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Friday, March 7, 2014

TEOLOGIA MORALE IV

Morale IV


  1. “ADORERANNO IL PADRE IN SPIRITO E VERITA’”

1.1 La virtù di religione

La religione può essere studiata da prospettive diverse: ovviamente la nostra prospettiva sarà quella teologica. Della religione parla anche la teologia fondamentale: quale dunque la specificità dell’approccio della teologia morale?
Potremmo partire dalla definizione che Tommaso dà di religio: essa è ordo ad Deum: in questa definizione tutto si gioca sulla parola ordo, riferita a Dio. Questa definizione è di per sé valida per tutte le religione, nella prospettiva cristiana Deus è ovviamente il Dio rivelatosi in Gesù Cristo. Ma cosa significa ordo, che noi traduciamo generalmente “ordine”? La parola latina è una parola ricca di significati. Nell’ordo di ogni religione vi è anzitutto un aspetto costitutivo, che identifica una religione: nella religione cristiana è l’evento fondatore del Cristo morto e risorto; ma vi è poi anche, per esempio, la dimensione cultuale o quella dogmatica, studiata da altre discipline come la liturgia e la dogmatica. La teologia morale è lo studio dei vari problemi morali che fanno riferimento ai cristiani e perciò tutto quello che il cristiano è chiamato a fare per rendere culto a Dio ed essere obbediente alla sua legge e alla sua Rivelazione. In senso oggettivo, la religione è ordo; in senso soggettivo, la religione è il rapporto del cristiano con Dio e dunque è da intendere la religione come virtù di religione.
Un altro modo per chiarire questa questione è la via linguistica. Il termine religio ha una duplice etimologia: nel suo De natura deorum, Cicerone affermava che questo termine deriva dal verbo relegere, che significa “prestare attenzione con la mente e il cuore, rendere culto alla divinità”; il retore cristiano Lattanzio faceva derivare questo termine dal verbo religare, sottolineando il legame che la religione instaura fra l’uomo e Dio. Agostino è sicuramente d’accordo con Cicerone, ma in un passo del De civitate Dei Agostino intravede nella religione un re-eligere, cioè uno “scegliere di nuovo”, guardando anche quella che era stata la sua esperienza personale.

Alla luce di questo, la virtù di religione è la virtù mediante la quale si rende culto a Dio riconosciuto come Signore, manifestando in tal modo quella che è la propria fede. Sappiamo che possiamo distinguere tra fides quae e fides qua. In un certo qual modo la fides quae può essere messa in relazione con la religione in senso oggettivo, mentre la fides qua con la religione in senso soggettivo. Ma possiamo anche distinguere: mentre la fede designa più il cammino di Dio verso l’uomo (dimensione discendente), la religione esprime maggiormente la dimensione ascendente del cammino dell’uomo verso Dio. È anche vero che la fede chiede la religione, ovvero la ricerca di Dio da parte dell’uomo.
Nella suddivisione delle virtù, la fede è virtù teologale, nel senso che viene da Dio e ha Dio come oggetto. La religione non può invece essere detta virtù teologale, ma invece è virtù morale, che attiene maggiormente alle virtù cardinali, in maniera particolare alla virtù della giustizia, se è vero che la giustizia è la virtù per la quale si rende a ognuno ciò che è suo (anche a Dio bisogna rendere ciò che è suo). Oggetto della virtù di religione non è tanto Dio, quanto invece gli atti dell’uomo.
In S. Th. II-II, qq. 81-100, Tommaso parla della virtù di religione, collocandola nelle virtù morali. Tommaso afferma che le virtù teologali si applicano a Dio come loro oggetto: le virtù teologali comandano la virtù di religione, che fa compiere all’uomo atti rivolti a Dio, in ordine a Dio (siccome credo, spero e amo, allora compio atti per esprimere la fede, la speranza e la carità). Ogni opera virtuosa fa capo alla virtù di religione, dal momento che è ordinata dalla virtù di religione a quello che è il suo fine proprio, che è la maggior gloria di Dio. La virtù di religione connota gli atti di tutte le altre virtù affinché siano offerta, sacrificio a Dio.
Alla luce di questo, vediamo come il culto cristiano non riguarda solo la sfera liturgica, ma si allarga a tutta la vita (cfr. Rm 12,1), dal momento che la religione converte in offerta a Dio tutti gli atti virtuosi, facendo sì che gli atti virtuosi non rimangano fini a se stessi (è il pericolo che i Padri definivano filautia: è l’amore di sé che dimentica Dio come origine e fine).
La religione si pone dunque in rapporto sia con le virtù teologali sia con le virtù cardinali.

1.2  Religione ed esperienza religiosa

In nome di cosa possiamo dire che un atto è buono o cattivo? Diversi sostengono che oggi sono crollati i fondamenti tradizionali, ovvero Dio che manifesta la sua volontà attraverso la legge (fondamento religioso) e la metafisica. La religione non rappresenta più un punto di riferimento comune per le società occidentali. In materia di fede e di comportamenti morali, lasciata alle spalle l’era delle certezze, saremmo entrati nell’era delle convinzioni.
Della modernità vengono date diverse interpretazioni, perciò la comprensione dei suoi contenuti non è semplice; tentiamo di descriverne alcune caratteristiche:

-        la modernità è esito di un’evoluzione che parte dalla fine del Medioevo, da quello che viene chiamato nominalismo: il soggetto personale viene affermato come prima realtà del mondo;
-        la modernità è legata al progresso e alla definizione delle scienze sperimentali. Le società moderne, più che scientifiche, sono diventate tecniche o tecnologiche, fino ad arrivare a quel postulato per cui ciò che è tecnicamente possibile è anche moralmente possibile;
-        gli antichi perdono valore: è la posizione di alcune posizioni radicali dell’Umanesimo;
-        ma uno dei più importanti caratteri della modernità è quello della secolarizzazione. Il termine non ha un significato univoco. Nel secolo scorso quella della secolarizzazione è divenuta una vera e propria bandiera. Il termine secolarizzazione fa riferimento alla parola latina saeculum, che traduce il greco aion: il termine saeculum designa il mondo nella sua durata temporale (mentre il termine mundus ha un significato maggiormente fisico). I saecularia erano, nel Medioevo, i beni fisici, inferiori e subordinati ai beni superiori ed eterni che sono i beni spiritualia.
Storicamente vi è stata un’evoluzione di significato del termine “secolarizzazione” (termine che di per sé esprime un dinamismo, un processo). Il termine aveva innanzitutto un senso giuridico canonico: era il permesso dato ad un religioso di uscire fuori del suo monastero o convento; ma vi è anche un altro significato giuridico-politico: indicava la sottrazione di determinati beni dalla sfera dell’autorità religiosa. La nozione filosofico-storica e culturale è un prodotto del XIX secolo: con questo termine si designa la formazione della cultura e dell’etica della società laica e borghese, sottolineando l’autonomia e l’emancipazione nei confronti della societas christiana (comportando in tal modo un processo di de-cristianizzazione, de-ecclesializzazione). In ogni significato troviamo questo elemento comune: secolare è ciò che prima apparteneva alla dimensione del sacro, mentre ora appartiene alla dimensione mondana, profana; la secolarizzazione è il fenomeno per cui le realtà della vita umana vengono vissute non solo in modo non sacrale, ma in modo del tutto autonomo rispetto alle norme e alle istituzioni religiose.

Il secolo XVIII è un processo contro Dio, quasi un chiedere conto a Dio del perché e del come: l’uomo avrebbe dato fiducia a Dio, ma Dio avrebbe tradito la fiducia dell’uomo. Nel secolo XIX il processo contro Dio si trasforma in un rifiuto di Dio (“Dio è morto”): “processare” Dio significa attribuirgli importanza. Il XX secolo è caratterizzato dall’avvento dell’uomo-demiurgo: l’uomo occupa il posto di quel Dio che è ormai assente e rifiutato.
L’esito di tutto questo può essere definito con due aspetti essenziali:

-        l’autonomia dell’uomo, del suo modo di pensare e di vivere nei confronti di ogni riferimento religioso o metafisico;
-        la volontà dell’uomo di derivare da sé gli orientamenti e le norme che considera convenienti. Qui si innesta la questione delle varie interpretazioni della democrazia: deve prevalere il criterio della maggioranza come criterio di moralità?

Qualcuno ha parlato di disincanto del mondo: il mondo non crede più alla magia, agli spiriti, etc. e dunque, sebbene profondamente diversa da queste realtà, anche alla religione. Ma è davvero così? La situazione odierna si presenta come complessa e contraddittoria. Metz aveva parlato di “religione sì, Dio no”; il sociologo italiano Garelli ha intitolato un suo studio Forza della religione e debolezza della fede, mettendo quasi in contrapposizione religione e fede. Si parla oggi di un’indifferenza religiosa, ma allo stesso tempo una ricerca del sacro e del senso, favorita anche dalla progressiva perdita di fiducia nelle ideologie e nella scienza. Il sociologo francese, descrivendo la situazione religiosa odierna, ha parlato di religioni a la carte, cioè secondo i propri gusti, che porta anche a diversi eclettismi e selezioni all’interno delle religioni stesse. I rischi di tutto questo sono vari: relativismo e integralismo (il pluralismo genera incertezze e questo potrebbe portare a rispondere con la forza).
Un altro rischio, molto più sottile, è quello dell’assorbimento della fede nella religione o nell’etica: il cristianesimo è una fede, non può essere ridotta ad una sorta di religione civile o culturale, per cui essere cristiani non è tanto credere in Cristo, ma avere determinati valori e assumere determinati comportamenti morali. La fede in tal modo diventa subalterna di una religiosità non connotata dal senso di un’alterità di Dio. Questa prevaricazione della religione sulla fede comporta come conseguenza un’eliminazione della tensione escatologica. Il cristianesimo dunque non deve essere ridotto alla sua dimensione religiosa morale: il cristianesimo è una fede, che è risposta all’evento di grazia di Cristo. La fede cristiana, fondata nella Rivelazione, trascende la religione, in cui è sottolineato l’elemento umano: ma poiché la Rivelazione contiene anche una rivelazione dell’uomo a se stesso, ecco come la fede va a sostenere anche l’elemento religioso dell’uomo.

La GS vede come una delle cause dell’ateismo e della areligiosità proprio nel distacco tra fede e vita. In molti c’è purtroppo una concezione magico-sacrale dei riti e, accanto a tale concezione, vi è anche la pretesa di verificabilità come criterio applicato ai sacramenti. Questa concezione magico-sacrale esprime da un lato un’esigenza di verità, ma dall’altro rischia di portare ad una concezione magica. Prova di questo sono le controversie circa l’efficacia sacramentale che vi sono state nella storia della Chiesa. Il criterio di verificabilità applicato ai sacramenti fa riferimento ai bisogni delle persone, quasi che i sacramenti debbano appunto soddisfarli e ciò dovrebbe essere automatico (dovrei poter verificare gli effetti della grazia sacramentale nel soddisfacimento di questi bisogni).
In Eb 7, 24-27 c’è un termine fondamentale per la comprensione dell’evento cristiano: è il termine efapax, il quale è formato dalla preposizione epi e dal termine apax, e significa “una volte per sempre, una volta per tutte”. Tutto il mistero pasquale è in tal senso efapax. La nozione di sacramento si ricollega proprio a questa realtà: la categoria della sacramentalità, intesa non in senso univoco (applicabile cioè ai soli 7 sacramenti), ha come suo analogato principale proprio Cristo. In Rm 12,1 si parla di logikèn latreian, di culto secondo logos: ma Cristo è il Logos, perciò qui si potrebbe far riferimento ad un culto secondo Cristo. Il culto perciò che dobbiamo rendere a Dio deve sempre conservare sempre la struttura dell’incarnazione, dal momento che caro cardo salutis: quella carne che il Verbo ha assunto rimane per sempre. Ogni atto di culto giunge a Dio per mezzo di Cristo, che è l’apertura perenne della nostra finitezza e creaturalità al Dio infinito ed eterno.

Il tema religione-culto può essere visto in diverse discipline. Qui non esamineremo il culto in chiave liturgica, ma guarderemo al culto nella prospettiva della virtù di religione. La definizione di Tommaso d’Aquino nella Summa rimane una definizione chiara e precisa: religio è la virtù che porta a dare a Dio il culto che a lui è dovuto. Vi sono tante forme di culto: ma qual è il culto autentico che porta a Dio? Nel progresso della Rivelazione vetero e neotestamentaria si mostra sempre più e sempre meglio quale sia l’autentico culto, che non corrisponde all’offerta di esseri umani o di animali, ma all’offerta della propria vita. Vediamo ora quello che è il culto secondo la Rivelazione ebraico-cristiana contenuta nella Scrittura, per arrivare a definire quale deve essere il culto nella religione cristiana.
Il termine culto ha la stessa etimologia del termine cultura, ovvero il verbo colere, che è fondamentalmente azione dell’uomo:il culto è azione dell’uomo, per trasformare e per esprimere qualcosa, così come l’uomo con la cultura trasforma la natura o fa esprimere la natura con le sue potenzialità. Come però la cultura ha bisogno di regole (sono gli uomini stessi a darsi regole per le espressioni culturali), anche il culto necessita di regole: Dio stesso interviene nella Rivelazione per trovare regole che permettano che il culto sia espressione di una religione vera, rispettosa di Dio e dell’uomo. Il culto è fondamentalmente sottomissione ad una persona: vi sono talora culti dati a cose o a uomini, che vengono ritenuti divinità, cadendo così nell’idololatria. L’uomo è chiamato a riconoscere Dio come l’unico Signore e ad attribuire a Dio il culto che gli è dovuto, non solo con sacrifici, ma primariamente con la propria vita. Il culto ha una duplice sfaccettatura, personale e comunitaria: in Es 19,5-6 si parla di popolo di sacerdoti e di nazione santa, dove l’espressione “regno di sacerdoti” non deve essere inteso come un regno in cui ci sono anche dei sacerdoti, ma un regno dove tutti sono sacerdoti; il patto sinaitico pone il popolo di Israele a servizio di Dio. Cristo si colloca all’interno dell’orizzonte cultuale ebraico e da una parte si pone in obbedienza ad alcune prescrizioni rituali, ma dall’altra le supera: Cristo infatti è il vero tempio in cui abita Dio, il sacerdote sommo ed eterno che con il sacrificio di sé offre a Dio il culto. Pertanto gli attributi del popolo d’Israele passano al nuovo popolo di Dio, che è la Chiesa (cfr. 1Pt): l’atteggiamento di adorazione del popolo della Prima Alleanza diviene ora l’atteggiamento del nuovo popolo di Dio.
Il cristiano, che nel Battesimo diviene servo di Dio, è chiamato ad adorare Dio.
Concludendo, possiamo dire che il culto per il NT è fondato e motivato dalla persona e dall’opera di Cristo Gesù: egli è il nuovo tempio (perciò esso può essere distrutto), è il sommo ed eterno sacerdote, è il sacrificio vero e perfetto (non c’è più bisogno di altri sacrifici), è il servo di Dio nella sua umanità. Cristo fa della Chiesa e dei credenti templi viventi, sacerdoti, sacrifici, servi di Dio. In questa prospettiva il culto cristiano è la risposta che i membri del popolo di Dio sono chiamati a dare all’opera salvifica di Dio mediante la fede, la speranza e la carità, attuate nel rito sacro e nella vita morale, in una profonda unità fra queste due dimensioni. In tal modo si realizzano le 3 note costitutive della sacramentalità: memoria (è lo ziqqaron, l’anamnesis delle cose meravigliose operate da Dio), presenza (attualizzazione qui ed ora dell’opera di Dio: non è un semplice ricordo), attesa (prefigurazione dell’eschaton, dove non ci sarà più bisogno di sacramentalità essendo tutto e tutti in Cristo).
Questa espressione del culto va contro ogni concezione magica: infatti non è l’uomo che fa in modo che Dio agisca, ma è Dio che liberamente e gratuitamente agisce. La risposta umana non è la risposta ad un Essere supremo, ma al Dio unitrino che in Cristo si è rivelato.

Passiamo ora a parlare della devozione. La devozione è una categoria che vuole esprimere la caratteristica del servizio, che qualifica Cristo (servo di Dio) e che dovrebbe qualificare la comunità di coloro che sono i servi di Dio. La devozione esprime una caratteristica tutta speciale del servire Dio: essa è voluntas prompte faciendi, secondo quanto dice Tommaso. Essa è dunque la disponibilità espressa attraverso la prontezza. La devozione dunque non è un dare o offrire qualcosa, ma offrire se stessi in questa disponibilità ad essere servi di Dio.
Icona biblica di devozione è sicuramente Maria nel mistero della visitazione, quando prontamente e in fretta essa si mette in viaggio per andare da sua cugina Elisabetta. Etimologicamente, il termine devozione riprendere il termine votum: il voto è offerta a Dio non di qualcosa, ma della propria a servizio di Dio. La devozione è l’autodisporsi della persona a servizio di Dio, che parte dal riconoscimento primo della grazia di Dio, alla quale risponde la responsabilità umana. Il primo devotus in tal senso è lo stesso Cristo Gesù in quanto Figlio.

Nei sacramenti si oggettiva l’incontro fra il cristiano e Cristo. Con il Battesimo il cristiano diviene figlio di Dio, acquistandone la dignità (cfr. Leone Magno). La morale cristiana è morale sacramentale e in tal senso si contrappone a quelle morali dette dell’”auto perfezionamento”, in cui il rapporto con Dio è solamente uno dei comportamenti da vivere: la morale è invece fondata sull’iniziativa di Dio.
In questa prospettiva i sacramenti non sono solo degli aiuti o dei doveri per il cristiano (nei sacramenti non vi è solo illuminazione e fortificazione), ma sono elevazione ontologica e dunque fondamenti della vita morale cristiana.

(manca una lezione qui)

Il carattere sacramentale è res et sacramentum nella struttura tripartita dei sacramenti: esso è quell’effetto che si realizza sempre quando il sacramento è celebrato validamente. Anche se non c’è l’effetto di grazia (quando per esempio chi riceve il sacramento pone l’ostacolo), il carattere si realizza. Essendo il carattere res et sacramentum, esso non è solo l’effetto prodotto (res), ma ha anche carattere di segno (sacramentum). In quanto segno, il carattere è:

-        signum configurativum: il sacramento configura a Cristo in quello che è l’essere stesso di Cristo;
-        signum partecipativum: essendo configurati a Cristo, si partecipa di Cristo, alla sua potestà, alla sua missione. La potestas di Cristo è il potere di ricevere gli altri sacramenti: in quanto battezzato, il cristiano riceve il sacerdozio di Cristo ed è abilitato a trasmettere la ricchezza cristiana;
-        signum deputativum: indica la nostra destinazione al culto. Partecipando del sacerdozio di Cristo, il cristiano è abilitato a celebrare il culto;
-        signum obligativum: esso impegna l’uomo. Essendo configurato a Cristo, il cristiano è chiamato ad essere conforme al suo essere.

Partiamo ora da una affermazione classica della teologia: sacramenta sunt propter nomine, non propter angelos. Per questo i sacramenti devono essere celebrati in verità e pienezza, rispettando la struttura antropologica e i sacramenti stessi.
I sacramenti hanno un’efficacia integrale, si rivolgono a tutto l’uomo, sono per la salvezza dell’uomo. L’uomo è anima e corpo: per molto tempo si è sottolineata unicamente l’anima, dimenticando la realtà corporale. Già i Padri affermavano, per esempio, che il Battesimo rinnova tutto l’essere dell’uomo. Ma l’uomo non è solo individuo, ma fa parte di una comunità, della Chiesa. Ecco allora un secondo aspetto, quello ecclesiale, comunitario. Qui bisogna mettere in evidenza il potere della Chiesa sulla realtà sacramentale: i sacramenti non sono cosa nostra: i sacramenti sono atti della Chiesa, dunque appartengono alla Chiesa.
Dobbiamo perciò parlare della potestas della Chiesa sui sacramenti, che è un punto molto delicato. Il Concilio di Trento, sessione 21, cap. 2, afferma che la Chiesa ha il potere perpetuo di stabilire e di mutare ciò che, a seconda del variare delle situazioni del tempo dell’uomo, può risultare più conveniente all’unità dei fedeli e alla venerazione dei sacramenti, fatta salva però la loro sostanza. Ma come va intesa la sostanza dei sacramenti? In SC si dice che la liturgia consta di una parte immutabile perché di istituzione divina e di una parte suscettibile di cambiamento. La sostanza del sacramento è ciò che è di istituzione divina: il problema che qui si apre è definire che cosa sia di istituzione divina e come bisogna intendere questa istituzione divina. Il canone 841 del CIC dice che spetta alla suprema autorità della Chiesa definire quelli che sono i requisiti per la validità dei sacramenti: questi requisiti non coincidono con l’istituzione divina.  
I riformatori protestanti negavano alcuni sacramenti perché non vi erano testi biblici della loro istituzione oppure affermavano che il modo in cui la Chiesa celebra i sacramenti non è quello che Cristo ha voluto. Perciò molti autori, già nel Medioevo, cercavano si rinvenire i passi biblici in cui i sacramenti venivano istituiti. La riflessione teologica del secolo scorso ha invece insistito sulla sacramentalità di Cristo, abbandonando questa prospettiva.
Il can. 213 del CIC sottolinea il diritto dei fedeli di ricevere dai pastori gli aiuti derivanti dai beni spirituali della Chiesa. Ma a questo diritto corrispondono anche precisi doveri: essere in comunione con la Chiesa, essere ben disposto a ricevere i sacramenti, etc. In tutto questo i pastori della Chiesa hanno anche precisi doveri.
I requisiti per una celebrazione degna dei sacramenti sono:

-        la fede: al can. 836 si afferma che, poiché il culto cristiano è opera che procede dalla fede e in essa si fonda, i ministri sacri devono provvedere a illuminarla soprattutto con il ministero della Parola dalla quale la fede nasce e con la quale la fede si nutre. Al can. 840 si afferma che i sacramenti sono segni per mezzo dei quali la fede viene irrobustita. Per ogni sacramento il CIC fa poi delle specificazioni su questo;
-        l’annuncio della Parola e della catechesi: questa necessità non tocca la validità, ma riguarda la maniera degna di ricevere i sacramenti;
-        una partecipazione attiva e fruttuosa;
-        un contesto celebrativo: i sacramenti sono amministrati da un ministro, ma un contesto celebrativo mette in risalto che è l’intera assemblea, presieduta dal ministro, che celebra (cfr. can. 837: le azioni liturgiche, per il fatto che comportano per loro natura una celebrazione comunitaria, vengano celebrate con la presenza e la partecipazione attiva dei fedeli);
-        fedeltà ai libri liturgici approvati: come intendere qui fedelmente? Tale fedeltà è segno di comunione ecclesiale: inoltre già i libri liturgici stessi prevedono eventuali adattamenti.

Uno dei temi più complessi è quello del rapporto tra fede e sacramenti. I sacramenti non suppongono unicamente la fede, ma anche la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono.
Consideriamo due testi: Mc 16,15-16 e SC 59. Nel NT, sia i Sinottici che Paolo, troviamo accenni molto importanti circa la fede in rapporto ai sacramenti. Le controversie del IV secolo hanno un effetto positivo, dal momento che mettono in luce una nuova dimensione del problema: permettono di sottolineare come l’efficacia dei sacramenti dipende dalla Chiesa che li ha ricevuti nella fede e non dal singolo ministro. Questo dato, che nel NT è più vissuto che esplicitato, si impone soprattutto nel mondo latino a motivo delle deviazioni ereticali e dunque della necessità di chiarire le questioni: in questo sicuramente è Agostino ad avere una grandissima importanza. Agostino identifica la Chiesa come la madre dei credenti. Nella teologia dei Padri greci era dominante il ruolo insostituibile della fede della persona per partecipare al mistero di Cristo nel sacramento: la partecipazione deve essere infatti fruttuosa. Ecco dunque la necessità della fede ortodossa, coerente con il mistero. Questa fede, che permette di accedere al mistero, è nutrita e consacrata dal sacramento: perciò Basilio affermava che fede e sacramento sono due mezzi di salvezza legati l’uno all’altro.
Nella riflessione medievale troviamo diversi autori. L’elaborazione proposta da alcuni autori non è più ora giustificata da deviazioni ereticali, ma si è ormai arrivati alla consapevolezza del settenario sacramentale e di cosa sia sacramento e di come esso sia efficace. I sacramenti sono segni destinati a rappresentare i misteri redentori del Cristo ai quali la Chiesa aderisce per mezzo della sua fede. Dunque, per mezzo della fede della Chiesa e dell’oggetto della fede (mistero redentore di Cristo), i sacramenti ricevono il loro significato soprannaturale e la loro efficacia di grazia. Per quanto riguarda il soggetto che riceve i sacramenti, Tommaso afferma che i sacramenti sono una protestatio fidei, un’attestazione di fede. In questa prospettiva, la fede personale ha un ruolo secondario rispetto alla fede della Chiesa: dicendo secondario, non si vuole dire che non serva a nulla, anzi la fede personale ha comunque una sua importanza, perché da essa dipende l’efficacia di grazia del sacramento. Di conseguenza la fede del ministro, dice Tommaso riprendendo Agostino, può anche mancare senza che per questo il sacramento cessi di essere valido ed efficace: il suo valore di sacramento del Cristo è assicurato anteriormente dalla fede della Chiesa.
Una questione è quella del votum sacramenti: si pensi al caso in cui qualcuno muore prima di essere riuscito a ricevere il Battesimo. In tal caso basterebbe il desiderio del sacramento per la salvezza. Ovvio che questa soluzione non venne accettata da tutti; alcuni, proprio per risolvere questo problema, finirono con l’inventarsi il limbo. Il votum sacramenti, inizialmente riferito al solo Battesimo, viene poi allargato anche ad altri sacramenti.
Nel XVI secolo la teologia dei riformatori va ad ignorare l’edificio dottrinale della Scolastica che la Chiesa aveva fatto proprio e va ad esaltare la potenza giustificatrice della fede, anche se molto spesso non si sa con precisione cosa sia questa fides. La salvezza non è dunque per mezzo del sacramento, ma in occasione del sacramento (sempre indipendentemente da esso) la grazia giunge al credente. Contro questa posizione dei riformatori si leverà il Concilio di Trento; dopo il Tridentino, i riformatori esaspereranno il valore della fede, mentre i teologi cattolici quello dei sacramenti.
Il Concilio di Trento, sessione VI, cann. 6 e 8, afferma che i sacramenti producono effetti per se stessi: se qualcuno negherà che i sacramenti producano la grazia ex opere operato e affermerà che per ottenere la grazia sia sufficiente la fiducia di ottenere la grazia, sia scomunicato. Cosa significa ex opere operato? In un certo senso esso equivale all’actum: è l’atto infatti che è stato operato. Ma di che si tratta? Fondamentale è tenere presente che l’ex opere operato non vuole favorire una concezione magica dei sacramenti. L’espressione opus operatum nasce di per sé in teologia per indicare la morte di Cristo in croce; chi utilizzò questa espressione parlava anche dell’opus operans, ovvero di chi compie quell’opera. Questa distinzione viene applicata, da Pierre Depoitier, per la prima volta al Battesimo per indicare che il Battesimo è valido indipendentemente da chi lo amministra (opus operantis), ma di per sé (opus operatum). Guglielmo di Auxerre, continuando la riflessione, distingue tra sacramenti veterotestamentari e sacramenti neotestamentari: i primi hanno un’efficacia ex opere operantis (per l’attività soggettiva di chi fa questi sacramenti), mentre i secondi hanno un’efficacia ex opere operato (per il fatto stesso di porre il sacramento); in Guglielmo non è assente la concezione che questa efficacia venga dalla morte e dal mistero pasquale di Cristo. Entrate dunque queste espressioni nell’uso comune, il Tridentino le riprenderà.
Ma quale valore per la fede? La fede è richiesta perché il soggetto possa accedere al sacramento e possa goderne l’efficacia. L’affermazione della necessità della fede risulta in quello che è il caso estremo del pedobattesimo: dov’è la fede nel pedobattesimo? Innanzitutto nella Chiesa, ma soprattutto nel Battesimo stesso, attraverso cui la fede viene infusa.
A tal proposito esistono due modi di leggere i sacramenti:

-        nei Padri della Chiesa la tendenza è quella di vedere una celebrazione continuata del sacramento, di leggere l’evento sacramentale non rigidamente collocato in quel momento, ma in tutto un dinamismo. In qualche maniera una persona inizia ad essere cristiana quando si rivolge al vescovo e chiede di diventare cristiano: già questo è un entrare dentro, una initiatio (in-eo = entrare dentro”). Questa iniziazione ha delle tappe, dei periodi, e non si conclude quando si riceve il sacramento: dopo il sacramento, infatti, si aveva la mistagogia;
-        dalla Scolastica in poi, si afferma l’esigenza di fissare il momento preciso in cui il sacramento è fatto e di individuare ciò che è necessario per il sacramento. Per la validità del sacramento sono richiesti il consenso del soggetto e, da parte del ministro, l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa: per la validità non sono richiesti né la fede del ministro né la fede di chi riceve il sacramento. La validità dunque viene dalla Chiesa e da quella parola stabilita per il sacramento: la Chiesa applica, per mezzo della sua fede, al gesto rituale compiuto quel significato spirituale e quell’efficacia che vengono dal mistero redentore di Cristo.

Non c’è un problema unico e dunque una soluzione unica del rapporto fede-sacramento: ma vi sono diversi problemi connessi fra loro. Questo perché sia al termine fides sia al termine sacramentum dobbiamo dare significati differenti. Quando parliamo di fides, di quale fede parliamo? Quella del soggetto? Quella del ministro? Quella della Chiesa? La fides quae o la fides qua? Stesso discorso per la parola sacramentum. Il Tridentino utilizza il termine sacramentum in modo univoco, riferendosi ai 7 sacramenti, che però sono considerati in maniera gerarchica così come aveva già fatto Tommaso (Battesimo ed Eucarestia hanno un’importanza maggiore).
Possiamo sintetizzare tutto questo discorso con 3 frasi di Tommaso d’Aquino:

-        sacramenta sunt quaedam signa protestantia fidem: i sacramenti sono segni che attestano la fede. La protestatio non avviene solo con le parole (come per la professio), ma è un’attestazione della fede della Chiesa cattolica in tutta l’ampiezza dei suoi contenuti. Essi sono la proposta di fede dell’iniziativa salvifica di Dio. Vi è dunque un’oggettività della fede. Ciò che dà contenuto e consistenza alla fede cristiana è appunto il mysterion di cui nei sacramenti si fa memoria: partecipando ai sacramenti io compio un atto di fede, ma i sacramenti proclamano la fede stessa;
-        sacramenta sunt continuatio fidei: i sacramenti sono continuazione della fede. Vi è una linea di continuità tra fede e sacramenti, che non sono due vie alternative di salvezza (il rischio della Riforma). Se la fede viene ridotta alla fede pensata, cioè all’accettazione di una dottrina, piuttosto che al coinvolgimento in vita e se la pratica sacramentale viene ridotta ad un semplice gesto di coerenza e di obbedienza verso la dottrina accettata, ecco che non si può più parlare di continuità. La fede non è solamente condizione fondamentale per il sacramento, ma è inizio dell’incontro sacramentale;
-        sacramenta proportionantur fidei: vi è una proporzionalità tra sacramenti e fede. Essi sono strutturalmente affini: la struttura della fede è analoga a quella dei sacramenti e viceversa, in quanto entrambi sono in questa economia di salvezza per questo tempo in tensione escatologica (nell’eschaton non vi saranno né fede né sacramenti). Sia la fede sia i sacramenti esigono una crescita costante e progressiva, in cui bisogna rispettare entrambe le parti; Dio fa la sua parte donando se stesso negli eventi sacramentali e donando la fede, ma anche l’uomo deve fare la sua parte per incontrare Dio. La storia si realizza nell’eschaton e quest’ultimo entra nella storia. La fede e i sacramenti hanno valore provvisorio: come già detto, essi non vi saranno nell’eschaton. I sacramenti sono già partecipazione della vita divina, ma verranno superati dalla comunione piena con Dio.

Vediamo ora come la celebrazione sacramentale è compiuta da vari attori: ma un ruolo particolare lo svolge colui che è il ministro. Il ministro pone dei gesti, in cui va individuata la cosa necessaria. È necessario sapere cosa è richiesto per la valida celebrazione e per la lecita celebrazione.
Per ciò che riguarda il ministro dei sacramenti, egli agisce in nome di Cristo e della Chiesa: egli è sempre una persona e deve essere perciò in grado innanzitutto di intendere e di volere. In 5 sacramenti si richiede che il ministro che li amministra sia consacrato: Confermazione, Eucarestia, Penitenza, Ordine e Unzione degli Infermi, mentre il Battesimo e il Matrimonio si differenziano (può battezzare anche un ministro non consacrato, addirittura un non battezzato; per il Matrimonio, ministri del sacramento sono gli sposi, impostazione che non è divisa dalle Chiese orientali, dove il ministro del sacramento rimane il celebrante). Un’altra distinzione è fra ministro ordinario e non ordinario. I due requisiti per la validità del sacramento inerenti il ministro sono:

-        la potestà di amministrare quel sacramento: nel sacramento della Penitenza, oltre alla potestà di Ordine, vi deve essere anche la facoltà di poter confessare. Attenzione: non si richiede la potestà di Ordine e quella di giurisdizione (come affermava la vecchia normativa vigente), ma si richiede la potestà di Ordine e la facoltà di esercitarla. Può invece celebrare l’Eucarestia il sacerdote validamente ordinato. Ministro della Unzione degli Infermi è ogni sacerdote e soltanto il sacerdote;
-        l’intenzione di amministrare quel sacramento. La formula, introdotta quasi sicuramente nel XIII da qualche teologo o canonista, è quella dell’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa. Tale intenzione non è la comprensione che il ministro ha del significato del sacramento, ma è l’atteggiamento personale che esprime la propria lealtà nei confronti di quel rito, è la volontà di compiere quel gesto secondo quello che la Chiesa intende fare con quel gesto e dunque ciò che Cristo intende fare (la Chiesa non può volere ciò che non vuole Cristo). L’intenzione può essere di vario tipo: il CJC non entra in merito alle questioni sollevate da giuristi e moralisti lungo i secoli. L’intenzione può essere interna (interna alla persona) o esterna (manifestata all’esterno), abituale (precede ma non accompagna il rito), virtuale (precede e causa, accompagna il rito) o attuale: per la celebrazione della Messa è sufficiente l’intenzione interna e non necessariamente attuale. L’intenzione condizionata è richiesta espressamente nel caso di Battesimo, Confermazione e Ordinazione, mentre in altri casi va usata la condizione in tutti i casi in cui il sacramento è esposto a pericoli gravi: la condizione deve essere passata o presente; se è futura, esso è certamente nullo. Se per esempio io non so se una persona sia stata battezzata e questa persona richiede un altro sacramento, io devo battezzarlo con la condizione che quel Battesimo è valido solo se egli effettivamente non era stato battezzato precedentemente.

Di per sé, per la validità del sacramento, non si richiede dunque la fede e lo stato di grazia del ministro: certo, è auspicabile che il ministro sia in stato di grazia e nella fede. Ecco allora che vi sono elementi per la liceità dei sacramenti, tra cui rientra lo stato di grazia del ministro o dei ministri nel caso degli sposi. Per la liceità vi deve essere anche la licenza di celebrare il sacramento, quando si tratta di ministro non ordinario, e l’immunità da censure canoniche.
Circa il soggetto ricevente i sacramenti, è necessario che egli sia capace di ricevere i sacramenti. È capace di ricevere il Battesimo unicamente un uomo che non sia battezzato; è capace di ricevere la Confermazione ogni battezzato che non l’abbia già ricevuta; è capace di ricevere l’Eucarestia ogni battezzato che non sia impedito dal diritto; è capace di ricevere la Penitenza ogni battezzato che sia pentito dei propri peccati; è capace di ricevere l’Unzione degli Infermi il credente che, raggiunto l’uso di ragione, si trova in pericolo per vecchiaia o malattia; è capace di ricevere l’Ordine ogni battezzato di sesso maschile; è capace di contrarre matrimonio il battezzato giuridicamente abile. Se il soggetto che richiede il sacramento è privo della capacità di riceverlo, il ministro deve negare il sacramento; invece i ministri sacri non possono negare il sacramento a quanti lo chiedono opportunamente, sono ben disposti e non hanno alcune proibizione dal diritto. Non possono accedere per esempio all’Eucarestia coloro che ostinatamente perseverano in peccato grave e manifesto. La morale distingue tra peccatore pubblico e occulto: il peccatore pubblico è quel fedele la cui situazione di peccato è conosciuta.
Il can. 844 prevede i casi di “intercomunione”: partendo dal presupposto che i ministri cattolici amministrano lecitamente i sacramenti ai soli fedeli cattolici, i cattolici possono chiedere i sacramenti della Penitenza, dell’Eucarestia e dell’Unzione a ministri di chiese in cui tali sacramenti sono validi. Questo vale anche viceversa.

Per ricevere ogni altro sacramento è necessario il Battesimo. Per ricevere l’Ordine Sacro si esige il sesso maschile, per ricevere la Penitenza e il Matrimonio si esige l’uso di ragione, per esigere l’Unzione degli Infermi si richiede lo stato di infermità grave o di vecchiaia e che sia stato raggiunto l’uso di ragione (lo deve aver raggiunto anche in passato, non è necessario che abbia attualmente l’uso di ragione). Perché questa scelta circa l’Unzione degli Infermi? Perché, avendo questo sacramento carattere penitenziale, uno che non ha uso di ragione non ha potuto commettere peccato.
Il soggetto che riceve i sacramenti, quando è capace di atti umani, deve avere l’intenzione di ricevere quel sacramento: i sacramenti non possono essere amministrati contro la volontà di chi li riceve (ci vuole almeno l’intenzione abituale, implicita). Per la validità del sacramento, nel soggetto che lo riceve, non si richiede la fede: certamente, perché la celebrazione del sacramento sia fruttuosa, si richiede la fede e lo stato di grazia.

Per quanto riguarda il segno sacramentale, si utilizzano le categorie ilemorfiche (materia e forma). I due elementi che costituiscono il segno sacramentale devono essere:

-        certi e integri: bisogna essere moralmente certi della materia e della forma del sacramento. Non è consentito l’uso di probabilismi. Circa l’integrità, il cambiamento può essere sostanziale o solo accidentale: una mutazione sostanziale della materiale o della forma rende un sacramento nullo, mentre se il mutamento è accidentale, il sacramento non è nullo (al massimo potrà essere illecito);
-        convenientemente uniti fra loro: vi deve essere una simultaneità delle parole della consacrazione e gli elementi materiali che devono essere lì presenti.
-        applicati dallo stesso ministro nei confronti dello stesso soggetto: i sacramenti non possono essere “concelebrati”.

Una questione di cui dire è la comunione per i celiaci (la celiachia è un’intolleranza al glutine): il celiaco deve astenersi in modo tassativo dal mangiare alimenti contenenti glutine. Di per sé il celiaco può accostarsi alla comunione bevendo al calice, sebbene è preferibile che il calice sia diverso da quello principale, nel quale si fa l’immixtio. È possibile però produrre anche ostie con amido di frumento con una percentuale di glutine molto bassa, idonee per la comunione dei celiaci.

1.3  Adoro l’unico Signore

Il riconoscimento di Dio come l’unico Signore deve essere fatto vivendo le virtù teologali: nel CCC 2083ss. si afferma proprio questo. Questo riconoscimento avviene nell’adorazione di Dio e praticando i comandamenti, in maniera particolare i primi 3 che fanno riferimento a Dio: da essi emergono i principali doveri, ma anche i peccati che si oppongono a questi comandamenti.
L’adorazione è il riconoscimento di Dio in quanto Dio: è dunque un atteggiamento dell’uomo nei confronti della divinità. L’adorazione acquista delle particolarità rispetto alle altre religioni. Non dobbiamo intendere però l’adorazione solo come un fatto cultuale, che si esaurisce unicamente in forme esterne; è necessario invece ricordare alcune espressioni evangeliche, come la risposta di Gesù all’ultima tentazione (“Adora solamente il Signore, a lui solo rendi culto”). È ovvio che poi l’adorazione trova anche delle espressioni esteriori. Il termine greco latreia indica appunto l’atteggiamento di adorazione, tanto che si parla di idolatria per l’adorazione di qualcosa che non è Dio. Agli angeli e ai santi il culto non è di latreia, ma di doulia (per la Vergine Maria si parla di iperdulia).
Vi sono 3 specificazioni dell’adorazione:

-        ringraziamento: il ringraziamento per eccellenza è l’Eucarestia;
-        domanda: la domanda nasce dalla consapevolezza del proprio nulla che porta a rivolgersi che tutto dona. Bisogna stare attenti, nella preghiera di domanda, all’egoismo (chiedere solo per sé), al materialismo (chiedere solo cose materiali) e all’ingratitudine;
-        propiziazione: questo termine deriva dal latino propitiatio, derivante da propitius, che a sua volta deriva da prope, che significa “vicino”. Con il peccato noi ci siamo allontanati da Dio: si invoca dunque il ritorno della vicinanza di Dio. Legato al concetto di propiziazione è il concetto di riparazione, presente nella tradizione spirituale soprattutto dal XVI-XVII sec. in poi.

Da tutto questo scaturisce il divieto di adorare altre divinità. La tradizione teologico-morale (in particolare Tommaso) ha evidenziato, sviluppando la trattazione sulla virtù di religione, ciò che va contro la religione, sia per eccesso sia per difetto: Tommaso recepisce la tradizione latina per cui in medio virtus stat. Possono esserci infatti degli atteggiamenti contrari alla virtù che possono essere per eccesso o per difetto: questa impostazione la si ritrova per tutte le virtù di cui Tommaso va a trattare.
I vizi connessi alla virtù di religione sono la superstizione e l’irreligiosità. Se dunque ciò che va rispettato è l’ordo ad Deum (religio), superstizione e irreligiosità costituiscono un dis-ordo.
La superstizione è un mosaico di comportamenti, a seconda che il culto a ciò che non è Dio sia indebito, falso, etc., mentre per irreligiosità si intende il non trattare Dio come Dio e si può concretizzare nella simonia, nel sacrilegio, nella bestemmia, nel tentare Dio, etc. La superstizione può avvenire in 2 modalità:

-        ratione modi: in questa modalità è il modo che è sbagliato, anche se il riferimento è di per sé a Dio (può essere un culto superfluo oppure falso). All’interno di questa categoria troviamo anche le forme di divinazione e di magia;
-        ratione rei quae cognitur:

(prendere appunti da qualcuno: saltata lezione)

Nella trattazione dei peccati contro la virtù di religione, oltre alla superstizione (v. lezione precedente), vi è l’irreligiosità: mentre la tentazione di Dio, il sacrilegio e la simonia fanno riferimento al primo comandamento, la bestemmia fa riferimento al secondo.
Per tentazione di Dio si deve intendere l’essere tentato di Dio da parte di una creatura: esempi di questo li si ritrova anche nella Scrittura (Gesù stesso viene tentato da Satana e Gesù risponde: Non tenterai il Signore tuo Dio). Tentare Dio significa pretendere di far fare a Dio quello che l’uomo vuole oppure può essere tentazione di Dio il metterlo alla prova dovuto ad una fede smisurata ma scriteriata.
Il termine sacrilegio deriva dal latino sacrum laedere: si tratta di qualcosa che non va fatto nei confronti di qualcosa che è sacro. Si tratta dunque di quei comportamenti lesivi di ciò che è consacrato e di chi è consacrato (in tal senso un sinonimo di sacrilegio è profanazione): si possono avere sacrilegi personali, locali (riguardanti luoghi) e reali (riguardanti cose); da considerarsi a parte è il sacrilegio eucaristico, da inserirsi in una categoria tutta speciale. La Chiesa è intervenuta circa tutto questo per tutelare persone, luoghi e realtà sacre. Il carattere sacro di una persona viene dato o dall’Ordine Sacro o dalla consacrazione religiosa, senza nulla voler togliere al fatto che tutti i cristiani, in virtù del Battesimo, sono stati santificati. Dunque assume caratteristica di sacrilegio personale tutta una serie di azioni (es. violenza, peccato contro la castità, calunnia). Nel diritto canonico la Chiesa è intervenuta dando alcune specificazioni: per alcune forme di peccato essa ha stabilito anche una pena canonica latae sententiae (mentre in altri casi la pena può essere ferendae sententiae); si guardi, per esempio, al can. 1370 che si riferisce alla violenza contro le persone consacrate: chi usa violenza fisica contro il Romano Pontefice incorre nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica; chi usa violenza fisica contro un vescovo cade nell’interdetto latae sententiae (se chierico viene sospeso); chi usa violenza fisica contro un chierico o un religioso per disprezzo della fede e della potestà ecclesiastica viene punito con una giusta pena.
Il sacrilegio locale si può avere per esempio verso una chiesa o verso un cimitero benedetto; esso può avvenire in diversi modi: il commettere un omicidio in un luogo sacro, etc. A tal riguardo il CJC ha diversi canoni: il can. 1205 afferma che sono sacri quei luoghi che sono destinati al culto divino o alla sepoltura dei fedeli mediante la dedicazione o la benedizione; in questi luoghi è vietata qualsiasi cosa sia aliena alla santità del luogo. L’Ordinario può permettere, per determinate occasioni, un uso diverso, che però non sia contrario alla santità del luogo. Il can. 1211 afferma che i luoghi sacri sono profanati se in essi si compiono azioni ingiuriose che creino scandalo e che rendano il luogo non più adatto a svolgervi azioni sacre. Infine guardiamo al sacrilegio reale. Si può far riferimento al can. 1171, dove si specifica che sono cose sacre quelle che sono state destinate al culto divino con la dedicazione e la benedizione. Esse devono essere trattate con riverenze e non devono essere utilizzate per usi profani o impropri, anche se sono in possesso di privati. Il can. 1376 afferma che chi profana una cosa sacra sia punito con giusta pena. L’Eucarestia è il sacrilegio per eccellenza: nell’Eucarestia vi è la presenza reale e sostanziale di Cristo. Nel can. 1367 si afferma che per chi profana le specie consacrate vi è la scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica.
Il termine simonia deriva da Simone Mago, che voleva acquistare il potere di imporre le mani e di comunicare il dono dello Spirito Santo: Pietro gli si oppose risolutamente. La simonia è l’illecita commutazione di beni temporali con beni spirituali o con altri beni temporali connessi con beni spirituali. Chi per simonia celebra o riceve un sacramento deve essere punito con l’interdetto o la sospensione (can. 1380). Un aspetto particolare della questione si può intravedere nel can. 1385, ma viene ampiamente trattato in altri canoni del CJC (come il can. 945): secondo il can. 1385 chi trae illegittimamente profitto dall’elemosina della Messa o della celebrazione dei sacramenti sia punito con una censura o con una giusta pena. Nel can. 945 si afferma che, secondo l’uso approvato dalla Chiesa, ad ogni sacerdote che celebra o concelebra una Messa è lecito ricevere (e non chiedere) un’offerta affinché applichi la Messa per una determinata intenzione. La legittimità di offrire la Messa per l’intenzione di un offerente non pregiudica l’universalità dell’Eucarestia come sacrificio per tutta la Chiesa: il fatto di aver ricevuto un’offerta per una determinata intenzione non toglie il fatto che il sacerdote possa celebrare anche per altre intenzioni. L’offerta del fedele dovrebbe essere il segno dell’unione del fedele alla preghiera del sacerdote: esso non è un pagare la celebrazione (sarebbe simonia). Inoltre l’offerta della Messa è segno anche della comunione di beni, mediante la quale i fedeli partecipano al sostentamento dei ministri e delle opere della Chiesa (can. 946): si tenga conto infatti che in diversi Paesi l’offerta della Messa diviene l’unico sostentamento. In sintesi, circa l’offerta della Messa:

-        si riceva e non si chieda l’offerta;
-        si ricordino anche nella preghiera le altre necessità oltre quella per cui è stata data l’offerta.

Per il sacerdote che ha ricevuto un’offerta per applicare la Messa vi è un obbligo grave di giustizia: qualora un sacerdote non può o non riesce ad adempiere questo obbligo, egli è tenuto o a restituire l’offerta o affidare ad un altro sacerdote quell’intenzione. Vi sono delle offerte di Messe manuali e delle offerte di Messe fondate: per offerte manuali si intendono quelle che il fedele dà di mano propria, che non sono vincolate a nessun luogo o persona determinati (possono essere date a qualsiasi sacerdote); per offerte fondate si intende quelle offerte che sono legate a rendite di fondazioni costituite in passato che comportano obblighi. Esempio di quest’ultimo caso è il fatto che i parroci e i vescovi hanno l’obbligo di celebrare ogni domenica la messa pro populo, connessa al beneficio ecclesiastico ricevuto. Al can. 947 si afferma che deve essere tenuta lontana dall’offerta della Messa qualsiasi apparenza di commercio. Al can. 948 si dice che deve essere celebrata una Messa distinta per ciascuna delle intenzioni per cui è stata data un’offerta, anche se esigua: non si possono dunque cumulare le offerte. Al can. 950 si pone il caso che un offerente dia un’offerta senza specificare il numero delle Messe da celebrare: il numero delle Messe dovrà essere computato in ragione dell’offerta stabilita, a meno che non si possa almeno presumere quella che era l’intenzione del sofferente. In caso il sacerdote celebri più Messe, egli può celebrare ognuna di queste Messe secondo l’intenzione dell’offerente, a condizione che tenga per sé l’offerta di una sola Messa, mentre le offerte delle altre devono essere versate per gli scopi determinati dall’Ordinario del luogo, a meno che non sia il giorno di Natale (qui c’è la possibilità di prendere 3 offerte) oppure quando il Vescovo diocesano ha stabilito che al sacerdote che bina o trina sia consentito di trattenere una parte dell’offerta a titolo estrinseco. La determinazione dell’importo dell’offerta della Messa è di competenza dei Vescovi della provincia (o regione) ecclesiastica: a questa determinazione dovranno attenersi tutti i sacerdoti diocesani e religiosi e non è lecito chiedere una somma maggiore (al massimo può accettarla), sebbene possa accettarla. Il can. 953 prescrive che non si può accettare un numero di offerte superiore a quelle che il sacerdote può poi adempiere entro un anno. Il can. 954 ricorda che è possibile far celebrare una determinata Messa altrove (leggere i canoni fino al can. 958).
Circa le Messe gregoriane (prendono nome da papa Gregorio Magno), esse sono quelle Messe che vengono celebrate per 30 giorni di seguito per una determinata intenzione: queste Messe devono essere celebrate di seguito (anche se non proprio in maniera strettissima). Circa le Messe plurintenzionali o collettive, vi è decreto Mos iugiter della Congregazione per il Clero (1991), che è intervenuto su questa prassi che ha iniziato a diffondersi in diversi Paesi negli anni Ottanta: si cumulavano le offerte di tante Messe e le si soddisfacevano in un’unica Messa con un’intenzione chiamata collettiva. Nel caso in cui gli offerenti, previamente ed esplicitamente avvertiti, consentano liberamente che le loro offerte siano cumulate con altre in un’unica offerta, si può soddisfarvi con un’unica Messa: in questo caso vi devono essere pubblicamente indicato il giorno e l’ora in cui la Messa verrà celebrata, senza che questo avvenga per più di due volte a settimana. Al celebrante, in tal caso, è stabilito trattenere una sola offerta, mentre le offerte eccedenti andranno all’Ordinario che le destinerà per i fini stabiliti.

Passiamo ora al secondo comandamento: “non nominare invano il nome di Dio”, perciò “rispetto il nome santo di Dio”. Tradizionalmente il peccato relativo a questo comandamento è stato sempre considerato la bestemmia: tuttavia questa visione è molto riduttiva. Primo punto che andremo a trattare è quello della glorificazione del Nome di Dio; secondo punto è quello relativo alle promesse: qui si colloca il giuramento, il voto e, eventualmente, anche lo scongiuro; terzo punto sarà quello relativo alla bestemmia.
Circa il Nome, dobbiamo dire che con esso si intende l’essenza: nella nostra cultura oggi si è un po’ perso il valore del nome. Nel caso del Nome di Dio, qui troviamo l’espressione dell’essenza di Dio: ecco perché il Nome di Dio non veniva pronunciato e nemmeno doveva essere conosciuto. Nessuno dunque può capire, comprendere Dio (nel senso latino di capere, cum-prehendere). Noi stessi oggi veniamo battezzati nel nome della Trinità. Il Nome è dunque memoriale: pronunciando il Nome di Dio, si può dire che celebriamo un memoriale, nel senso forte del termine, cioè non si tratta della semplice memoria, ma si tratta dello ziqqaron ebraico (ha sempre valenza tripartita: ricordo di ciò che è avvenuto, attualizzazione nel presente, prefigurazione e attesa delle realtà future). Battezzando nel Nome della Trinità, noi facciamo memoria delle grandi opere di Dio nella storia della salvezza e dell’evento di Gesù Cristo. Il Nome è anche glorificazione: è questa la missione del popolo eletto, ovvero portare a conoscenza di tutti il Nome dell’unico in cui c’è salvezza. È chiaro che non ci si può fermare solo ad una interpretazione strettamente cultuale del Nome, ma l’essere come tale del credente e quindi tutto il suo agire deve qualificarsi come invocazione del Nome.
Vediamo le promesse nel Nome di Dio. Si tratta di chiamare Dio a garante di un giuramento, di una promessa: si chiama a garante qualcuno solo se ci si fida. Tale promessa può assumere la caratteristica di voto. Circa il giuramento, bisogna subito precisare che vi sono diversi tipi di giuramento: vi è un giuramento assertorio (si giura su una asserzione) e un giuramento promissorio (riguarda una promessa). Tommaso, in S. Th II-II, q. 89, a. 2, si chiede se sia lecito giurare: egli afferma che il giuramento è lecito e onesto in se stesso: tuttavia in esso vi è sempre un rischio, dal momento che si può usare male del giuramento. La giustificazione del giuramento da parte di Tommaso è strumentale. Un giuramento falso è lo spergiuro. Quando uno fa un giuramento sono necessarie 3 qualità: iustitia (oggetto del giuramento deve essere lecito), iudicium (ci vuole una buona ragione per giurare e ci vuole prudenza nel farlo) e verità (necessario è giurare su una cosa vera). Nel can. 1199 si afferma che il giuramento, ovvero l’invocazione del Nome di Dio a testimonianza della verità, deve essere secondo verità, giudizio e giustizia. Il giuramento fa parte della vita dei popoli: perché Gesù lo disapprova? Questo perché esso era diventato una cosa comune ed usuale, per cui si giurava su qualsiasi cosa. Circa il votum, questo termine latino ha diversi significati: il volere qualcosa oppure un proposito non sono un voto; il voto invece è l’enunciazione di un proposito per mezzo di una promessa. È certo che ci deve essere una volontà, ma ciò che caratterizza è il voto è la enunciazione di tale promessa. Se è una promessa, essa riguarda evidentemente il futuro. Il voto deve esprimere una scelta di vita, deve avere un suo valore personalistico: il voto è una promessa fatta a Dio riguardante se stessi. Si parla di voto reale se l’oggetto della promessa è una cosa; se invece l’oggetto della promessa è un’azione si parla di voto personale; si parla di voto misto se partecipa della natura sia del voto reale che del voto personale. In ogni caso il voto è sempre azione di una persona. Nel can. 1191 si definisce il voto come una promessa deliberata e libera di un bene possibile e migliore fatta a Dio, che deve essere adempiuta per la virtù di religione: la promessa perciò deve essere libera (conosciuta e voluta), deve riguardare un bene (e non un male) che sia possibile e migliore (qui per migliore si intende generalmente “migliore dell’opposto”). Il voto cessa secondo determinate regole, si può dispensare dai voti da parte di chi ne ha la potestà, Ordinario del luogo circa i voti è il parroco per i suoi parrocchiani e per i forestiere; l’opera promessa può essere commutata in una migliore o di pari importanza. Lo scongiuro è il tentativo di far fare qualcosa ad un altro invocando il nome di Dio: si richiede dunque la comune fede in Dio, dove una richiesta viene avvalorata dall’invocazione di Dio; una forma particolare di scongiuro è l’esorcismo, che è uno scongiuro fatto non ad una creatura umana, ma al demonio. Al can. 1172 si afferma che può proferire esorcismi solamente colui che ha ricevuto il mandato dall’Ordinario del luogo.
La bestemmia, propriamente parlando, non è solamente quella pronunciata con la bocca (oris), ma può essere anche un pensiero o un gesto. La bestemmia in quanto tale è grave, tuttavia vi può essere il caso in cui esso può divenire anche peccato veniale o, talora e secondo alcuni, non è nemmeno peccato (quando non vi è l’intenzione di offendere Dio). Il rischio in molti casi è però che la bestemmia diventi un intercalare.

Guardiamo ora al terzo comandamento: ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Gesù, da buon ebreo, ha osservato il sabato. Il tempio e il sabato erano la presenza di Dio nello spazio e nel tempo: Gesù proclama che il tempio sarà distrutto, perché c’è il nuovo tempio che è la sua stessa persona. Dopo la Pasqua e la Pentecoste gli apostoli hanno continuato ad osservare il sabato, ma hanno cominciato a far memoria anche del giorno dopo il sabato. In SC 106 si afferma che secondo la tradizione apostolica, che ha origine dallo stesso mistero pasquale di Cristo, la Chiesa celebra la resurrezione del Signore in quel giorno che si chiama giustamente domenica.
Nel Magistero abbiamo due documenti inerenti la domenica: la Dies Domini di Giovanni Paolo II e un documento della CEI, Il giorno del Signore. In quest’ultimo documento si afferma che dall’evento della resurrezione il cristiano non può più vivere senza celebrare il mistero connesso a questo giorno: prima di essere una questione di precetto, è una questione di identità; dal precetto infatti si può anche evadere, dal bisogno no. La domenica è un giorno donato dal Signore al suo popolo.
Si assiste gradualmente, nella teologia, ad una ricchezza di riflessioni e di espressioni per designare la ricchezza di questo giorno: è questo il dies dominicus, ma anche dies Christi, dies Ecclesiae, dies dierum, dies hominis, dies octava, etc. La settimana è legata alla natura, alle fasi lunari. In antichità ogni giorno era dedicato ad una divinità: il primo giorno della settimana era dedicato al Sole. Nella settimana ebraica il primo giorno della settimana era il primo giorno dopo il sabato, mentre il settimo era lo shabbat, in cui Dio all’inizio dei tempi si era riposato. Nel primo giorno della creazione Dio aveva creato la luce: dunque i cristiani vedono nel Signore Gesù la vera luce. Il primo giorno per i cristiani diviene la domenica, che è allo stesso tempo giorno primo e ottavo, anticipo e pregustazione dell’eternità di Dio. Si sviluppa una vera e propria teologia dell’ogdoade, anticipata nelle 8 persone che si erano salvate nell’arca di Noè.
Nei primi secoli i cristiani lavorarono di domenica. Nel momento in cui non vi furono più pericoli di confusione con l’ebraismo, i cristiani ripresero concetti e prassi propri dell’ebraismo: si pensi alla terminologia sacerdotale utilizzata per i sacerdoti della Nuova Alleanza. Più tardi si concesse ai cristiani di poter riposare nel giorno di domenica, proprio come gli Ebrei riposavano nel giorno di sabato.
In molte nazioni e culture si è verificato il passaggio dal giorno del Signore al weekend, dove non ci si rende conto che la domenica non è il fine settimana, ma l’inizio di essa. In passato si distingueva tra opere servili, opere liberali e opere miste: questa distinzione riguardava il precetto della domenica, per cui in giorno di domenica non si doveva lavorare, cioè non dovevano essere fatte le opere servili (erano i lavori che facevano gli schiavi). Le opere liberali erano invece le opere proprie degli uomini di condizione libera (leggere, scrivere, suonare, etc.): queste potevano essere fatte di domenica. Le opere miste sono quelle che non dipendono da nessuna professione e possono essere fatte indistintamente da tutti (viaggiare, giocare, etc.). Oggi questa distinzione è ampiamente superata. Il CJC, su questo tema, ai cann. 1244-1245, si precisa chi può determinare o abolire i giorni di festa o di penitenza. Il Vescovo o anche  il parroco, per giusta causa, può dispensare dal precetto festivo o da una penitenza. Al can. 1246 si dice che, per la tradizione apostolica, il giorno di domenica deve essere osservato come il giorno festivo primordiale; poi vi sono elencate tutte le altre solennità, che le Conferenze Episcopali poi possono spostare di domenica o eliminare il precetto. Al can. 1247 si afferma che i fedeli, la domenica, sono tenuti a osservare il precetto e sono tenuti dall’astenersi da quei lavori o affari che impediscono di rendere culto a Dio, che turbano la letizia di questo giorno o non permettono un sano riposo della mente e del corpo. Al can. 1248 si afferma che soddisfa il precetto domenicale chi assiste alla Messa dovunque essa venga celebrata, nello stesso giorno di festa o nel vespro del giorno precedente (l’indicazione data è dalle 16 in poi). In mancanza di ministro sacro o per una grave ragione, poiché ad impossibilia nemo tenetur, si raccomanda che i fedeli prendano parte alla Liturgia della Parola oppure attendano per un congruo tempo alla preghiera personale o in famiglia o in gruppi di famiglie.


  1. MORALE PERSONALE SESSUALE

Questa tematica è stata suddivisa in 3 parti: mentre la terza parte presenta i peccati che vanno contro l’ordo amoris, le prime due parti sono delle strade da percorrere e sono la “via del rispetto” (qui sono raccolti i diversi aspetti della questione, portandoli ad un certo ordine e ad una certa unità, a partire dalla prospettiva del rispetto di sé e del prossimo) e la “via della vocazione” (in cui sarà maggiormente trattata la prospettiva della vocazione matrimoniale).
Su queste tematiche la morale ha diverse impostazioni. In questo settore non si può non seguire il metodo stesso dei Padri conciliari utilizzato in GS: sub luce Evangelii et humana experientia. Perciò bisognerà conoscerà prima alcuni dati che attengono alle scienze umane (psicologia, biologia, etc.).

Innanzitutto bisogna capire cosa si intende per maschile e femminile. Bisogna fondare i dati di una teologia morale sessuale sulla base di una solida antropologia: in passato molti errori sono derivati dall’ignoranza (per esempio, tante conoscenze riguardanti la biologia sono infatti di tempi recenti, come anche molte conoscenze psicologiche: tuttavia bisogna tener conto che non vi può essere certezza assoluta su questi dati) oppure dallo scollamento tra morale e antropologia sessuale, quasi che la morale nella sua riflessione non debba tener conto dei dati provenienti dall’antropologia.
Mentre nel passato la domanda ricorrente sulla sessualità era di tipo finalistico (ci si chiedeva il fine della sessualità), oggi si deve partire da una domanda sul valore della sessualità e su quale posto la sessualità occupi all’interno di una visione integrale, olistica, dell’uomo, visione che molto spesso le scienze non riescono a mantenere, soffermandosi invece su delle parti della persona stessa.
Diamo innanzitutto una definizione-descrizione della sessualità umana: essa è componente fondamentale della personalità, modo di essere e manifestarsi, di comunicare con gli altri, di esprimere quello che è l’amore umano; essa caratterizza l’uomo e la donna non solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico e spirituale e su ogni aspetto della sua vita. Ogni persona umana è sessualmente connotata in tutti i vari ambiti della sua persona: la sessualità non è qualcosa che noi abbiamo, ma è qualcosa che noi siamo (della sessualità infatti non si può fare a meno, come di una cosa che si ha: la sessualità è costitutiva della persona in tutti i suoi aspetti), è una conformazione dell’essere personale. Certamente la sessualità appare evidentemente sul piano biologico, meno su quello psicologico, meno ancora su quello spirituale.
Non dobbiamo confondere la sessualità con la genitalità: quest’ultima è la sessualità che coinvolge direttamente la sfera genitale, ma la genialità non è l’unica specificazione della sessualità, si deve distinguere tra una relazione sessuata (tutte le nostre relazioni sono sessuate: la propria sessualità non può essere mai dismessa) e una relazione sessuale genitale. Se la sessualità è comunicazione e relazione, significa che la sessualità ha un suo linguaggio ben preciso (la sessualità è un esse ad, tende a comunicare se stessa). Ma la sessualità è anche esse cum, proprio per questa sua natura relazionale (triplice è la dimensione dell’ordo della sessualità: esse in, esse ad, esse cum). Ogni relazione interpersonale è segnata dalla sessualità, dal momento che la sessualità è modalità di espressione costitutiva dell’uomo libero e amante. Le relazioni interpersonali devono essere sempre all’insegna del rispetto: è il rispetto del mistero della persona, e dunque non solo il rispetto della persona dell’altro, ma anche il rispetto di se stessi.
Inoltre, se è vero che noi siamo animali e che negli animali vi è un istinto sessuale, è vero che la sessualità ha un suo fondamento istintuale ed è finalizzata alla riproduzione. La riproduzione è infatti un fenomeno necessario nel ciclo vitale. Esiste tra i viventi una riproduzione asessuata e una riproduzione sessuata: quest’ultima si ha quando vi è un concorso tra maschile e femminile; nella riproduzione asessuata vi è una stabilità biologica ed essa corrisponde ad una sorta di “fotocopia”, mentre nella riproduzione sessuata vi è una grande variabilità, specie per quanto riguarda proprio l’uomo.
Il fatto biologico, fisico non è criterio tout-court della moralità: ma per la moralità entrano in gioco altri fattori.
Nell’uomo la sessualità entra nel mondo della coscienza: siamo all’ultimo grado di evoluzione, questo è indubbio. All’interno dell’esistenza umana abbiamo una differenziazione sessuale, maschile e femminile; è vero che esistono dei casi di intersessualità, di cui parleremo, ma nella quasi totalità degli uomini vive nella differenziazione sessuale. Si tratta di un processo biologico attraverso cui vi è uno sviluppo a partire da quello che è il primo stadio di determinazione sessuale: tale sviluppo si ha sia nella fase pre-natale, sia nella fase post-natale. Tale sviluppo inizia fin dal momento della fusione dei gameti, del concepimento: la prima determinazione della sessualità è quella genetica, stabilita all’atto della fecondazione, che corrisponde all’assetto cromosomico: nell’ovulo infatti ci sono quel determinato numero di cromosomi più x e negli spermatozoi ci sono quel determinato numero di cromosomi più x e y.
Possono verificarsi delle “disgenesie” gonadiche, che sono due sindromi note con il nome dello scienziato che le ha evidenziate: sono le sindromi di Turner (quando nel caso di una donna, alla coppia di cromosomi manca una “x”) e di Ghynefelter (si ha il caso di un maschio con “xxy”), che possono provocare l’ermafroditismo (si ha quando si hanno allo stesso tempo tessuti ovadici e tessuti testicolari) o lo pseudoermafroditismo (si ha quando vi è una discordanza tra le gonadi e i genitali). Vi possono essere anche altre sindomi, come la sindrome di Moris (che determina lo pseudoermafroditismo maschile: si tratta di una donna con organi genitali interni maschili). Questi casi non sono situazioni di transessualità, ma sono piuttosto situazioni di intersessualità: nella transessualità non vi è discordanza tra genetico e gonadico, mentre il problema si pone a livello psicologico.
Ma oltre alla sessualità biologica vi è anche una sessualità psichica, consistente nella presa di coscienza della propria sessualità biologica e nel vivere e atteggiarsi in conformità ad essa. In ogni cultura infatti vi sono determinazioni e stereotipi comportamentali legati al maschio o alla femmina: si pensi alla estetizzazione, per cui determinati ornamenti sono propri del maschio e altri sono propri della femmina. Qui interviene la complessa questione dell’identità. Negli ultimi decenni si è assistito a questa differenziazione, quella tra identità sessuata (che è la coscienza dell’identità psico-biologica, dove la prevalenza è biologica, del proprio sesso e della differenza con l’altro sesso) e identità di genere (coscienza socio-culturale del ruolo che persone di un determinato sesso svolgono all’interno della società). Da questo punto di partenza, si è poi passati ad un allargamento ed esasperazione dell’identità di genere. Soprattutto per alcune teorie sociologiche, dette ostruzioniste, l’identità sessuale di genere sarebbe non soltanto il prodotto dell’interazione tra l’individuo e la comunità, ma sarebbe anche indipendente dall’identità sessuale biologica: perciò il genere maschile e femminile sarebbero solamente dei fattori sociali e dunque, nella vita sociale, vi sarebbe posto anche per altri generi che si potrebbero formare nella società. Il termine “genere” si riferisce alla cultura, mentre il termine “sesso” si riferisce a natura.
Un altro aspetto è quello dell’evoluzione della persona, così come è stata indagata da Freud. Nel 1905 egli pubblicò i tre saggi sull’evoluzione sessuale, in cui la tendenza è stata quella di guardare allo sviluppo della persona in termini sessuali. Sebbene questo approccio sia stato criticato, bisogna cogliere le intuizioni positive di Freud. Sebbene la sua teoria risenta di un certo maschilismo, egli afferma che:

-        l’impulso sessuale, nelle sue elementari componenti, svolge un ruolo determinante in quello che è lo sviluppo psico-affettivo di ogni individuo;
-        questo impulso è già attivo nell’infanzia: l’idea prevalente era che vi fosse una sovrapposizione tra sessualità e attività riproduttiva. Nel quadro di questo sviluppo psico-affettivo dell’individuo, la sessualità integra progressivamente alcuni elementi e, solo in presenza di tali elementi, vi è una maturazione della persona: ecco perché si può parlare effettivamente di adulto;
-        Freud descrive alcune fasi nell’evoluzione di questo sviluppo psico-affettivo, partendo dall’infanzia per passare poi alla fase della pubertà e dell’adolescenza.

Tutto questo è interessante anche per la morale. Se non c’è questo sviluppo armonico e ordinato, questo passaggio tra le fasi infantili e poi attraverso la fanciullezza, si verificano dei blocchi nella persona. Andando oltre Freud, si potrebbe affermare che questo processo di sviluppo inizia fin dal momento del concepimento, sebbene è ovvio che nelle fasi pre-natale è difficile che vi possano essere circostanze che creino blocchi psicologici.

Chiariamo ora alcuni punti circa l’impostazione della morale sessuale. Nella morale sessuale esistono due impostazioni evidenti, note e conosciute, e una terza impostazione meno evidente e meno elaborata, ma talora sottesa. Vi sono un’impostazione finalistica, un’impostazione personalistica e un’impostazione patologica.
L’impostazione di tipo finalistico fa questa equivalenza: l’ordine lo si ritrova nel fine della sessualità e il fine della sessualità va individuato nella procreazione e nella riproduzione, con una preminenza data all’aspetto biologico. Questa impostazione finalistica della sessualità giustifica l’esercizio della sessualità nella sua finalità procreativa: se il fine primario della sessualità è la procreazione, la sessualità viene qui intesa in senso ridotto, ovvero circoscritta alla genialità. Quindi ogni attività sessuale è giustificata e regolata dalla procreazione: di conseguenza ogni uso della sessualità che non sia giustificato dal fine della procreazione o che sia opposto a questo fine è peccaminoso (sia se è contro il fine, sia che è al di là del fine). Alcuni moralisti distinguono poi tra fine primario e fini secondari della sessualità. In questa prospettiva, ogni piacere sessuale (delectatio venerea) contro la finalità procreativa e fuori del contesto matrimoniale (che autorizza la procreazione) è da considerarsi illecito. In questa impostazione si dimentica però un aspetto fondamentale, presente già in Tommaso d’Aquino: la natura dell’uomo è intellectus et ratio. In una prospettiva più moderna, potremmo parlare di una natura spirituale dell’amore: ogni riferimento alla natura biologica ha senso unicamente in questa prospettiva. Si pensi per esempio al caso di una donna impossibilitata a procreare o al caso di due anziani liberi da vincoli che vogliono sposarsi: in questa prospettiva finalistica queste persone non potevano sposarsi.
Ed ecco perciò l’impostazione personalistica, che fa riferimento all’amore come significato umano della sessualità: l’amore è una proprietà intrinseca alla sessualità stessa. Nell’impostazione finalistica si ricerca e si trova fuori della persona il valore della sessualità, qui invece nella persona stessa. Nell’elaborazione giuridica messa in atto da Orlando Bandinelli, divenuto poi papa Alessandro III, si distingue tra lo ius in corpus e l’esercitium iuris. Il problema era quello trattato in alcuni trattati di mariologia: il matrimonio tra Maria e Giuseppe era un vero matrimonio, se esso è finalizzato alla procreazione? Bandinelli afferma che nel matrimonio si ha lo scambio dello ius in corpus, ma non è detto che poi si eserciti questo diritto: si ha un matrimonio rato e non consumato, che non è nullo, ma può essere sciolto. Nell’impostazione personalistica si dà valore alla sessualità come linguaggio dell’amore come qualità umana: l’amore è tipicamente umano. Scoprendo dunque quello che è il logos creatore in forza della creazione, va scoperto il telos, che non viene dal di fuori, ma è in quello che si è e che costituisce la comunità di vita e di amore fra gli sposi. Il criterio personalistico afferma il significato dell’amore fondato sulla natura, non intesa in senso biologico, ma nel senso della natura personale.
L’impostazione patologica mette in risalto gli aspetti negativi: certamente dai vizi possiamo risalire alle virtù, ma non possiamo impostare tutto dalla prospettiva di ciò che è peccato; in questo senso l’impostazione patologica ha dei legami con quella finalistica.
L’ordine morale oggettivo della sessualità deve avere dei criteri, delle regole: deve avere cioè una grammatica e una sintassi. A proposito di questo dobbiamo rispondere ad alcune domande fondamentali, che talora è molto difficile anche porsi: io chi sono? L’altro chi è? Cosa dico, cosa voglio dire? Come lo dico? A chi lo dico? Perché lo dico? Il criterio, dato che siamo all’interno di un linguaggio, non può non essere quello della verità, che poi trova espressione nella veridicità. La verità non si esaurisce nel non dire bugie. L’impostazione personalistica, tenuto presente quanto abbiamo detto, intende scoprire il valore e il significato etico nell’evoluzione della persona: si tratterà dunque di educazione (e-ducere: tirar fuori dal bene e dalla verità della persona; esso implica sempre un in-ducere). Nell’Humanae Vitae Paolo VI descrive le caratteristiche dell’amore: in quanto umano, l’amore è allo stesso tempo sensibile e spirituale, è poi totale, fedele ed esclusivo, ed è fecondo. Queste caratteristiche sono comunque le caratteristiche dell’amore, in ogni caso. Qui la fecondità va intesa non principalmente come fecondità fisica (in un senso riproduttivo), che invece potremmo definire fertilità. La persona è chiamata ad operare un passaggio continuo da ciò che è disorganizzato (come è tipico nella comprensione infantile) a ciò che è organizzato. Non basta distinguere, come fa Maritain riprendendo S. Tommaso, tra amor concupiscentiae (che è una contraddizione in termini: se è amore, non può essere di concupiscenza) e amor benevolentiae: bisogna invece chiedersi se nel rapporto d’amore con l’altro/a cerco la mia felicità o quella dell’altro, e se l’amore può essere considerato tale o meno.
Appena promulgata l’enciclica Humanae vitae (1968), a fronte delle critiche che si sollevarono contro il testo, in un discorso fatto qualche giorno dopo, Paolo VI ha voluto dare una piccola esegesi dell’enciclica, e in particolare di quello che può essere ritenuto il punto più problematico (nn. 11-14), riprendendo il pensiero di Marteley, che parla di verità e comunicazione della sessualità.
Molto importante per il nostro discorso è il verbo latino spicere, che significa “guardare”, e che andremo a coniugare con le varie preposizioni:

-        ad-spicere: da questo verbo deriva aspectus, che rimanda a qualcosa di esterno;
-        circum-spicere: significa stare attenti, cauti;
-        de-spicere: è un guardare dall’alto in basso. Ecco allora il dispectus, che può diventare disprezzo quando si guarda l’altro con superiorità;
-        sub-spicere: è un guardare dal basso in alto. In esso c’è l’ammirare, ma c’è soprattutto il suspectus di chi non si fida e ha paura;
-        in-spicere: guardare dentro, penetrare. Da qui deriva il verbo italiano ispezionare;
-        prospicere: è un guardare avanti, un tenere d’occhio. Il prospectus ha una sua valenza positiva: il prospiciens è colui che tiene d’occhio. In tutti queste preposizioni (tranne la prima e quest’ultima) si coglie una valenza negativa;
-        cum-spicere: indica un guardare insieme. Di qui deriva il termine cospetto;
-        per-spicere: significa un guardare sino in fondo, un cogliere, comprendere: il per fa riferimento ad una trasparenza che viene attraversata;
-        re-spicere: nel re non vi è innanzitutto il riferimento ad una ripetizione, ma con esso si un’attenzione particolare: il respectus è l’essere attenti.

Dietro queste parole vi è un modo di essere al mondo e di relazionarsi con gli altri, tenendo conto del tutto e delle particolarità. In tal modo il soggetto inizia a cogliersi come diverso dagli altri viventi (nell’uomo non c’è solo un istinto di vita come quello presente negli animali) e a scoprirsi differente dagli altri umani. Lo spicere è innanzitutto un guardare se stessi e poi anche gli altri. Rispettando (re-spicere) e guardando in profondità (perspicere) gli uomini, si coglie la diversità e l’originalità di ognuno.
Nella comunicazione, perché essa sia autentica, bisogna rispettare la verità: perciò anche nella sessualità, che è il linguaggio dell’amore. L’uomo ha la capacità di orientare, indirizzare quelle che sono le pulsioni, a differenza degli animali: ovviamente per far questo è necessaria un’educazione sessuale. Non sempre l’evoluzione sessuale della persona è così tranquilla e lineare e non sempre sbocca in un esercizio adulto e libero della propria sessualità, a seconda di quella che è la scelta di vita che la persona fa: vi sono talora dei blocchi a livello di maturità o delle deviazioni che sono patologie sessuali. Nel linguaggio si parla di perversioni, deviazioni, disturbi, disfunzioni, etc.: abbiamo diverse tipologie di comportamenti. Nel 1886 il dottore Richard von Krafthebing pubblicò un testo dal titolo Psicopatia sexualis: questo testo ha dato origine ad una classificazione delle psicopatologie sessuali; vi sono delle patologie fisiche e vi sono delle patologie psichiche. Altri testi importanti sono i saggi sulla psicosessualità di Freud. Altri riferimenti che hanno influenzato la valutazione su questo sono dati dal DSM-IV (Manuale diagnostico e statistico dei disordini mentali): tra i disturbi sessuali vengono posti determinate disfunzioni, tra cui anche disturbi dell’identità di genere. La patologia può essere di tipo organico e di tipo psicologico-comportamentale: quelle di tipo organico sono quelle in cui vi sono dei deficit anatomici (che possono essere ereditarie, acquisite). A riguardo è stata fatta la suddivisione tra oggetto e funzione: vi sono delle deviazioni che riguardano l’oggetto della sessualità e altre che riguardano la funzione, i modi della sessualità. Se assumiamo come normale un rapporto sessuale tra un uomo e una donna adulti, dal quale può venire un concepimento, quali sono le anomalie che riguardano l’oggetto della sessualità? Sono l’omosessualità, il feticismo, la necrofilia, la zoofilia, la gerontofilia, la pedofilia: il feticismo fa riferimento ad un oggetto, dove perciò l’eccitazione sessuale, l’orgasmo, viene da una parte del corpo o da un oggetto; la zoofilia viene indicata in termini classici con il termine bestialitas (rapporto sessuale tra un uomo e un animale); la necrofilia indica un rapporto sessuale con un cadavere o avvenuto in ambiente funerario; la gerontofilia indica un rapporto sessuale con un anziano, mentre la pedofilia indica rapporti sessuali con un bambino. Circa i modi e le espressioni della sessualità, si hanno anomalie dove vi è una erotizzazione sostitutiva: è il caso del sadismo, del masochismo o del sadomasochismo (l’eccitazione sessuale viene dal procurare violenza al partner nel sadismo, oppure dal procurarsi violenza nel masochismo); oppure è il caso dell’esibizionismo (l’eccitazione viene dal guardare nudi o da altre forme di esibizionismo) o del guardonismo (procurarsi eccitazione dal guardare scene di sesso), oppure quello del narcisismo (l’individuo è innamorato di se stesso).

Abbiamo 3 modelli di comportamento nella vita sessuale, fondati su 3 elementi diversi, che sono gli istinti, i sentimenti e le convenzioni:

-        modello istintuale: il criterio in questo modello non è quello del bene, ma quello del benessere, che è benessere fisico-psicologico. Perciò è necessario dar sfogo agli istinti per stare bene, dal momento che si ritiene che ogni regolazione è repressione: perciò questa energia irresistibile sessuale si accumula pericolosamente se non la si scarica. L’istinto non viene vissuto come veicolo di apertura d’amore verso l’altro, ma viene vissuto in maniera individualistica ed egoistica;
-        modello romantico: nell’esperienza della sessualità emerge la centralità del soggetto, con i propri sentimenti e le proprie emozioni. Poiché questa impostazione è fondata sul sentire, coloro che soggiacciono a questo modello ricerca l’esperienza, considerata necessaria per l’amore fra due persone;
-        modello illuministico: si parte da un atteggiamento di sospetto nei confronti della società e delle norme sociali. Perciò si ritiene che la norma sociale sia e debba essere soltanto una convenzione: si acconsente che vi siano delle norme e delle regole che diminuiscono la libertà di ciascuno affinché vi sia una convivenza il più pacifica possibile, ma si nega alla norma un’obbligazione morale assoluta. Conviene che ci siano delle norme, ma esse debbano esserci solamente se conviene. In una società ideologicamente pluralista la convenzione civile deve passare attraverso un consenso comune e partecipato: questo però non può significare un consenso arbitrario. Il consenso infatti dovrebbe nascere da ciò che è valido di per sé e non da ciò che può essere utile e conveniente per me.

Per una vita sessuale corretta è dunque necessaria un’educazione. Alla base di una vita comune, di ogni amore è necessaria una fedeltà e una educazione dei sentimenti e, solo se c’è questo, c’è anche la volontà di mettere al mondo dei figli.

2.1 La via della vocazione

Ponendoci nella prospettiva dell’educazione, vi sono diversi tipi di educazione: all’amore, alla sessualità, alla castità, alla sponsalità, etc.; esse sono fra loro strettamente collegate.
Circa l’educazione all’amore, facciamo solo qualche sottolineatura. Innanzitutto ricordiamo quella definizione-descrizione di GS 49 (questa definizione è in relazione al matrimonio): la caritas abbraccia quelli che sono i sentimenti, e nobilita quelle che sono anche le manifestazioni esterne fra un uomo e una donna. Sull’amore tante sono state le riflessioni in passato: talora esse, più che aiutare a capire, hanno confuso il discorso. Il termine amor infatti ha molteplici significati; Tommaso parla di amor come idem velle et idem nolle, come esse quodammodo unum. La distinzione scolastica tra amor concupiscentiae et amor benevolentiae rischia di essere equivoca: la concupiscenza infatti non può essere amor. Riprendendo la distinzione tra eros e agape, dobbiamo dire che queste due forme di amore devono integrarsi fra loro. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell’amore.
L’educazione alla sessualità non è semplice informazione, sebbene essa sia necessaria. Sottolineiamo due punti. Innanzitutto riprendiamo un documento del Pontificio Consiglio per la Famiglia del 1995: essi sono degli orientamenti educativi in famiglia. In questo documento (dal n. 64 in poi) vengono presentati 4 principi sulla informazione a riguardo della sessualità:

-        ogni bambino è una persona unica e irripetibile e deve ricevere una formazione individualizzata: sono i genitori nella posizione migliore per decidere quando e come;
-        la dimensione morale deve far parte sempre delle loro spiegazioni: non ci si può solamente fermare ad una informazione biologico-sanitaria;
-        la formazione alla castità e opportune informazioni sulla sessualità devono essere inserite nel contesto più ampio dell’educazione all’amore: i punti devono essere collegati e non separati;
-        i genitori devono impartire questa informazione con estrema delicatezza, ma in modo chiaro e nel tempo opportuno.

Emergono qui alcuni criteri in relazione a questa ultima affermazione: adeguamento, progressività, tempestività, integrazione, verità, personalismo. Circa il personalismo, bisogna sempre tenere presente il mistero della persona; circa la verità, essa consiste nel non dire bugie in questo ambito; circa l’adeguamento, esso è il tenere conto dell’età e del sesso di colui che viene educato; circa la progressività, essa è la progressione nell’informazione; la tempestività serve ad evitare il radicarsi di idee sbagliate; integrazione significa che l’informazione va integrata nella più vasta educazione della persona, prendendo spunto dall’esperienza di vita della persona.
Vediamo ora l’educazione alla castità. Nel documento citato, dal n. 16 al n. 25, si parla del rapporto tra amore vero e castità e specificamente sulla castità come dono di sé. Trattare della castità nell’ambito della teologia morale o nella formazione o nella catechesi non è così facile, soprattutto se ci rifacciamo a quella che è una tradizione secolare a riguardo nella quale siamo cresciuti e che ha imposto un certo modello, del quale siamo ancora eredi.
Nei trattati classici di morale veniva data prima un significato etimologico di castitas e poi un significato reale. Circa la notio etimologica di castità, il termine latino castus deriva dal greco katharos (“puro”); secondo Isidoro di Siviglia, l’origine di questa parola sarebbe da “castrazione”, perciò casto significherebbe “castrato”. Alcuni autori più recenti fanno derivare castus da candere, che significa “diventare bianco”, mentre il termine castitas deriverebbe da castigatio, “castigo” della concupiscenza. La nozione reale di castità, in questo caso, è quella di virtù morale che separa l’animo dalle illecite voluttà della carne affinché noi non usiamo di questi al di fuori di quello che è l’ordine prescritto della ragione; secondo Noldin, la castità è quella virtù morale che esclude o modera l’appetito del piacere venereo. Questa impostazione è però riduttiva.
A tal riguardo, il CCC ha modificato l’impostazione circa la descrizione della castità (n. 2337), anche se lo stesso CCC, quando tratta del vizio opposto alla castità (lussuria), utilizza la vecchia definizione. Della castità si dice che essa esprime la positiva integrazione della sessualità nella persona. La sessualità diventa personale e veramente umana quando è integrata nella relazione tra persona e persona, nel dono reciproco tra uomo e donna; la virtù della castità comporta l’integrità della persona e l’integralità del dono. Questa definizione è quasi perfetta: la castità infatti, essendo virtù umana, non va inquadrata solamente all’interno della prospettiva matrimoniale.
Facciamo riferimento ora all’esortazione apostolica Pastores dabo vobis (n. 44): “l’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile: la sua vita è priva di senso se non gli viene rivelato l’amore, se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta. Si tratta di un amore che coinvolge l’intera persona in tutte le sue dimensioni e che si esprime nel “significato sponsale” del corpo umano, grazie al quale la persona dona se stessa all’altra e la accoglie. Alla comprensione e alla realizzazione di questa verità dell’amore tende l’educazione alla sessualità rettamente intesa, che sia pienamente personale e che faccia posto alla stima e all’amore per la castità”. Se volessimo dare una definizione al positivo di castità, riprendendo anche quanto viene detto nel CCC, possiamo dire che la castità è amore che si realizza, che cresce e che si rinnova, è la vera educazione dell’amore, è la sessualità messa a servizio dell’amore; non si tratta di definizioni scientifiche di castità, ma esse colgono l’essenza in una visione integrale della persona. La virtù di castità, come dice il CCC, implica l’integrità della persona umana e l’integralità del dono: queste due dimensioni vengono spiegate nei numeri successivi (l’integrità della persona nei nn. 2338-2245: non doppiezza, etc.; l’integralità del dono nei nn. 2346-2347).
Qual è dunque il significato delle norme proibenti proposte dalla morale? Le norme proibenti servono ad educare, quindi vanno colte sempre nell’opera di maturazione e di crescita della persona, proprio perché la fedeltà all’amore esige anche questa parte negativa (dominio di sé, sacrifici), sempre però in funzione della crescita positiva dell’amore.
Facciamo riferimento a due frasi di Tommaso: non potest esse operatio perfecte bona nisi etiam adsit delectatio in bono (“non può esserci azione perfettamente buona se non c’è anche gioia nel bene”); virtus in propriis delectatur (“la virtù trova piacere in ciò che le è proprio”), perciò la tristezza per quelle cose legate alla virtù non può stare insieme con la virtù. La vera perfezione si ha solo quando si ha gioia nel bene: le rinunce acquistano senso quando vengono fatte proprie in funzione dei valori che quelle rinunce vogliono difendere; se la rinuncia produce tristezza, significa che c’è ancora qualcosa di imperfetto. Perciò la continentia non si identifica ancora con la castitas.
Un’altra virtù è quella della pudicitia, che fa riferimento all’intimità della persona: ma se la persona è corpo-anima, allora la pudicizia non si riferisce soltanto all’intimità del corpo, ma si riferisce anche e soprattutto all’anima. Si è cercato di spiegare che cosa sia quel moto naturale che è il pudore e come su di esso si innesti la virtù, che si preferisce chiamare “pudicizia” proprio per distinguerlo dal pudore, che in quanto tale non è virtù, ma è un moto naturale. Ogni persona cerca di proteggere e di nascondere l’intimo di sé: esso deve essere perciò tutelato, tanto che la Chiesa stessa ha messo da parte, nel corso della storia, la penitenza pubblica. La pudicizia è un aiuto per la castità.
Nella morale tradizionale si è distinto tra castitas perfecta e castitas imperfecta. Vi sono alcuni luoghi comuni sulla castità: alcuni affermano che essa era una virtù tempo fa e non oggi, altri ritengono che la castità riguardi solamente i consacrati, altri ancora pensano che la castità riguardi solo il periodo prematrimoniale, altri ritengono che castità matrimoniale sia non avere rapporti prematrimoniali, altri che la castità riguardi solo l’anima. L’elemento formale della castità è uguale per tutti (riguarda tutti): la castità è certamente virtù cristiana, ma è già virtù umana, ed è la disposizione abituale a valutare e vivere la sessualità secondo le esigenze della natura umana; il modo concreto di vivere la sessualità ovviamente varia poi a seconda dei diversi stati di vita. Ed è qui che si inserisce la distinzione tra castitas perfecta e castitas imperfecta, distinzione che potrebbe causare fraintendimenti (per cui la castità perfetta sarebbe l’astensione da ogni uso corporeo della sessualità, mentre la castità dei coniugati non sarebbe perfetta). Ma se intendiamo così i termini, i coniugati non potrebbero vivere la perfezione.
Sicuramente la castità è virtù umana, ma essa rimane sempre frutto di una donazione divina più che di una conquista umana: essa è un agire secondo verità, in quanto la sessualità ha un suo linguaggio che deve essere espletato in base al proprio stato di vita. Non possiamo però dire che un vergine sia più perfetto di un coniugato, ma è lo stato di vita ad essere più perfetto dell’altro, in quanto anticipa quella che è la condizione definitiva del Regno.
Quando si parla della castità prematrimoniale, molto spesso ci si riferisce ai rapporti prematrimoniali. È questo un discorso che si colloca molto bene nell’ambito della preparazione al matrimonio. È questa una questione variamente trattata. Alcuni trattano dei limiti entro cui un rapporto tra un ragazzo e una ragazza deve stare; altri si limitano a parlare della capacitas al matrimonio, ridotto però alla capacitas fisica, che porta poi a parlare di impedimenti inerenti il matrimonio. Su questo tema due erano i consigli che venivano dati: 1) numquam solus cum sola: era una norma di prudenza; 2) nisi caste saltem caute (se non castamente, almeno prudentemente): ma questa cautela poteva assumere varie forme, come il ricorso a pratiche contraccettive. Questa impostazione è molto parziale. Vi è comunque una consapevolezza di fondo: lo stato di fidanzati costituisce un’occasione prossima di peccato, se evidentemente i due sono molto intimi fra di loro; è chiaro però che la questione non può essere presentata così. Perciò i documenti ufficiali hanno significato un mutamento di prospettiva: il tempo di fidanzamento non è solo un tempo di preparazione al matrimonio, ma è tempo di crescita, di responsabilità e di grazia (CEI, Direttorio per la pastorale familiare, 1993). Ciò non toglie che vi siano problemi, che ci si possa trovare dinanzi a rapporti prematrimoniali e che bisogna dare delle indicazioni anche a queste persone. Il matrimonio non è semplicemente qualcosa di privato fra due persone, ma ha implicazioni sociali: una visione privatistica del rapporto interpersonale non ha valore e senso. Nell’esortazione apostolica Familiaris consortio si parla di una preparazione al matrimonio che non è solo immediata, ma anche remota, assimilata quasi ad una forma di catecumenato. Indichiamo alcuni criteri per un discernimento etico nella valutazione della sessualità:

-        principio di differenza: la differenza tra maschio e femmina non è solamente una differenza di tipo culturale, ma è fondata nella natura. Essa va difesa e ciascuno ha il compito di esprimere la propria mascolinità o la propria femminilità. La differenza non è per la solitudine o l’egoismo, ma è per il completamento, per l’arricchimento e la donazione. Nella scelta coniugale è una scelta di donazione ad una persona;
-        criterio della maggioranza: esso è un criterio sociale opinionista. Qui cadiamo nel relativismo più totale;
-        in altri casi si supplisce alla mancanza di valori con norme minimali;
-        anche il criterio religioso può essere problematico, in quanto questo può portare a seri problemi in nazioni in cui il criterio di moralità è stabilito dal testo sacro di una religione ed esso lo si fa valere per tutti.

Quali criteri allora? Ecco alcuni:

-        criterio di totalità: si deve considerare la persona nella sua totalità. La sessualità non è una parte, ma è dimensione costitutiva della persona;
-        criterio di affettività: è apertura all’altro contro ogni egoismo;
-        criterio di fecondità: non vi può essere un amore infecondo, è una contraddizione in termini;
-        criterio di fedeltà: è essenziale per una piena espressività dell’amore. Dicendo fedeltà non ci si riferisce semplicemente a mancanza di tradimento: la fedeltà è continua adesione al progetto condiviso, e in questo non è ripetitività ma è creatività in un affidarsi reciproco;
-        criterio di socialità: se è evidente che vi sia un aspetto di riservatezza, è anche vero che ogni cultura e ogni popolo pongono delle regole, dal momento che l’amore fra due persone coinvolge la società. La norma sociale è garanzia dell’intimo valore della sessualità, che non è mai totalmente privata.


Nella valutazione della moralità di un atto non si deve unicamente considerare il lato oggettivo di un atto, ma è necessaria anche una valutazione soggettiva, personale (intenzioni, circostanze, etc.): quindi un atto oggettivamente cattivo potrebbe non esserlo soggettivamente.
I due criteri più condivisi di valutazione degli atti sono l’ordo amoris (per cui un atto è moralmente buono quando si addice a questo ordo) e la recta ratio.
Tommaso definisce la lussuria in questo modo: in hoc quod aliquis non secundum rectam rationem delectatione venerea utitur. Ma cosa è la recta ratio e come essa impone di comportarsi? Il CCC così definisce la lussuria: è un desiderio disordinato o una fruizione sregolata. A differenza della definizione di Tommaso, nel frui non vi è negatività, presente invece nell’uti. Inoltre il CCC continua affermando che il piacere sessuale è moralmente disordinato quando è ricercato per se stesso al di fuori della finalità di procreazione e di unione. Come vediamo si inserisce qui il discorso sulle finalità. Ma, dopo l’Humanae vitae, che ha parlato non di finalità, ma di significati, è ancora plausibile parlare di finalità? È questa una critica.
La virtù di castitas è conforme all’ordo amoris e alla recta ratio. Ad essa si oppone la luxuria, di cui ora andiamo a parlare. Agli inizi della letteratura cristiana il vizio contrario alla castità è chiamato in greco porneia: questo termine, presente nel NT e utilizzato da Evagrio Pontico, fa riferimento ai peccati nell’ambito della sessualità. Alcuni autori di lingua latina parlano invece di fornicatio, tra cui Cassiano: questo termine è quello usato nella Vulgata come traduzione di porneia; il termine fornicatio ha però nella lingua latina e nel contesto cristiano un uso più ristretto: stando a Isidoro di Siviglia, il termine deriverebbe da fornix (“fornice, arco”), che era il luogo dove erano solite fermarsi le prostitute. Gregorio Magno, nei suoi Moralia, definisce luxuria questo peccato e non più fornicatio: il termine luxuria deriva da luxus (“lusso”) e indica l’eccesso, l’esagerazione per ciò che riguarda l’uso della sessualità; questo termine raccoglie i vari atti attinenti il corpo e la sessualità in una prospettiva moralmente negativa. Dobbiamo ora vedere quali sono i peccati che rientrano in questo ambito della lussuria, come vizio opposto alla virtù di castità.
Nella tradizione cristiana diversi autori sottolineano che nella lussuria è coinvolto tutto l’uomo, con i suoi sensi. Ma la lussuria è sì vizio del corpo, ma è anche e forse soprattutto vizio dell’anima: si pensi a Mc 7 dove si dice che dal cuore degli uomini escono i propositi di male. Gli autori cristiani sottolineano che la lussuria è anzitutto vizio dell’anima, che perciò richiede una lotta interiore per purificare il cuore: Cassiano affermava che la purificazione di questo vizio dipende essenzialmente dalla perfezione del cuore; nel De civitate Dei, Agostino parla della lussuria non come di vizio dei corpi belli attraenti, ma è il vizio dell’anima che ama in maniera perversa i piaceri corporei. Molto spesso gli autori collegano la lussuria alla gola.
Circa la lussuria, Tommaso distingue i peccati contra naturam e quelli iuxta naturam. Di per sé, con il termine natura, si intende ciò che per natura (per i cristiani, per volere del Dio cristiano) si richiede per la generazione e la procreazione. I peccati iuxta naturam sono quei peccati in cui si cerca il piacere sessuale per mezzo di atti che per loro natura sono ordinati alla generazione: dal punto di vista fisico si conserva quello che è l’ordine naturale della copula, ma sono peccati perché, pur essendo iuxta naturam, vi sono altre cose che non sono ordinate (si pensi, per esempio, all’adulterio: il rapporto sessuale avviene secondo natura, ma si pone contro la virtù di giustizia; o si pensi all’incesto che va contro la pietas; si pensi al sacrilegio carnale, rapporto con un consacrato, che va contro la virtù di religione). I peccati contra naturam sono di vario tipo: per esempio, la masturbazione; oppure nel caso di un rapporto con un essere non umano; oppure nel caso di rapporto con un omosessuale; un caso di peccato contra naturam potrebbe essere anche l’uso di metodi contraccettivi.
Nella valutazione dei peccati contro la castità vi sono situazioni più problematiche dal punto di vista sociale. Nel CCC, dal n. 2352 in poi, si accenna ad alcuni di questi comportamenti o atteggiamenti: nel libro si parla dell’autoerotismo, della prostituzione e in maniera particolare dell’omosessualità. Già con la dichiarazione Persona umana della CdF (1975) il Magistero è intervenuto su alcuni comportamenti nell’ambito della sessualità visti nella prospettiva della persona umana: si parla della masturbazione, dell’omosessualità (sulla quale sono il Magistero è tornato, nella lettera Homosexualitatis problema).
Riguardo alla masturbazione, è preferibile parlare di autoerotismo. Questa problematica va vista distinguendo se si colloca nella scoperta della propria sessualità e delle proprie potenzialità o se si colloca nel comportamento di una persona adulta. Esso è un peccato contra naturam: ma più che contrario alla natura biologico-riproduttiva, è contrario alla natura affettivo-relazionale, in quanto si qualifica contro l’ordo amoris, dal momento che non esprime la dialogicità e la donazione ed è assente la fecondità. Ecco allora la distinzione fatta da alcuni autori tra atteggiamento masturbatorio (in tal caso vi è una personalità orientata in maniera egocentrica: è costitutivo) e comportamento masturbatorio (che non è costitutivo). Al n. 9 Persona umana scrive che l’immaturità dell’adolescenza, che può talvolta prolungarsi oltre questa età, lo squilibrio psichico o l’abitudine contratta possono influire sul comportamento, attenuando il carattere deliberato dell’atto e facendo sì che non vi sia sempre colpa grave. Certamente non bisogna partire sempre dal presupposto che si rientri in queste attenuanti.
Per quanto riguarda la prostituzione, il problema non può essere valutato solamente nella considerazione di una moralità soggettiva personale, ma va valutato anche in prospettiva sociale. Se vediamo qualsiasi definizione di prostituzione presente in dizionari del secolo scorso, si definisce come il prestarsi a rapporti sessuali con tutti e sempre dietro pagamento. Ma essa non può essere ridotta solamente a questo: molto spesso, dietro questo fenomeno, vi sono delle vere e proprie associazioni a delinquere. Legato a molte situazioni dove è coinvolta la sessualità, è il problema della violenza: la violenza sessuale non è solo quella comunemente intesa, ma ve ne sono varie forme (alcune forme di pornografia sono forme di violenza sessuale; si pensi alle violenze interne alla famiglia o intraconiugali, etc.).
Guardiamo ora al fenomeno dell’omosessualità. Il termine “omosessualità” è moderno. Nel leggere il fenomeno ognuno deve tenere presente che ciò è condizionato dal contesto in cui si è inseriti. Nel 2003 sono state pubblicate alcune considerazioni circa i progetti di legalizzazione di alcune unioni omosessuali; nel 2005 la Congregazione per l’Educazione Cattolica ha pubblicato un documento sui criteri di discernimento per quanto riguarda persone omosessuali.
La Scrittura parla certamente di comportamenti riconducibili a quella che oggi chiamiamo omosessualità, anche se i vari testi (Gn 19, Lv 18; Lv 20; 1Cor 6,9; Rm 1,26-27) danno delle indicazioni, ma non sono precisi in merito, tanto che le interpretazioni degli esegeti smentiscono talora le interpretazioni classiche. Nella valutazione, si dovrebbe sempre distinguere tra la valutazione dell’omosessualità e la valutazione della persona.
Va chiarita la differenza tra tendenza e comportamenti: la tendenza è un orientamento psico-affettivo per persone dello stesso sesso, ma essa non necessariamente si esprime a livello sessuale genitale; il comportamento invece si pone a livello di atti. Questa distinzione è tenuta in considerazione sia nella dichiarazione Persona humana sia nella lettera Homosexualitatis problema: si dice che da un punto di vista morale la condanna non è della tendenza in quanto tale, ma degli atti della persona omosessuale. In quanto tale, la tendenza è un disordine oggettivo rispetto all’ordine morale, ma ciò non significa che sia in se stesso qualcosa di peccaminoso. È un discorso analogo a quello della concupiscenza. Il Concilio di Trento, nel decreto sul peccato originale, ha considerato la concupiscenza non un peccato vero e proprio, ma è la tendenza alla base del peccato.
L’omosessualità può essere vissuta nelle tipologie più varie, dal libertinismo totale (dove si giunge a forme di perversione), ad una omosessualità vissuta nel nascondimento. Inoltre diverse possono essere le cause dell’omosessualità: di ordine biologico (malfunzionamento di qualcosa a livello ormonale), di ordine psicologico o psichiatrico (si pensi a traumi vissuti in infanzia o a ruoli deficitari delle figure parentali).

  1. IL MATRIMONIO

In passato la trattazione sul matrimonio era essenzialmente composto da tesi che miravano a dimostrare la sacramentalità e le proprietà del matrimonio: la dimostrazione di queste tesi viene fatta servendosi di argomenti tratti dalla Scrittura, dalla Tradizione, da motivi di convenienza. Il problema di questo metodo manualistico è quello di ridurre la Scrittura ad un insieme di dicta probantia. Un altro metodo è quello allegorico-spirituale: nella Tradizione abbiamo autori che utilizzano allegorie, soprattutto per spiegare la Scrittura (v. Bernardo).
Il metodo proposto dal Vaticano II per la teologia (OT 16) è il metodo chiamato “storico-genetico”: si parte dalla Scrittura, si percorre la Tradizione, per poi fare l’esposizione sistematica. Questo metodo, che si può utilizzare bene per molti trattati della teologia sistematica, è più difficile da utilizzare per altri trattati (es. morale della vita). Essa è però utilizzabile per i sacramenti, e dunque anche per il matrimonio.
Alcuni hanno definito il matrimonio come il “sacramento antico”: esso è presente da sempre nella storia dell’uomo, fin dall’origine della creazione. Circa il matrimonio, sembrerebbe dunque che Cristo non inventa nulla: ma allora in che senso il matrimonio è sacramento della Nuova Alleanza? Cosa è che fa sì che il matrimonio sia sacramento, teologicamente parlando? Il fatto che i due siano battezzati fa sì che il loro matrimonio sia sacramento: soltanto in questa chiave possiamo leggere le varie testimonianze, tra cui la pericope delle nozze di Cana, in cui lo sposo viene ad essere colui che è stato invitato alle nozze, Cristo (a Cana inizia lo sposalizio di Cristo con l’umanità). La categoria della sponsalità può essere una categoria con cui leggere la storia della salvezza, per riflettere sulla realtà del matrimonio: ed è la scelta che si è fatto.
Un altro metodo che può essere usato è un metodo più liturgico: i sacramenti sono realtà celebrate nella liturgia, variata nel corso dei secoli; circa il matrimonio, si è passati da una quasi non-liturgia (per molti secoli il matrimonio si è celebrato senza una consapevolezza che quello era un atto liturgico-sacramentale) a una celebrazione liturgica ricca di testi eucologici e scritturistici. I testi hanno però una valenza diversa, alcuni sono più ricchi e altri meno.

La Scrittura non è un trattato sul matrimonio, ma essa parla del matrimonio dalle prime pagine fino alle ultime. Dire “matrimonio” è restrittivo, se non addirittura equivoco: il termine matrimonio, etimologicamente, deriva da matris munus (in contrapposizione al patris munus), poiché è la donna a portare il peso e il compito di esso, dal momento che il matrimonio viene visto unicamente nell’orizzonte della procreazione. Anche il termine sposalizio può essere ambiguo: lo sponsor è colui che promette di dare un contributo; la radice spondeo fa riferimento a qualcosa che inizia ma che ancora non c’è.
In alcune zone sussiste ancora la tradizione della caparra, che prima veniva data negli sponsalia (sorta di fidanzamento ufficiale) alcuni anni prima, mentre ora è ridotta a livello rituale e simbolico. In tal senso quella del matrimonio è dunque una celebrazione continuata, che il diritto canonico e civile cerca di ordinare. I due sono considerati sposati quando esprimono il loro consenso: ma la questione è molto complessa. Tuttavia questa concezione legata “al momento” in cui viene espresso il consenso dovrebbe cedere talora il passo ad una concezione più ampia, in cui il matrimonio viene visto come progressivo.
Questa progressività emerge già nell’AT. Ai nn. 9-11 della Deus caritas est Benedetto XVI parla della nuova immagine di Dio e della nuova immagine dell’uomo. Nelle culture che circondano il mondo biblico l’immagine degli dèi rimane poco chiara e contradditoria; nella storia del popolo di Israele invece Dio si rivela sempre più chiaramente. Tutti gli altri dèi non sono Dio e tutta la realtà in cui viviamo risale a Dio ed è da lui creata. Dall’AT emerge che Dio ama l’uomo e il suo amore è elettivo, si concretizza nell’amore per un popolo e questo amore può essere configurato come eros che tuttavia si identifica con l’agape. Se questa è l’immagine di Dio, segue quella dell’uomo. Ai primi capitoli della Genesi si parla della solitudine dell’uomo, che nel paradiso terrestre non trova nessun aiuto che gli sia corrispondente: l’idea che l’uomo sia costituzionalmente incompleto e in cammino per trovare la sua completezza nell’altro sesso è presente nel testo biblico (ecco il senso della profezia: “Per questo l’uomo abbandonerà…”). Due sono quindi gli aspetti importanti:

-        l’eros è come radicato nella natura dell’uomo;
-        l’eros rimanda l’uomo al matrimonio, cioè ad un legame che ha le caratteristiche di unicità e definitività.

All’immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico. Il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona dell’amore di Dio per il suo popolo e viceversa; il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano.
In Dt 6,4 ritroviamo un’affermazione di monoteismo; in Dt 5,7 e in Es 20,3 (sono le due versioni del Decalogo) abbiamo il comando di non avere altri dèi di fronte al Signore. Questo comando non è un’affermazione di monoteismo, ma di monolatria (le due cose non coincidono, sebbene l’affermazione di monoteismo richiede la monolatria): monolatria significa che Israele deve rendere culto unicamente al Signore, non interessandosi agli dèi che gli altri popoli adorano. Il problema qui è l’uscire fuori di Israele da quello che è il mondo in cui egli si trova: la presa di coscienza della propria identità è possibile a partire dalla rivelazione di Dio.
Gli antichi, quando parlavano di sessualità, non potevano spiegarsi scientificamente, ma vedevano in essa una manifestazione particolare della fecondità della natura e sapevano che dipendevano da essa per la propria sopravvivenza e per quella della propria specie. Per spigare questa fecondità, essi la riferivano al comportamento sessuale delle divinità, immaginate come sessuate (maschi e femmine). Nei confronti di queste divinità, l’uomo si pone con i cosiddetti riti magici. Quando Israele si insedia in Canaan ritrova forme rituali che anche Israele aveva molto prima, ovvero il culto degli dèi della fecondità: l’adoratore di queste divinità cercava di procurarsi il favore della fecondità, quella delle mogli, del bestiame e della terra. Quando si parla di prostituzione sacra, il termine non va inteso primariamente al significato negativo che diamo oggi, ma il rapporto sessuale con la prostituta sacra dovrebbe rendere favorevole la divinità perché si realizzi la fecondità della moglie, del bestiame e della terra. Il cammino che Israele ha dovuto fare per liberarsi da tutto questo è stato lungo e difficile: esso è stato possibile soltanto nella rivelazione che non esiste un olimpo di divinità, ma vi è un unico Dio. Quest’unico Dio non ha accanto a sé una dea compagna, ma è uno e unico: perciò vengono rimossi tutti i riti che derivavano da una concezione di nozze divine e rapporti sessuali divini. La conseguenza fondamentale relativa alla realtà sessuale è questa: essa è buona in quanto direttamente voluta dal Dio Creatore; essa non richiede nessun’altra consacrazione, ma è buona originariamente, legata al fatto stesso della creazione.
In questa chiave vanno lette tutte le riflessioni sull’amore e sulla sessualità. Per parlare dell’amore di Dio per il popolo, i profeti iniziano ad utilizzare l’immagine e l’esperienza dell’unione coniugale, affermata in Genesi, che però cade sotto la realtà del peccato. Proprio questa esperienza coniugale, buona in sé ma talora vissuta infedelmente nel peccato, permette di parlare del rapporto tra Dio e il popolo.

Per quanto riguarda l’ordine della creazione e il dramma del peccato (ciò che emerge dai primi 3 capitoli di Genesi, ma dall’intera storia dell’umanità), possiamo cogliere alcuni elementi:

-        la sessualità è una realtà ambigua: essa è principio ordinatore della differenza, ma anche fattore di divisione. Positivamente è condizione di possibilità di una vera relazione;
-        le coppie di patriarchi mostrano come la sessualità, sotto la benedizione di Dio, diventa creatrice di storia, di vita, di amore. Questa è una riflessione che non solo intepreta la differenza come ordinatrice del mondo, ma come condizione di possibilità di una vera relazione. Quello che è un limite (la differenza) è necessario perché vi sia unione e riconoscimento reciproco. Nel racconto di Gen 2 la sessualità è possibilità di confronto, dono del Creatore perché l’uomo possa sperimentare l’alterità, che non è soltanto l’alterità della donna, ma è anche l’alterità di Dio. In tal senso la sessualità umanizza l’uomo, dal momento che gli permette di confrontarsi con la realtà strutturante del limite. La sessualità dunque può portare a riflettere su Dio. Quando la sessualità viene vissuta nel disordine, essa viene portata ad essere idolatria: è questo che viene visto nel racconto delle origini. La tradizione biblica ci dice che se la sessualità viene vissuta come un mezzo per rifiutare l’alterità e il limite, essa allora diventa segno di un disconoscimento di Dio. Il rischio più grande che la sessualità fa correre all’uomo è quello di chiudersi nell’autosufficienza, per cui gli altri non hanno senso e funzione se non quella di servire all’edificazione del proprio io. Ingannandosi su se stesso, sul senso del limite che la sessualità segna nel suo corpo, l’uomo si inganna su Dio, poiché fa diventare Dio un tiranno. La conseguenza è che la relazione uomo-donna viene turbata, sommersa dalla paura, dal risentimento, dall’accusa, dal sospetto. La bontà della sessualità, della differenziazione uomo-donna, è legata per l’uomo, unica creatura capace di intendere e di volere, al riconoscimento dell’alterità di Dio e dell’esperienza positiva del limite. Per il fatto stesso di essere stato creato sessuato, questo suo essere sessuato è fondamentale nelle sue relazioni con l’alterità. Ecco perché alcuni Padri della Chiesa interpretano il peccato originale come legato alla sfera sessuale.

Le conseguenze del peccato sono negative: si pensi al dominium, che dovrebbe essere esercitato in relazione al Dominus, ma che invece diviene sopraffazione. Non è un caso che, subito dopo, si narra che Lamech prende due mogli, contravvenendo a quell’ordine voluto dal Creatore: Lamech è questo sanguinario iniziatore della vendetta senza fine (non è un caso che colui che dà inizio a tale violenza dà inizio anche alla poligamia). Il peccato genera anche altri peccati: prostituzione, adulterio, etc.

Nella riflessione profetica, possiamo rinvenire una volontà di elaborare una teologia del matrimonio? Probabilmente no, ma ciò non toglie che nei profeti vi sia una certa teologia del matrimonio. I profeti hanno sempre il ruolo di richiamare l’alleanza e le sue esigenze. Per descrivere la realtà dell’alleanza, si inizia ad utilizzare le categorie coniugali, l’esperienza stessa nuziale (viene talora anche descritta con immagini contrattuali). Colui che ha maggiormente utilizzato queste categorie coniugali è sicuramente il profeta Osea; vi sono anche testi significativi in Isaia, in Geremia e in Ezechiele.
Per quanto riguarda l’esperienza di Osea, egli è chiamato a portare il messaggio divino non soltanto con le parole, ma addirittura con la propria vicenda di vita. Evidentemente questo può turbare chi si accosta al testo di Osea senza possedere dei criteri ermeneutici ed esegetici, dal momento che ad Osea viene ordinato di prendere in moglie una prostituta e di chiamare i suoi figli con nomi non bellissimi. Il disgraziato matrimonio di Osea può essere assunto nella chiamata profetica per descrivere il rapporto di Dio con il popolo e del popolo con Dio. Osea è chiamato, nonostante tutto, a rimanere fedele, così come Dio rimane fedele al suo popolo.
Dai vari testi profetici si possono ricavare alcune parole chiave, dietro le quali ci sono i temi fondamentali, specie quello dell’alleanza, letta secondo le categorie sponsali e nuziali: per questo i termini che ora andremo ad indicare passano a riferirsi alla realtà sponsale stesso. Queste le parole: hesed (amore segnato da bontà, compassione, tenerezza), ‘emunah (fedeltà: è l’amen definitivo che i due si scambiano), qin’ah (gelosia, intesa non nel senso negativo, ma intesa come amore esclusivo e totale, che non ammette concorrenti), ahabah (è il desiderio profondo, che fa sì che l’uomo prediliga una determinata donna).
Al di là di alcuni testi particolari, dobbiamo mettere in evidenza i valori che emergono progressivamente nella Rivelazione, valori come la fedeltà, l’indissolubilità, etc., che vengono visti nel principio creatore di Dio. Uno dei principi che ritroviamo nella Scrittura è l’endogamia, alla quale talora si viene obbligati: il motivo di essa è unicamente la fede nell’unico Dio. Pensiamo al libro di Tobia, in cui è applicata la legge dell’endogamia per quanto riguarda Sara. Un libro molto importante è il Cantico dei Cantici, in cui tutto appare così profano, tanto che anche all’interno dello stesso mondo ebraico questo libro è stato accettato faticosamente. Nella Mishna si afferma però che nessuno al mondo è degno del giorno in cui il Cantico è stato scritto, essendo il più sacro fra tutti i libri; parole di lode per il Cantico le ha anche Origene: beato chi canta i cantici della Scrittura, ma beato chi medita il Cantico; papa Giovanni Paolo II, nelle sue catechesi del mercoledì, definisce il Cantico come il cantico per eccellenza.
Il Cantico dei Cantici è una raccolta di canti d’amore o un dramma lirico: c’è chi dice che potrebbe essere stato composto in Egitto e che l’autore potrebbe essere addirittura una donna. Qualcuno dice che sono due gli stadi di composizione dell’opera: vi è un’opera lirica che voleva cantare l’amore fra uomo e donna (non tanto due sposi) e poi vi sarebbe stata un’interpretazione posteriore che ha  trasposto queste figure nell’immagine profetica del matrimonio. In questo testo è descritta tutta la dinamica dell’amore, nella sua genesi, nel suo lasciarsi, nella bellezza del ritorno e del ritrovamento. È interessante allora ciò che è stato sottolineato da Shulaqi, per cui il Cantico condensa in sé l’esperienza della Genesi, dell’Esodo e dell’esilio: in esso vi sarebbe quindi la storia di Israele e, in essa, la storia dell’umanità intera.

Passiamo al NT. Dobbiamo leggere tutto alla luce della categoria della novità evangelica, che non annulla ciò che viene prima, ma lo porta a compimento. Gesù è lo Sposo che sposa l’umanità, che è un assumere la natura umana: tutto il NT va letto perciò in questa chiave sponsale
I testi neotestamentari non sono però tantissimi: ne prendiamo in considerazione tre, ovvero Mt 19 (Mc 10), 1Cor 7 ed Ef 5.
Circa Mt 19 e Mc 10, i farisei sottopongono a Gesù la problematica questione circa il divorzio. La domanda è molto sottile: è lecito ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo? Si voleva introdurre Gesù nella polemica tra le due maggiori scuole farisaiche. La scuola di Shammai affermava che la moglie non poteva essere ripudiata per qualsiasi motivo, mentre la scuola di Hillel era molto più rilassata. A questa questione è legato Dt 24,1: il marito può consegnare alla moglie un libello di ripudio quando ella non trovi grazia ai suoi occhi perché lui ha trovato in lei qualcosa di vergognoso. Gesù rimanda all’ordine stabilito dal Creatore al principio: ed è questo punto che i farisei si richiamano a Dt 24. Nel testo di Mt è presente la famosa clausola “eccetto il caso di porneia: ma come interpretare questa clausola? Bisogna innanzitutto tener presente un criterio interpretativo fondamentale: la Bibbia va interpretata con la Bibbia. La chiave di interpretazione la ritroviamo in At 15,29 e At 21,25, dove viene utilizzato il termine porneia per indicare una delle situazioni dalla quale i pagani dovevano astenersi per poter passare al cristianesimo. La quasi totalità delle interpretazioni date lungo la storia parte con l’idea che in Mt 19 porneia significhi adulterio. Il senso che dà At è quello di Lv 18, che prescriveva il divieto di sposarsi tra consanguinei, cosa invece permessa fra i pagani e tollerata dai giudei nel caso di proseliti. Queste unioni erano considerate unioni di porneia. Qui Mt allora dice che chi ripudia la propria moglie commette adulterio, eccetto nel caso di porneia, in cui la donna non è la propria moglie e non potrà mai diventarlo. Dinanzi a queste parole di Gesù, i discepoli concludono che non conviene sposarsi. Infine si va riferimento all’eunuchia per il Regno.
È in questa prospettiva del valore del Regno che va visto anche 1Cor 7. Se i sinottici leggono tutto nell’ottica del Regno, Paolo legge tutto nella logica del dono (charisma) che viene da Dio. Qui viene sottolineato che la verginità è segno profetico del Regno e dunque, per questo motivo, è migliore della vita coniugale, ma solo nella prospettiva dell’eschaton: non sono i vergini migliori degli sposati, non si tratta di un giudizio delle singole persone, ma è una valutazione della condizione, dello stato di vita. Circa gli sposi, il senso alla loro unione coniugale viene dato dal Signore (essi si sposano infatti nel Signore). 1Cor 7, visto nell’insieme della lettera, fa emergere che nessuno stato di vita è incompatibile con il cristianesimo.
Infine Ef 5. Questo testo deve essere inquadrato all’interno della cultura del tempo: la società al tempo di Paolo era strutturato in un modo di cui Paolo non poteva non tenere conto. Il v. 21, di carattere introduttivo, è molto importante: in esso si invita a stare sottomessi l’uno all’altro nel timore di Cristo. Paolo si riferisce poi ai 3 rapporti fondamentali della famiglia antica: moglie-marito, genitori-figli, schiavi-padroni. Se si è diventati cristiani, queste relazioni vanno vissute nel Cristo. Paolo sviluppa poi il parallelo tra il rapporto marito-moglie e quello Cristo-Chiesa: questo parallelo viene sviluppato però non per fondare le differenze tra marito e moglie, ma per dare fondamento alle esortazioni, che invitavano all’amore reciproco; Cristo infatti muore per dare la vita alla Chiesa. Al v. 32 Paolo parla di mega mysterion, che è l’unione fra Cristo e la Chiesa, l’unione fra il nuovo Adamo e la nuova Eva; il primo mistero è la creazione dell’uomo e della donna, è il fatto che l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie: questo mistero dell’origine deve essere guardato da ogni uomo. Se dunque gli sposi sono nel Signore, essi non devono guardare unicamente alla prima coppia (Adamo-Eva), ma essi devono guardare alla nuova coppia, nella quale c’è l’inizio dei tempi ultimi: nell’eschaton questa unione sarà piena. Il parallelismo perciò è imperfetto, nel senso che da un lato il marito è riferimento a Cristo e la moglie alla Chiesa, dall’altro però sia il marito sia la moglie fanno parte della Chiesa. Il matrimonio ha una bontà originaria fondata dalla creazione: non c’è bisogno perciò di sacralizzarlo (come facevano i miti), ma vi è un atto buono di fondo da parte del Creatore. Tuttavia il matrimonio non è lo stato perfetto, ma lo stato perfetto è quello dell’eschaton, di cui la verginità è segno.

Partiamo ora da un’affermazione: il matrimonio è l’unico sacramento che già esiste in quanto tale non solo nell’AT, ma già nell’umanità stessa; non a caso se ne fissa l’istituzione all’inizio della Genesi, nell’atto creatore. Nell’enciclica Arcanum divinae sapientiae di Leone XIII il matrimonio è per sua natura una realtà sacra e religiosa: ma come esprimere questa realtà? Ecco allora che si è avviata una riflessione su quello che viene chiamato “matrimonio naturale”, fondato cioè sulla natura. Un problema che viene posto a questo livello è quello se il matrimonio deve essere considerato unicamente nella forma monogamica o poligamica (o nella forma della poliginia o nella forma della poliandria).
Un problema è anche quello del nome dato a questa realtà. Il Catechismo del Concilio di Trento afferma che il matrimonio viene detto tale dal fatto che una donna soprattutto per questo deve sposarsi, per diventare madre oppure perché compito della madre concepire, partorire ed educare la prole.
Parlando del matrimonio, dobbiamo distinguere tra matrimonium in fieri e matrimonium in facto esse: il matrimonio va considerato sia nel suo atto iniziale sia nella realtà permanente che ne deriva; non a caso alcuni autori, come il Bellarmino, fecero un parallelo tra Eucarestia e matrimonio: come nell’Eucarestia si considera sia ciò che fa sì che vi sia l’Eucarestia sia la realtà permanente, così per il matrimonio. Per quanto riguarda il matrimonium in fieri, si devono distinguere la dimensione liturgica e quella giuridica; per quanto riguarda il matrimonium in facto, vi sono anche qui 2 dimensioni: la vita coniugale fra i due coniugi e la procreazione. A tal proposito, Agostino individuava i cosiddetti tria bona del matrimonio:

-        bonum fidei: qui fides è da intendersi come fedeltà. Perciò si fa riferimento qui alla fedeltà;
-        bonum sacramenti: è da intendersi nel senso della indissolubilità;
-        bonum prolis: è dato dai figli.

Questi tria bona sono stati separati: nei primi due sono state individuate le due proprietà essenziali del matrimonio (unità e indissolubilità), mentre nel terzo si è visto il fine del matrimonio. L’impostazione che venne data alla questione fu essenzialmente finalistica e subì alcune correzioni nel corso dei secoli. Ma questa impostazione aveva dei problemi: il fine è fuori del matrimonio e allora come spiegare il matrimonio senza figli? È valido questo matrimonio? Questo era solo qualcuno dei problemi. Il Vaticano II ha privilegiato una impostazione personalistica, senza far venire meno la prospettiva finalistica. In GS il Vaticano II ha cercato di trovare una sintesi introducendo la nozione di matrimonio come communitas o consortium o communio vitae et amoris ordinata alla procreazione. Bisogna porre attenzione a questo passaggio importante avvenuto nel Vaticano II.
L’intervento del diritto si pone soprattutto a livello del matrimonium in fieri, nel fissare quale sia quell’atto che dà origine al matrimonio e di fissare ciò che impedisce il matrimonio. Circa ciò che fa il matrimonio, è prevalsa la teoria consensualistica: è il consenso fra i due coniugi a fare il matrimonio. Altri elementi hanno reso la questione più complessa.
Un primo elemento è sicuramente la questione della sacramentalità del matrimonio e della struttura sacramentale. Circa la struttura sacramentale, dalla Scolastica si afferma che il sacramento ha una natura ilemorfica e un ministro: perciò per ogni sacramento si va alla ricerca della sua materia, della sua forma e del suo ministro. Per il matrimonio i problemi sono immensi, in quanto il matrimonio è un sacramento atipico: il matrimonio veniva celebrato in varie forme e le preoccupazioni a riguardo erano state molto poche. Si pongono due questioni. Una prima questione emerge nel XII sec. ed è quella della validità, che però non è nel caso del matrimonio limitata al matrimonio in fieri, ma tocca anche quello in facto esse: per quanto riguarda il matrimonio in fieri si individua nel consenso l’elemento che dà validità al matrimonio. Ma se non avviene la copula nel matrimonio in facto esse? Si cerca allora di risolvere la questione.

La doppia normativa, civile e religiosa, per i matrimoni, presente in molti Stati moderni, ha dato luogo a complessi problemi esistenziali, etici, disciplinari: per esempio, si può essere spostati civilmente ma non religiosamente, o viceversa; dopo un divorzio ci si può risposare per la legge, ma per la Chiesa questa seconda unione non è un matrimonio; etc. Ecco perché ci sono stati diversi interventi per cercare di chiarire i termini di queste questioni, anche perché non si possono dare risposte univoche a situazioni diverse.
Per molti secoli i cristiani non si sono sposati in chiesa: questo è evidente nei primi secoli, quando le chiese non c’erano ancora. Ci si sposava in casa: i cristiani si sposavano come gli altri, secondo le usanze tradizionali del popolo a cui appartenevano. Essendoci un’origine mediterranea del cristianesimo e la prassi matrimoniale mediterranea era abbastanza uniforme, è prevalsa questa: ci si sposava nella casa della sposa, con un insieme di riti; l’importanza veniva data a quella che i Romani chiamavano consensus (“ubi Caius, ibi Caia”), sebbene il matrimonio non fosse legato esclusivamente alla formulazione del consenso, dal momento che anche i genitori dei nubendi avevano un ruolo determinante nell’ambito del matrimonio. Ovviamente il cristianesimo escluse i riti tipicamente pagani, come la consultazione degli aruspici. Una novità tipicamente cristiana era la presenza del vescovo o del presbitero alla celebrazione nuziale, presenza che però non è obbligatoria, sebbene spiritualmente opportuna. Momento importante è costituito dalla velatio: le donne dovevano portare il velo e, al momento del matrimonio, le veniva cambiato il velo (di colore diverso ora).
Nel corso del tempo, si passa però dalla oikos alla paroikia: siamo nell’epoca in cui vengono costruite le chiese, in cui il cristianesimo si è affermato nell’Impero. Durante il corteo nuziale dalla domus della sposa, dove avvenivano le nozze, fino alla nuova casa, si passa e ci si ferma dinanzi alla chiesa (in facie Ecclesiae) e il vescovo (o il presbitero) benedice gli sposi: abbiamo formulari antichi di benedizioni. Questo gesto liturgico viene perciò affiancato al consenso matrimoniale. Questa benedizione diventa via via in medio Ecclesiae, celebrata cioè nella chiesa e all’interno della comunità. Quanto detto è il segno della sollecitudine della Chiesa verso la realtà matrimoniale, nei confronti della quale regnava il disinteresse più assoluto da parte di altre istituzioni: lo Stato si disinteressava quasi totalmente del matrimonio. Ma se il matrimonio veniva celebrato in questa maniera, quale la materia e la forma del matrimonio? E chi è il ministro? Sono quesiti problematici. Si possono indicare 3 passaggi che mettono insieme la ritualità con quella che è la stessa vita coniugale, per indicare che il matrimonio è una realtà che progredisce:

-        per sponsalia incipit: gli sponsalia sono una sorta di fidanzamento ufficiale, dove ci si promette di sposarsi. Dunque il matrimonio, in un certo senso, inizia: fondamentale negli sponsalia è la caparra;
-        per nuptias confirmatur: le nozze confermano la promessa fatta;
-        carnali copula absolvitur: la realtà matrimoniale arriva alla completezza attraverso il rapporto sessuale.

Nel decreto Tametsi del Concilio di Trento (1563), parlando del matrimonio e della forma canonica del matrimonio, sia a motivo delle critiche formulate da Lutero e dai riformatori, sia a motivo del nascente interesse degli Stati per la realtà matrimoniale, sia perché era ambiguo affermare che ci si doveva sposare in chiesa riconoscendo però validi anche quando essi venivano celebrati clandestinamente in casa, il Concilio obbliga ogni battezzato a presentarsi al proprio parroco con due testimoni per contrarre un matrimonio valido, per scambiare un valido consenso matrimoniale. Si sperava che con questo decreto, imponendo la forma canonica obbligatoria, si risolvessero i problemi sorti riguardo al matrimonio: questa decisione risolse alcuni problemi, ma aprì nuovi problemi. Per entrare in vigore, questo decreto doveva essere promulgato, reso pubblico: tuttavia ciò fu possibile solamente nei luoghi in cui il decreto era stato promulgato e per 3 secoli non dappertutto la forma canonica potrà essere applicata (ci vorrà l’intervento di Pio X, con il decreto Ne temere, a risistemare questa questione). Ma il decreto apriva un nuovo problema: se nel matrimonio clandestino c’è il consenso, perché non è valido il matrimonio e perché bisogna necessariamente la forma canonica? Quest’ultima prevede che gli sposi si presentino dinanzi al proprio parroco con due testimoni: ma quale il ruolo del ministro? Su questo punto, la teologia occidentale ha risolto le cose in maniera molto superficiale, affermando che ministri del matrimonio sono gli sposi e il parroco è il testimone qualificato del consenso manifestato. Ma il parroco compie un actus sacer, non può essere considerato un semplice testimone. La tradizione orientale invece ha fatto una scelta ben diversa: il sacerdote è il ministro della celebrazione.
Molto importante per questa questione è il rapporto tra contratto e sacramento. Il matrimonio è un contratto, anche se sui generis, e ha una sua caratterizzazione naturale; ma il matrimonio è anche un sacramento. Vi è dunque un’identità tra contratto e sacramento? Vi una identificazione? Possono essere separati? La condizione di battezzato fa perdere, in un certo senso, il diritto al matrimonio naturale, imponendo al battezzato la celebrazione del matrimonio-sacramento. Per la comprensione dei sacramenti è necessaria la fede, di cui i sacramenti sono espressione: è possibile contrarre matrimonio valido tra due battezzati che affermano di non avere fede? Nessuno può dire quanti si accostano al matrimonio con una fede capace di assumersi le promesse che essi vanno a fare nel matrimonio. In Familiaris Consortio 68 papa Giovanni Paolo II mette in guardia dallo stabilire nuovi criteri di ammissione al matrimonio riguardanti il grado di fede dei nubendi. Nel suo discorso alla Rota Romana dello scorso anno, Benedetto XVI, richiamando che il matrimonio è sacramento di una realtà già presente nell’ordine naturale della creazione, il matrimonio, pur essendo sacramento, non si riferisce ad un’attività specificamente orientata al conseguimento di fini direttamente soprannaturali, ma per sua natura è orientato al bene dei coniugi e alla generazione e alla educazione della prole. L’oscurarsi della dimensione naturale del matrimonio oscurerebbe anche la sacramentalità del matrimonio stesso. Esiste perciò un fondamentale diritto del battezzato al matrimonio cristiano, derivante dal diritto al matrimonio di ogni uomo e dalla coincidenza tra matrimonio valido e sacramento del matrimonio per il battezzato. Allorché il consenso viene posto da due battezzati senza fede o con fede debole o in peccato mortale, il matrimonio è valido se l’intenzione è quella di celebrare effettivamente il matrimonio unico e indissolubile, sebbene quel matrimonio possa essere poco fruttuoso ed espressivo. Il matrimonio è e resta primariamente un dono di Dio a coloro che accolgono la salvezza: l’esistenza oggettiva di un sacramento non dipende dalla fede soggettiva di chi li riceve. Pur non essendo ispirati dalla fede, i nubendi hanno diritto al sacramento della fede, purché vi siano le proprietà essenziali.

Il matrimonio è sia una realtà interpersonale, nell’ambito della coppia che vive una comunione di vita e di amore ed è aperta alla procreazione; ma allo stesso tempo il matrimonio è una realtà sociale avente carattere pubblico.
La teologia e l’etica cattolica ha dato un insegnamento sul matrimonio, visto come uno e indissolubile; ma vi è anche un insegnamento circa la morale coniugale: non si tratta perciò di un insegnamento di carattere unicamente dogmatico, ma anche di carattere morale. Questa dottrina è presente nel secolo XX, dove vi è un interesse sempre più ampio della Chiesa per le tematiche che riguardano la morale e la vita matrimoniale. Ricordiamo particolarmente 3 testi: l’enciclica Casti connubii di Pio XI (1930), GS (in particolare 49-51) e l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI (1968); gli insegnamenti successivi di Giovanni Paolo II si muovono alla luce di questi documenti. Per riferirsi a questi documenti è necessario riferirsi al testo latino: le traduzioni appaiono talora davvero fuorvianti. Tre sono i capisaldi di questa morale matrimoniale:

-        riconoscimento della legge naturale, cioè di una legge fondata sulla natura della persona: questa è particolarmente affermata dall’Humanae vitae. La legge naturale non è da intendersi nel senso delle scienze naturali. La legge naturale è invece una legge che Dio stesso ha posto nell’uomo: è la legge di Dio posta nell’uomo, pur con tutte le difficoltà che l’uomo ha di riconoscere questa legge che è nella sua natura;
-        l’esercizio della sessualità che va attuato nel matrimonio: pur nel riconoscimento della sessualità come valore, l’esercizio di essa deve essere attuato nel matrimonio, che diviene la discriminante;
-        criterio della verità e dell’amore: questo criterio emerge soprattutto nel magistero di Giovanni Paolo II, ma già presente in quello di Paolo VI.

Insieme a questo dobbiamo tenere presenti due fondamentali verità di fede:

-        dall’affermazione Dio è Amore e Padre, nell’Humanae Vitae Paolo VI ricava le caratteristiche dell’amore coniugale e le caratteristiche della paternità responsabile; ecco perché nell’HV, più di procreazione, si parla di paternità responsabile (è chiaro però che essa si applica non solo al marito, ma anche alla moglie);
-        l’affermazione che Dio è Signore: il dominium che l’uomo deve esercitare nel mondo deve essere esercitato sempre in relazione al Dominus. Perciò i coniugi sono chiamati ad essere  ministri e non arbitri, e sono chiamati ad usufruire (frui) e non a usare (uti), che hanno un’evidente derivazione agostiniana. Ecco allora che l’uomo non può fissare criteri di comportamento a suo piacimento, ma deve sempre comportarsi rispettando la natura (legge naturale) e l’ordine stabilito da Dio Creatore. Qui si collocano il progetto di fecondità della coppia nella responsabilità e le scelte sul piano esecutivo: sono i due stadi di quella che è la vita della coppia, chiamata ad essere comunità di vita e di amore. Si tratta dunque di un no a tutto ciò che è contro l’ordine di Dio, contro la verità e contro l’amore.

Nell’HV Paolo VI parla del matrimonio come di segno con due significati: egli non propone una lettura del matrimonio nella prospettiva finalistica, ma nella prospettiva significativa.
(leggere prima HV 8)
Quali caratteristiche ha l’amore coniugale? HV 9 dice che esso è un amore integralmente umano e perciò è allo stesso tempo sensibile e spirituale: perciò bisogna rifiutare ogni forma di riduzionismo in tal senso e perciò ogni forma di angelismo o di materialismo. Inoltre l’amore coniugale è un amor plenus, è una forma tutta speciale di amicizia personale: i due coniugi sono chiamati a condividere ogni cosa. Inoltre l’amore coniugale è un amore fedele  e esclusivo: così è nella volontà degli sposi allorché esprimono il loro consenso, quando i due sposi assumono liberamente l’impegno del vincolo matrimoniale. Infine questo amore è un amore fecondo, in quanto esso dona una nuova vita: riprendendo GS 50 si afferma che il matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione. È nella natura stessa dell’amore quella di essere fecondo: ma non si può restringere la fecondità unicamente alla fisicità, dal momento che ne verrebbe che una coppia che non può procreare non può vivere un amore fecondo. I coniugi sono chiamati ad essere cooperatori dell’amore di Dio Creatore e interpreti di esso (GS 50): da questo deriva la responsabilità e il dovere di formarsi un retto giudizio in quella che è la scelta procreativa.

Oggi una particolare tendenza è quella della convivenza, per cui, per paura che poi il matrimonio fallisca, si vuole fare un periodo di prova convivendo. Ma questa tendenza non ha fatto diminuire le separazioni, anzi. Questa necessità di “prova” è un amore ripiegato su se stesso, che vuole giudicare e provare l’altro, senza impegnarsi del tutto con l’altro in quanto non ci si fida totalmente. Questo amore non costituisce coppia in quanto è infecondo: la prima fecondità è dare vita all’altro, mentre qui ognuno pensa prima di tutto a se stessi. Diventare coppia è il punto di arrivo di un lungo cammino insieme per diventare come una cellula fecondata, in cui ciascuno ha messo la sua parte e dalla quale nessuno può riprendersi la sua parte (sarebbe la morte): ovviamente questa è un’analogia, dal momento che ognuno nella coppia rimane comunque una persona. Chi non sa assumersi una scelta che è del tutto e per sempre è rimasto ancora adolescente, non ha raggiunto una maturità. In una sua Lettera alle famiglie Giovanni Paolo II raccomanda che la responsabilità non deve entrare in gioco solamente quando ci si è già uniti all’altro, ma essa deve guidare anche l’assunzione di questo impegno; stessa cosa vale per il discorso dei figli.
Al n. 10 l’amore coniugale richiede negli sposi la coscienza di una paternitas responsabile, sulla quale oggi tanto si insiste e che va rettamente compresa. Proprio per intendere rettamente cosa sia la paternitas conscia dobbiamo considerarla secondo dei motivi che sono legittimi e connessi fra loro. Questi aspetti della paternità responsabile sono 4:

-        in rapporto ai processi biologici: conoscenza e rispetto delle loro funzioni. Perciò è lecito usufruire di questi processi biologici: la fertilità della donna è una fertilità ciclica. La conoscenza di questi processi biologici è una conoscenza di cui la coppia può servirsi se intende avere un figlio o se intende non averlo;
-        bisogna però tener conto anche delle tendenze dell’istinto e delle passioni, che devono essere controllate dalla ragione e dalla volontà;
-        in rapporto alle condizioni fisiche, economiche, psicologiche e sociali: bisogna perciò considerare le condizioni sia dei singoli coniugi sia della coppia, dal momento che nessuna coppia è isolata da una società. Anche qui può significare due scelte: la paternità responsabile si esercita sia con la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia generosa, sia con la deliberazione presa per motivi seri di evitare temporaneamente o anche a tempo indeterminato una nuova nascita;
-        la paternità responsabile tende alla conformità con l’ordine morale stabilito di Dio e di cui la retta coscienza è vera interprete.

Quando si tratta di comporre l’amore coniugale con la trasmissione della vita, il carattere morale del comportamento non dipende solamente dalle intenzioni dei coniugi, ma anche dall’oggettività della natura (legge naturale).
Nella procreazione gli sposi non sono né padroni né arbitri, ma rientra sempre la decisione fondamentale di Dio: gli sposi sono chiamati ad essere ministri. Vi sono perciò due atteggiamenti mentali e pratici contrapposti: c’è l’uti e c’è il frui (n. 13 di HV). Usare del dono dell’amore coniugale distruggendo anche solo parzialmente il significato e la finalità del sono stesso è un contraddire il piano di Dio e la sua volontà; usufruire invece del dono dell’amore coniugale rispettando le leggi del processo generativo significa riconoscersi non il padrone delle fonti della vita, ma piuttosto ministro di questo disegno stabilito da Dio Creatore. Infatti l’uomo, come sul suo corpo in generale non ha un dominio illimitato, così non lo ha sulle facoltà generative in quanto tali, a motivo della loro ordinazione intrinseca a suscitare la vita. Qui si può applicare un principio fondamentale nella morale: l’uomo non ha dominio illimitato sul suo corpo, ma gli è lecito intervenire sull’integrità del corpo unicamente per fini terapeutici.
Mentre il minister sa di poter semplicemente usufruire del dono dell’amore coniugale ed in tal modo rispetta anche le leggi naturali e i tempi della fecondità (come dice HV, anche se qui l’espressione leges naturales è qui abbastanza infelice), il dominus usa invece del dono dell’amore coniugale.
Quando si tratta di individuare ciò che è specifico del comportamento dei due coniugi nell’ambito del matrimonio, si parla di actus coniugii e non di atto sessuale: la valutazione di moralità deve tenere conto dello stato matrimoniale. Si dice che l’atto coniugale ha una sua ratio: questa ratio consiste nel fatto che vi è in esso una significatio unitatis e una significatio procreationis, in modo che di per sé l’uso del matrimonio (qui si parla di uso in quanto si riprende Casti connubii di Pio XI) rimanga destinato a procreare la vita umana (HV 11). Paolo VI legge l’atto coniugale in una nuova prospettiva: proprio per la sua intima struttura, per la sua ratio, mentre unisce profondamente gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite. Ci sono perciò delle leggi inscritte nella natura stessa dell’uomo e della donna. Nella logica della comunicazione, normalmente, un gesto, una parola è segno se significante un significato. L’atto coniugale è un segno che per natura sua è significante di due significati. La significatio unitatis è una significatio diretta e legata direttamente alle persone, mentre la significatio procreationis non dipende soltanto dall’intenzione e dalla volontà dei due coniugi, ma dipende anche da alcuni fattori umani. La valutazione che qui Paolo VI dà, più che essere legata alle intenzioni della persona, è una valutazione per se. Se si interviene e si manipola uno di questi due significati, succede che viene meno la ragione di segno, dal momento che il segno è significante di due significati: il segno viene perciò ad essere sconvolto. Questi due significati sono in una connessione inscindibile. Come la parola sta in rapporto indissolubile con la verità, così il significato unitivo dell’atto coniugale è indissociabile dal significato procreativo. Se dunque si pone un gesto che non è rispettoso di entrambi i significati è come se si dicesse una bugia. 
Per quanto riguarda la regolazione della natalità, HV 14 indica 3 comportamenti. Ma innanzitutto un chiarimento di termini. Con il termine contraccezione sin indicano quei comportamenti che impediscono che avvenga il concepimento. Ecco i 3 comportamenti

-        interruzione diretta del processo generativo già iniziato (aborto voluto e procurato): per quanto riguarda questa modalità sono state aggiunte recentemente due specificazioni, parlando di tecniche intercettive e tecniche contragestative (termini utilizzati nella Dignitas personae della CdF nel 2008). Le tecniche intercettive (es. spirale introdotta nell’utero, pillola del giorno dopo, che bombarda l’embrione con ormoni provocandone la morte) intercettano l’embrione prima che esso si impianti nell’utero materno (l’embrione però si è già formato). Le tecniche contragestative intervengono quando l’embrione si è già impiantato, e impediscono che la gestazione vada avanti.
La pillola tradizionale consiste nell’assumere ormoni che impediscono l’ovulazione: essa viene sospesa nel periodo della mestruazione e l’assunzione viene ripresa subito dopo; ci si è accorti però che questi ormoni provocavano effetti collaterali non irrilevanti. Dunque, per evitare questo, si è fatto sì che non tutte le pillole fossero uguali, ma avessero quantità di ormoni diseguali: per cui le pillole ora vengono numerate in base al giorno in cui si devono assumere. Ma effetto di queste pillole non è solo anovulatorio, ma esse possono avere effetti anche a livello muco-cervicale e anche a livello dell’utero della donna, provocando un intervento abortivo in caso di rapporto sessuale, dal momento che in questo caso l’ovulazione non viene impedita.
Circa le tecniche contragestative, abbiamo la RU486 (pillola del mese dopo) e le prostaglandine.
-        sterilizzazione diretta, che può essere perpetua o temporanea. Vi sono varie tecniche di sterilizzazione;
-        atto che impedisca la procreazione: in questo ambito rientra la contraccezione, che può essere meccanica o ormonale. Nella contraccezione meccanica si fa uso di alcuni strumenti per impedire che vengano a contatto lo spermatozoo con l’ovocita: è il caso del profilattico per il maschio e del diaframma per la donna. Per contraccezione ormonale si intendono quei mezzi (ormoni) che provocano un’alterazione o nella donna o nell’uomo, in modo tale che questa alterazione impedisca il concepimento; in qualche maniera la contraccezione ormonale è una specie di sterilizzazione.

HV 20 afferma che ci sono giuste cause per utilizzare legittimamente la facoltà data dalla natura: qui si fa riferimento ai tempi della fecondità della donna. L’uomo è chiamato a scoprire con intelligenza ciò che è presente nella creazione e a usufruirne nel rispetto dell’ordine. Ecco allora che qui si inseriscono dei metodi per l’accertamento della fertilità femminile. Si parla di metodi di prima generazione, che sono di osservazione statistica; i metodi di seconda generazione sono invece metodi post-ovulatori, laddove vi è l’individuazione del sintomo, legati però anche questi metodi ad un’osservazione statistica; i metodi di terza generazione sono metodi di osservazione sintomatici: questa osservazione può anche servirsi di mezzi tecnici che non manipolano, ma accertano la fertilità o meno della donna.
Scopo di questi metodi naturali è quello di individuare l’inizio e la fine della fase fertile della donna, individuando il fatto dell’ovulazione. L’ovulazione di norma avviene 14 giorni prima della mestruazione. Il ciclo della donna dura 28 giorni: ciò è vero in teoria, ma non è vero in pratica. Nell’ipotesi che la donna abbia un ciclo regolare, se l’ovulazione avviene 14 giorni prima della mestruazione, basterebbe avere un rapporto sessuale non tra il 12° e il 16° giorno dopo la mestruazione.
Ma sono pochissime le donne ad avere un ciclo regolare. Inoltre il periodo fisso della donna è quello post-ovulatorio, mentre il periodo pre-ovulatorio è molto instabile: l’ovulazione può avvenire anche dopo 6-7 giorni o anche dopo il 14° giorno successivo alla mestruazione. Il problema è perciò individuare quando avviene l’ovulazione nella donna.
Altri metodi si basano sul coglimento di alcuni sintomi. Per esempio, alcuni fanno leva sul rialzo termico che è il sintomo che l’ovulazione è avvenuta. Vi sono anche altri sintomi, come quelli individuati dai coniugi Billings: questo metodo aiuta a cogliere i mutamenti cervicali che avvengono nella donna.

Nella valutazione morale di tutto questo è molto importante la legge della gradualità (nota 185 libro), di cui ha parlato Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio: per poter arrivare ad un comportamento morale è necessaria una conoscenza morale.


  1. LA RICONCILIAZIONE

Il sacramento della Penitenza viene anche chiamato “quarto sacramento”. Si dice che oggi questo sacramento sia in crisi; ma questo sacramento deve essere in crisi perché il sacramento della crisi. Il termine greco krisis allude al giudizio di Dio, che è giudizio di misericordia.
L’essenza del sacramento della Penitenza non è fissata, come invece è stabilita per altri sacramenti: a costituire la materia della Penitenza sono gli atti del penitente; in questo senso si può dire che il sacramento della Penitenza è un sacramento “creativo”.

Innanzitutto vediamo il problema terminologico: come chiamare questo sacramento? Diversi sono i termini utilizzati: Penitenza, Riconciliazione, sacramento del perdono, confessione, conversione, contrizione (la contritio è quella perfetta, mentre la attritio non è perfetta come la contritio), etc.
Il termine latino confessio ha sì un significato, ma in sé indeterminato: la confessio infatti è sempre confessio di qualcosa. Si potrebbe rispondere con “confessione dei peccati”: ma questa ha il suo valore se è confessione di lode, della fede, della vita; se non vi è questo, che valore ha confessare i peccati? Confessare i peccati non è un semplice dire ad un altro i propri peccati.
Si è iniziato ad utilizzare il termine confessio per indicare il sacramento nel Medioevo, quando una parte del sacramento (la confessione dei peccati) ha avuto il sopravvento su tutto.
Ma vediamo il termine latino paenitentia. La tendenza è quella di ritenere che il termine esatto sia quello con il dittongo “oe” (poenitentia), in quanto vi sarebbe il riferimento alla pena. Ma il termine esatto è paenitentia. Ci torneremo.
Passiamo al termine reconciliatio, che è entrato prepotentemente nell’uso, sebbene al Concilio Vaticano II questo termine sia poco presente nei documenti: come mai, nonostante sia un termine dimenticato per secoli nella teologia e nonostante l’uso limitato nel Vaticano II, questo termine ha superato gli altri termini. Il motivo è un motivo rituale, anche se alla conclusione della riforma liturgica di questo sacramento non ha corrisposto la sostanza con la terminologia utilizzata. Spieghiamo meglio.
Nell’antichità (primi 4-5 secoli), quando qualcuno era iscritto nell’ordine dei penitenti, era perché aveva maturato la scelta di dare una svolta alla propria vita, poiché aveva commesso peccati particolarmente gravi; questi peccati li aveva confessati al vescovo oppure questi peccati erano pubblici ed evidenti. In ogni caso, la confessione avveniva prima di essere iscritto nell’ordine dei penitenti; dopo la confessione, egli doveva compiere un opus paenitentiae, che solitamente durava per il periodo quaresimale, ma che poteva anche durare alcuni anni (specie nei primi secoli). Dopo il compimento dell’opera penitenziale, vi era la riconciliazione della Chiesa: il fedele veniva sì riconciliato (poteva ora partecipare all’Eucarestia), ma rimaneva nell’ordine dei penitenti per tutta la vita (rimanevano comunque degli interdetti). Questo sistema era unicamente per i laici, perché i religiosi facevano già parte di un ordo.
Quando si è iniziata la riforma del sacramento della Penitenza, si sono recuperate alcune delle forme rituali dei primi secoli, facendo una proposta di riforma del rito della Penitenza rispetto a come veniva celebrato prima del Vaticano II e proponendo 3 forme rituali. Queste 3 forme rituali previste nella proposta di riforma sono state approvate e sono in uso; ma vi è stato un cambiamento molto importante: la proposta di riforma proponeva che la prima forma fosse quella della celebrazione della comunità con confessione e assoluzione nella forma cosiddetta “generale” (l’attuale terza forma). Con questo si voleva sottolineare l’aspetto di riconciliazione dei penitenti con la Chiesa. Questo ordine non è però passato: questa forma è prevista come terza e può essere utilizzata solo a determinate condizioni. È rimasta però la terminologia, ovvero rito per la riconciliazione con confessione e assoluzione generale: in questo caso è l’assoluzione che è generale, ma la confessione è generica, dove la confessione generica è quella che facciamo anche nell’atto penitenziale della Messa (non si specificano i peccati). Alla luce di quanto detto, non è preciso parlare di sacramento della Riconciliazione, in quanto essa costituisce solamente una parte; inoltre anche il Battesimo e l’Eucarestia sono sacramenti di riconciliazione.
La prima forma è quella “classica”, mentre la seconda è la celebrazione comunitaria del sacramento della penitenza (in cui confessione e assoluzione restano individuali).
Ma guardiamo al concetto di riconciliazione, che travalica il quarto sacramento, ma ci permette di chiarire una serie di concetti teologici importanti. Il termine è un termine composto, re-conciliatio: ma questo re- non va inteso nel senso di ripetizione (quasi si avesse una nuova conciliazione), ma nel medesimo senso di religio, in cui il re-... Il termine reconciliatio fa riferimento al termine concilium, che esprime un “chiamare con”. Il termine reconciliatio è stato utilizzato per tradurre il greco katallaghè, anch’esso un termine composto. Per esprimere la ricomposizione di buoni rapporti tra chi non andava d’accordo, per esprimere la ricomposizione del rapporto fra uomo e Dio, è necessario eliminare quei fattori che hanno comportato l’inimicizia. Di per sé questo si dovrebbe fare con l’espiazione. Nel linguaggio biblico abbiamo 3 gruppi di vocaboli: uno di questi gruppi rimanda al termine apokatastasis (è un termine di valenza escatologica-apocalittica), un altro gruppo di termini appartiene all’ambito cultuale (exilaskomai, che si riferisce a quelle azioni che gli uomini fanno per placare e rendere benevole le divinità), mentre il terzo gruppo di vocaboli ruota intorno al sostantivo allos e che è pochissimo presente nei LXX e poco presente nel NT (ma questo non vuol dire non sia importante). Quello che è importante è che il verbo katallasso ha nella grecità un uso profano, ma viene introdotto e utilizzato per indicare questa realtà nuova, straordinaria, che non deve essere indicata con i termini tradizionalmente utilizzati per indicare quello che l’uomo cerca di fare per placare la divinità. Non è infatti così: la prospettiva necessita di essere rovesciata. Il soggetto della riconciliazione è infatti Dio e non l’uomo: non è l’uomo che si riconcilia con Dio, ma è Dio che riconcilia a sé l’umanità (Rm 5,11; Rm 11,15; 2Cor 5,18-20; etc.). La katallaghè di Dio è l’opera da lui compiuta quando noi eravamo ancora nemici (Rm 5,10) e, dunque, precede ogni azione umana, compresa la nostra penitenza e la nostra confessione dei peccati. Non è un’azione dell’uomo che avvia la riconciliazione: essa è avvenuta per l’opera di Cristo.
Intesa come azione di Dio in Cristo, la riconciliazione è il dono di Dio per noi e per il mondo; a questo dono corrisponde, da parte dell’uomo, l’accoglienza, che possiamo esprimere con il termine pistis, fede: il lasciarsi riconciliare con Dio di 2Cor 5,20 è un appello alla fede. Il logos tes katallaghès (2Cor 5,19) è dunque il Vangelo stesso. Essenza della riconciliazione è la fine dell’inimicizia tra Dio e l’uomo, che è l’inizio della nostra salvezza; alla parola della riconciliazione corrisponde poi la diakonia della riconciliazione, affidata alla Chiesa. Dio ha dunque riconciliato il mondo a sé, si è rivolto verso la creazione che giaceva in uno stato di inimicizia e ha cancellato questa inimicizia.
Perciò non c’è nulla, né a livello umano né a livello della creazione, che non sia già riconciliato: il Verbo, assumendo l’umanità, ha assunto e salvato la realtà creata. In tal senso, riconciliazione significa fine dell’inimicizia e dell’estraneità: il peccato è stato preso da Gesù ed è stato annullato.
Una tipologia di questa realtà la si può trovare in Gen 32-33, nell’incontro tra Giacobbe ed Esaù, due fratelli separati tra loro a motivo della primogenitura: la separazione produce estraneità, che porta a vedere nell’altro non ciò che è comune, ma ciò che diversifica. L’uomo che lotta con Giacobbe fino all’alba è Dio: Giacobbe pensava che vi fosse una via diretta per arrivare al fratello (presentargli un regalo), egli invece deve passare tramite Dio, è con Dio la lotta fondamentale che egli deve affrontare. Solo un Giacobbe nuovo può incontrare il fratello: la riconciliazione richiede sempre la conversione.
Nella riconciliazione umanamente considerata si può perdere; ma nella riconciliazione non ricercata l’equilibrio delle parti pensando che solo così essa possa avvenire. La riconciliazione invece sbilancia, fa uscire dalla “logica delle equivalenze”, caratterizzata dalla giustizia, che tende a fare equivalenza tra il delitto e la pena. Questi criteri umani non possono essere applicati alla realtà divina: il ministro della Penitenza non può infatti dare una penitenza adeguata a quello che è un peccato mortale nei confronti di Dio. La riconciliazione avvenuta in Cristo fa sì che la Chiesa sia sacramento di riconciliazione e fa sì che tutti i sacramenti attuino tale riconciliazione, al di là delle nostre deficienze: l’evento unito attuato in Cristo può essere sempre riattualizzato.

Il primo problema è quello che riguarda il senso del peccato. Il termine senso è una parola sicuramente problematica, in quanto è una parola plurivalente: quando parliamo di senso del peccato, si deve intendere la consapevolezza del peccato, che nella confessione esprimiamo nell’ “atto di dolore”, dove vi è unicamente la dimensione verticale (il dolore è espresso a Dio); nel Confiteor invece è presente anche la dimensione orizzontale. Dunque, parlando di senso del peccato, esso può implicare la sola dimensione verticale o anche la dimensione orizzontale-ecclesiale.
Ma dire senso del peccato equivale a dire senso di colpa? Prendiamo il CCC 1849, dove la definizione di peccato inizia cosi: il peccato è una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all’amore vero verso Dio e verso il prossimo a causa di un perverso attaccamento verso certi beni. Esso ferisce la natura dell’uomo e attenta alla solidarietà umana. È stato definito come una parola o un desiderio contrari alla legge eterna (S. Agostino e S. Tommaso). Al n. 1850 si parla del peccato come di offesa a Dio.
Esiste una difficoltà di definire il peccato.
Il senso di colpa e la coscienza del peccato non coincidono, anche se possono intrecciarsi. Per parlare di peccato e perché ci sia coscienza del peccato ci vuole necessariamente Dio: si tratta di una nozione di ordine religioso, essa si colloca nell’orizzonte del concetto biblico di alleanza.
L’espressione “senso del peccato” è stata usata per la prima volta da papa Pio XII nel 1946 in un suo radiomessaggio inviato a Boston: in esso il papa affermava che il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato. La coscienza del peccato richiede una conoscenza di Dio e una conoscenza di se stessi.
Il senso di colpa è una sensazione, è un vissuto emozionale, è un sentirsi a disagio; questo senso di colpa è spesso aggravato dal carattere della persona, dalle patologie che una persona può avere (il passaggio a forme di nevrosi è frequente). Il senso di colpa è dunque totalmente diverso dal senso del peccato. Molto spesso il senso di colpa è un rifiuto totale di sé e un bisogno di “rimettersi a posto”, che molto spesso avviene mediante una seduta psicanalitica o comunque psicoterapeutica. Qualcuno ha parlato di “confessione psicanalitica” (altri hanno definito la confessione la “psicanalisi dei poveri”). Ma dobbiamo fare attenzione.
Il termine confessione è ormai utilizzato anche in ambiti profani. Il paziente che racconta allo psicoterapeuta la propria situazione vuole liberarsi dal suo disagio: egli non presenta la colpa come se fosse peccato, ma denuncia una situazione clinica, un disturbo. Se la confessione viene talora sperimentata da alcuni come tentativo da liberarsi da sensi di colpa, questo è vero: ma in questo modo la confessione viene ad assumere un caratterizzazione di tipo magico.

Abbiamo visto come il peccato abbia trovato vari tentativi di definizione, ma come esso emerga nella sola esperienza di fede, ovvero “di fronte a Dio”. In 2Sam 12 Davide prende coscienza del peccato quando il profeta Natan gli fa la rivelazione; Davide esprime la coscienza del peccato affermando “ho peccato contro il Signore”. Il peccato è coscienza, consapevolezza di fronte a Dio nell’esperienza di fede: certo, vi è anche la disobbedienza verso una legge, ma questa è una legge di Dio.
Nella Bibbia il peccato è essenzialmente “mancare il bersaglio, deviare”. La Bibbia non ha definizioni, ma preferisce descrivere servendosi di quelle che sono esperienze. La trasgressione, in qualsiasi ambito, costituisce sempre un’infrazione di quello che è l’ordine in cui si è collocati da Dio e, dunque, costituisce sempre un’offesa a Dio, un attentato alla sua sovranità che non viene riconosciuta. Già nell’AT però è presente anche la dimensione sociale del peccato, che si ritorce non solo verso il peccatore, ma anche contro la stessa comunità, chiamata ad intervenire: se la comunità non interviene, infatti, le conseguenze negative del peccato danneggiano la stessa comunità.
Il perdono dei peccati, che viene da Dio, passa nell’AT per alcune forme rituali e viene espresso attraverso vari linguaggi: quello della vita di ogni giorno (togliere, non ricordare, buttare via) o quello clinico (guarire, risanare).

Anche nel NT il peccato si svela in una prospettiva di fede: è proprio perché Dio si è rivelato in Cristo che l’uomo scopre il suo peccato.
Nel NT troviamo anche affermata la distinzione tra peccato mortale e peccato veniale. In Reconciliatio et paenitentia troviamo indicazioni molto utili su due tematiche: la distinzione tra peccato mortale e peccato veniale, il rapporto tra peccato personale e peccato sociale.
Partiamo dal rapporto tra peccato personale e peccato sociale (RP 16). Un dato indiscutibile è che il peccato è sempre un atto di libertà della persona: vi deve essere perciò la conoscenza che si sta compiendo un peccato e la volontà di compierlo. Le prime conseguenze di questo atto libero sono sulla persona stessa: in GS 13 si dice che il peccato che “minuit ipsum nomine a plenitudine consequenda eum repellens”. Si può parlare di peccato sociale e di peccati sociali? Il tema è stato affrontato in quel sinodo dei Vescovi (RP è esortazione apostolica post-sinodale); il rischio di parlare di “peccato sociale” era quello di deresponsabilizzare la persona. In RP Giovanni Paolo II dà 3 significati di peccato sociale:

-        riconoscere che, in virtù di una solidarietà umana, il peccato di ciascuno si ripercuote in qualche modo sugli altri. Commettendo un peccato, la persona indebolisce se stessa nella sua capacità di compiere il bene: dunque è una perdita anche per la societas. Si tratta allora di una comunione dei peccatori: a ciascun peccato dunque si può attribuire il carattere di peccato sociale;
-        peccato sociale è quel peccato che, per il loro oggetto stesso, costituiscono un’aggressione diretta al prossimo (sono offesa a Dio in quanto offesa contro il prossimo);
-        la terza accezione riguarda i rapporti tra le varie comunità, rapporti non sempre in sintonia con il volere di Dio (che vuole la pace, la giustizia). All’origine vi è una qualche responsabilità personale di qualcuno, ma si deve ammettere che realtà e situazioni, nel loro generalizzarsi e ingigantirsi come fatti sociali, diventano quasi sempre anonime, come complesse e non sempre identificabili sono le loro cause.

Ciò premesso, bisogna dire subito che non è legittima e accettabile un’accezione del peccato sociale la quale, nell’opporre peccato sociale a peccato personale, conduca a stemperare il peccato personale per ammettere solo colpe e responsabilità sociali. Quando la Chiesa parla di peccati sociali, questi casi di peccato sociale sono il frutto e la concentrazione di molti peccati personali.

Passiamo alla distinzione tra peccato mortale e peccato veniale. Alcuni teologi degli anni Sessanta del secolo scorso che avevano fatto una proposta di triplice distinzione dei peccati:

-        peccato veniale o lieve
-        peccato grave o mortale
-        peccato per la morte (secondo Schoonenberg)

Altri operano tale tripartizione: peccato veniale, peccato grave, peccato mortale.
Anche nel Sinodo sulla riconciliazione e sulla penitenza è stata fatta la proposta di una distinzione tripartita: il Papa lo dice nell’esortazione apostolica al n. 17. questa ripartizione, dice il Papa, potrebbe mettere in luce che tra i peccati gravi vi sia una gradazione: ma resta sempre vero che la distinzione fondamentale resta sempre quella tra peccati contro la carità e peccato che non uccidono la vita soprannaturale; tra la vita e la morte non si danno vie di mezzo.
Nell’AT sappiamo che alcuni peccati venivano puniti con la morte: il reo doveva essere eliminato dal suo popolo. Nel NT, il Papa cita un testo di 1Gv dove appunto si distingue tra un peccato che conduce alla morte e di uno che non conduce alla morte. Il concetto di morte è qui spirituale: si tratta della perdita della vera vita, della vita eterna. Con questo concetto di peccato che conduce alla morte 1Gv vuole inquadrare quei peccati (come l’apostasia) che indicano la totale separazione da Dio. Il papa cita inoltre Mt 12,31 in cui Gesù parla di una bestemmia contro lo Spirito Santo che è irremissibile, in quanto è un ostinato rifiuto di conversione all’amore del Padre di misericordia. Nel NT troviamo diversi “cataloghi di peccati”: ma questi non possono aiutarci a risolvere la distinzione tra peccati mortali e peccati veniali. Ci viene in aiuto la riflessione dei Padri.
Agostino introduce la nozione di inordinatio (“disordine”): questo disordine può essere circa finem (disordine direttamente contro Dio) e circa ea quae sunt ad finem (non direttamente contro Dio, ma contro ciò che ci conduce a Dio). Agostino parla di laetalia, mortifera crimina e di vaenalia, quotidiana crimina. Riprendendo Agostino, in riferimento al concetto di morte spirituale presente nella Bibbia, Tommaso afferma che per vivere spiritualmente l’uomo deve rimanere in comunione con Dio, fine ultimo; il peccato è un disordine che va contro questo principio fondamentale. Il peccato mortale è quel peccato che conduce ad una separazione del fine ultimo che è Dio, mentre il peccato veniale non conduce a tale separazione e non fa perdere la grazia santificante.
Chiarificazione della distinzione riguarda anche la pena corrispettiva ai due peccati, eterna o temporale. Altra chiarificazione importante è l’oggetto di questi peccati: è peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che viene commesso con piena avvertenza e deliberato consenso. Questa chiarificazione si serve di ciò che era stato già intuito dagli autori biblici e dai Padri e lo chiarisce meglio. La teologia morale aveva individuato il concetto di ciò che è malum ex toto genere suo: affinché però vi sia peccato mortale vi deve essere piena avvertenza e deliberato consenso.

Parliamo ora della penitenza.
Paenitentiam agite e paenitemini erano due degli inviti che risuonavano sulla bocca dei predicatori nel Medioevo. Questo termine (o verbo) deriva da paeni, che significa il “non avere abbastanza”, l’essere carenti in qualcosa: il poco (o il molto) che manca è qualcosa che l’io non può colmare, ma che è già stato colmato da Dio in Gesù Cristo. Se è necessaria la parte di Dio, è necessaria anche la parte dell’uomo, che si ritrova sempre in difetto: perciò egli è chiamato continuamente a riconoscere il solo che può dare e concedere.
Il termine penitenza indica varie realtà: è l’atto interiore, la virtù, il sacramento, è l’atto con cui bisogna soddisfare (la traduzione “soddisfazione” non rende il satisfactio latino). Siamo perciò di fronte ad una flessibilità di significati attorno a questo termine penitenza. L’impostazione della questione, da un punto di vista teologico, dovrebbe essere questa: è quella della penitenza-riconciliazione. Con “riconciliazione” intendiamo soprattutto la parte di Dio, mentre con “penitenza” intendiamo soprattutto la parte dell’uomo (anche se l’azione di Dio è presente anche nell’opus paenitentiae).

Cerchiamo ora nella Scrittura il fondamento della penitenza.
I termini che esprimono il concetto di pentimento sono in ebraico shub e niham, e in greco epistrefein e metanoein. Il verbo shub è presente 1056 volte nell’AT. Abbiamo detto che il peccato è lo sbagliare bersaglio e l’uscire fuori di pista (ed è facile uscire fuori dalla pista se la pista si trova nel deserto, dove il vento fa scomparire quella pista): shub e epistrefein indicano proprio questo ritorno sulla strada, questo rimettersi in pista.
Il termine ebraico niham ha una grande ricchezza di significati, ma prevalentemente questo verbo viene reso in greco con metanoein: quest’ultimo verbo ci fa meglio capire il niham. In questi due verbi vi è il riferimento al nous, alla mente, che è malata e che ha perciò bisogno di essere guarita. Questo evidenzia il carattere spirituale del peccato, oltre che carnale: ma da dove nasce il peccato? Evagrio Pontico parla di logismoi, pensieri dai quali possono nascere i peccati (i pensieri vengono tradotti in opere).
Dai testi dell’AT abbiamo innanzitutto questa consapevolezza: dalla coscienza, dalla consapevolezza del peccato, deve venire la confessione della giustizia di Dio. Vi sono celebrazioni, gesti, giorni penitenziali: nella prassi del popolo di Israele si ritrovano questi gesti per esprimere la penitenza e confessare il peccato. Abbiamo testimonianze anche di possibili esclusioni del peccatore dalla comunità (esclusione che può essere temporanea ma anche definitiva); abbiamo anche forti messaggi profetici contro l’esteriorità. Ma è soprattutto la confessione della giustizia di Dio che dà senso alla confessione del peccato: a tal proposito un autore ha parlato di dossologia del giudizio. Bisogna stare attenti però da un’interpretazione che è stata definita mistica del peccato: perché Dio possa esprimere la sua verità, ciò che lui è, è necessario che noi pecchiamo, perché soltanto peccando, egli può esprimere nei nostri confronti la sua misericordia (pecca fortiter, crede fortius).
Questo confessare ha un significato forte: ad essere confessato è ciò che Dio ha compiuto, ciò che egli compie e ciò che egli compirà; si riconosce il suo diritto e la sua giustizia. Dio si proclama come il Dio geloso: la sua gelosia è per noi, per gli uomini che non riconoscono in lui l’unico Signore e si danno agli idoli vani. Perché possa essere confessione dei peccati deve essere confessione di Dio, ovvero professione di fede in Dio
Nelle celebrazioni penitenziali, nelle quali si utilizzano i Salmi (spesso alla prima persona singolare), vi è comunque il passaggio fondamentale comunitario, per cui io confesso, ma anche noi confessiamo. Inoltre il rischio di queste celebrazioni è che esse rimanessero unicamente sul piano esteriore: di qui la denuncia dei profeti contro le forme di esteriorismo. In Ger 31,18 si afferma “Fammi ritornare e io ritornerò” (riferimento alla grazia preveniente). Un’altra citazione significativa è quella del Sal 106, in cui tutto il popolo fa memoria della storia della salvezza.
Prima di iniziare il NT facciamo un brevissimo cenno a Qumran, i cui testi confermano il carattere collettivo, comunitario della confessione dei peccati; è interessante da Qumran anche la testimonianza della presenza di un cerimoniale per l’esclusione del peccatore dalla vita della comunità (quello che qualcuno chiama scomunica). Il peccatore veniva escluso dalla vita della comunità (scomunica nel senso di ex-communicatio, come non poter più prendere parte alla vita della comunità, totalmente o per alcuni riti) con la possibilità di essere riammessi dopo il ravvedimento. Questo comportamento tenuto a Qumran è vicino anche alla prassi sinagogale, in cui lo scomunicato viveva in una sorta di stato di penitenza (come se fosse in lutto, o come se fosse un lebbroso).

Per il NT vediamo 3 annunci: quello di Giovanni Battista, quello di Gesù e quello di Pietro (At). L’invito di Giovanni è alla conversione in vista dei tempi ultimi; l’invito di Gesù è alla conversione per riconoscere il Regno di Dio da lui inaugurato; il discorso di Pietro invita alla conversione in vista della fede e del Battesimo. Anche in Ap 2-3, ovvero nelle lettere agli angeli delle 7 chiese, ritroviamo l’invito alla penitenza e alla conversione.
Altro riferimento, più problematico nell’interpretazione teologica, è quello di Gesù penitente: come si fa ad affermare che Gesù è penitente (battesimo al Giordano), se la penitenza è per i peccati? Tommaso afferma che qui non si deve intendere la penitenza in senso stretto: Cristo ha voluto subire la pena non per i propri peccati, ma per i peccati degli altri.
Altri riferimenti li prendiamo da altri 2 testi dei vangeli. Il primo testo è la guarigione del paralitico (per la quale dobbiamo tenere presente la triplice tradizione: Mt 9; Mc 2; Lc 5): in questo testo si racconta della guarigione di questo paralitico, al quale Gesù dice “Ti sono perdonati i peccati”; Mc e Lc riportano il pensiero degli scribi in cuor loro (solo Dio può perdonare i peccati), mentre in Mt gli scribi parlano. Gesù rivendica per il Figlio dell’Uomo (rimando escatologico) la exousia di rimettere i peccati. In Mt vi è un particolare importante: la folla rende gloria a Dio per un tale potere dato da Dio agli uomini. Nella redazione matteana vi può essere la convinzione della comunità primitiva che il potere stesso di Gesù è ora prerogativa degli uomini, cioè degli apostoli.
Il secondo testo di riferimento è quello della parabola del Padre misericordioso (Lc 15): questa parabola viene presentata come risposta alla mormorazione da parte degli scribi e dei farisei. In Lc 6 la misericordia è attributo di Dio (oiktìrmon): questo termine è la traduzione dell’ebraico rahamim, che fa riferimento alle viscere, al ventre materni. Dio è sì come il Padre della parabola, ma anche come una madre (a tal proposito il francese Andrè Chulaqi traduce oiktìrmon con matriciel).
Prima di confessare i peccati bisogna confessare il nome di Gesù salvatore, ma per poter fare questo è necessario il dono dello Spirito. In Rm 12,3 si afferma che nessuno può dire che Gesù è il Signore se non sotto l’azione dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo, disceso su Gesù nel Battesimo e rimasto su di lui, è Spirito della potenza messianica e della sapienza divina. Dopo la Resurrezione, è l’unico Spirito del Signore (to pneuma to kyrion = lo Spirito è il Signore) che può operare la penitenza, condizione esistenziale del sacramento, come atteggiamento dell’uomo e come sacramento della Chiesa. Nessuno può confessare o invocare il nome di Gesù se non nello Spirito. Grazie allo Spirito di Dio è possibile purificarci dalle opere della carne, alle quali è contrapposto il frutto dello Spirito (al singolare): questo perché bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu. Ci soffermiamo anche su Gv 13: qui viene utilizzato il verbo louein, che è il verbo utilizzato per esprimere il fare il bagno (rimando al Battesimo); è interessante vedere che, per il lavare i piedi, viene utilizzato un verbo diverso, il verbo niptein: vi sarebbe qui un’allusione a quella lavanda parziale che è il sacramento della Penitenza.

Quello che viene annunciato viene anche già praticato dalla Chiesa. Ecco i passi biblici, che vengono usate come fondamento del sacramento della penitenza, divise in 3 gruppi: 1) Mt 26,28; 2Cor 5,18-19; 2) 2Ts 3,6-15; 1Cor 5,1-13; 2Cor 2,5-11; Gal 6,1-2; 1Tm 1,18-20; 1Tm 5,19-22; 2Tm 2,24-26; 3) Mt 18,15-18; Gv 20,19-23.
Al primo gruppo appartengono l’istituzione dell’Eucarestia in Mt e il passo in cui Paolo allude al ministero della riconciliazione: il logos della riconciliazione si fa diakonia. Strumento di questa riconciliazione è la Chiesa, con le sue strutture e con la sua comunità. Nel corso dei secoli questa dimensione comunitaria è andata un po’ perduta e il sacramento della Penitenza è stato amministrato talora al di fuori di un contesto liturgico e di una ritualità.
Il problema dei peccatori nella comunità è già evidente nelle lettere paoline (testi del secondo gruppo): questo non era solo un problema dei singoli peccatori, ma anche di tutta la comunità, in quanto il male fatto da uno solo ricade su tutti; inoltre c’è il pericolo che si crei un’abitudine al male e al peccato. In questo contesto assumono valore e importanza alcuni comportamenti dell’Apostolo. In 2Ts 3,6-15 c’è un fratello che vive in modo sregolato; l’Apostolo ordina di tenersi lontani e di prendere nota di lui: ciò si riferisce ad una sorta di sentenza pronunciata dalla comunità nei confronti di questo fratello (nel linguaggio successivo questa sentenza è quella che verrà chiamata scomunica, ovvero l’uscita dalla comunione). Tuttavia, anche se viene presa una decisione nei suoi confronti, il fratello rimane pur sempre fratello.
1Cor 5 è la testimonianza più chiara di come la comunità cristiana debba affrontare la situazione di un peccatore: è il caso di una persona che vive con la moglie di suo padre; ciò costituisce una vergogna per l’intera comunità. Visto che la comunità non è intervenuta, Paolo interviene in maniera energica, ordinando che tale individuo venga consegnato a Satana per la rovina della carne perché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore. Si tratta di una vera e propria scomunica, di un’esclusione dalla vita della comunità. Per comprendere quanto Paolo dice dobbiamo tenere presente l’antropologia neotestamentaria; vi è anche un riferimento demonologico.
2Cor 2,5-11 fa riferimento ad una riconciliazione: la comunità è qui intervenuta verso il peccatore, gli ha comminato un castigo proporzionato alla colpa commessa; ora però bisogna utilizzare misericordia verso questo fratello, la pena ha sempre funzione medicinale: d’altronde, se si insiste molto sulla pena, si rischia di fare il gioco di Satana (ancora un riferimento demonologico).
In 1Tm Paolo fa riferimento ad Imeneo e Alessandro affermando che egli li ha consegnati a Satana perché imparino a non bestemmiare. In 1Tm 5 Paolo invita Timoteo a non aver fretta a imporre le mani per non farsi complice del peccato altrui: qui l’imposizione delle mani si riferisce alla remissione dei peccati.
Anche in 2Tm 2 vi è un riferimento demonologico.
Guardiamo alla terza colonna di testi, tenendo presente anche quanto abbiamo già detto per Mt 9,1-8, cioè la guarigione del paralitico, in cui la folla loda Dio perché Dio ha dato un tale potere agli uomini. La tradizione cattolica, che trova la sua espressione massima nel concilio di Trento, prende il testo di Gv come fondamento del sacramento della Penitenza, sebbene anche il testo di Mt 18 ha una sua utilizzazione e viene spesso commentato già dai Padri. Per quanto riguarda Mt 18, di essa si prende in esame il potere di legare e di sciogliere, confrontandolo però con Mt 16, dove il potere di legare e di sciogliere viene dato a Pietro. Inoltre Mt 18 va visto nel contesto, che è quello del discorso ecclesiale. Il testo ha avuto una molteplicità di interpretazioni, ci serviamo dell’interpretazione di Jean Galot. Se non ci si è riusciti a riconciliare con il fratello mediante le regole della Legge o della sinagoga, bisogna cercare altri mezzi fuori della procedura ebraica, così come quelli che vengono utilizzati per pagani e pubblicani. Circa il legare e lo sciogliere, questa espressione ha avuto 3 interpretazioni nel corso della storia:

-        giuridica: è quella più diffusa.
-        ecclesiologica:
-        demonologica: Vorgrimler (alunni di Rahner) è stato il primo a proporre questa interpretazione. Effettivamente legare-sciogliere sono legati al mondo magico e dei sortilegi in alcuni testi antichi orientali e rabbinici. La Chiesa permetterebbe che le potenze malefiche prendano possesso di un peccatore (legare), nel senso che costui è stato preso con il laccio da Satana, che li ha presi dal     “campo” di Cristo. Ma quando costui dà segni di conversione egli viene liberato dall’influsso demoniaco.

Nell’interpretazione di questi testi siamo stati troppo legati alla prassi del sacerdote nella confessione, che è quella di assolvere o meno: ciò ha influenzato l’interpretazione dei testi biblici. Ma come vanno invece interpretate queste immagini (legare-sciogliere, aprire-chiudere)? Nel linguaggio biblico queste immagini indicano le estremità di un fatto e quindi il fatto nella sua totalità. La exousia che Cristo partecipa alla Chiesa non è alternativamente quella di legare o di sciogliere, di assolvere o non assolvere, di salvare o condannare, ma si tratta del potere unico, totale di legare per sciogliere (imporre la penitenza per sciogliere dal peccato), si tratta di un’unica potestà positiva di salvezza. La potestas è sempre per la salvezza.

Anche Gv 20 va interpretato nella stessa ottica. Il rimettere è riferito ai peccati dei cristiani in quanto sono un’offesa a Dio e alla Chiesa, mentre il ritenere non è un semplice non rimettere, ma ha un significato simile a quello di legare e di vincolare il peccatore a seconda della gravità del peccato, di obbligarlo a compiere certe condizioni che lo portino alla comprensione di ciò che ha fatto e lo conducano alla salvezza. Gesù Risorto si presenta come shalom. Il soffio dello Spirito ricrea.
Sciogliere-legare, rimettere-ritenere sono due immagini che fanno riferimento ad un exousia, non contrapposta, ma in vista della salvezza.

Passiamo ora a vedere la storia del sacramento della Penitenza.
Essa è una storia disomogenea: la Penitenza è stata celebrata in forme molto diverse fra loro. Quello che è fondamentale è che, se un sacramento è stato istituito da Cristo e il Concilio di Trento lo riconosce tale va conservata quella che è la sua intima essenza, pur cambiando le modalità; il problema sta nell’individuare l’intima essenza, soprattutto nel caso di alcuni sacramenti.
Il Battesimo assicura la purificazione dei peccati, ma, poiché dopo il Battesimo, non si è fedeli, c’è bisogno di un secondo Battesimo, di una seconda penitenza. Questa riconciliazione viene riavviene sacramentalmente nell’Eucarestia. Nella Chiesa antica venne stabilito un tempo di 40 giorni prima della Pasqua che servisse sia ai catecumeni per prepararsi al Battesimo sia ai penitenti per pentirsi dei loro peccati, anche se essi non avevano deciso di entrare nell’ordine dei penitenti. L’essenza sta nel fatto che la riconciliazione del peccatore avviene nella Chiesa: ma attraverso quali forme?
Le forme dei primi secoli sono molto differenti da quelle del XII-XIII sec. in poi. Da una parte vi è il penitente, dall’altra vi è la Chiesa chiamata ad intervenire su questo fratello: essa interviene particolarmente per mezzo del ministro della Chiesa stessa. Il sacramento della Penitenza è composto da alcuni atti, 3 del penitente (contritio, confessio e satisfactio) e 1 del ministro (absolutio). È evidente che tutto questo è inserito nella vita della Chiesa. I termini che indicano questi atti non sono sempre stati usati nel senso che noi diamo oggi a questi termini: per esempio, oggi si parla di absolutio peccatorum, mentre un tempo si parlava di absolutio penitentiae (che era il compiere la penitenza imposta).

Per parlare della realtà della penitenza, Paolo utilizza l’espressione diakonia della riconciliazione, mentre Gv utilizza i verbi afiemi (rimettere) e kratein (ritenere), due verbi che stanno ad indicare l’azione nella sua totalità: l’atteggiamento della Chiesa deve essere quello di ritenere per rimettere, di legare per sciogliere. È necessario che il peccatore prenda coscienza del peccato e che si dia un insegnamento a tutta la comunità. Perciò, in antichità, coloro che avevano commesso peccati particolarmente gravi erano chiamati ad entrare nell’ordo poenitentium. L’ordo è un gruppo qualificato legato a regole particolari. Chi viene ammesso a questo ordine (ed è il vescovo il moderatore della disciplina penitenziale) rimane in questo ordo per tutta la vita. Ecco perché si afferma che la penitenza non era reiterabile: tale affermazione è poco precisa, in quanto applichiamo alla prassi di quei secoli la prassi odierna. Il peccatore confessava poi i peccati al vescovo, che faceva presenti quelle che sono le condizioni: il peccatore doveva restare per sempre in questo ordo, stabiliva il cammino da fare (che poteva avere un tempo non fisso, vario); durante questo tempo, se il penitente si manteneva fedele, egli veniva absolutus, cioè sciolto dagli obblighi penitenziali: il penitente poteva partecipare all’Eucarestia, rimanendo comunque nell’ordo poenitentium con degli interdetti. Cosa si intende per interdetti? Si trattava di alcuni limiti: non ci si poteva sposare, non si poteva accedere a cariche pubbliche, etc. Se dopo l’absolutio si commetteva qualche altro crimine grave, il penitente non poteva più fare quel cammino che portava ad una nuova riconciliazione alla fine della Quaresima (per questo si diceva non reiterabile).
Questa severità, ritenuta eccessiva da molti, ha portato a conseguenze molto diverse nella Chiesa: una delle conseguenze è stata il fatto che i vescovi stessi sconsigliavano di entrare nell’ordo poenitentium coloro che erano troppo giovani, per timore che essi non fossero coerenti con la scelta fatta. Altra conseguenza è stato quel fenomeno che caratterizza IV e V sec. di coloro che, pur nascendo da genitori cristiani, non vengono battezzati dopo la nascita, pur essendo iscritti nel numero dei catecumeni. Perché questo? Sia perché uno potesse scegliere da adulto l’adesione alla fede, sia perché queste scelte erano dettate da un certo lassismo e da una volontà di non volersi assumere gli impegni cristiani.
Quello che è importante ricordare è che tutto è sotto il vescovo, che è moderatore della disciplina penitenziale nella sua Chiesa: questa disciplina penitenziale, fissata nei vari canones, era sotto la sua tutela. Non esisteva, come si vede, la confessione così come la intendiamo oggi.
Nei luoghi in cui non vi era la struttura diocesana (es. isole britanniche) avevano un ruolo centrale i monaci presenti sul territorio. Alcuni di questi monaci applicano anche ai fedeli laici quella che è la tipica disciplina penitenziale propria del monastero per i monaci. Quando un monaco trasgrediva la regola, costui confessava i propri peccati ad un altro monaco, il quale assegnava una penitenza in base ai criteri stessi della regola: quando questa penitenza veniva compiuta, vi sarebbe stata l’absolutio. Tale disciplina penitenziale la applicano anche per i peccati quotidiani (veniali). Non abbiamo molte testimonianze sulla forma.
Tuttavia poteva succedere un problema: dopo aver svolto la penitenza, il fedele tornava al monastero, ma il monaco non c’era più. Per questo si instaura la prassi di concedere l’absolutio prima che venga compiuta la penitenza e di ritenere che, una volta compiuta la penitenza, il fedele era anche assolto dai peccati: l’absolutio paenitentiae comporta l’absolutio peccatorum.
Questo comincia a diffondersi grazie ai monaci che giravano nei monasteri. Come si evince, questa pratica penitenziale si riferiva non solo ai peccati gravi, ma anche a quelli più lievi. A presiedere questi riti era di solito un monaco, con il fatto che il monaco poteva anche non essere prete.
I monaci poi attraversano il canale della Manica e giungono nel continente europeo e la prassi si diffonde. Nel 589, nel concilio di Toledo, alla presenza dei vescovi spagnoli e della Gallia Narbonense, si afferma che in certe chiese di Spagna i fedeli fanno penitenza dei loro peccati non secondo la forma canonica ma in un modo scandaloso: ogni volta che hanno peccato si rivolgono ad un sacerdote per ottenere la riconciliazione; per reprimere questo, il concilio decreta che si dia la penitenza secondo la forma canonica stabilita dai padri. Ma nonostante questo, fedeli e preti continuano ad attuare la pratica: questa disciplina penitenziale finisce così con l’essere accettata.
Ci sarebbe in verità un’altra forma penitenziale, che si sviluppa soprattutto nei secoli successivi: si tratta della penitenza pubblica non solenne (l’antica forma canonica era invece solenne), che consisteva essenzialmente nell’andare in pellegrinaggio (Gerusalemme, Roma, Santiago). Questi pellegrini sapevano che, quando arrivavano a destinazione, c’era la absolutio in quanto il pellegrinaggio era stata la loro penitenza.
Queste 3 prassi non erano però codificate bene. Iniziano però ad essere stilati dei libri paenitentiales, molti dei quali sono stati conservati: essi servivano ai confessori per avere dei criteri. È qui che si fa riferimento alle taxae, che non sono originariamente delle tariffe da pagare per la penitenza: penitenza tariffata non sta a significare che vi fosse denaro da pagare (per lo meno agli inizi). Le commutationes sono però una prassi che fa andare in crisi questo sistema: le commutationes erano delle somme di denaro o alcune celebrazioni di messe in cambio della penitenza che doveva essere svolta (questo era uno degli abusi); altro abuso era quello di far fare la penitenza a qualcun altro al proprio posto, pagandolo (erano i più ricchi a fare questo).
L’istituzione delle crociate si inserisce in questo contesto: chi partecipava alla crociata poteva avere uno sconto o addirittura l’indulgenza legata al compiere una particolare azione. Interessante è anche l’inizio della reservatio, ovvero il fatto che i vescovi riservano a sé determinati peccati, che possono essere assolti unicamente da lui.
Una tappa fondamentale è quella dell’anno 1215, con il concilio Lateranense IV, quando sono stati inseriti 2 obblighi: l’obbligo della comunione pasquale e l’obbligo della confessione annuale. Il Concilio stabilisce che l’obbligo della confessione vada assolto con il “proprio sacerdote”, ovvero con il parroco, sebbene questa disciplina incontra subito eccezione (in quanto a prevalere è sempre la salus animarum). La crisi legata alle opere penitenziali porta al fatto che la confessio diventa centrale, assumendo un ruolo che in un certo senso “oscura” la contritio e la satisfactio, tanto che il sacramento viene chiamato “confessione”. Certamente non viene negata la necessità della contritio e della satisfactio (Tommaso ricorda che sono necessarie tutte e 3 per il sacramento), ma l’importanza viene focalizzata sulla confessione dei peccati, al punto tale che, se uno non è sufficientemente contrito dei propri peccati, la confessione dei peccati rende piena l’attrizione (pentimento non perfetto) facendola divenire contrizione (pentimento perfetto). Rimane a questo punto il problema della satisfactio.
Quando il concilio di Trento si troverà a dover riaffermare l’istituzione divina di questo sacramento contro la Riforma e quando Trento dovrà motivare la confessio auricolaris, si afferma l’obbligo ex iure divino di confessare tutti e singoli i peccati mortali con le circostanze che mutano la specie. Questa insistenza sul fatto di confessare tutti e singoli i peccati con le circostanze che mutano la specie si basa sul fatto che il sacerdote deve poter esercitare la sua funzione: il confessore è maestro, dottore e giudice. Trento perciò definisce l’atto del confessore (in particolare l’assoluzione) come un actus iudicialis, tanto è vero che si parla anche di tribunale del sacramento della penitenza. Comincia a diffondersi questa terminologia giuridica in riferimento al sacramento della Penitenza. Per poter giudicare è necessario sapere i peccati, in modo da poter dare la penitenza adeguata. Qui è prevalsa una lettura giudiziale-tribunalizia: la penitenza deve essere conforme ai peccati confessati.


Come in ogni sacramento, anche la Penitenza è esercizio del sacerdozio della Chiesa, sia comune che ministeriale: vi è da una parte la mediazione del sacerdozio ministeriale, data soprattutto dalla parola efficace di fede/perdono costituita dall’absolutio; dall’altra, vi è qualche teologo che parla di causa strumentale in riferimento al penitente, in virtù del suo carattere battesimale. Il penitente è chiamato a porre quelli che la tradizione cattolica ha definito i 3 atti del penitente:

-        contritio
-        confessio
-        satisfactio

Altra tematica è quella della Penitenza nell’economia sacramentale.
Il collegamento col Battesimo è evidentissimo, anche a partire dalla storia: in antichità la Penitenza veniva definita come paenitentia secunda o recordatio Baptismi.
Rispetto all’Unzione degli Infermi, si può sottolineare l’aspetto tipico dell’Unzione, che è il sollievo dato all’infermo, ma soprattutto il fatto che uno degli effetti del sacramento dell’Unzione è proprio il perdono dei peccati.
Molto forte è il legame con l’Eucarestia: questo legame, che è strutturale, è stato, nella prassi ecclesiale, ridotto solo ad un aspetto. L’origine di questa riduzione sta nel 1215, quando il Concilio Lateranense IV obbligò a comunicarsi e confessarsi almeno una volta l’anno; questo portò però a considerare la Penitenza unicamente nella prospettiva della comunione. Nel porre l’atto della contritio vi è un votum Eucharistiae.


Passiamo ora a parlare dal penitente. Il cammino di conversione parte da Dio: la reconciliatio non è da intendersi semplicemente come l’effetto del sacramento, ma come l’iniziativa di Dio. Circa il penitente, dobbiamo parlare dei 3 atti del penitente: nonostante nel corso della storia si sia insistito su uno di questi atti a discapito degli altri, essi sono parimenti importanti ai fini della celebrazione piena del sacramento. Essi sono: contritio, confessio, satisfactio. Soprattutto la satisfactio è oggi in crisi, soprattutto a causa di molti confessori.
Il penitente deve essere disposto alla conversione con il ripudio dei peccati e il proposito di emendarsi.
Chiariamo innanzitutto la contritio. Nella teologia latina si è distinto contritio e attritio. Per la contritio abbiamo la definizione del Concilio di Trento (sess. XIV, cap. 3): è il dolore nell’animo e riprovazione del peccato commesso, accompagnati dal proposito di non peccare più in avvenire. Si tratta perciò di un atto che si compie nell’oggi, rivolto però sia al passato (peccati commessi) sia al futuro (proposito di non peccare più). La contritio perfetta è la contritio charitate perfecta: è la carità a rendere perfetta la contrizione. Si esige quindi un atto di amore perfetto, secondo le capacità e le possibilità dell’uomo, che rimane sempre imperfetto. È desiderare che Dio sia amato sopra ogni cosa da tutti, in quanto Dio è il sommamente buono: questa è la carità che rende perfetta la contrizione.
L’attrizione (contrizione imperfetta) nasce da un amore imperfetto: perciò si ama Dio non per se stesso, ma perché lui è buono per me, oppure perché si teme il castigo divino.
La contrizione perfetta rimette già i peccati veniali e, se accompagnata dal votum, rimette anche i peccati mortali: il votum è il desiderio a completare quanto prima il sacramento con la confessione e la soddisfazione. Qualora non vi sia stata prima la contrizione perfetta, con la confessione e la soddisfazione il penitente da attrito diventa contrito, in virtù della grazia del sacramento.
Le caratteristiche della contrizione sono state individuate dalla teologia morale:

-        vera: deve essere un atto della volontà, per cui non basta solo un vago desiderio di non peccare più, e che deve essere esternato;
-        soprannaturale (charitate perfecta);
-        il penitente deve essere disposto a rinunciare a qualsiasi bene o male per ottenere il perdono;
-        universale: deve riguardare tutti i peccati

Per la contrizione è utile e necessario l’esame di coscienza.
Aspetto molto importante è il proposito per l’avvenire: nel proposito per l’avvenire è compreso un aspetto molto importante, che è quello di fuggire le occasioni prossime di peccato, che è un punto molto delicato. L’occasione prossima è una circostanza esterna che incita al peccato rendendone facile l’esecuzione. L’occasione di peccato può essere remota o prossima, volontaria o necessaria:

-        remota/prossima non va inteso in solo senso geografico;
-        necessaria significa che non si può evitare quell’occasione senza grave danno.

La confessio è segno del pentimento. Trento ha stabilito la necessità iure divino della confessione integra dei peccati mortali, dei quali il penitente ha coscienza e memoria. Il can. 988 precisa che il fedele è tenuto all’obbligo di confessare, secondo la specie e il numero, tutti i peccati gravi commessi dopo il Battesimo e non ancora direttamente rimessi né accusati nella confessione individuale, dei quali abbia coscienza dopo un diligente esame.
La confessione è un gesto liturgico semplice e solenne, è un chiamare per nome il peccato, in quanto il confessore, svolgendo il suo compito di giudice, di maestro e di medico, può aiutare il penitente e assolverlo dai peccati. L’obbligo di per sé riguarda i peccati gravi o mortali, che ha come oggetto materia grave con piena avvertenza e deliberato consenso; nel caso di peccati veniali, non sussiste propriamente l’obbligo della confessione, anche se è raccomandato che essi vengano confessati. Vanno confessati i peccati commessi dopo il Battesimo e non ancora confessati o assolti.
Un grosso problema è quello dell’integrità della confessione. Stando al Concilio di Trento e alla morale e al diritto, vanno confessati i peccati secondo:

-        il numero
-        la specie: esiste una specie teologica (peccato mortale o veniale) ed esiste una specie morale (commettendo i peccati si va contro le virtù).
-        le circostanze che mutano la specie.

Bisogna precisare che si distinguono un’integrità materiale e un’integrità formale. L’integrità materiale è quella oggettiva, mentre quella formale è soggettiva: si ha integrità materiale quando vengono confessati tutti e singoli i peccati mortali realmente commessi e non ancora assolti, che vengono confessati secondo il numero, la specie e le circostanze che mutano la specie. L’integrità formale si ha quando il penitente, tenuto conto della situazione in cui si trova al momento della confessione, confessa tutti i peccati che può accusare. L’obbligo è quello dell’integrità formale: bisogna tenere conto delle cause dovute a impossibilità fisica o morale, che rendono impossibile l’integrità materiale.
Cause di impossibilità fisica sono: una grave malattia del penitente, la perdita della memoria, l’impossibilità di comunicare con il confessore per gravi deficienze fisiche. Cause di impossibilità morale si hanno quando la confessione di determinati peccati potrebbe essere di grave danno materiale o spirituale per il penitente, per il confessore o per entrambi.

Le penitenze (satisfactiones) devono essere salutares et convenientes rispetto al penitente: bisogna tener conto della condizione fisica, morale, spirituale del penitente; inoltre si è voluto sottolineare che è il penitente che deve compiere la satisfactio (ovviamente nei limiti del possibile). Il penitente deve accettare l’opus che gli viene data oppure far presente che essa sia o troppo leggera o troppo grave. Se il penitente si trova in difficoltà a fare una penitenza, può chiedere ad un altro sacerdote di cambiare la penitenza? Deve rivolgersi ad un altro confessore e confessarsi.

Le norme del diritto a proposito del ministro sono fondamentalmente le stesse sia per i latini che per gli orientali; vi sono delle differenze a proposito delle limitazioni e delle riserve, laddove viene ad essere coinvolto il diritto penale, in quanto il diritto penale orientale è un po’ diverso da quello latino.
Il CJC afferma che il ministro della penitenza è il solo sacerdote (solus sacerdos). Il Vaticano II afferma che i vescovi sono i moderatori della disciplina penitenziale: dicendo solus sacerdos il CJC vuole escludere i diaconi e i laici. Non è però sufficiente che vi sia la potestas ordini, ma si richiede che vi sia anche la facultas di confessare: rispetto al precedente Codice, che parlava di potestà di Ordine e potestà di giurisdizione, il nuovo CJC ha modificato questa prospettiva (la potestà di giurisdizione rientra solamente in 2-3 casi). La finalità, la prospettiva non può che essere la salus animarum, che perciò non deve essere ostacolata, sempre però nel rispetto di alcune norme. La necessità della facoltà è stata mantenuta perché l’autorità competente possa mantenere un maggiore controllo sull’esercizio di questa facoltà.
La facoltà viene concessa ipso iure in forza dell’ufficio oppure, se non si ha la facoltà ipso iure o vi officii, bisogna chiedere la facoltà all’autorità competente. Il Romano Pontefice, i cardinali e i vescovi hanno ipso iure la facoltà di confessare; ad avere la facoltà vi officii sono gli ordinari diocesani, il canonico penitenziere, il parroco e chi ne fa le veci (amministratori parrocchiali, vicari parrocchiali che sostituiscono il parroco assente o impedito, i cappellani, il rettore del seminario. Stando al can. 967, si afferma che chi ha la facoltà in forza dell’ufficio può esercitarla ubique, purché non vi sia una disposizione contraria dell’Ordinario del luogo. I Superiori religiosi hanno facoltà di ricevere le confessioni solamente dei propri sudditi e di quanti abitano nella casa notte e giorno.
Per ottenere la facoltà, i sacerdoti devono rivolgersi all’Ordinario del luogo, o dove sono incardinati o dove hanno il domicilio. L’Ordinario del luogo deve ovviamente conoscere colui a cui dà la facoltà: se non è un presbitero incardinato nella sua diocesi, egli deve prima sentire l’Ordinario di questo sacerdote. La facoltà può essere concessa a tempo indeterminato o determinato, oppure può essere concessa con dei limiti.

Passiamo ora alle limitazioni.
Un vescovo diocesano può impedire di confessare ad un altro vescovo o ad un altro sacerdote nel proprio territorio. I Superiori maggiori religiosi possono dare la facoltà ad un loro presbitero.
La facoltà si perde o per fine del tempo per il quale era stata data o per revoca o per cessazione dell’ufficio o con l’escardinazione o con la perdita del domicilio, che per i religiosi è determinato dall’iscrizione ad una casa dell’Istituto stesso.
In caso di pericolo di morte, un penitente può essere assolto da qualunque presbitero (sia senza facoltà o persino dimesso dallo stato clericale).
Altri casi sono quelli dell’errore e del dubbio, ai quali si può assimilare anche l’inavvertenza. Sono casi nei quali la facoltà viene supplita. Quando vi è errore comune di diritto o di fatto, la Chiesa supplisce alla mancanza di facoltà: si tratta della falsa supposizione che un sacerdote abbia la facoltà. Il dubbio deve essere positivo e probabile: un sacerdote ha ricevuto la facoltà, ma non ricorda per quanto tempo l’abbia esattamente ricevuta; oppure non ricorda se si tratta di un peccato riservato. L’inavvertenza è quando il sacerdote non si pone nemmeno il dubbio se abbia o meno la facoltà.
Circa la facoltà riservata, vi possono essere dei peccati che l’autorità superiore riservi per sé l’assoluzione di essi. Un peccato può essere riservato o ratione sui (stabiliti dal vescovo) o ratione censurae (vi è una censura per cui non si può ricevere il sacramento). Nel diritto latino le pene possono essere sia ferendae sia latae sententiae. Nel diritto orientale la Sede Apostolica riserva per sé unicamente la violazione del sigillo sacramentale e l’assoluzione del complice contro il sesto comandamento.
I due casi di scomunica latae sententiae non riservati alla Sede Apostolica sono:

-        apostasia, eresia, scisma;
-        aborto effecto secuto.

Riservati alla Sede Apostolica sono:

-        profanazione delle specie eucaristiche
-        violenza fisica contro il Papa
-        assoluzione del complice
-        consacrazione illegittima di un vescovo
-        violazione diretta del sigillo sacramentale

Sono stati aggiunti altri due casi:

-        registrazione di contenuti riguardanti la confessione (non riservata alla Sede Apostolica)
-        attentata ordinazione sacra di una donna.

Interdetti si hanno nel caso di:

-        violenza fisica contro un vescovo;
-        celebrazione eucaristica o assoluzione attentata da parte di chi non ne ha la facoltà;
-        falsa denuncia di sollecitazione;
-        attentato matrimonio di un religioso di voti perpetui.

Per incorrere in una pena canonica, la condizione più importante è che il peccatore sia consapevole di incorrere in quella pena canonica; le altre condizioni le ritroviamo ai cann. 1123-1124. Per incorrere nella scomunica latae sententiae ci vuole la maggiore età.
Chi è caduto nella scomunica o nell’interdetto latae sententiae non può ricevere i sacramenti
Se uno è incorso in una di queste censure, si deve prima vedere se la pena sia riservata o meno alla Sede Apostolica. In caso sia riservata alla Sede Apostolica, tribunale competente è la Congregazione per la Dottrina della Fede; ma, per mantenere la riservatezza circa il penitente, si può ricorrere in foro interno alla Penitenzieria Apostolica.
I cardinali possono assolvere da tutte le censure latae sententiae, ad eccezione dell’ordinazione di un vescovo senza il mandato del papa e la violazione del sigillo sacramentale.
Il canonico penitenziere ha facoltà ordinaria non delegabile. Il sacerdote può assolvere dalle censure latae sententiae non riservate in pericolo di morte; anche i cappellani degli ospedali, delle carceri e delle navi possono assolvere dalle censure non riservate.
Per le censure riservate, molto importante è il can. 1357: ogni sacerdote con facoltà può assolvere dalle censure anche riservate qualora sia gravoso per il penitente rimanere in stato di peccato grave per il tempo necessario a che il superiore competente provveda. Il confessore, nel concedere la remissione, imponga al penitente l’onere di ricorrere entro un mese, sotto pena di ricadere in una censura, al superiore competente. Intanto il confessore deve imporre una penitenza congrua. Il ricorso può essere fatto anche dal confessore, senza far menzione del nome del penitente.

Passiamo al sigillo sacramentale. Esso è inviolabile. Qui non si parla di segreto, ma di sigillo: nel linguaggio della Chiesa, dire “sigillo” significa dire qualcosa di più di un semplice segreto. Quella del sigillo sacramentale è una legge che si è affermata un po’ alla volta nella Chiesa, tenuto conto della prassi penitenziale nella Chiesa (si pensi ai primi secoli). Esso non mira solamente a tutelare la buona fama del penitente o a evitare lo scandalo, ma è posto a tutela del sacramento stesso. Il Concilio Lateranense IV afferma che il confessore che viola il sigillo sacramentale deve essere deposto dall’ufficio sacerdotale e deve essere rinchiuso in un monastero dove deve fare penitenza per tutta la vita.
Se non ci fosse il sigillo, infatti, vi sarebbe un grave danno nei confronti del sacramento stesso. Il sigillo, che riguarda il solo confessore e sorge dalla confessione sacramentale, non ammette eccezioni, vale verso chiunque (di per sé anche verso lo stesso penitente). Cade sotto il sigillo i peccati accusati, le circostanze, i particolari aggiunti quando la loro manifestazione renderebbe noto il peccato e il penitente; cade sotto il sigillo il fatto di aver rifiutato l’assoluzione. Se c’è dubbio che qualcosa cada sotto sigillo, esso va mantenuto. Il penitente può autorizzare il confessore a parlare di alcuni peccati confessati (p. es. in direzione spirituale): il penitente deve farlo in maniera libera e formale. Il penitente non può autorizzare il confessore a servirsi di quanto gli ha rivelato in confessione per una qualsiasi utilità, sia per un bene comune che per un bene di terzi (can. 1550): si pensi al caso di un processo, anche quando è il penitente a chiedere di rendere una testimonianza.
La violazione del sigillo può essere diretta o indiretta: la scomunica latae sententiae è per la violazione diretta. Si ha violazione diretta quando si manifesta in maniera chiara il peccato e il penitente, anche quando gli ascoltatori non conoscono il penitente. Colui che viene a conoscere il contenuto di una confessione sacramentale è tenuto anch’egli al segreto. Il penitente, di per sé, non è tenuto, ma rimane per lui il dovere di tenere il segreto naturale per ciò che il confessore gli dice.
Possono succedere degli errori del confessore nell’amministrare il sacramento della Penitenza, che possono riguardare addirittura l’essenza del sacramento stesso, l’integrità della confessione, la giustizia violata nei confronti del penitente o di un’altra persona. Proprio la legge del sigillo sacramento rende assai difficile la riparazione.
Con l’obbligo del sigillo è connesso l’obbligo di non fare uso di ciò che si sa dalla confessione, quando ciò possa risultare dannoso per il penitente o per altri, anche quando non c’è il pericolo di violare il sigillo.
Alcuni abusi: ricercare il nome del complice semplicemente per curiosità. Casi molto gravi sono:

-        assoluzione del complice in peccato contro il sesto comandamento: questa assoluzione non può essere data, in quanto viene tolta la facoltà. L’assoluzione è invalida, eccetto che in pericolo di morte. Chi va contro questa disposizione incorre nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica. Questo va interpretato nel senso più stretto e rigido. Quando si dice complice, si intende qualsiasi persona con cui un confessore abbia commesso peccato. Il peccato può essere stato commesso anche prima dell’ordinazione sacerdotale;
-        sollecitazione (cann. 982; 1389; 1390). Già condannata da Benedetto XIV, questo crimine è stato duramente condannato da un’istruzione del Sant’Uffizio del 1962, da Giovanni Paolo II in un Motu Proprio che spiegava le norme circa i delicta graviora e da Benedetto XVI con un altro Motu Proprio del luglio 2010. Il sacerdote che sta confessando, o in occasione o con il pretesto, cade nella sollecitazione quando induce il penitente a commettere cose turpi. Si cade nella sollecitazione sia quando il penitente accetta sia quando rifiuta.
In questo caso non vi è una censura latae sententiae, ma, a seconda della gravità del delitto, il sacerdote deve essere punito con una pena congrua, fino ad arrivare persino alla dimissione dallo stato clericale.
Può avvenire però una falsa denuncia di sollecitazione.

Il confessore, in quanto giudice, deve informarsi circa la causa del peccato, facendo al penitente domande opportune. Egli deve anche verificare le disposizioni del penitente (se vi sia sincerità e pentimento).
In quanto medico, il sacerdote deve verificare le cause della caduta e imporre le penitenze medicinali.
In quanto maestro, molto spesso il sacerdote si trova a dover istruire il penitente sui fondamenti cristiani e sui fondamenti del sacramento stesso.
Il confessore deve avere scienza sufficiente, deve studiare e tenersi costantemente aggiornato. Qualora si presentino casi difficili, il confessore è chiamato a riconoscere umilmente la sua incapacità nell’affrontare un caso.
Altra virtù richiesta al confessore è la prudenza. A tal propositori ci vuole: memoria, conoscenza del particolare (atto nella sua singolarità), docilità (nei confronti del Magistero soprattutto), deliberazione (capacità di ragionare), previsione o preveggenza verso il futuro, circospezione, precauzione.
Il confessore non può partire dalla presunzione che il penitente sia non solo peccatore, ma anche dissimulatore: omne factum praesumitur recte factum.


IL SACRAMENTO DELL’UNZIONE

Quando si parla di estrema unzione, il termine estrema viene riferito molto spesso alla fine della vita; in realtà, per estrema unzione, si intende semplicemente l’ultima unzione rispetto ad altre. Nel corso della storia l’Unzione degli Infermi è stata progressivamente spinta verso la fine della vita: addirittura alcuni lo hanno amministrato anche ai morti, ponendo la condizione che il soggetto potesse essere ancora vivo.
Il Rito italiano ha voluto legare il sacramento con una cura pastorale degli infermi, che si esprime non solo con il sacramento dell’Unzione, ma anche con gli altri sacramenti e  con la visita degli ammalati.
Cerchiamo di inquadrare la tematica con alcuni passaggi. L’indicazione più importante è quello della lettera di Giacomo; importanti sono anche la conoscenza dei 10 canoni del CJC e il rituale dell’Unzione con i suoi praenotanda.
La questione è allo stesso tempo pratica e teorica: è una questione che si pone già prima dell’era cristiana; essa era già presente nel mondo ebraico e in altre esperienze religiose e culture. La questione è questa: cosa fare dei malati? E perché c’è la malattia?
I termini malati e infermi non indicano esattamente la stessa cosa: nel termine malato c’è di mezzo il male; il termine infermo si riferisce invece a “colui che non è fermo”. È anche vero che la malattia può essere anche spirituale e non solo fisica. Nell’antichità i quesiti suddetti riguardava quei malati che avevano delle malattie inspiegabili; vi erano vari tentativi di soluzione, non scientifici nel senso moderno del termine (es. fluidi interni o umori, etc.). In ambito religioso, vengono elaborate una serie di spiegazioni: la malattia viene spesso vista come segno di una qualche colpa contro gli dèi. Nella Scrittura abbiamo il caso tipico del lebbroso: egli viene emarginato non solo perché la sua malattia è ripugnante, ma soprattutto perché egli è stato punito da Dio, in quanto egli ha commesso qualche peccato. Nella mitologia greca troviamo la figura di Filottete, nata dalla fantasia di Omero: egli aveva ricevuto in dono da Eracle un arco e delle frecce in quanto Eracle gli era riconoscente perché aveva acceso il rogo sul quale era agonizzante.  Con queste frecce Filottere era un guerriero invincibile. Sbarcato su un’isola per andare a pregare in un tempio (che probabilmente egli voleva in realtà profanare), egli fu morso da un serpente, che gli causò una ferita brutta e maleodorante e che lo faceva continuamente urlare. Tornato sulla nave, comandata da Ulisse e diretta a Troia, Filottete costituiva un fastidio per tutto: egli urlava sempre non permettendo agli altri di riposare; inoltre Ulisse teme soprattutto i fulmini della divinità: la divinità che ha punito Filottete può colpire anche quelli che stanno sulla stessa barca. Ulisse perciò abbandona Filottete su un’isola: avendo arco e frecce, egli può sopravvivere cacciando. Emerge chiaramente l’idea di fondo sul malato.

A rompere questa concezione è sicuramente il Vangelo. Ma già nell’AT troviamo già un’importante prefigurazione: Giobbe. Nella finzione poetica del libro, Giobbe è giusto, non ha peccato: ma come mai allora viene punito? Giobbe rivendica la sua innocenza, che alla fine viene riconosciuta. Può essere allora la malattia punizione per il peccato? La malattia allora si rivela come scandalo, come pietra d’inciampo.
Nel Vangelo emblematico è il caso del cieco nato: per quale peccato egli è stato punito se è nato già così? Hanno peccato i genitori? La questione deve essere allora ricompresa, sebbene essa resti tuttavia un mistero (nel senso storico-salvifico). Vi è allora la soluzione cristologica, che ammette un dolore salvifico; vi è anche il senso della compassione: il cum-patire è un soffrire insieme.
Nella sua missione Cristo associa a sé gli apostoli e i discepoli, perché vadano da coloro che hanno infermità e li aiutino e sostengano, ungendoli con olio: vi sono nei Vangeli testi che fanno riferimento a questo. Già Mc 6 annota questa usanza di ungere i malati e di guarirli. Ma il testo di riferimento che la Chiesa ha assunto come fondativo per il sacramento dell’Unzione è Gc 5,13-15.
Ma prima è bene fare un discorso sull’olio. Già nell’AT l’olio è simbolo del benessere e della benedizione di Dio, simbolo di forza; l’olio è anche visto come elemento curativo. Nel NT Cristo viene presentato come l’Unto.
La cura della Chiesa verso i malati e gli infermi non si è limitata al sacramento dell’Unzione, ma è una cura che viene messa in atto e che trova tantissime espressioni (es. fondazione degli ospedali, che originariamente accoglieva gli stranieri e in seguito accoglie i malati); negli ospedali gli ammalati si assistevano non in vista della guarigione (i mezzi erano scarsi), ma in vista di una buona morte. Agli ammalati veniva amministrata l’unzione, che divenne ben presto il sacramento dei moribondi: ma sacramenti dei moribondi è in realtà il viatico (in questo alcuni hanno voluto vedere un residuo pagano, che inserivano nella bocca dei morti una moneta per pagare il dazio a Caronte).

Gc scrive: “Se qualcuno sta male, preghi; se sta bene, si allieti; se qualcuno è infermo, faccia chiamare i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, ungendoli con l’olio nel nome del Signore. Salverai il malato e il Signore lo rialzerà; e se ha commesso dei peccati, verranno rimessi”.
Gc parla di una persona che asthenei: si tratta di un ammalato che non è capace di muoversi. Egli deve far chiamare i presbiterous della Chiesa, i quali devono pregare ep’autòn: questo lascia intendere che la preghiera fosse fatta con un’imposizione delle mani o della mano. Questa preghiera viene accompagnata da un’unzione (aleipsantes elaio) nel nome del Signore. Subito dopo si parla di euché tès pisteos (“preghiera della fede”): l’Unzione è preghiera fatta nella fede che Gesù è il Kyrios. Tre sono gli effetti di questa preghiera a cui Giacomo fa riferimento: la preghiera lo salverà (sosei) ed inoltre il Kyrios (cambia il soggetto) egerei (nei contesti di guarigione questo verbo ricorre per indicare il ristabilimento del malato: non è escluso ovviamente un riferimento al Signore Risorto); inoltre, se sono stati commessi dei peccati, essi vengono rimessi (afethesetai).
Il primo invito di Giacomo è quello di superare la solitudine dell’ammalato e far venire i presbiteri della Chiesa: anche oggi uno dei grandi rischi è il lasciare in solitudine l’ammalato. La malattia non è un caso privato, ma coinvolge tutta la comunità: vi è dunque un aspetto sociale della malattia. L’unzione non è una sorta di super-terapia: pregare significa cercare di dare un senso nella fede alla vita, alla condizione di malattia e agli sforzi per superarla; la malattia la si vive, non la si subisce: il malato resta protagonista della propria vita dinanzi a Dio. Le promesse di salvezza, che Gc annette al rito, devono aiutare a ripensare il concetto cristiano di salvezza: la salvezza cristiana è salvezza dell’uomo, di tutto l’uomo, attraverso la mediazione della Chiesa, della comunità e del suo ministro.
Molti di questi aspetti sono stati recuperati nel secolo scorso, dopo che per secoli essi erano rimasti in ombra. Per questo andiamo ai documenti recenti della Chiesa.
SC 73. dice che l’estrema unzione può essere chiamata Unzione degli Infermi; SC usa questa espressione qui in extremo vitae discrimine versantur: si fa riferimento qui all’estremo punto della vita. L’Unzione degli Infermi, dice SC, non è solamente il sacramento di costoro, che sono all’estremo della vita, ma di coloro che iniziano ad essere in pericolo di morte per infermità o vecchiaia. SC 74 afferma che, oltre ai riti distinti dell’Unzione e del viatico (i cui rituali vengono perciò distinti), si componga anche un ordo continuus per quando, per necessità pratiche, l’Unzione viene amministrata in un’unica celebrazione dopo la confessione e prima del viatico (molto importante è l’ordine sacramentale qui). SC 75 parla del numero delle unzioni e delle preghiere che accompagnano le unzioni e il rito. Quante unzioni e in quali parti del corpo? Questo rimane problematico.
Il 30.11.1972 la Costituzione Apostolica Sacra Unctione Infirmorumi di Paolo VI accompagna la promulgazione del rituale da parte del papa. Questo testo sintetizza alcuni punti fondamentali del rito dell’Unzione.
Dato che l’olio di oliva prescritto per la validità del sacramento in alcune regioni manca o è difficile reperirlo, si dà la possibilità di utilizzare anche altri oli vegetali. Il sacramento dell’Unzione degli Infermi si conferisce a quelli che sono ammalati con serio pericolo, ungendoli sulla fronte e sulle mani con olio debitamente benedetto. L’unzione deve essere accompagnata dalla formula “Per istam sanctam unctionem..”, che costituisce la forma del sacramento: essa riprende i 3 effetti contenuti nel testo di Gc. In caso di necessità è sufficiente fare un’unica unzione sulla fronte oppure, per particolari condizioni dell’infermo, in un’altra parte più adatta del corpo.
L’Unzione può essere ripetuta se l’infermo, dopo la prima unzione, sia guarito e poi caduto nuovamente nella malattia; oppure può essere ripetuta se il pericolo di morte ai aggrava ulteriormente.

Il can. 1003, par. 1, stabilisce che amministra validamente questo sacramento omnis et solus sacerdos. Su questa questione importante è intervenuta in una nota dell’11 febbraio 2005 della CdF. Tanti anni fa, il card. Vicario di allora, ordinando i diaconi, durante l’omelia, disse che anche essi potevano amministrare il sacramento dell’Unzione. La nota precisa che né diaconi né laici possono amministrare il sacramento: se diaconi o laici amministrano il sacramento, si tratta di simulazione di sacramento. In una lettera accompagnatoria ai presidenti delle Conferenze Episcopali, essendo pervenute varie domande circa il ministro del sacramento, la CdF intende mandare questa nota e anche un appunto sulla storia del sacramento su questa materia.

Il CJC (cann. 998-1007), riprendendo il Concilio e il Rito, stabilisce che, oltre al vescovo, possono benedire l’olio tutti gli equiparati al vescovo e, in caso di necessità, qualsiasi sacerdote nella celebrazione del sacramento stesso (se non ha l’olio benedetto). Il can. 1000 afferma che le unzioni vanno compiute secondo quanto stabilito dai libri liturgici; in caso di necessità, è sufficiente un’unica unzione sulla fronte o in un’altra parte del corpo. Al par. 2 di questo canone si dice che il ministro deve compiere l’unzione con la propria mano salvo che un’altra ragione suggerisca l’utilizzo di uno strumento. Il can. 1001 afferma che i parenti e i pastori di anime provvedano a che gli infermi possano ricevere questo sacramento. Il can. 1002 afferma che la celebrazione comune dell’Unzione degli Infermi di più infermi può essere compiuta secondo le disposizioni del Vescovo diocesano: qui si vogliono evitare al riguardo conflitti (come tra il cappellano dell’ospedale e il parroco) e per dare ordine alla celebrazione. Il can. 1003 riguarda il ministro dell’Unzione: oltre a dire che omnis et solus sacerdos può amministrare il sacramento, esso afferma che hanno il dovere e il diritto di amministrare l’Unzione tutti i sacerdoti a cui è demandata la cura delle anime ai fedeli che sono loro affidati; per una ragionevole causa, qualunque sacerdote può amministrare il sacramento con il consenso almeno presunto del sacerdote di cui sopra.
Gli ultimi 4 canoni riguardano il soggetto del sacramento. Il can. 1004 non fa altro che ripetere quanto già presente nel Concilio e in SUI, con due cambiamenti: il par. 1 dice che l’Unzione può essere amministrata al fedele che, raggiunto l’uso di ragione, a causa di infermità o vecchiaia, inizia a trovarsi in pericolo (non si specifica periculo mortis). Si deve perciò trattare di un battezzato che deve aver raggiunto l’uso di ragione (anche se poi lo ha perso: dunque non può essere ricevuto da un bambino molto piccolo); se non lo ha raggiunto, questo sacramento non può essere amministrato.
Il can. 1005 è un canone problematico, in quanto fa riferimento al dubium. Bisogna innanzitutto vedere l’oggetto del dubbio: circa il dubbio sulla validità dei sacramenti, generalmente non è lecito seguire il probabilismo, ma è necessaria una certezza; però, nel dubbio che l’infermo abbia già raggiunto l’uso di ragione oppure se sia gravemente ammalato o se sia morto (il rito steso dà l’indicazione dell’Unzione sotto condizione), il sacramento sia amministrato.
Il can. 1006 afferma che il sacramento venga amministrato a coloro che, pur non avendo ora un sufficiente uso di ragione, almeno implicitamente, ne avevano manifestato la volontà di riceverlo quando godevano di uso di ragione.
Il can. 1007 stabilisce che non vada conferita l’Unzione a coloro che perseverano ostinatamente in un peccato grave manifesto.

Bisogna distinguere tra pastorale degli infermi e Unzione degli Infermi.
Circa la pastorale degli infermi, il rituale italiano unisce Unzione e cura pastorale degli infermi. Bisogna tener conto che si tratta di un ministero di catechesi, di culto e santificazione, di carità e di tutta la Chiesa. La pastorale degli infermi non può essere ridotta al portare la comunione agli ammalati. Essa deve essere annuncio della Parola, che dà risposte sulla vita e sulla sofferenza: questa catechesi non si rivolge ai soli malati, ma anche ai sani che prima o poi affronteranno l’esperienza della sofferenza. Deve essere un ministero di culto e santificazione: i mezzi di grazia offerti al malato in forma sacramentale sono la Penitenza, l’Eucarestia e l’Unzione; ognuno di questi 3 sacramenti ha una sua grazia propria e perciò essi sono diversi e distinti. Va chiaramente distinta nella pastorale la liturgia degli infermi (con i 3 sacramenti) dalla liturgia dei moribondi (viatico e raccomandazione dei moribondi): questa distinzione deve costituire la regola ordinaria della prassi sacramentale.
L’eccezione è costituita dal cosiddetto rito continuo della Penitenza, dell’Unzione e del Viatico, che si amministra quando l’infermo è anche moribondo; se durante il rito non si fa la confessione si faccia l’atto penitenziale; se il pericolo è prossimo si dia l’Unzione e il viatico; in caso di pericolo imminente si dia il viatico. Confermazione e Unzione, in caso di pericolo di morte, non si dovrebbero amministrare con rito continuo, per evitare confusione.
Essendo ministero di carità, la pastorale degli infermi richiede delicatezza, va costruita col tempo: non si devono costringere gli ammalati a subire i nostri atti di carità. Inoltre essa è azione di tutta la Chiesa, nei suoi vari componenti nei confronti delle sue membra malate: i malati sono i migliori protagonisti della pastorale nel mondo della sofferenza, in quanto essi hanno una sensibilità particolare.


L’Unzione è sacramento dei malati e non dei moribondi. È sacramento della salvezza totale e non soltanto della salute: certo, può anche esserci come effetto del sacramento un miglioramento della salute fisica, ma la salvezza è quella ovviamente da intendersi in senso teologico. È sacramento della fede e non della magia: la dimensione di fede deve essere sempre salvaguardata, per cui il sacramento non può essere imposto. È un sacramento di tutta la comunità e non del solo individuo: tutta la Chiesa raccomanda al Signore gli infermi e i malati (ecco perché esso può essere amministrato anche in una celebrazione comunitaria).

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