccati venivano puniti con la morte: il reo
doveva essere eliminato dal suo popolo. Nel NT, il Papa cita un testo di 1Gv
dove appunto si distingue tra un peccato che conduce alla morte e di uno che
non conduce alla morte. Il concetto di morte è qui spirituale: si tratta della
perdita della vera vita, della vita eterna. Con questo concetto di peccato che
conduce alla morte 1Gv vuole inquadrare quei peccati (come l’apostasia) che
indicano la totale separazione da Dio. Il papa cita inoltre Mt 12,31 in cui Gesù parla di
una bestemmia contro lo Spirito Santo che è irremissibile, in quanto è un
ostinato rifiuto di conversione all’amore del Padre di misericordia. Nel NT
troviamo diversi “cataloghi di peccati”: ma questi non possono aiutarci a
risolvere la distinzione tra peccati mortali e peccati veniali. Ci viene in
aiuto la riflessione dei Padri.
Agostino introduce la nozione di inordinatio
(“disordine”): questo disordine può essere circa
finem (disordine direttamente contro Dio) e circa ea quae sunt ad finem (non direttamente contro Dio, ma contro ciò
che ci conduce a Dio). Agostino parla di laetalia,
mortifera crimina e di vaenalia,
quotidiana crimina. Riprendendo Agostino, in riferimento al concetto di
morte spirituale presente nella Bibbia, Tommaso afferma che per vivere
spiritualmente l’uomo deve rimanere in comunione con Dio, fine ultimo; il
peccato è un disordine che va contro questo principio fondamentale. Il peccato
mortale è quel peccato che conduce ad una separazione del fine ultimo che è
Dio, mentre il peccato veniale non conduce a tale separazione e non fa perdere
la grazia santificante.
Chiarificazione della distinzione riguarda anche la pena corrispettiva ai
due peccati, eterna o temporale. Altra chiarificazione importante è l’oggetto
di questi peccati: è peccato mortale quello che ha per oggetto una materia
grave e che viene commesso con piena avvertenza e deliberato consenso. Questa
chiarificazione si serve di ciò che era stato già intuito dagli autori biblici
e dai Padri e lo chiarisce meglio. La teologia morale aveva individuato il
concetto di ciò che è malum ex toto
genere suo: affinché però vi sia peccato mortale vi deve essere piena
avvertenza e deliberato consenso.
Parliamo ora della penitenza.
Paenitentiam agite e paenitemini
erano due degli inviti che risuonavano sulla bocca dei predicatori nel
Medioevo. Questo termine (o verbo) deriva da paeni, che significa il “non avere abbastanza”, l’essere carenti in
qualcosa: il poco (o il molto) che manca è qualcosa che l’io non può colmare,
ma che è già stato colmato da Dio in Gesù Cristo. Se è necessaria la parte di
Dio, è necessaria anche la parte dell’uomo, che si ritrova sempre in difetto:
perciò egli è chiamato continuamente a riconoscere il solo che può dare e
concedere.
Il termine penitenza indica varie
realtà: è l’atto interiore, la virtù, il sacramento, è l’atto con cui bisogna
soddisfare (la traduzione “soddisfazione” non rende il satisfactio latino). Siamo perciò di fronte ad una flessibilità di
significati attorno a questo termine penitenza.
L’impostazione della questione, da un punto di vista teologico, dovrebbe essere
questa: è quella della penitenza-riconciliazione. Con “riconciliazione”
intendiamo soprattutto la parte di Dio, mentre con “penitenza” intendiamo
soprattutto la parte dell’uomo (anche se l’azione di Dio è presente anche nell’opus paenitentiae).
Cerchiamo ora nella Scrittura il fondamento della penitenza.
I termini che esprimono il concetto di pentimento sono in ebraico shub e niham, e in greco epistrefein
e metanoein. Il verbo shub è presente 1056 volte nell’AT.
Abbiamo detto che il peccato è lo sbagliare bersaglio e l’uscire fuori di pista
(ed è facile uscire fuori dalla pista se la pista si trova nel deserto, dove il
vento fa scomparire quella pista): shub e
epistrefein indicano proprio questo
ritorno sulla strada, questo rimettersi in pista.
Il termine ebraico niham ha una
grande ricchezza di significati, ma prevalentemente questo verbo viene reso in
greco con metanoein: quest’ultimo
verbo ci fa meglio capire il niham.
In questi due verbi vi è il riferimento al nous,
alla mente, che è malata e che ha perciò bisogno di essere guarita. Questo
evidenzia il carattere spirituale del peccato, oltre che carnale: ma da dove
nasce il peccato? Evagrio Pontico parla di logismoi,
pensieri dai quali possono nascere i peccati (i pensieri vengono tradotti in
opere).
Dai testi dell’AT abbiamo innanzitutto questa consapevolezza: dalla
coscienza, dalla consapevolezza del peccato, deve venire la confessione della
giustizia di Dio. Vi sono celebrazioni, gesti, giorni penitenziali: nella
prassi del popolo di Israele si ritrovano questi gesti per esprimere la
penitenza e confessare il peccato. Abbiamo testimonianze anche di possibili esclusioni
del peccatore dalla comunità (esclusione che può essere temporanea ma anche
definitiva); abbiamo anche forti messaggi profetici contro l’esteriorità. Ma è
soprattutto la confessione della
giustizia di Dio che dà senso alla confessione del peccato: a tal proposito
un autore ha parlato di dossologia del
giudizio. Bisogna stare attenti però da un’interpretazione che è stata
definita mistica del peccato: perché
Dio possa esprimere la sua verità, ciò che lui è, è necessario che noi
pecchiamo, perché soltanto peccando, egli può esprimere nei nostri confronti la
sua misericordia (pecca fortiter, crede fortius).
Questo confessare ha un significato forte: ad essere confessato è ciò che
Dio ha compiuto, ciò che egli compie e ciò che egli compirà; si riconosce il
suo diritto e la sua giustizia. Dio si proclama come il Dio geloso: la sua
gelosia è per noi, per gli uomini che non riconoscono in lui l’unico Signore e
si danno agli idoli vani. Perché possa essere confessione dei peccati deve
essere confessione di Dio, ovvero professione di fede in Dio
Nelle celebrazioni penitenziali, nelle quali si utilizzano i Salmi (spesso
alla prima persona singolare), vi è comunque il passaggio fondamentale
comunitario, per cui io confesso, ma anche noi confessiamo. Inoltre il rischio
di queste celebrazioni è che esse rimanessero unicamente sul piano esteriore:
di qui la denuncia dei profeti contro le forme di esteriorismo. In Ger 31,18 si
afferma “Fammi ritornare e io ritornerò”
(riferimento alla grazia preveniente). Un’altra citazione significativa è
quella del Sal 106, in
cui tutto il popolo fa memoria della storia della salvezza.
Prima di iniziare il NT facciamo un brevissimo cenno a Qumran, i cui testi
confermano il carattere collettivo, comunitario della confessione dei peccati;
è interessante da Qumran anche la testimonianza della presenza di un
cerimoniale per l’esclusione del peccatore dalla vita della comunità (quello
che qualcuno chiama scomunica). Il
peccatore veniva escluso dalla vita della comunità (scomunica nel senso di ex-communicatio, come non poter più
prendere parte alla vita della comunità, totalmente o per alcuni riti) con la
possibilità di essere riammessi dopo il ravvedimento. Questo comportamento
tenuto a Qumran è vicino anche alla prassi sinagogale, in cui lo scomunicato
viveva in una sorta di stato di penitenza (come se fosse in lutto, o come se
fosse un lebbroso).
Per il NT vediamo 3 annunci: quello di Giovanni Battista, quello di Gesù e
quello di Pietro (At). L’invito di Giovanni è alla conversione in vista dei
tempi ultimi; l’invito di Gesù è alla conversione per riconoscere il Regno di
Dio da lui inaugurato; il discorso di Pietro invita alla conversione in vista
della fede e del Battesimo. Anche in Ap 2-3, ovvero nelle lettere agli angeli
delle 7 chiese, ritroviamo l’invito alla penitenza e alla conversione.
Altro riferimento, più problematico nell’interpretazione teologica, è
quello di Gesù penitente: come si fa ad affermare che Gesù è penitente
(battesimo al Giordano), se la penitenza è per i peccati? Tommaso afferma che
qui non si deve intendere la penitenza in senso stretto: Cristo ha voluto
subire la pena non per i propri peccati, ma per i peccati degli altri.
Altri riferimenti li prendiamo da altri 2 testi dei vangeli. Il primo testo
è la guarigione del paralitico (per la quale dobbiamo tenere presente la
triplice tradizione: Mt 9; Mc 2; Lc 5): in questo testo si racconta della
guarigione di questo paralitico, al quale Gesù dice “Ti sono perdonati i peccati”; Mc e Lc riportano il pensiero degli
scribi in cuor loro (solo Dio può perdonare i peccati), mentre in Mt gli scribi
parlano. Gesù rivendica per il Figlio dell’Uomo (rimando escatologico) la exousia di rimettere i peccati. In Mt vi
è un particolare importante: la folla rende gloria a Dio per un tale potere
dato da Dio agli uomini. Nella redazione matteana vi può essere la convinzione
della comunità primitiva che il potere stesso di Gesù è ora prerogativa degli
uomini, cioè degli apostoli.
Il secondo testo di riferimento è quello della parabola del Padre
misericordioso (Lc 15): questa parabola viene presentata come risposta alla
mormorazione da parte degli scribi e dei farisei. In Lc 6 la misericordia è
attributo di Dio (oiktìrmon): questo
termine è la traduzione dell’ebraico
rahamim, che fa riferimento alle viscere, al ventre materni. Dio è sì come
il Padre della parabola, ma anche come una madre (a tal proposito il francese
Andrè Chulaqi traduce oiktìrmon con matriciel).
Prima di confessare i peccati bisogna confessare il nome di Gesù salvatore,
ma per poter fare questo è necessario il dono dello Spirito. In Rm 12,3 si
afferma che nessuno può dire che Gesù è il Signore se non sotto l’azione dello
Spirito Santo. Lo Spirito Santo, disceso su Gesù nel Battesimo e rimasto su di
lui, è Spirito della potenza messianica e della sapienza divina. Dopo la
Resurrezione, è l’unico Spirito del Signore (to pneuma to kyrion = lo Spirito è il Signore) che può operare la
penitenza, condizione esistenziale del sacramento, come atteggiamento dell’uomo
e come sacramento della Chiesa. Nessuno può confessare o invocare il nome di
Gesù se non nello Spirito. Grazie allo Spirito di Dio è possibile purificarci
dalle opere della carne, alle quali è contrapposto il frutto dello Spirito (al
singolare): questo perché bonum ex integra
causa, malum ex quocumque defectu. Ci soffermiamo anche su Gv 13: qui viene
utilizzato il verbo louein, che è il
verbo utilizzato per esprimere il fare il bagno (rimando al Battesimo); è
interessante vedere che, per il lavare i piedi, viene utilizzato un verbo
diverso, il verbo niptein: vi sarebbe
qui un’allusione a quella lavanda parziale che è il sacramento della Penitenza.
Quello che viene annunciato viene anche già praticato dalla Chiesa. Ecco i
passi biblici, che vengono usate come fondamento del sacramento della
penitenza, divise in 3 gruppi: 1) Mt 26,28; 2Cor 5,18-19; 2) 2Ts 3,6-15; 1Cor
5,1-13; 2Cor 2,5-11; Gal 6,1-2; 1Tm 1,18-20; 1Tm 5,19-22; 2Tm 2,24-26; 3) Mt
18,15-18; Gv 20,19-23.
Al primo gruppo appartengono l’istituzione dell’Eucarestia in Mt e il passo
in cui Paolo allude al ministero della riconciliazione: il logos della riconciliazione si fa diakonia. Strumento di questa riconciliazione è la Chiesa, con le
sue strutture e con la sua comunità. Nel corso dei secoli questa dimensione comunitaria
è andata un po’ perduta e il sacramento della Penitenza è stato amministrato
talora al di fuori di un contesto liturgico e di una ritualità.
Il problema dei peccatori nella comunità è già evidente nelle lettere
paoline (testi del secondo gruppo): questo non era solo un problema dei singoli
peccatori, ma anche di tutta la comunità, in quanto il male fatto da uno solo
ricade su tutti; inoltre c’è il pericolo che si crei un’abitudine al male e al
peccato. In questo contesto assumono valore e importanza alcuni comportamenti
dell’Apostolo. In 2Ts 3,6-15 c’è un fratello che vive in modo sregolato;
l’Apostolo ordina di tenersi lontani e di prendere nota di lui: ciò si
riferisce ad una sorta di sentenza pronunciata dalla comunità nei confronti di
questo fratello (nel linguaggio successivo questa sentenza è quella che verrà
chiamata scomunica, ovvero l’uscita
dalla comunione). Tuttavia, anche se viene presa una decisione nei suoi
confronti, il fratello rimane pur sempre fratello.
1Cor 5 è la testimonianza più chiara di come la comunità cristiana debba
affrontare la situazione di un peccatore: è il caso di una persona che vive con
la moglie di suo padre; ciò costituisce una vergogna per l’intera comunità.
Visto che la comunità non è intervenuta, Paolo interviene in maniera energica,
ordinando che tale individuo venga consegnato a Satana per la rovina della
carne perché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore. Si tratta
di una vera e propria scomunica, di un’esclusione dalla vita della comunità. Per
comprendere quanto Paolo dice dobbiamo tenere presente l’antropologia
neotestamentaria; vi è anche un riferimento demonologico.
2Cor 2,5-11 fa riferimento ad una riconciliazione: la comunità è qui
intervenuta verso il peccatore, gli ha comminato un castigo proporzionato alla
colpa commessa; ora però bisogna utilizzare misericordia verso questo fratello,
la pena ha sempre funzione medicinale: d’altronde, se si insiste molto sulla
pena, si rischia di fare il gioco di Satana (ancora un riferimento demonologico).
In 1Tm Paolo fa riferimento ad Imeneo e Alessandro affermando che egli li
ha consegnati a Satana perché imparino a non bestemmiare. In 1Tm 5 Paolo invita
Timoteo a non aver fretta a imporre le mani per non farsi complice del peccato
altrui: qui l’imposizione delle mani si riferisce alla remissione dei peccati.
Anche in 2Tm 2 vi è un riferimento demonologico.
Guardiamo alla terza colonna di testi, tenendo presente anche quanto
abbiamo già detto per Mt 9,1-8, cioè la guarigione del paralitico, in cui la
folla loda Dio perché Dio ha dato un tale potere agli uomini. La tradizione
cattolica, che trova la sua espressione massima nel concilio di Trento, prende
il testo di Gv come fondamento del sacramento della Penitenza, sebbene anche il
testo di Mt 18 ha
una sua utilizzazione e viene spesso commentato già dai Padri. Per quanto
riguarda Mt 18, di essa si prende in esame il potere di legare e di sciogliere,
confrontandolo però con Mt 16, dove il potere di legare e di sciogliere viene
dato a Pietro. Inoltre Mt 18 va visto nel contesto, che è quello del discorso
ecclesiale. Il testo ha avuto una molteplicità di interpretazioni, ci serviamo
dell’interpretazione di Jean Galot. Se non ci si è riusciti a riconciliare con
il fratello mediante le regole della Legge o della sinagoga, bisogna cercare
altri mezzi fuori della procedura ebraica, così come quelli che vengono
utilizzati per pagani e pubblicani. Circa il legare e lo sciogliere, questa
espressione ha avuto 3 interpretazioni nel corso della storia:
-
giuridica: è quella più diffusa.
-
ecclesiologica:
-
demonologica: Vorgrimler (alunni di Rahner) è stato il primo a proporre questa
interpretazione. Effettivamente legare-sciogliere sono legati al mondo magico e
dei sortilegi in alcuni testi antichi orientali e rabbinici. La Chiesa
permetterebbe che le potenze malefiche prendano possesso di un peccatore
(legare), nel senso che costui è stato preso con il laccio da Satana, che li ha
presi dal “campo” di Cristo. Ma quando
costui dà segni di conversione egli viene liberato dall’influsso demoniaco.
Nell’interpretazione di questi testi siamo stati troppo legati alla prassi
del sacerdote nella confessione, che è quella di assolvere o meno: ciò ha
influenzato l’interpretazione dei testi biblici. Ma come vanno invece
interpretate queste immagini (legare-sciogliere, aprire-chiudere)? Nel
linguaggio biblico queste immagini indicano le estremità di un fatto e quindi
il fatto nella sua totalità. La exousia
che Cristo partecipa alla Chiesa non è alternativamente quella di legare o di sciogliere,
di assolvere o non assolvere, di salvare o condannare, ma si tratta del potere
unico, totale di legare per sciogliere (imporre la penitenza per sciogliere dal
peccato), si tratta di un’unica potestà positiva di salvezza. La potestas è sempre per la salvezza.
Anche Gv 20 va interpretato nella stessa ottica. Il rimettere è riferito ai
peccati dei cristiani in quanto sono un’offesa a Dio e alla Chiesa, mentre il
ritenere non è un semplice non rimettere, ma ha un significato simile a quello
di legare e di vincolare il peccatore a seconda della gravità del peccato, di
obbligarlo a compiere certe condizioni che lo portino alla comprensione di ciò
che ha fatto e lo conducano alla salvezza. Gesù Risorto si presenta come shalom. Il soffio dello Spirito ricrea.
Sciogliere-legare, rimettere-ritenere sono due immagini che fanno
riferimento ad un exousia, non
contrapposta, ma in vista della salvezza.
Passiamo ora a vedere la storia
del sacramento della Penitenza.
Essa è una storia disomogenea: la Penitenza è stata celebrata in forme
molto diverse fra loro. Quello che è fondamentale è che, se un sacramento è
stato istituito da Cristo e il Concilio di Trento lo riconosce tale va
conservata quella che è la sua intima
essenza, pur cambiando le modalità; il problema sta nell’individuare
l’intima essenza, soprattutto nel caso di alcuni sacramenti.
Il Battesimo assicura la purificazione dei peccati, ma, poiché dopo il
Battesimo, non si è fedeli, c’è bisogno di un secondo Battesimo, di una seconda
penitenza. Questa riconciliazione viene riavviene sacramentalmente
nell’Eucarestia. Nella Chiesa antica venne stabilito un tempo di 40 giorni
prima della Pasqua che servisse sia ai catecumeni per prepararsi al Battesimo
sia ai penitenti per pentirsi dei loro peccati, anche se essi non avevano
deciso di entrare nell’ordine dei penitenti. L’essenza sta nel fatto che la
riconciliazione del peccatore avviene nella Chiesa: ma attraverso quali forme?
Le forme dei primi secoli sono molto differenti da quelle del XII-XIII sec.
in poi. Da una parte vi è il penitente, dall’altra vi è la Chiesa chiamata ad
intervenire su questo fratello: essa interviene particolarmente per mezzo del
ministro della Chiesa stessa. Il sacramento della Penitenza è composto da
alcuni atti, 3 del penitente (contritio,
confessio e satisfactio) e 1 del
ministro (absolutio). È evidente che
tutto questo è inserito nella vita della Chiesa. I termini che indicano questi
atti non sono sempre stati usati nel senso che noi diamo oggi a questi termini:
per esempio, oggi si parla di absolutio
peccatorum, mentre un tempo si parlava di absolutio penitentiae (che era il compiere la penitenza imposta).
Per parlare della realtà della penitenza, Paolo utilizza l’espressione diakonia della riconciliazione, mentre
Gv utilizza i verbi afiemi
(rimettere) e kratein (ritenere), due
verbi che stanno ad indicare l’azione nella sua totalità: l’atteggiamento della
Chiesa deve essere quello di ritenere per rimettere, di legare per sciogliere.
È necessario che il peccatore prenda coscienza del peccato e che si dia un
insegnamento a tutta la comunità. Perciò, in antichità, coloro che avevano
commesso peccati particolarmente gravi erano chiamati ad entrare nell’ordo poenitentium. L’ordo è un gruppo qualificato legato a
regole particolari. Chi viene ammesso a questo ordine (ed è il vescovo il
moderatore della disciplina penitenziale) rimane in questo ordo per tutta la vita. Ecco perché si afferma che la penitenza non
era reiterabile: tale affermazione è poco precisa, in quanto applichiamo alla prassi
di quei secoli la prassi odierna. Il peccatore confessava poi i peccati al
vescovo, che faceva presenti quelle che sono le condizioni: il peccatore doveva
restare per sempre in questo ordo,
stabiliva il cammino da fare (che poteva avere un tempo non fisso, vario);
durante questo tempo, se il penitente si manteneva fedele, egli veniva absolutus, cioè sciolto dagli obblighi
penitenziali: il penitente poteva partecipare all’Eucarestia, rimanendo
comunque nell’ordo poenitentium con
degli interdetti. Cosa si intende per interdetti? Si trattava di alcuni limiti:
non ci si poteva sposare, non si poteva accedere a cariche pubbliche, etc. Se
dopo l’absolutio si commetteva
qualche altro crimine grave, il penitente non poteva più fare quel cammino che
portava ad una nuova riconciliazione alla fine della Quaresima (per questo si
diceva non reiterabile).
Questa severità, ritenuta eccessiva da molti, ha portato a conseguenze
molto diverse nella Chiesa: una delle conseguenze è stata il fatto che i
vescovi stessi sconsigliavano di entrare nell’ordo poenitentium coloro che erano troppo giovani, per timore che
essi non fossero coerenti con la scelta fatta. Altra conseguenza è stato quel
fenomeno che caratterizza IV e V sec. di coloro che, pur nascendo da genitori
cristiani, non vengono battezzati dopo la nascita, pur essendo iscritti nel
numero dei catecumeni. Perché questo? Sia perché uno potesse scegliere da
adulto l’adesione alla fede, sia perché queste scelte erano dettate da un certo
lassismo e da una volontà di non volersi assumere gli impegni cristiani.
Quello che è importante ricordare è che tutto è sotto il vescovo, che è
moderatore della disciplina penitenziale nella sua Chiesa: questa disciplina
penitenziale, fissata nei vari canones,
era sotto la sua tutela. Non esisteva, come si vede, la confessione così come
la intendiamo oggi.
Nei luoghi in cui non vi era la struttura diocesana (es. isole britanniche)
avevano un ruolo centrale i monaci presenti sul territorio. Alcuni di questi
monaci applicano anche ai fedeli laici quella che è la tipica disciplina
penitenziale propria del monastero per i monaci. Quando un monaco trasgrediva
la regola, costui confessava i propri peccati ad un altro monaco, il quale
assegnava una penitenza in base ai criteri stessi della regola: quando questa
penitenza veniva compiuta, vi sarebbe stata l’absolutio. Tale disciplina penitenziale la applicano anche per i
peccati quotidiani (veniali). Non abbiamo molte testimonianze sulla forma.
Tuttavia poteva succedere un problema: dopo aver svolto la penitenza, il
fedele tornava al monastero, ma il monaco non c’era più. Per questo si instaura
la prassi di concedere l’absolutio
prima che venga compiuta la penitenza e di ritenere che, una volta compiuta la
penitenza, il fedele era anche assolto dai peccati: l’absolutio paenitentiae comporta l’absolutio peccatorum.
Questo comincia a diffondersi grazie ai monaci che giravano nei monasteri.
Come si evince, questa pratica penitenziale si riferiva non solo ai peccati
gravi, ma anche a quelli più lievi. A presiedere questi riti era di solito un
monaco, con il fatto che il monaco poteva anche non essere prete.
I monaci poi attraversano il canale della Manica e giungono nel continente
europeo e la prassi si diffonde. Nel 589, nel concilio di Toledo, alla presenza
dei vescovi spagnoli e della Gallia Narbonense, si afferma che in certe chiese
di Spagna i fedeli fanno penitenza dei loro peccati non secondo la forma
canonica ma in un modo scandaloso: ogni volta che hanno peccato si rivolgono ad
un sacerdote per ottenere la riconciliazione; per reprimere questo, il concilio
decreta che si dia la penitenza secondo la forma canonica stabilita dai padri.
Ma nonostante questo, fedeli e preti continuano ad attuare la pratica: questa
disciplina penitenziale finisce così con l’essere accettata.
Ci sarebbe in verità un’altra forma penitenziale, che si sviluppa
soprattutto nei secoli successivi: si tratta della penitenza pubblica non solenne (l’antica forma canonica era invece
solenne), che consisteva essenzialmente nell’andare in pellegrinaggio
(Gerusalemme, Roma, Santiago). Questi pellegrini sapevano che, quando
arrivavano a destinazione, c’era la absolutio
in quanto il pellegrinaggio era stata la loro penitenza.
Queste 3 prassi non erano però codificate bene. Iniziano però ad essere
stilati dei libri paenitentiales,
molti dei quali sono stati conservati: essi servivano ai confessori per avere
dei criteri. È qui che si fa riferimento alle taxae, che non sono originariamente delle tariffe da pagare per la
penitenza: penitenza tariffata non sta a significare che vi fosse denaro da
pagare (per lo meno agli inizi). Le commutationes
sono però una prassi che fa andare in crisi questo sistema: le commutationes erano delle somme di
denaro o alcune celebrazioni di messe in cambio della penitenza che doveva
essere svolta (questo era uno degli abusi); altro abuso era quello di far fare
la penitenza a qualcun altro al proprio posto, pagandolo (erano i più ricchi a
fare questo).
L’istituzione delle crociate si inserisce in questo contesto: chi
partecipava alla crociata poteva avere uno sconto o addirittura l’indulgenza
legata al compiere una particolare azione. Interessante è anche l’inizio della reservatio, ovvero il fatto che i
vescovi riservano a sé determinati peccati, che possono essere assolti
unicamente da lui.
Una tappa fondamentale è quella dell’anno 1215, con il concilio Lateranense IV, quando sono stati inseriti 2 obblighi:
l’obbligo della comunione pasquale e l’obbligo della confessione annuale. Il
Concilio stabilisce che l’obbligo della confessione vada assolto con il
“proprio sacerdote”, ovvero con il parroco, sebbene questa disciplina incontra
subito eccezione (in quanto a prevalere è sempre la salus animarum). La crisi legata alle opere penitenziali porta al
fatto che la confessio diventa
centrale, assumendo un ruolo che in un certo senso “oscura” la contritio e la satisfactio, tanto che il sacramento viene chiamato “confessione”.
Certamente non viene negata la necessità della contritio e della satisfactio
(Tommaso ricorda che sono necessarie tutte e 3 per il sacramento), ma
l’importanza viene focalizzata sulla confessione dei peccati, al punto tale
che, se uno non è sufficientemente contrito dei propri peccati, la confessione
dei peccati rende piena l’attrizione (pentimento non perfetto) facendola
divenire contrizione (pentimento perfetto). Rimane a questo punto il problema
della satisfactio.
Quando il concilio di Trento si troverà a dover riaffermare l’istituzione
divina di questo sacramento contro la Riforma e quando Trento dovrà motivare la
confessio auricolaris, si afferma
l’obbligo ex iure divino di
confessare tutti e singoli i peccati mortali con le circostanze che mutano la
specie. Questa insistenza sul fatto di confessare tutti e singoli i peccati con
le circostanze che mutano la specie si basa sul fatto che il sacerdote deve
poter esercitare la sua funzione: il confessore è maestro, dottore e giudice.
Trento perciò definisce l’atto del confessore (in particolare l’assoluzione)
come un actus iudicialis, tanto è
vero che si parla anche di tribunale del sacramento della penitenza. Comincia a
diffondersi questa terminologia giuridica in riferimento al sacramento della
Penitenza. Per poter giudicare è necessario sapere i peccati, in modo da poter
dare la penitenza adeguata. Qui è prevalsa una lettura giudiziale-tribunalizia:
la penitenza deve essere conforme ai peccati confessati.
Come in ogni sacramento, anche la Penitenza è esercizio del sacerdozio
della Chiesa, sia comune che ministeriale: vi è da una parte la mediazione del
sacerdozio ministeriale, data soprattutto dalla parola efficace di fede/perdono
costituita dall’absolutio;
dall’altra, vi è qualche teologo che parla di causa strumentale in riferimento
al penitente, in virtù del suo carattere battesimale. Il penitente è chiamato a
porre quelli che la tradizione cattolica ha definito i 3 atti del penitente:
-
contritio
-
confessio
-
satisfactio
Altra tematica è quella della Penitenza nell’economia sacramentale.
Il collegamento col Battesimo è evidentissimo, anche a partire dalla
storia: in antichità la Penitenza veniva definita come paenitentia secunda o recordatio
Baptismi.
Rispetto all’Unzione degli Infermi, si può sottolineare l’aspetto tipico
dell’Unzione, che è il sollievo dato all’infermo, ma soprattutto il fatto che
uno degli effetti del sacramento dell’Unzione è proprio il perdono dei peccati.
Molto forte è il legame con l’Eucarestia: questo legame, che è strutturale,
è stato, nella prassi ecclesiale, ridotto solo ad un aspetto. L’origine di
questa riduzione sta nel 1215, quando il Concilio Lateranense IV obbligò a
comunicarsi e confessarsi almeno una volta l’anno; questo portò però a
considerare la Penitenza unicamente nella prospettiva della comunione. Nel
porre l’atto della contritio vi è un votum Eucharistiae.
Passiamo ora a parlare dal penitente.
Il cammino di conversione parte da Dio: la reconciliatio
non è da intendersi semplicemente come l’effetto del sacramento, ma come
l’iniziativa di Dio. Circa il penitente, dobbiamo parlare dei 3 atti del
penitente: nonostante nel corso della storia si sia insistito su uno di questi
atti a discapito degli altri, essi sono parimenti importanti ai fini della
celebrazione piena del sacramento. Essi sono: contritio, confessio, satisfactio. Soprattutto la satisfactio è oggi in crisi, soprattutto
a causa di molti confessori.
Il penitente deve essere disposto alla conversione con il ripudio dei
peccati e il proposito di emendarsi.
Chiariamo innanzitutto la contritio.
Nella teologia latina si è distinto contritio
e attritio. Per la contritio abbiamo la definizione del
Concilio di Trento (sess. XIV, cap. 3): è il dolore nell’animo e riprovazione
del peccato commesso, accompagnati dal proposito di non peccare più in
avvenire. Si tratta perciò di un atto che si compie nell’oggi, rivolto però sia
al passato (peccati commessi) sia al futuro (proposito di non peccare più). La contritio perfetta è la contritio charitate perfecta: è la
carità a rendere perfetta la contrizione. Si esige quindi un atto di amore
perfetto, secondo le capacità e le possibilità dell’uomo, che rimane sempre
imperfetto. È desiderare che Dio sia amato sopra ogni cosa da tutti, in quanto
Dio è il sommamente buono: questa è la carità che rende perfetta la
contrizione.
L’attrizione (contrizione imperfetta) nasce da un amore imperfetto: perciò
si ama Dio non per se stesso, ma perché lui è buono per me, oppure perché si
teme il castigo divino.
La contrizione perfetta rimette già i peccati veniali e, se accompagnata
dal votum, rimette anche i peccati
mortali: il votum è il desiderio a
completare quanto prima il sacramento con la confessione e la soddisfazione. Qualora
non vi sia stata prima la contrizione perfetta, con la confessione e la
soddisfazione il penitente da attrito diventa contrito, in virtù della grazia
del sacramento.
Le caratteristiche della contrizione sono state individuate dalla teologia
morale:
-
vera: deve essere un atto della volontà, per cui non basta solo un vago
desiderio di non peccare più, e che deve essere esternato;
-
soprannaturale (charitate perfecta);
-
il penitente
deve essere disposto a rinunciare a qualsiasi bene o male per ottenere il
perdono;
-
universale: deve riguardare tutti i peccati
Per la contrizione è utile e necessario l’esame di coscienza.
Aspetto molto importante è il proposito per l’avvenire: nel proposito per
l’avvenire è compreso un aspetto molto importante, che è quello di fuggire le
occasioni prossime di peccato, che è un punto molto delicato. L’occasione
prossima è una circostanza esterna che incita al peccato rendendone facile
l’esecuzione. L’occasione di peccato può essere remota o prossima, volontaria o
necessaria:
-
remota/prossima
non va inteso in solo senso geografico;
-
necessaria
significa che non si può evitare quell’occasione senza grave danno.
La confessio è segno del
pentimento. Trento ha stabilito la necessità iure divino della confessione integra dei peccati mortali, dei
quali il penitente ha coscienza e memoria. Il can. 988 precisa che il fedele è
tenuto all’obbligo di confessare, secondo la specie e il numero, tutti i
peccati gravi commessi dopo il Battesimo e non ancora direttamente rimessi né
accusati nella confessione individuale, dei quali abbia coscienza dopo un
diligente esame.
La confessione è un gesto liturgico semplice e solenne, è un chiamare per
nome il peccato, in quanto il confessore, svolgendo il suo compito di giudice,
di maestro e di medico, può aiutare il penitente e assolverlo dai peccati.
L’obbligo di per sé riguarda i peccati gravi o mortali, che ha come oggetto
materia grave con piena avvertenza e deliberato consenso; nel caso di peccati
veniali, non sussiste propriamente l’obbligo della confessione, anche se è
raccomandato che essi vengano confessati. Vanno confessati i peccati commessi
dopo il Battesimo e non ancora confessati o assolti.
Un grosso problema è quello dell’integrità della confessione. Stando al
Concilio di Trento e alla morale e al diritto, vanno confessati i peccati
secondo:
-
il numero
-
la specie:
esiste una specie teologica (peccato mortale o veniale) ed esiste una specie
morale (commettendo i peccati si va contro le virtù).
-
le
circostanze che mutano la specie.
Bisogna precisare che si distinguono un’integrità materiale e un’integrità
formale. L’integrità materiale è quella oggettiva, mentre quella formale è
soggettiva: si ha integrità materiale quando vengono confessati tutti e singoli
i peccati mortali realmente commessi e non ancora assolti, che vengono
confessati secondo il numero, la specie e le circostanze che mutano la specie.
L’integrità formale si ha quando il penitente, tenuto conto della situazione in
cui si trova al momento della confessione, confessa tutti i peccati che può
accusare. L’obbligo è quello dell’integrità formale: bisogna tenere conto delle
cause dovute a impossibilità fisica o morale, che rendono impossibile
l’integrità materiale.
Cause di impossibilità fisica sono: una grave malattia del penitente, la
perdita della memoria, l’impossibilità di comunicare con il confessore per
gravi deficienze fisiche. Cause di impossibilità morale si hanno quando la
confessione di determinati peccati potrebbe essere di grave danno materiale o
spirituale per il penitente, per il confessore o per entrambi.
Le penitenze (satisfactiones)
devono essere salutares et convenientes rispetto al penitente:
bisogna tener conto della condizione fisica, morale, spirituale del penitente;
inoltre si è voluto sottolineare che è il penitente che deve compiere la satisfactio (ovviamente nei limiti del
possibile). Il penitente deve accettare l’opus
che gli viene data oppure far presente che essa sia o troppo leggera o troppo
grave. Se il penitente si trova in difficoltà a fare una penitenza, può
chiedere ad un altro sacerdote di cambiare la penitenza? Deve rivolgersi ad un
altro confessore e confessarsi.
Le norme del diritto a proposito del ministro sono fondamentalmente le
stesse sia per i latini che per gli orientali; vi sono delle differenze a
proposito delle limitazioni e delle riserve, laddove viene ad essere coinvolto
il diritto penale, in quanto il diritto penale orientale è un po’ diverso da
quello latino.
Il CJC afferma che il ministro della penitenza è il solo sacerdote (solus sacerdos). Il Vaticano II afferma
che i vescovi sono i moderatori della disciplina penitenziale: dicendo solus sacerdos il CJC vuole escludere i
diaconi e i laici. Non è però sufficiente che vi sia la potestas ordini, ma si richiede che vi sia anche la facultas di confessare: rispetto al
precedente Codice, che parlava di potestà di Ordine e potestà di giurisdizione,
il nuovo CJC ha modificato questa prospettiva (la potestà di giurisdizione
rientra solamente in 2-3 casi). La finalità, la prospettiva non può che essere
la salus animarum, che perciò non
deve essere ostacolata, sempre però nel rispetto di alcune norme. La necessità
della facoltà è stata mantenuta perché l’autorità competente possa mantenere un
maggiore controllo sull’esercizio di questa facoltà.
La facoltà viene concessa ipso iure
in forza dell’ufficio oppure, se non si ha la facoltà ipso iure o vi officii,
bisogna chiedere la facoltà all’autorità competente. Il Romano Pontefice, i
cardinali e i vescovi hanno ipso iure
la facoltà di confessare; ad avere la facoltà vi officii sono gli ordinari diocesani, il canonico penitenziere,
il parroco e chi ne fa le veci (amministratori parrocchiali, vicari parrocchiali
che sostituiscono il parroco assente o impedito, i cappellani, il rettore del
seminario. Stando al can. 967, si afferma che chi ha la facoltà in forza
dell’ufficio può esercitarla ubique,
purché non vi sia una disposizione contraria dell’Ordinario del luogo. I
Superiori religiosi hanno facoltà di ricevere le confessioni solamente dei
propri sudditi e di quanti abitano nella casa notte e giorno.
Per ottenere la facoltà, i sacerdoti devono rivolgersi all’Ordinario del
luogo, o dove sono incardinati o dove hanno il domicilio. L’Ordinario del luogo
deve ovviamente conoscere colui a cui dà la facoltà: se non è un presbitero
incardinato nella sua diocesi, egli deve prima sentire l’Ordinario di questo
sacerdote. La facoltà può essere concessa a tempo indeterminato o determinato,
oppure può essere concessa con dei limiti.
Passiamo ora alle limitazioni.
Un vescovo diocesano può impedire di confessare ad un altro vescovo o ad un
altro sacerdote nel proprio territorio. I Superiori maggiori religiosi possono dare
la facoltà ad un loro presbitero.
La facoltà si perde o per fine del tempo per il quale era stata data o per
revoca o per cessazione dell’ufficio o con l’escardinazione o con la perdita
del domicilio, che per i religiosi è determinato dall’iscrizione ad una casa
dell’Istituto stesso.
In caso di pericolo di morte, un penitente può essere assolto da qualunque
presbitero (sia senza facoltà o persino dimesso dallo stato clericale).
Altri casi sono quelli dell’errore e del dubbio, ai quali si può assimilare
anche l’inavvertenza. Sono casi nei quali la facoltà viene supplita. Quando vi
è errore comune di diritto o di
fatto, la Chiesa supplisce alla mancanza di facoltà: si tratta della falsa
supposizione che un sacerdote abbia la facoltà. Il dubbio deve essere positivo e probabile: un sacerdote ha ricevuto
la facoltà, ma non ricorda per quanto tempo l’abbia esattamente ricevuta;
oppure non ricorda se si tratta di un peccato riservato. L’inavvertenza è
quando il sacerdote non si pone nemmeno il dubbio se abbia o meno la facoltà.
Circa la facoltà riservata, vi possono essere dei peccati che l’autorità
superiore riservi per sé l’assoluzione di essi. Un peccato può essere riservato
o ratione sui (stabiliti dal vescovo)
o ratione censurae (vi è una censura
per cui non si può ricevere il sacramento). Nel diritto latino le pene possono
essere sia ferendae sia latae sententiae. Nel diritto orientale
la Sede Apostolica riserva per sé unicamente la violazione del sigillo
sacramentale e l’assoluzione del complice contro il sesto comandamento.
I due casi di scomunica latae sententiae non riservati alla Sede Apostolica sono:
I due casi di scomunica latae sententiae non riservati alla Sede Apostolica sono:
-
apostasia,
eresia, scisma;
-
aborto effecto secuto.
Riservati alla Sede Apostolica sono:
-
profanazione
delle specie eucaristiche
-
violenza
fisica contro il Papa
-
assoluzione
del complice
-
consacrazione
illegittima di un vescovo
-
violazione
diretta del sigillo sacramentale
Sono stati aggiunti altri due casi:
-
registrazione
di contenuti riguardanti la confessione (non riservata alla Sede Apostolica)
-
attentata
ordinazione sacra di una donna.
Interdetti si hanno nel caso di:
-
violenza
fisica contro un vescovo;
-
celebrazione
eucaristica o assoluzione attentata da parte di chi non ne ha la facoltà;
-
falsa
denuncia di sollecitazione;
-
attentato
matrimonio di un religioso di voti perpetui.
Per incorrere in una pena canonica, la condizione più importante è che il
peccatore sia consapevole di incorrere in quella pena canonica; le altre
condizioni le ritroviamo ai cann. 1123-1124. Per incorrere nella scomunica latae sententiae ci vuole la maggiore
età.
Chi è caduto nella scomunica o nell’interdetto latae sententiae non può ricevere i sacramenti
Se uno è incorso in una di queste censure, si deve prima vedere se la pena
sia riservata o meno alla Sede Apostolica. In caso sia riservata alla Sede
Apostolica, tribunale competente è la Congregazione per la Dottrina della Fede;
ma, per mantenere la riservatezza circa il penitente, si può ricorrere in foro
interno alla Penitenzieria Apostolica.
I cardinali possono assolvere da tutte le censure latae sententiae, ad eccezione dell’ordinazione di un vescovo senza
il mandato del papa e la violazione del sigillo sacramentale.
Il canonico penitenziere ha facoltà ordinaria non delegabile. Il sacerdote
può assolvere dalle censure latae sententiae
non riservate in pericolo di morte; anche i cappellani degli ospedali, delle
carceri e delle navi possono assolvere dalle censure non riservate.
Per le censure riservate, molto importante è il can. 1357: ogni sacerdote
con facoltà può assolvere dalle censure anche riservate qualora sia gravoso per
il penitente rimanere in stato di peccato grave per il tempo necessario a che
il superiore competente provveda. Il confessore, nel concedere la remissione,
imponga al penitente l’onere di ricorrere entro un mese, sotto pena di ricadere
in una censura, al superiore competente. Intanto il confessore deve imporre una
penitenza congrua. Il ricorso può essere fatto anche dal confessore, senza far
menzione del nome del penitente.
Passiamo al sigillo sacramentale.
Esso è inviolabile. Qui non si parla di segreto, ma di sigillo: nel linguaggio della Chiesa, dire “sigillo” significa dire
qualcosa di più di un semplice segreto. Quella del sigillo sacramentale è una
legge che si è affermata un po’ alla volta nella Chiesa, tenuto conto della
prassi penitenziale nella Chiesa (si pensi ai primi secoli). Esso non mira
solamente a tutelare la buona fama del penitente o a evitare lo scandalo, ma è
posto a tutela del sacramento stesso. Il Concilio Lateranense IV afferma che il
confessore che viola il sigillo sacramentale deve essere deposto dall’ufficio
sacerdotale e deve essere rinchiuso in un monastero dove deve fare penitenza
per tutta la vita.
Se non ci fosse il sigillo, infatti, vi sarebbe un grave danno nei
confronti del sacramento stesso. Il sigillo, che riguarda il solo confessore e
sorge dalla confessione sacramentale, non ammette eccezioni, vale verso
chiunque (di per sé anche verso lo stesso penitente). Cade sotto il sigillo i
peccati accusati, le circostanze, i particolari aggiunti quando la loro
manifestazione renderebbe noto il peccato e il penitente; cade sotto il sigillo
il fatto di aver rifiutato l’assoluzione. Se c’è dubbio che qualcosa cada sotto
sigillo, esso va mantenuto. Il penitente può autorizzare il confessore a
parlare di alcuni peccati confessati (p. es. in direzione spirituale): il
penitente deve farlo in maniera libera e formale. Il penitente non può
autorizzare il confessore a servirsi di quanto gli ha rivelato in confessione
per una qualsiasi utilità, sia per un bene comune che per un bene di terzi
(can. 1550): si pensi al caso di un processo, anche quando è il penitente a
chiedere di rendere una testimonianza.
La violazione del sigillo può essere diretta o indiretta: la scomunica latae sententiae è per la violazione
diretta. Si ha violazione diretta quando si manifesta in maniera chiara il
peccato e il penitente, anche quando gli ascoltatori non conoscono il
penitente. Colui che viene a conoscere il contenuto di una confessione
sacramentale è tenuto anch’egli al segreto. Il penitente, di per sé, non è
tenuto, ma rimane per lui il dovere di tenere il segreto naturale per ciò che
il confessore gli dice.
Possono succedere degli errori del confessore nell’amministrare il
sacramento della Penitenza, che possono riguardare addirittura l’essenza del
sacramento stesso, l’integrità della confessione, la giustizia violata nei
confronti del penitente o di un’altra persona. Proprio la legge del sigillo
sacramento rende assai difficile la riparazione.
Con l’obbligo del sigillo è connesso l’obbligo di non fare uso di ciò che
si sa dalla confessione, quando ciò possa risultare dannoso per il penitente o
per altri, anche quando non c’è il pericolo di violare il sigillo.
Alcuni abusi: ricercare il nome del complice semplicemente per curiosità.
Casi molto gravi sono:
-
assoluzione
del complice in peccato contro il sesto comandamento: questa assoluzione non
può essere data, in quanto viene tolta la facoltà. L’assoluzione è invalida,
eccetto che in pericolo di morte. Chi va contro questa disposizione incorre
nella scomunica latae sententiae
riservata alla Sede Apostolica. Questo va interpretato nel senso più stretto e
rigido. Quando si dice complice, si intende qualsiasi persona con cui un
confessore abbia commesso peccato. Il peccato può essere stato commesso anche
prima dell’ordinazione sacerdotale;
-
sollecitazione
(cann. 982; 1389; 1390). Già condannata da Benedetto XIV, questo crimine è
stato duramente condannato da un’istruzione del Sant’Uffizio del 1962, da
Giovanni Paolo II in un Motu Proprio
che spiegava le norme circa i delicta
graviora e da Benedetto XVI con un altro Motu Proprio del luglio 2010. Il sacerdote che sta confessando, o
in occasione o con il pretesto, cade nella sollecitazione quando induce il
penitente a commettere cose turpi. Si cade nella sollecitazione sia quando il
penitente accetta sia quando rifiuta.
In questo caso non vi è una censura latae sententiae, ma, a seconda della
gravità del delitto, il sacerdote deve essere punito con una pena congrua, fino
ad arrivare persino alla dimissione dallo stato clericale.
Può avvenire però una falsa denuncia di
sollecitazione.
Il confessore, in quanto giudice, deve informarsi circa la causa del
peccato, facendo al penitente domande opportune. Egli deve anche verificare le
disposizioni del penitente (se vi sia sincerità e pentimento).
In quanto medico, il sacerdote deve verificare le cause della caduta e
imporre le penitenze medicinali.
In quanto maestro, molto spesso il sacerdote si trova a dover istruire il penitente
sui fondamenti cristiani e sui fondamenti del sacramento stesso.
Il confessore deve avere scienza sufficiente, deve studiare e tenersi
costantemente aggiornato. Qualora si presentino casi difficili, il confessore è
chiamato a riconoscere umilmente la sua incapacità nell’affrontare un caso.
Altra virtù richiesta al confessore è la prudenza. A tal propositori ci
vuole: memoria, conoscenza del particolare (atto nella sua singolarità),
docilità (nei confronti del Magistero soprattutto), deliberazione (capacità di
ragionare), previsione o preveggenza verso il futuro, circospezione,
precauzione.
Il confessore non può partire dalla presunzione che il penitente sia non
solo peccatore, ma anche dissimulatore: omne
factum praesumitur recte factum.
IL SACRAMENTO DELL’UNZIONE
Quando si parla di estrema unzione,
il termine estrema viene riferito molto
spesso alla fine della vita; in realtà, per estrema unzione, si intende
semplicemente l’ultima unzione rispetto ad altre. Nel corso della storia
l’Unzione degli Infermi è stata progressivamente spinta verso la fine della
vita: addirittura alcuni lo hanno amministrato anche ai morti, ponendo la
condizione che il soggetto potesse essere ancora vivo.
Il Rito italiano ha voluto legare il sacramento con una cura pastorale
degli infermi, che si esprime non solo con il sacramento dell’Unzione, ma anche
con gli altri sacramenti e con la visita
degli ammalati.
Cerchiamo di inquadrare la tematica con alcuni passaggi. L’indicazione più
importante è quello della lettera di Giacomo; importanti sono anche la
conoscenza dei 10 canoni del CJC e il rituale dell’Unzione con i suoi praenotanda.
La questione è allo stesso tempo pratica e teorica: è una questione che si
pone già prima dell’era cristiana; essa era già presente nel mondo ebraico e in
altre esperienze religiose e culture. La questione è questa: cosa fare dei
malati? E perché c’è la malattia?
I termini malati e infermi non indicano esattamente la
stessa cosa: nel termine malato c’è
di mezzo il male; il termine infermo si
riferisce invece a “colui che non è fermo”. È anche vero che la malattia può
essere anche spirituale e non solo fisica. Nell’antichità i quesiti suddetti
riguardava quei malati che avevano delle malattie inspiegabili; vi erano vari
tentativi di soluzione, non scientifici nel senso moderno del termine (es.
fluidi interni o umori, etc.). In ambito religioso, vengono elaborate una serie
di spiegazioni: la malattia viene spesso vista come segno di una qualche colpa
contro gli dèi. Nella Scrittura abbiamo il caso tipico del lebbroso: egli viene emarginato non solo perché la sua malattia è
ripugnante, ma soprattutto perché egli è stato punito da Dio, in quanto egli ha
commesso qualche peccato. Nella mitologia greca troviamo la figura di Filottete, nata dalla fantasia di Omero:
egli aveva ricevuto in dono da Eracle un arco e delle frecce in quanto Eracle
gli era riconoscente perché aveva acceso il rogo sul quale era
agonizzante. Con queste frecce Filottere
era un guerriero invincibile. Sbarcato su un’isola per andare a pregare in un
tempio (che probabilmente egli voleva in realtà profanare), egli fu morso da un
serpente, che gli causò una ferita brutta e maleodorante e che lo faceva
continuamente urlare. Tornato sulla nave, comandata da Ulisse e diretta a Troia,
Filottete costituiva un fastidio per tutto: egli urlava sempre non permettendo
agli altri di riposare; inoltre Ulisse teme soprattutto i fulmini della
divinità: la divinità che ha punito Filottete può colpire anche quelli che
stanno sulla stessa barca. Ulisse perciò abbandona Filottete su un’isola:
avendo arco e frecce, egli può sopravvivere cacciando. Emerge chiaramente
l’idea di fondo sul malato.
A rompere questa concezione è sicuramente il Vangelo. Ma già nell’AT
troviamo già un’importante prefigurazione: Giobbe.
Nella finzione poetica del libro, Giobbe è giusto, non ha peccato: ma come mai
allora viene punito? Giobbe rivendica la sua innocenza, che alla fine viene
riconosciuta. Può essere allora la malattia punizione per il peccato? La
malattia allora si rivela come scandalo, come pietra d’inciampo.
Nel Vangelo emblematico è il caso del cieco nato: per quale peccato egli è
stato punito se è nato già così? Hanno peccato i genitori? La questione deve
essere allora ricompresa, sebbene essa resti tuttavia un mistero (nel senso
storico-salvifico). Vi è allora la soluzione
cristologica, che ammette un dolore
salvifico; vi è anche il senso della compassione:
il cum-patire è un soffrire insieme.
Nella sua missione Cristo associa a sé gli apostoli e i discepoli, perché
vadano da coloro che hanno infermità e li aiutino e sostengano, ungendoli con
olio: vi sono nei Vangeli testi che fanno riferimento a questo. Già Mc 6 annota
questa usanza di ungere i malati e di guarirli. Ma il testo di riferimento che
la Chiesa ha assunto come fondativo per il sacramento dell’Unzione è Gc
5,13-15.
Ma prima è bene fare un discorso sull’olio. Già nell’AT l’olio è simbolo
del benessere e della benedizione di Dio, simbolo di forza; l’olio è anche
visto come elemento curativo. Nel NT Cristo viene presentato come l’Unto.
La cura della Chiesa verso i malati e gli infermi non si è limitata al
sacramento dell’Unzione, ma è una cura che viene messa in atto e che trova
tantissime espressioni (es. fondazione degli ospedali, che originariamente
accoglieva gli stranieri e in seguito accoglie i malati); negli ospedali gli
ammalati si assistevano non in vista della guarigione (i mezzi erano scarsi),
ma in vista di una buona morte. Agli ammalati veniva amministrata l’unzione,
che divenne ben presto il sacramento dei moribondi: ma sacramenti dei moribondi
è in realtà il viatico (in questo alcuni hanno voluto vedere un residuo pagano,
che inserivano nella bocca dei morti una moneta per pagare il dazio a Caronte).
Gc scrive: “Se qualcuno sta male, preghi;
se sta bene, si allieti; se qualcuno
è infermo, faccia chiamare i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui,
ungendoli con l’olio nel nome del Signore. Salverai il malato e il Signore lo
rialzerà; e se ha commesso dei peccati, verranno rimessi”.
Gc parla di una persona che asthenei:
si tratta di un ammalato che non è capace di muoversi. Egli deve far chiamare i
presbiterous della Chiesa, i quali
devono pregare ep’autòn: questo
lascia intendere che la preghiera fosse fatta con un’imposizione delle mani o
della mano. Questa preghiera viene accompagnata da un’unzione (aleipsantes elaio) nel nome del Signore.
Subito dopo si parla di euché tès pisteos
(“preghiera della fede”): l’Unzione è preghiera fatta nella fede che Gesù è il
Kyrios. Tre sono gli effetti di questa preghiera a cui Giacomo fa riferimento:
la preghiera lo salverà (sosei) ed
inoltre il Kyrios (cambia il
soggetto) egerei (nei contesti di
guarigione questo verbo ricorre per indicare il ristabilimento del malato: non
è escluso ovviamente un riferimento al Signore Risorto); inoltre, se sono stati
commessi dei peccati, essi vengono rimessi (afethesetai).
Il primo invito di Giacomo è quello di superare la solitudine dell’ammalato
e far venire i presbiteri della Chiesa: anche oggi uno dei grandi rischi è il
lasciare in solitudine l’ammalato. La malattia non è un caso privato, ma
coinvolge tutta la comunità: vi è dunque un aspetto sociale della malattia.
L’unzione non è una sorta di super-terapia: pregare significa cercare di dare
un senso nella fede alla vita, alla condizione di malattia e agli sforzi per
superarla; la malattia la si vive, non la si subisce: il malato resta
protagonista della propria vita dinanzi a Dio. Le promesse di salvezza, che Gc
annette al rito, devono aiutare a ripensare il concetto cristiano di salvezza:
la salvezza cristiana è salvezza dell’uomo, di tutto l’uomo, attraverso la
mediazione della Chiesa, della comunità e del suo ministro.
Molti di questi aspetti sono stati recuperati nel secolo scorso, dopo che
per secoli essi erano rimasti in ombra. Per questo andiamo ai documenti recenti
della Chiesa.
SC 73. dice che l’estrema unzione può essere chiamata Unzione degli
Infermi; SC usa questa espressione qui in
extremo vitae discrimine versantur: si fa riferimento qui all’estremo punto
della vita. L’Unzione degli Infermi, dice SC, non è solamente il sacramento di
costoro, che sono all’estremo della vita, ma di coloro che iniziano ad essere
in pericolo di morte per infermità o vecchiaia. SC 74 afferma che, oltre ai
riti distinti dell’Unzione e del viatico (i cui rituali vengono perciò
distinti), si componga anche un ordo
continuus per quando, per necessità pratiche, l’Unzione viene amministrata
in un’unica celebrazione dopo la confessione e prima del viatico (molto
importante è l’ordine sacramentale qui). SC 75 parla del numero delle unzioni e
delle preghiere che accompagnano le unzioni e il rito. Quante unzioni e in
quali parti del corpo? Questo rimane problematico.
Il 30.11.1972 la Costituzione Apostolica Sacra Unctione Infirmorumi di Paolo VI accompagna la promulgazione
del rituale da parte del papa. Questo testo sintetizza alcuni punti
fondamentali del rito dell’Unzione.
Dato che l’olio di oliva prescritto per la validità del sacramento in
alcune regioni manca o è difficile reperirlo, si dà la possibilità di
utilizzare anche altri oli vegetali. Il sacramento dell’Unzione degli Infermi
si conferisce a quelli che sono ammalati con serio pericolo, ungendoli sulla
fronte e sulle mani con olio debitamente benedetto. L’unzione deve essere
accompagnata dalla formula “Per istam
sanctam unctionem..”, che costituisce la forma del sacramento: essa
riprende i 3 effetti contenuti nel testo di Gc. In caso di necessità è
sufficiente fare un’unica unzione sulla fronte oppure, per particolari condizioni
dell’infermo, in un’altra parte più adatta del corpo.
L’Unzione può essere ripetuta se l’infermo, dopo la prima unzione, sia
guarito e poi caduto nuovamente nella malattia; oppure può essere ripetuta se
il pericolo di morte ai aggrava ulteriormente.
Il can. 1003, par. 1, stabilisce che amministra validamente questo
sacramento omnis et solus sacerdos.
Su questa questione importante è intervenuta in una nota dell’11 febbraio 2005
della CdF. Tanti anni fa, il card. Vicario di allora, ordinando i diaconi,
durante l’omelia, disse che anche essi potevano amministrare il sacramento
dell’Unzione. La nota precisa che né diaconi né laici possono amministrare il
sacramento: se diaconi o laici amministrano il sacramento, si tratta di
simulazione di sacramento. In una lettera accompagnatoria ai presidenti delle
Conferenze Episcopali, essendo pervenute varie domande circa il ministro del
sacramento, la CdF intende mandare questa nota e anche un appunto sulla storia
del sacramento su questa materia.
Il CJC (cann. 998-1007), riprendendo il Concilio e il Rito, stabilisce che,
oltre al vescovo, possono benedire l’olio tutti gli equiparati al vescovo e, in
caso di necessità, qualsiasi sacerdote nella celebrazione del sacramento stesso
(se non ha l’olio benedetto). Il can. 1000 afferma che le unzioni vanno
compiute secondo quanto stabilito dai libri liturgici; in caso di necessità, è
sufficiente un’unica unzione sulla fronte o in un’altra parte del corpo. Al
par. 2 di questo canone si dice che il ministro deve compiere l’unzione con la
propria mano salvo che un’altra ragione suggerisca l’utilizzo di uno strumento.
Il can. 1001 afferma che i parenti e i pastori di anime provvedano a che gli
infermi possano ricevere questo sacramento. Il can. 1002 afferma che la
celebrazione comune dell’Unzione degli Infermi di più infermi può essere
compiuta secondo le disposizioni del Vescovo diocesano: qui si vogliono evitare
al riguardo conflitti (come tra il cappellano dell’ospedale e il parroco) e per
dare ordine alla celebrazione. Il can. 1003 riguarda il ministro dell’Unzione:
oltre a dire che omnis et solus sacerdos
può amministrare il sacramento, esso afferma che hanno il dovere e il diritto
di amministrare l’Unzione tutti i sacerdoti a cui è demandata la cura delle
anime ai fedeli che sono loro affidati; per una ragionevole causa, qualunque
sacerdote può amministrare il sacramento con il consenso almeno presunto del
sacerdote di cui sopra.
Gli ultimi 4 canoni riguardano il soggetto del sacramento. Il can. 1004 non
fa altro che ripetere quanto già presente nel Concilio e in SUI, con due cambiamenti: il par. 1 dice
che l’Unzione può essere amministrata al fedele che, raggiunto l’uso di
ragione, a causa di infermità o vecchiaia, inizia a trovarsi in pericolo (non
si specifica periculo mortis). Si
deve perciò trattare di un battezzato che deve aver raggiunto l’uso di ragione
(anche se poi lo ha perso: dunque non può essere ricevuto da un bambino molto
piccolo); se non lo ha raggiunto, questo sacramento non può essere
amministrato.
Il can. 1005 è un canone problematico, in quanto fa riferimento al dubium. Bisogna innanzitutto vedere
l’oggetto del dubbio: circa il dubbio sulla validità dei sacramenti,
generalmente non è lecito seguire il probabilismo, ma è necessaria una
certezza; però, nel dubbio che l’infermo abbia già raggiunto l’uso di ragione
oppure se sia gravemente ammalato o se sia morto (il rito steso dà
l’indicazione dell’Unzione sotto condizione), il sacramento sia amministrato.
Il can. 1006 afferma che il sacramento venga amministrato a coloro che, pur
non avendo ora un sufficiente uso di ragione, almeno implicitamente, ne avevano
manifestato la volontà di riceverlo quando godevano di uso di ragione.
Il can. 1007 stabilisce che non vada conferita l’Unzione a coloro che
perseverano ostinatamente in un peccato grave manifesto.
Bisogna distinguere tra pastorale
degli infermi e Unzione degli
Infermi.
Circa la pastorale degli infermi, il rituale italiano unisce Unzione e cura
pastorale degli infermi. Bisogna tener conto che si tratta di un ministero di
catechesi, di culto e santificazione, di carità e di tutta la Chiesa. La
pastorale degli infermi non può essere ridotta al portare la comunione agli
ammalati. Essa deve essere annuncio della Parola, che dà risposte sulla vita e
sulla sofferenza: questa catechesi non si rivolge ai soli malati, ma anche ai
sani che prima o poi affronteranno l’esperienza della sofferenza. Deve essere
un ministero di culto e santificazione: i mezzi di grazia offerti al malato in
forma sacramentale sono la Penitenza, l’Eucarestia e l’Unzione; ognuno di
questi 3 sacramenti ha una sua grazia propria e perciò essi sono diversi e
distinti. Va chiaramente distinta nella pastorale la liturgia degli infermi
(con i 3 sacramenti) dalla liturgia dei moribondi (viatico e raccomandazione
dei moribondi): questa distinzione deve costituire la regola ordinaria della
prassi sacramentale.
L’eccezione è costituita dal cosiddetto rito continuo della
Penitenza, dell’Unzione e del Viatico, che si amministra quando l’infermo è
anche moribondo; se durante il rito non si fa la confessione si faccia l’atto
penitenziale; se il pericolo è prossimo si dia l’Unzione e il viatico; in caso
di pericolo imminente si dia il viatico. Confermazione e Unzione, in caso di
pericolo di morte, non si dovrebbero amministrare con rito continuo, per
evitare confusione.
Essendo ministero di carità, la pastorale degli infermi richiede
delicatezza, va costruita col tempo: non si devono costringere gli ammalati a
subire i nostri atti di carità. Inoltre essa è azione di tutta la Chiesa, nei
suoi vari componenti nei confronti delle sue membra malate: i malati sono i
migliori protagonisti della pastorale nel mondo della sofferenza, in quanto
essi hanno una sensibilità particolare.
L’Unzione è sacramento dei malati e non dei moribondi. È sacramento della
salvezza totale e non soltanto della salute: certo, può anche esserci come
effetto del sacramento un miglioramento della salute fisica, ma la salvezza è
quella ovviamente da intendersi in senso teologico. È sacramento della fede e
non della magia: la dimensione di fede deve essere sempre salvaguardata, per
cui il sacramento non può essere imposto. È un sacramento di tutta la comunità
e non del solo individuo: tutta la Chiesa raccomanda al Signore gli infermi e i
malati (ecco perché esso può essere amministrato anche in una celebrazione
comunitaria).
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