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Sunday, March 9, 2014

TEOLOGIA PASTORALE- I

Teologia pastorale


Avvertenza per gli studenti

Il presente fascicolo contiene  i materiali per lo studio della disciplina.
Attingono a fonti diversi e rielaborati dal docente.
Per l'approfondimento di alcuni temi saranno date  indicazioni bibliografiche durante il corso.

Bibliografia
Aa.Vv., La teologia pastorale oggi, Lateran University Press, Città del Vaticano 2010;
Asolan P., Il tacchino induttivista. Questioni di teologia pastorale, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2009.
Lanza s., Introduzione alla teologia pastorale. 1. Teologia dell'azione ecclesiale, Queriniana, Brescia 1989
Lanza s., Convertire Giona - Pastorale come progetto, OCD, Roma 2005.
Mastantuono A., «La teologia pratica. Teologia pastorale e catechetica», in G.Lorizio-N.Galantino (edd.), Metodologia teologica. Avviamento allo studio e alla ricerca pluridisciplinari, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi)2004, 502-540.
Midali M., Teologia pratica. Cammino storico di una riflessione fondante e scientifica, LAS, Roma 2002-2011, 5 voll.;
Seveso, B., Edificare la chiesa. La teologia pastorale e i suoi problemi, ElleDiCi,  Leumann (To) 1982
Seveso B., La pratica della fede. Teologia pastorale nel tempo della Chiesa, Glossa, Milano 2011
Torcivia C., La Parola edifica la comunità. Un percorso di teologia pastorale, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2008.



PASTORALE FONDAMENTALE


Cap. 1. Difficoltà e obiezioni

«La teologia pratica è la più giovane tra le discipline teologiche principali e anche quella la cui denominazione e determinazione dei compiti sono tra le più discusse»[1] . Eppure, «nessuna disciplina teologica ha messo a tema in maniera tanto ostinata la propria autocomprensione quanto la teologia pratica»[2]. Dato di fatto tanto evidente quanto ignorato, se la teologia pastorale ancor oggi non riceve facilmente la qualifica di vera disciplina teologica: «La teologia pratica è la più giovane tra le discipline teologiche principali e parimenti quella la cui denominazione e la cui determinazione dei compiti è la più discussa. Ironicamente la si è potuta definire come 'senza dimora' [Stellungslos] nel sistema della scienza teologica»[3]. La si riconosce, per lo più, a livello di tecnologia applicativa costruita a partire da presupposti teologici (e, quindi, solo indirettamente teologica). Ciò pregiudica gravemente la sua impostazione, la sua efficacia, la sua esistenza medesima. Questa 'ignoranza', che ancora abbondantemente alberga nell'universo teologico, non è certo dovuta soltanto al fatto che essa si presenta come «la figlia più giovane nella famiglia della scienza teologica»[4]; nemmeno a trascuratezza o, è ovvio, incapacità. Piuttosto, mi sembra, alla difficoltà - comprensibile ma non incolpevole - ad abbandonare un orizzonte precomprensivo (un paradigma teologico) per adottarne uno nuovo. Non è possibile, infatti, riconoscere pertinenza teologica reale alla riflessione pastorale, se non si allarga (e in parte si modifica) la prospezione complessiva del sapere teologico. Il mancato apprezzamento della teologia pastorale, ancora considerata perlopiù succedanea e tecnopoietica, mette in evidenza che le nuove istanze e prospettive, sviluppate da alcuni filoni della ricerca teologica e ben presenti nel Magistero del Vaticano II (si pensi soltanto alle costituzioni dogmatiche Lumen gentium e Dei Verbum e alla costituzione pastorale [!] Gaudium et spes) non sono scese nel profondo. Istintivi meccanismi di autodifesa ne hanno bloccato l'azione, sovrapponendola e giustapponendola, anziché integrandola e ricomponendola in una visione d'insieme rinnovata e coerente. Non mancano, certo, progressioni felici[5]; ma ancora troppo disperse per riuscire a modificare precomprensioni e luoghi comuni di secolare radicazione.

Il mancato riconoscimento dell'esistenza e consistenza di una autentica teologia pastorale fa leva, generalmente, su alcune obiezioni che è necessario esaminare.

1.1. Una espressione vaga e imprecisa
Pastorale. Parola ripetuta come poche altre nel linguaggio ecclesiale del nostro tempo. Parola caricata di risonanze ed evocazioni, di aspettative e invocazioni. Parola sfruttata, tirata a velo dell'incompetenza, posta a segnale -ingannevole - di soluzioni a basso costo; mistificata, ridotta a espediente pubblicitario, per attrarre l'operatore in cerca di orientamento e di aiuto efficace; mercificata, come altre del resto, a sostenere il fiacco mercato del libro 'teologico'... Parola di successo, senza dubbio, e resistente negli anni; pagato però con una promiscuità che la rende buona per tutti gli usi' e la svilisce. Così, la sensibilità pastorale, oggi tanto diffusa, appare anche non poco confusa. Trova conferma, piuttosto, la sensazione che l'azione pastorale medesima venga irretita in questa figura emozionale, empirica e frammentaria, in cui all'intuizione - a volte perspicace, spesso sofferta - dei disagi e dei problemi, non fa riscontro l'approfondimento coraggioso e rigoroso, la ricerca delle ragioni e delle cause, l'esplorazione vagliata e competente delle soluzioni, la verifica degli esiti.
L'impressione di deriva semantica trova riscontro non solo nell'impiego ignorante e pressappochistico, ma anche in alcune questioni di rilievo, in cui si manifestano precomprensioni filosofiche e teologiche diversificate. L'uso corrente, anche in sede accademica, sconta spesso l'inerzia continuando a contrapporre pastorale a teologico...
Altre volte, si dice pastorale in riferimento ristretto al ministero ordinato; altre ancora pastorale è distinto (contrapposto?) a dottrinale, perdendo così l'unità tradizionale della “sacra dottrina” coltivata dai Padri e dalla grande Scolastica.

1.2. Un fatto recente, non propriamente teologico
A prima vista, sembra fondata l'obiezione che fa leva sulla data tutto sommato recente del riconoscimento accademico della disciplina teologico-pastorale e, insieme, il carattere perlomeno sospetto delle sue motivazioni[6].
Per quanto riguarda il primo aspetto (data recente) si deve ricordare che la partizione della riflessione teologica in discipline settoriali non è originaria[7], ma proviene da precise circostanze storiche. Così è, per esempio, per la teologia morale (secolo XVI), della ecclesiologia e teologia fondamentale (coeve, se non successive, alla teologia pastorale) ecc. La specializzazione disciplinare risponde a specifiche esigenze del vissuto ecclesiale in determinati momenti storici e movimenti culturali, e non tocca solo la teologia pastorale.
 Per quanto attiene alla qualità teologica, il discorso si amplia necessariamente, e apre la questione, articolata e complessa, della natura del sapere teologico. Dalla questione, agitata già nella Scolastica matura e ripresa polemicamente da Lutero, della sua inflessione speculativa o pratica, alla sua configurazione metodologica e valenza scientifica. Del resto, come apparirà da tutta la trattazione, considerare la teologia pastorale come una aggiunta, sia pur nobile e necessaria, all'edificio teologico tradizionale comporterebbe inevitabilmente quella impressione di posticcio che sempre si produce in tali casi. Il riconoscimento della teologia pastorale come teologia impone una riconsiderazione non marginale della natura e del metodo del sapere teologico. Con qualche necessaria conversione e - ci sembra - con non pochi vantaggi.
Il riferimento classico per la messa in mora delle pretese della teologia pastorale è al maestro Tommaso. Tuttavia l'assunto tomista («theologia non ergo est scientia practica, sed magis speculaiva»)[8], correttamente inteso, è meno perentorio di quanto comunemente si intenda, come lascia intendere quel «magis», che interrompe l'equilibrio antitetico della frase. La teologia non è speculativa perché esclude dal proprio ambito l'azione (di Dio e degli uomini), ma perché ne tratta sotto un preciso angolo visuale - «prout sunt divino lumine cognoscibilia» e «secundum quod per eos ordinatur homo ad perfectam Dei cognitionem, in qua aeterna beatitudo censistit».
Tommaso non rifiuta sottovaluta l'aspetto pratico, ma non vuole che la teologia sia ridotta a casistica. Gli sta a cuore l'unità profonda della sacra dottrina, insieme a una penetrazione spinta ai limiti dell'intelligenza (speculativa) di ogni aspetto della fede: «omnia autem pertractantur in sacra doctrina sub ratione Dei; vel quia sunt ipse Deus; vel quia. habent ordinem ad Deum, ut ad principium et finem. Unde sequitur quod Deus vere sit subiectum huius scientiae» (STh I, q. 1, a. 7). Né manca alla intrapresa tommasiana la tensione epica[9], quasi gridata (ed esasperata) da Lutero («vivendo, immo moriendo et damnando fit theologus, non intelligendo, legendo aut speculando»).
Nel nostro tempo, il recupero della nozione di storicità, al di là di formulazioni di scuola a volte discutibili, fa sentire tutto il suo peso nei confronti dell'eredità aristotelica. E si incontra con la tradizione biblica: «Essa (la verità rivelata) non deriva dunque da proposizioni nelle quali si sarebbe fissata fiori del tempo, e che noi manipoleremmo da buoni logici, in una sorta di metafisica sacra, sotto la tutela di un'autorità; ma procede da una storia che Dio guida, in avvenimenti di salvezza, nei quali egli si rivela... Dio parla oggi, nella comunità cristiana, a partire da questa 'concentrazione cristologica' che lo Spirito, secondo la promessa di Gesù... distribuisce e svela in molteplicità di segni che annunciano le cose future, vale a dire il nuovo ordine di cose, nate dalla morte e dalla risurrezione del Cristo»[10].
Ciò non significa, è bene sottolinearlo, che la verità rivelata sia un prodotto della storia (pericolosa infiltrazione hegeliana). E nemmeno che essa, storicamente mediata e percepita, si stemperi in un incetto relativismo conoscitivo. La mediazione storica comporta la ristrutturazione ermeneutica e il recupero prassistico del sapere teologico - quindi dinamismo ed esistenzialità -, non la sua dissoluzione: «Un cristianesimo che non potesse dirci ciò che esso è e ciò che non è, e dove corrono i confini tra il suo essere e il suo non essere, non avrebbe più nessuna funzione da svolgere».[11]
A conclusioni simili giunge anche J. Alfaro: «L'azione del cristiano deve essere vista non come semplice espressione o risultato della sua fede o completamento della stessa, ma come autentico compimento di essa: l'uomo accetta pienamente come uomo (nella totalità-unità del suo essere corporeo-spirituale) la parola di Dio solo nel proprio operare. La fede non è una decisione puramente interiore, ma una decisione pienamente umana, le opere la costituiscono come sottomissione totale dell'uomo alla grazia di Dio in Cristo».[12]
Dato che la fede «include in se stessa la prassi cristiana», la teologia - fides quaerens intellectum - «non potrà limitarsi alla riflessione sulla sua dimensione cognitiva... ma dovrà prendere in considerazione la prassi della fede ecclesiale»[13]. Non è quindi soltanto il problema acutissimo del divorzio tra fede e cultura a reclamare un modo diverso di fare teologia, ma la stessa struttura profonda dell'atto di fede.
La necessità della teologia pastorale si riconduce, dunque, alla esigenza che l'azione ecclesiale sia posta sempre in modo corretto ed efficace, sotto il profilo sia della sua collocazione storico-culturale, sia della sua qualità evangelica. Questa seconda esigenza fa immediatamente percepire come non si tratti di disciplina soltanto funzionale, ma presente per ragione intrinseca all'interno del discorso teologico. Detto in termini diretti: una teologia che non sviluppi questo aspetto è mutila e incompleta, e cadrà inevitabilmente nell'ideologia (dato che l'area pratica deve essere normata, se questo avviene in maniera non criticamente riflettuta, finirà per attribuire carattere di necessità - magari dottrinale! - a ciò che è semplicemente l'interpretazione precaria e acritica del soggetto e/o del momento).

1.3. Incertezza epistemologica
 Come si è notato in apertura, un diffuso luogo comune, che conta sempre nuovi adepti. R. Marlé, che nel 1979[14] si era espresso in termini moderatamente ottimistici e, in ogni caso, aperti, ricade pochi anni più tardi in una posizione scettica: la teologia pastorale - egli scrive nel 1982 - «oggi appare appartenere ad un genere un po' ibrido. Con la qualificazione 'pastorale' viene meglio definita la sua finalità che non il suo metodo»[15], e questa incertezza «la condanna forse a contentarsi sempre di tentativi parziali, regionali, limitati». Sul carattere «regionale» della teologia pastorale concordano anche G. Colombo[16] e G. Angelini, che motiva la sua posizione facendo riferimento alla «condizione presente della ricerca, che è condizione estremamente iniziale e immatura per quanto attiene alla figura qui prospettata di 'teologia pratica'»[17]. Gli fa eco B. Seveso, che al Symposium su «Scienza e prassi pastorale in Italia» promosso dal COP afferma: «Non si può negare lo stato di labilità teoretica in cui versa questa disciplina Non esiste su questa materia, specialmente in Italia, una tradizione di scuola consolidata, capace di sostenere una effettiva comunicazione scientifica, e i tentativi ricorrenti di dare un volto convincente alla teologia pastorale si arenano nella babele delle lingue»[18]. Anche in area tedesca, più sviluppata sotto il profilo della ricerca epistemologica, non mancano le istanze critiche. R. Zerfass parla di scarsa trasparenza[19], mentre W.Furst stila un nutrito elenco di sintomi «della intima debolezza di impianto (della teologia pastorale), risultante dal mancato chiarimento dei rapporti con la prassi (che genera conflittualità) e, non da ultimo, anche dall'incertezza in merito alla collocazione teologica e alla specificità della disciplina, nonchè al suo significato per il futuro del cristianesimo»[20].
Una situazione di disagio. Ma la constatazione che la situazione di incertezza epistemologica è tutt'altro che esclusivo problema della teologia pastorale lascia intendere che tanta severità di giudizio, frequente in area dogmatica e a volte recepita come verità di fede dai pastoralisti, provenga in realtà da motivazioni non propriamente teoretiche. Ad essere messa in questione, semmai, non è propriamente la teologia pastorale, ma l'intero sapere teologico. Il «carattere problematico della teologia»[21], a sua volta, non è disgiunto da una situazione più generalizzata, in cui «tutte le scienze si trovano oggi in crisi di principi»[22]. Così, se «i teologi non si trovano d'accordo nel rispondere alla domanda su che cosa sia la teologia (scientia conclusionum ex fide, scientia fidei, Fides in statu scientiae, intellectus fidei, Fides quaerens intellectum, etc.)»[23], nemmeno i filosofi concordano nel definire la filosofia[24], né i sociologi nell'intendere la sociologia[25], gli psicologi la psicologia[26] e via dicendo. E nessuno pensa di negare dignità scientifica al discorso filosofico, o sociologico, o psicologico ecc. E' curioso che tale conseguenza negativa sia fatta valere solo per la teologia pastorale che, «inserita radicalmente nella questione teologica fondamentale... procede o si blocca con essa»[27].
La qualità teologica della disciplina è garantita dalla teologicità del suo oggetto e del suo metodo: vi si tornerà. Ma non è pensabile se non nel quadro di una concezione adeguata del sapere teologico. Considero determinanti questi riferimenti:
        l'impostazione della ricerca teologica, considerata, nella sua globalità, secondo la felice formula anselmiana, come fides quaerens intellectum[28] .
        l'inseparabilità di fides quae e fides qua.
        la comprensione inscindibile della fides quae come quae creditur e quae per caritatem operatur.
Certo, si può intendere la teologia anche come scienza delle conclusioni, cioè come costruzione meramente deduttiva a partire da un patrimonio dato e immobile (che non è sinonimo di immutabile!). Ma ciò produce una triste mortificazione: non della teologia pastorale, ma della teologia in quanto tale.

1.4. La pastoralità di tutta la teologia
Se dunque tutta la teologia si comprende in dimensione e in prospettiva pastorale, che bisogno c'è di una disciplina ad hoc? Di fatto, le altre discipline la considerano piuttosto «una specie di appendice nella quale rientrano le conseguenze pratiche derivanti necessariamente dalle loro elaborazioni teoriche», o anche «una raccolta di regole tattiche di natura psicologica, didattica o sociologica, immediatamente ricavabili dalla semplice pratica della cura d' anime»[29].
Così, l'affermazione della pastoralità di tutta la teologia rischia di fermarsi a una volonterosa dichiarazione di intenti, senza conseguenze pratiche. Lo conferma in maniera evidente la scarsa considerazione che la teologia pastorale riceve nella mappa delle discipline teologiche curricolari sia nei seminari, sia (e più) nelle facoltà teologiche: «In campo cattolico, soprattutto nei paesi latini, non esiste ancora nel piano di studi una 'teologia pratica' come disciplina veramente autonoma. Le esigenze che il Vaticano II ha sollevato in questo campo sono ancora assai lontane dall'essere state realizzate»[30]. Sono passati quasi quarant'anni, ma la situazione è cambiata di poco. E non sempre in meglio.
Senza la presenza competente della teologia pastorale la 'pastoralità" di tutta la ricerca teologica non vien di fatto garantita. Essa - la teologia pastorale - delinea il quadro di riferimento contestuale: pone sul tappeto le questioni più scottanti per la vita cristiana, provoca le altre discipline teologiche a una indagine approfondita sotto i diversi profili e approcci, si confronta con esse e con la realtà, per tracciare indicazioni operative, teologiche e pratiche ad un tempo.
Esempio significativo e quanto mai autorevole di questa impostazione sarà la costituzione pastorale Gaudium et spes, a proposito della quale M.D. Chenu svolgeva alcune annotazioni pertinenti: «Non si tratta di un adattamento contingente, opportuno, di verità eterne, ma, in tutta la potenza di significato del termine, di una 'presenza' oggi, del Vangelo, in atto attraverso la Chiesa e nella Chiesa... Non si tratta neppure di 'soluzioni' ex cathedra, insegnate dall'alto e dall'esterno, a problemi mondiali in evoluzione... Si tratta di posizioni evangeliche, ispirate dall'interno, sostenute dalla parola di Dio; e, nello stesso tempo, posizioni che assumono i valori inseriti dal Creatore nella stessa natura umana... Duplice e unica problematica... nel regime dell'Incarnazione, secondo il ritmo della storia»[31].
Non si tratta quindi di legittimare, con qualche forzatura, una nuova disciplina, addossandola come una nuova ala, un prolungamento all'antico edificio teologico. Si tratta invece, anzitutto, di una nuova comprensione complessiva del sapere teologico, radicato nella storia e nella vicenda ecclesiale e ad esse volto, in cui alla teologia pastorale compete specificamente (non esclusivamente) l'elaborazione degli aspetti ed ambiti inerenti la prassi, necessaria alla compiutezza organica del discorso teologico[32]: «Nel suo operare in rapporto a questi due orizzonti [filosofia e scienze umane], la teologia non agisce considerando il luogo umano-culturale come un semplice luogo di applicazione di quanto viene conosciuto ed espresso già perfettamente nel primo momenti di interpretazione delle fonti. Essa deve tener conto piuttosto che la vita presente della chiesa in quanto operante nel mondo costituisce un luogo di rilettura del suo passato che consente di offrire nuove risposte a delle nuove istanze di interrogazione»[33]. Ciò sia in riferimento alla ortodossia, che ne viene costantemente illuminata, approfondita e arricchita: senza la fede ecclesiale vissuta, la teologia sarebbe priva di un adeguato 'luogo' concreto e pratico di riferimento, con il rischio di caduta in categorie concettuali puramente astratte; sia in riferimento alla ortoprassi, come capacità interpretativa, progettuale e attuativa della vita cristiano-ecclesiale: la teologia pastorale è teoria teologica della prassi evangelica ecclesiale nella società.
Tema dunque ben presente a partire dalla sua recezione nei documenti del Vaticano II[34], ma spesso retoricamente evocato ed esposto a fraintendimento, e bisognoso pertanto di una non marginale messa a punto.
Non meriterebbe menzione l'opinione di coloro che fanno della 'pastoralità' il sinonimo di una teologia meno rigorosa e scientifica, se non fosse ancora tanto diffusa. Si ha l'impressione che questa decurtazione così deleteria, oltre a mortificare la qualità pastorale degli assunti e delle attuazioni, la riduca di fatto - e non innocentemente - a facilitazione e copertura di non lodevoli pigrizie: altro infatti è divulgazione di qualità volta a stimolare la creatività pastorale delle comunità concrete; altro - e questa volta non positivamente - la produzione di merce di facile consumo, da cui provengono solo illusioni presto smentite dai fatti e agitazioni operative in incidenti. In ogni caso: «Affermare la pastoralità della teologia non significa parlare di una teologia non dottrinale, meno scientifica e soltanto praticistica, ma significa impostare l'insegnamento teologico in funzione della formazione di un prete...»[35]. Conferma autorevolmente la Pastores dabo vobis: «Si tratta in realtà di due caratteristiche della teologia e del suo insegnamento che non solo non si oppongono tra loro, ma che concorrono, sia pure sotto profilo diversi, alla più completa intelligenza della fede. Infatti la pastoralità della teologia non significa una teologia meno dottrinale o addirittura destituita della sua scientificità» (n.55).
Sgomberato il campo da questo penoso fraintendimento, l'insidia viene da altre due interpretazioni patologiche, che procedendo da una identificazione indebita, si svolgono simmetricamente e antiteticamente:
·       riducendo tutta la teologia, da un lato, alla teologia pastorale o pratica: «la teologia pratica deve essere concepita come scienza teologica dell'azione all'interno di una teologia concepita come scienza pratica»[36];
·       ritenendo superflua, dall'altro, la teologia pastorale, perché i suoi compiti sarebbero già sufficientemente svolti dalla inflessione 'pastorale’ di tutta la teologia, peraltro non meglio precisata nei suoi contorni[37].
Probabilmente è la stessa scelta terminologia - 'pastoralità' - a prestare il fianco agli equivoci. Per questo, piuttosto che di 'pastoralità' della teologia si dovrebbe parlare, più adeguatamente e propriamente, di contestualità teologica. Sotto un duplice profilo:
·       culturale: come precomprensione e interesse[38] in correlazione con l'orizzonte e il flusso dei fenomeni della cultura, sia accademica sia antroposociale; si tratta di un compito di grande importanza[39], soprattutto nel nostro tempo: compito che attiene al sapere teologico nel suo complesso, che quindi non si identifica con la teologia pastorale, ma con un aspetto della qualità pastorale della teologia.
·       ecclesiale: come riflesso del vissuto ecclesiale di un'epoca e come servizio alla vita concreta della Chiesa; il sapere teologico non si avvita su se stesso, ma si pone come funzione ecclesiale imprescindibile, presente fin dalle origini e in ogni epoca, anche se in forme diversificate e non necessariamente accademiche (basti pensare al Nuovo Testamento e ai Padri).
Intesa correttamente come contestualità, la cosiddetta pastoralità si propone non come semplice valore aggiunto, o settore, ma come dimensione costitutiva del sapere teologico. Il riferimento alla prassi è quindi intrinseco alla investigazione teologica e non deriva soltanto - come sembra intendere Midali[40] - dal necessario rapportarsi della pastorale alla prassi. E' necessario superare l'equivoco che la nota di pastoralità di tutta la teologia provenga primariamente dalle esigenze del ministero pastorale. Si tratta, piuttosto, di una connotazione propria e irrinunciabile del sapere teologico, che, come si è visto, può essere opportunamente intesa e denominata come contestualità culturale ed ecclesiale. Non viene, in altri termini, solo dalle esigenze della pastorale, ma della teologia tout court: non è perché la pastorale si riferisce alla prassi, ma perché la teologia è posta in contesto culturale ed ecclesiale, che essa deve determinare la propria figura epistemologica e il proprio itinerario metodologico in riferimento alla prassi, e precisare accuratamente la/e figura/e epistemologica/he e metodologica/he di tale riferimento.
La corretta visione della 'pastoralità' di tutta la teologia non determina se il sapere teologico debba essere inteso come speculativo o pratico[41]. E' quindi necessario distinguere tra:
-      il contributo che le diverse discipline teologiche possono e debbono dare alla vita della Chiesa, nei suoi diversi aspetti e nelle sue diverse esigenze, senza per questo rinunciare alla profondità della investigazione e al rigore della esposizione, ma modulandolo secondo le esigenze del vissuto culturale ed ecclesiale (si pensi all'importanza che riveste oggi la questione di Dio, e la scarsa rilevanza odierna delle questioni sulle 'presenza reale' eucaristica, che hanno appassionato tante generazioni di cristiani e fatto discutere tante scuole di teologi;
-      la fruibilità e utilizzazione delle elaborazioni e degli asserti teologici nell'azione pastorale, che apre il discorso della divulgazione competente e sapiente;
-      la specifica trattazione teologica delle problematiche inerenti l'azione ecclesiale, che costituisce il campo proprio e peculiare della teologia pastorale. Che sono tanto più necessarie, quanto più si imbocca la via di una divulgazione autentica, che è possibile solo se preceduta e accompagnata da una vera competenza. Negli altri casi, la volgarizzazione scade in volgarità. Proprio il campo ecclesialmente rilevante della divulgazione costituisce punto di incontro tra la inflessione teologico-dottrinale e quella teologico-pastorale: perché tocca alla teologia pastorale fornire - in maniera scientificamente ineccepibile - le coordinate e le esigenze proprie del vissuto ecclesiale e sociale, cui l'intento divulgativo intende fornire una risposta di più ampia e immediata efficacia. La teologia pastorale, quindi, non è la sede della divulgazione, ma il luogo dove si elabora una competenza necessaria alla divulgazione.
La 'pastoralità' della teologia tocca perciò sensibilmente:
        la precomprensione del lavoro teologico, sia come ricerca, sia come didattica: esposizione e motivazione allo studio;
        la disposizione sistematica della trattatistica, sia come equilibrio tra le parti, sia come rilevanza (o addirittura emergenza) della questioni (si veda, a questo proposito la discussione e in merito alla frammentazione del sapere teologico[42]).
Così, per concretizzar:e con riferimento ai grandi capitoli della formazione al presbiterato come tracciati dalla Pastores dabo vobis, la teologia pastorale non sopravviene solo in seconda battuta, nell'ambito della formazione pastorale (57ss.), ma è presente - e necessariamente presente - nell'ambito della formazione intellettuale, che, attenta allo studio della Parola di Dio e dell'uomo, interlocutore di Dio, esige «Io studio della dogmatica, della teologia morale, della teologia spirituale, del diritto canonico e della teologia pastorale» (54).
La questione non riceve sempre lucidità di approccio, come attesta l'interessante lavoro curato da Midali e Tonelli.
Qualche rapida osservazione, che può servire a precisare ulteriormente - magari anche con qualche inflessione critica - la nostra tesi.
Nel suo intervento, Bruno Forte definisce con lucidità e proprietà l'ambito della questione in relazione alla teologia sistematica, individuando come qualità pastorale «il suo rapporto originario con la prassi della fede e la sua intrinseca destinazione ad essa nella comunione del popolo di Dio»; cade tuttavia in equivoco quando, poco più avanti, concretizza il problema come «interrogativo sul perché e sul come il carattere dottrinale della teologia sistematica vada coniugato con una sua possibile specifica qualità pastorale»[43]. Che se tale rapporto è, come egli ha affermato in prima battuta, originario, non si dà sistematica [noi preferiamo dire dogmatica] senza di esso. E quindi non di coniugazione anzitutto si tratta, ma di componente costitutiva: ne va cioè dell'integrità, e non solo della funzionalità, della teologia sistematica (dogmatica). E' evidente che il pensiero trascorre qui insensibilmente da una considerazione epistemica corretta a una di tipo applicativo ed entra, senza dichiararlo (e probabilmente senza avvertirlo, tanto invalsa ne è l'abitudine), nel solito schema deduttivo, dove l'ambito pastorale è pensato come campo di applicazione del dottrinale. Analogamente poco più avanti, dove, dopo aver affermato in maniera ineccepibile che «la separazione fra la verità del dogma e la riflessione morale e pastorale, tipica di molta teologia moderna ammaliata dal primato assoluto della ragione, è stata causa di una duplice conseguenza negativa» (verità priva di bellezza e incidenza pratica; riduzione casistica del teologico-pratico), propone di «fondare l'agire sull'essere, l'etica sul dogma»[44], esponendosi a un possibile, duplice fraintendimento: che il rapporto tra essere e agire venga inteso consecutivamente e non reciprocamente (l'essere si coglie solo nel suo agire: cosa che del resto l'Autore ben conosce nella sua ampia trattazione dogmatica, con rilievo segnalato nella elaborazione sia cristologica, sia trinitaria); che l'etica - che certamente è fondata sul dogma - venga di fatto considerata fondata sulla dogmatica.
Che questa non sia l'intenzione di Forte è chiaro[45], come conferma l'eccellente determinazione che egli prospetta della qualità pastorale della teologia dogmatica, intesa come simbolica: «La 'simbolica' ritorna così alla prassi: essa lo fa non con sintesi  definitive e compiute, con sistemi chiusi e onnicomprensivi, ma con proposte provvisorie e credibili, come si addice al pensiero della profezia»[46]. Avrebbe potuto aggiungere, a questo punto, che proprio la teologia pastorale ha il compito di dare a tale profezia volto di concretezza, senza mai restringersi, peraltro, in cosificazioni pragmatiche, senza mai cedere alla tentazione di trasformarsi in una sospetta futurologia, dove il tempo catturato non è più aperto alla dimensione kairologica dell'avvento.
La differenza tra pastoralità della teologia e teologia pastorale è ben individuata nel contributo di due liturgisti: con formulazione più articolata e sfumata in Maggiani[47], e più diretta in Mazza[48]: «Dato che la liturgia è una celebrazione, la disciplina in questione dovrà occuparsi necessariamente della celebrazione; dato che questa è essenzialmente pastorale, posso concludere che è da questa che l'insegnamento della liturgia trae il suo carattere di disciplina pastorale». Quindi non 'pastoralità' della liturgia, ma sua fisionomia propriamente e specificamente pastorale.
Non si può dire altrettanto per altri contributi[49], soprattutto quelli dove una malintesa interpretazione della pastoralità di tutta la teologia finirebbe così per ridurre la teologia pastorale a una sorta di intenzionalità profonda (tanto profonda da essere invisibile?) dell'insegnamento della teologia, o, ancora e non alternativamente, a una colorazione didattica dell'insegnamento medesimo (sforzo di chiarezza, di concretezza ecc.: ottimo in sé ma in alcun modo confondibile con la elaborazione propria e specifica della teologia pastorale).

1.5. Scarsa incidenza pratica (inefficacia)
Si è formulata, nei confronti della teologia pastorale, anche l'obiezione di scarsa incidenza pratica. Ciò non è senza riscontro nei fatti. Solo a volte, però, ciò si riconduce a carenze imputabili alla teologia pastorale medesima. Spesso, invece, è da attribuire alla tentazione (diffusa!), di imboccare scorciatoie, promettenti quanto illusorie. Si ricorre così volentieri alla sussidiazione, non sempre di qualità. E a questa si chiede la soluzione di problemi e il superamento di insuccessi che toccano invece la radice delle cose.

Il buon senso non basta più
Secondo alcuni, la vita della comunità cristiana può essere efficacemente regolata dalle norme del diritto, opportunamente integrate e aggiornate dalle direttive pontificie ed episcopali: per il resto, basterebbero opportuni sussidi pratici e un po' di buon senso.
Bisogna superare l'equivoco per cui, ascritta la pastorale al campo delle arti, secondo la celebre formula di Gregorio Magno (ars artium regimen animarum), la si ritiene sufficientemente garantita dalla scuola pratica di maestri sperimentati e virtuosi. Non si "fa" l'artista senza applicazione metodica e sistematica.
L'impostazione pastorale tradizionale, configuratasi sapientemente secondo ritmi di trasformazione abbastanza lenti, è stata messa in scacco dalle modificazioni, rapide e radicali, dei giorni nostri, che non si affrontano con aggiustamenti marginali. È facile constatare, infatti, che ogni agire pastorale (come qualsiasi altra forma di prassi) mette in atto - più o meno consapevolmente - precise scelte e orientamenti. In altri termini, una determinata, anche se non conosciuta o riconosciuta, teologia pastorale. La riluttanza a renderla esplicita è sospetta. E dannosa: improvvisazione e dilettantismo, anche quando animati da impegno generoso, non sfuggono alla superficialità, e si risolvono in danno per la vita della Chiesa.
Si deve decisamente respingere, in conclusione, la convinzione diffusa che fa della teologia pastorale una materia di complemento nell'olimpo teologico e un'arma caricata a salve nel quotidiano combattimento pastorale.

L'esigenza di praticità
La decisione deve essere praticabile. Non può quindi limitarsi agli obiettivi generali ne' alla loro prima determinazione sul versante esistenziale, ma deve giungere a stabilire esiti effettivamente «operabili». La determinazione degli obiettivi è posta fin dall'inizio in prospettiva operativa e non si contenta di una delineazione valida semel pro semper. L'esperienza insegna che troppo spesso la nostra pastorale fallisce perché scambia gli obiettivi finali con quelli operativi immediatamente praticabili. La decisione pastorale, invece, esige che si giunga al concreto della programmazione.
Attenzione alla praticabilità operativa significa metodo della gradualità aperta. Che non anticipa i tempi, non prende scorciatoie; rispetta, secondo la pedagogia di Dio, il cammino lento e a volte interrotto degli uomini. Ed è pronta a rivedere costantemente i propri obiettivi (intermedi, si capisce; quelli sostantivi e finali appartengono al contenuto della fede) in costante attenzione alla realtà della situazione e sempre aperta all'azione dello Spirito.
Cap. 2. Uno sguardo alla storia del problema

L'attenzione al tragitto storico non ha carattere meramente informativo, ma genetico, tematico e contestuale. Si tratta non solo di ricostruire alcuni episodi ma di individuare le relazioni e i reciproci influssi tra il sorgere e il configurarsi della teologia pastorale e la delineazione del sapere teologico, da un lato, e le condizioni sociali e politiche dall'altro[50].
La riflessione teologico-pastorale, infatti, che si costituisce in relazione all'agire ecclesiale, ne avverte tutta la problematicità a partire dal momento in cui viene a scomporsi (e quindi a infrangersi) la pacifica identificazione chiesa -società. L'unità del sapere teologico, che trova in Tomaso d'Aquino la sua massima espressione, corrisponde infatti a una concezione unitaria della società, la societas christiana. Con il suo progressivo sfaldarsi, emergono nuove esigenze, che differenziano la riflessione teologica (senza che ne vada perduta - o almeno così dovrebbe essere - la fondamentale unità). All' inizio del secolo XVII nasce cosi la teologia morale come disciplina universitaria autonoma[51]. Meno di due secoli dopo, come si è visto, è la volta della teologia pastorale.
La ricostruzione della vicenda della teologia pastorale si collega, ma non deve essere confusa, con una la storia della azione pastorale, che è campo proprio, anche se finora non molto esplorato, dalla Storia della Chiesa. Sarebbe certo di grande interesse rintracciare tali dinamiche e la concezione teologica che vi è sottesa, nelle sue forme e varianti. La storia - e dunque i fatti e non un teorema precostituito - si incarica di dare una prima sostanziosa risposta alle obiezioni mosse contro la plausibilità e pertinenza della teologia pastorale. Essa mostra nei fatti:
·       l'originaria interconnessione tra pastorale e dottrinale;
·       la presenza di una autentica e competente riflessione sulla vita e la prassi della comunità cristiana fin dagli inizi; l'esistenza, cioè, coestesa alla vicenda ecclesiale di una vera e propria teologia pastorale implicita, ma non per questo meno valida.
La preponderanza di riferimenti all'area linguistica tedesca risponde al tragitto storico della ricerca.

2.1.      La radice biblica
Le Scritture non contengono trattati teologici. Sono, in verità, uno svolgimento teologico originario e normativo. Anche l'aspetto teologico pratico, non meno di altri, vi è presente, ai diversi livelli. Rapidamente, si possono indicare questi fattori salienti:
·       Il NT come letteratura funzionale: come l'AT, il Nuovo nasce in relazione alle situazioni e alle esigenze delle prime comunità credenti.
·       L'interesse per la vita della comunità all'interno delle Scritture: non solo nel libro degli Atti e nelle lettere, ma, in filigrana, lungo tutta la pagina biblica
·       La capacità pastorale delle prime comunità cristiane. Possiamo ricordare:
a) il metodo della evangelizzazione e della iniziazione cristiana (giudei/pagani:     itinerari differenziati)
b) il canone delle Scritture
c) la strutturazione dei ministeri
Come si vede, non si tratta di fatti marginali, ma della sostanza stessa della fede creduta e vissuta dalle prime comunità. Cosa che, del resto, prosegue senza soluzione di continuità nella multiforme testimonianza della stagione patristica. La restrizione a tendenza razionalistica, infatti, è dovuta non alla coltivazione privilegiata della teologia speculativa (basti pensare alla parte seconda della Summa dell'Aquinate), ma al rimbalzo postilluministico di una poco illuminata apologetica.

 2.2. La concentrazione ecclesiastica
Si viene esplicitando e tematizzando l'intenzione e l'attenzione teologica in senso pastorale. Si può citare, senza dubbio, la nota Regula pastoralis di S. Gregorio Magno, ma, non meno rilevanti, le Decretali, gli interventi per l'evangelizzazione dell'Europa occidentale e orientale.
Nel 1215, il concilio Lateranense IV dispone che sia presente in ogni Chiesa metropolitana: un Magister, che, oltre la Scrittura, insegni «quae ad curam animarum spectare noscuntur». La prospettive della cura d'anime, che oggi appare decisamente riduttiva, delinea invece correttamente (anche se non senza limiti evidenti), in situazione di cristianità, il campo pastorale concreto.
In ambito cattolico, si sviluppa una vasta produzione di carattere sussidiario per impulso del concilio di Trento. La manualistica post-tridentina segna sotto questo profilo una fioritura significativamente più ampia e puntuale. Da un lato persiste - e nell'atmosfera  controversistica per certi versi si incrementa - la centratura clericale dell'azione ecclesiale; dall'altro si avvertono i primi sintomi di una svolta che porterà alla divaricazione moderna tra società e Chiesa, benché ancora ribadita, come principio formale, dalla pace di Westfalia (cuius regio eius et religio). Ciò ha riflessi concreti anche nel dispositivo disciplinare del sapere teologico: nasce, sia pure con netta inflessione casistica, la teologia morale. Lo stesso impianto pratico-applicativo si registra nella produzione pastorale, senza che, come invece per la morale, si pensi ancora a una disciplina curricolare, anche se già nel 16° secolo Andreas Gerhard Hyperius (teologo a Marburg) intuisce tra i primi l'esigenza di una disciplina specifica per l'ambito teologico-pratico.
Si è soliti indicare nell'Enchiridion Theologiae pastoralis et doctrinae necessariae sacerdotibus curam animarum administrantibus, pubblicato nel 1591 da P. Biensfeld, vescovo ausiliare di Treviri, il primo manuale di teologia pastorale, perché tale espressione compare espressamente nel titolo. In realtà essa era già stata impiegata da Pietro Canisio, mentre di qualche anno precedente sono il Theologiae practicae compendium di J. Molanus (1585) e la Summa quae Aurea Armilia inscribitur Bartholomei Fumi, pubblicata a Venezia nel 1554. Non è particolarmente importante stabilire a chi spetti la palma della priorità assoluta. Si deve invece notare l'orientamento ad un tempo pratico e clericale, che si riflette nella impostazione canonistica e casistica delle opere. L'esigenza, in ogni caso, è sentita, e troverà trattazione fortunata in due opere di larga diffusione: il Manuale parocborum di L. Engel (1661) e il Pastor bonus di J. Opstraet, del 1698, che, tradotto in tedesco nel 1764, diventerà il testo-base consigliato dal Rautenstrauch, fino alla sua messa all'indice per sospetto di rigorismo giansenista. In ambito protestante si possono ricordare il Pastorale oder Hirtenbuch vom Ampt, Wesen und Disziplin der Pastoren und Kirchendiener (Erasmo Sarcerio, 1550).
Tutto questo lascia intravedere una situazione in cui la prassi pastorale non sgorga più quasi spontaneamente dal vissuto ereditato e praticato: si punta allora il dito sulla impreparazione e nella inconsistenza spirituale del clero. Ciò, tuttavia, coglieva solo un aspetto della questione. Il manuale sembrò allora essere uno strumento utile e promozionale. Di fatto portava in sé il germe insidioso di un ripiegamento praticistico, assolutamente impari ad affrontare i mutamenti epocali che si andavano preparando. Né si avvertiva, più in profondità, l'avanzare di altri fenomeni, complessi e prepotenti, che segneranno il definitivo declino della situazione di cristianità omogenea.
In ambito accademico, si registra nel 1595, in ambito protestante, la richiesta da parte di W.Zepper, di nominare un profesor practicus[52]; una prima decisione in tal senso sarà presa nel 1794 a Tubingen, ma per l'attuazione della decisione granducale si dovrà attendere il 1813, con l'assegnazione della cattedra a Nathanael Friederich Kostlin. In sintesi, qualche altro dato:
- 1646: la denominazione ricorre forse per la prima volta nel 1659, in Gisbert Voetius, Disputatio de theologia practica: morale, ascetica e 'politica ecclesiastica' (liturgia, disciplina, omiletica).
- 1623: J.H.Alsted: theologia practica come theologia casuum
- 1711: J.F.Buddeus: teologia morale come teologia pratica (tratta non i credenda, ma gli agenda)

2.3. L’interesse politico
Nell'intento di «porre le università sotto la guida diretta della amministrazione statale e rendere lo studio; per quanto possibile, fruttuoso in ordine agli interessi dello stato»[53], Maria Teresa d'Austria si era prefissa anche la riforma degli studi. Un primo progetto riguardante le discipline teologiche, redatto nel 1752 dal gesuita Ludwig de Biel per l'università di Vienna, prevedeva un aspetto pratico, ma riservato agli studenti meno dotati, indirizzati al livello inferiore degli studi, con finalità direttamente pastorali. L'abate di Braunau, Stephan Rautenstrauch, che aveva criticato questa impostazione venne chiamato alla facoltà teologica di Vienna: a partire dal 1774 la teologia pastorale entra nell'organigramma; non però come materia autonoma, ma come parte della «teologia pratica» o corso pratico, unitamente alla «polemica» e alla «morale pratica». Solo nel 1777 essa compare nel Vorlesungverzeichnis come disciplina autonoma, insegnata non più in latino ma in lingua madre e secondo un dettagliato programma, pubblicato dallo stesso Rautenstrauch[54]. L'intento del Rautenstrauch (formare «servitori degni del vangelo, cioè perfetti pastori»[55]) si sposava senza fatica con l'obiettivo concreto e funzionale di Maria Teresa. La configurazione della disciplina è quindi scandita secondo i compiti attribuiti al pastore d'anime. In particolare: 1. Il dovere di insegnamento (Unterweisungspflicht), cioè «dell'insegnamento morale del vangelo, secondo il quale si deve vivere»[56], fonte di felicità; 2. Il dovere di amministrare e dispensare i sacramenti (Verwaltungs und Ausspendungspflicht), con le indicazioni liturgiche e operative; 3. Il dovere di edificazione (Erbauungspflicht), cioè quello di formare buoni cristiani e buoni cittadini. Metodologicamente, l'impianto rimane rigidamente deduttivo. E, tuttavia, va riconosciuto al Rauntenstrauch, più di quanto non si faccia comunemente, un merito indubbio; quello di aver sottolineato le esigenze di una più attenta e attuale proposta del vangelo, attenta agli aspetti pedagogici e metodologici[57]. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, ma non si può dire che il modo corrente di intendere le cose sia andato molto oltre.
Nella problematica del rapporto cristianesimo - società, qui istituzionalmente configurato come rapporto chiesa - stato, la teologia pastorale nasce per prevalente impulso statale. L'equazione buon cristiano = buon cittadino suppone una perfetta coincidenza tra la gestione dello stato e il vangelo. Cosa evidentemente tutt'altro che scontata, ma apparentemente pacifica per primi esponenti accademici della teologia pastorale. Così si esprimeva F. Giftschutz nel 1786: «Il pastore, come membro particolarmente importante della società, ha ora un buon numero di occasioni per mantenere i sudditi nella pace, nella tranquillità, di soffocare ogni spirito di rivolta, inculcando vigorosamente nella testa dei suoi subordinati; i loro doveri riguardo all'autorità superiore: fedeltà, obbedienza, rispetto, pagamento onesto delle imposte, ecc. Ecco ciò che lo stato si aspetta da lui, ciò che da lui esige la religione, i cui obblighi stanno.. in rapporto strettissimo con. quelli definiti dalla società. Il buon cristiano è nel medesimo tempo un buon cittadino»[58].

2.4. La configurazione accademica
1. F. Schleiermacher
Dopo Lutero e prima dei grandi esponenti della teologia kerygmatica e dialettica, Schleiermacher è senza dubbio la figura dominante della teologia protestante tedesca. Non sorprende quindi vederlo indicato come «il padre della teologia pratica»[59]. Trasferitosi a Berlino dopo la distruzione dell'università di Halle da parte delle truppe napoleoniche, nel 1807 riceve l'incarico (insieme ad altri studiosi come Fiche K.W. von Humboldt) di dare vita a una nuova istituzione universitaria. A sollecitarlo non è solo la novità dell'impresa; è anche la percezione della diminuita rilevanza del cristianesimo sotto il profilo sociale e culturale[60] (non istituzionale; che anzi l'insegnamento della teologia è visto dallo stato prussiano - non meno che da quello austriaco - come momento politicamente rilevante, nel quadro della cosiddetta “alleanza tra trono e altare", con una chiara dipendenza, nel nostro caso, della chiesa dalla istituzione statale. Schleiermacher, rifacendosi a Schelling e mantenendosi nell'alveo del pensiero luterano, ma anche rispondendo all'istanza kantiana[61], cerca una collocazione della teologia all'interno non della scienza pura (di primo ordine), che si occupa delle verità assolute (filosofia della natura, etica), ma delle scienze pratiche (di secondo ordine), che non hanno per oggetto la ricerca della verità in quanto tale, ma lo sviluppo e il raggiungimento delle finalità proprie e concrete dell'esistenza umana. Commenta acutamente W. Pannenberg: «In un tempo in cui la tradizionale preminenza delle tre facoltà classiche, ma soprattutto della teologia, era stata sostituita dal dominio della filosofia e delle scienze positive da essa originanti, Schleiermacher è riuscito a definire ex novo il posto della teologia nella università. Ma questa determinazione del posto della teologia era legata a presupposti politici più strettamente di quanto Schleiermacher pensasse»[62].
Schleiermacher espose il suo pensiero nell'opera Breve presentazione dello studio della teologia, redatta al fine di lezioni introduttive[63], terminata nel dicembre 1810 (primo anno di insegnamento a Berlino) e pubblicata l'anno seguente a Lipsia.
Ascritta al numero delle scienze positive (quindi legata a un determinato tipo di fede, «scienza positiva per mezzo del rapporto con il cristianesimo»[64]), la teologia è necessaria non alla ricerca della verità in sé, ma in rapporto allo svolgimento del compito pratico della conduzione della comunità ecclesiale (Kirchenleitung): «la teologia non è propria di tutti coloro che appartengono ad una determinata chiesa e in quanto vi appartengono, ma lo è solamente nel caso che e per quanto partecipino alla conduzione della chiesa. Così l'antitesi tra costoro e la massa e il sorgere della teologia si condizionano a vicenda»[65].
Anche l'unità del sapere teologico non viene dedotta dall'oggetto proprio della teologia (Dio, là fede cristiana), ma dalla sua destinazione pratica. Forse, più che la filosofia idealistica (il cui movimento dialettico serve per giustificare una scelta di fatto) influì su Schleiermacher l'esperienza di vita. Egli aveva infatti intrapreso fin dal 1794 l'attività di pastore della chiesa riformata.
Accanto alla teologia filosofica (analisi critica del fatto cristiano come «elemento necessario per lo sviluppo dello spirito umano»[66]: legittimazione universitaria dell'ambito teologico; e sua apologia culturale) e alla teologia storica (parte centrale e fondante della ricerca teologica), la “teologia pratica", volta al fine della conduzione ecclesiale, ha carattere decisamente operativo: «il sapere relativo a questa attività si costituisce in una tecnica che noi, considerando insieme tutti i diversi rami di essa, indichiamo con il nome di teologia pratica»[67]. Si rimane, insomma, nell'ambito delle Kunstregeln applicative.   L'aporia è colta già da A. Graf: «si dà una teologia pratica non per il fatto che la teologia comporta un interesse anzitutto pratico, ma si dà una teologia pratica, che comporta tale interesse, per il fatto che la chiesa é una chiesa che si autoedifica»[68]. Osservazione senz'altro pertinente nella pars destruens, ma non scevra anch'essa di problematicità. Piuttosto, molti degli aspetti che Schleiermacher attribuisce alla teologia filosofica (la questione della religione in rapporto alla situazione, l'analisi delle prassi pastorali...) appartengono in realtà al compito proprio della teologia pastorale.
Schleiermacher, che avverte il problema, si affretta a precisare che non si tratta di un banale strumentario pratico ad uso dei pastori, ma di una metodologia nel senso più alto e nobile del termine. Qualcosa che non si sbriciola nella miriade delle esecuzioni, ma «ha soltanto a che fare con l'esatto modo di procedere»[69]. Per questo Schleiermacher denomina gli imperativi della teologia pastorale «regole d'arte nel senso rigoroso della parola»[70], quelle cioè in cui l'applicazione pratica non è predeterminata, ma deve essere di volta in volta scoperta in relazione alla situazione concreta. In maniera germinale e con illuminazione parziale, Schleiermacher tocca qui uno dei nodi cruciali della problematica teologico-pastorale, evidenziando due esigenze di fondo: la non deducibilità degli imperativi pastorali dalle premesse dottrinali (al contrario, la loro individuazione si fa a partire da un confronto delle diverse prospettive); l'acquisizione, da parte dell'operatore, di un adeguato bagaglio tecnologico (così traduco le «regole d'arte» in senso rigoroso), da non confondere surrettiziamente con abilità tecniche. Rimane totalmente aperta la questione dei delicati equilibri tra i diversi fattori in gioco. Ma sarebbe ingeneroso attribuirlo a demerito. È su questo terreno infatti, che negli anni recenti e ancor oggi, si dibatte la quaestio epistemologica della teologia pastorale (e non solo).

2. Tra pragmatismo e scientificità
Come ha notato R. Marlè, «ci sono relativamente poche cose da rilevare a proposito dello sviluppo della teologia pratica e del suo concetto all'interno del protestantesimo, dopo Schleiermacher»[71].
Possiamo ricordare l'approccio sistematico di Marheineke[72], con l'idea guida che «la teologia pratica si colloca nel reale, la teologia teoretica nel possibile» e quello più disteso e organico di C.I. Nitzsch (1787-1868), discepolo di Schleiermacher, con i tre volumi della sua Praktische Theologie[73], destinata a rimanere per lungo tempo il classico in ambito protestante, tenta una costruzione organica e fondata. Fermo restando l'impianto pratico di tutta la teologia, vista come scientia ad praxim, egli rileva la specificità della teologia pastorale, che ha per oggetto proprio l'autoattivazione (Selbstatigung) della chiesa, ed è quindi scientia praxeos[74]. Molto sottolineato il radicamento ecclesiologico. E il radicamento ecclesiologico, benché fortemente limitativo, mette in evidenza una dimensione più aperta che non in Schleiermacher: «il soggetto della pratica ecclesiale del cristianesimo non è in primo luogo né il singolo cristiano in quanto tale, né il chierico, ma propriamente la chiesa»[75].
Il tragitto metodologico che egli propone riveste un certo interesse. Si tratta di tre dimensioni: empirica (osservazione della situazione storica presente), logica (costruzione del concetto teologico di chiesa) e tecnica (individuazione dei modi di procedere idonei alla soluzione del compito) tra loro interconnesse[76].
Un cenno merita C.D.F. Palmer (1811-1875) che, durante gli armi di docenza a Tubinga (1852-1875), approfondisce l'identità propria della teologia pastorale[77]. Pur mantenendone ben saldo il riferimento alla vita ecclesiale, egli vuole evitare il pericolo che essa finisca per cedere il proprio spessore teologico alla dogmatica ecclesiologica (come avviene in Nitzsch). Mentre spetta alla dogmatica «rendere perspicui i fatti divini» nella loro intangibile necessità, ad altre discipline tocca riflettere su «ciò che non è ancora un fatto, ma dovrà esserlo, e precisamente non nel senso d'una necessità divina, ma mediante là libertà umana»[78].
A questo si dedicano appunto l'etica (per quanto attiene la vita cristiana personale) e la teologia pratica (per là, vita ecclesiale). Pannenberg ha mostrato i limiti e le carenze di questa posizione[79]. Tuttavia essa ha il merito di aver individuato con chiarezza il nodo di una troppo a lungo protratta sudditanza della teologia pastorale nei confronti della dogmatica, come pure la sua stretta affinità con l'etica, in quanto ambedue direttamente concernenti la prassi cristiana.

3. Il manuale, tra efficientismo e interiorità.
In campo cattolico la manualistica riceve nuovo impulso dalla istituzione della cattedra universitaria viennese. Si pubblicano manuali di mole ponderosa; vere e proprie summe di insegnamenti e consigli pratici circa i doveri del pastore d'anime, soprattutto nella sua qualità di formatore delle coscienze e promotore di pubbliche virtù. Si tenta in qualche modo di superare l'impostazione atomizzata della casistica e di ordinare la materia secondo una mappa più articolata e pensata. Ma il progresso si ferma generalmente qui.
Fa eccezione, in questo quadro piuttosto appiattito e monocorde, l'opera di J.M. Sailer (1751-1832) che caratterizza il suo insegnamento («Dillinger Universitat») e, poi, la sua Pastoraltheologie[80] per un più alto spessore biblico-teologico (polarizzazione cristica, ecclesiale e salvifica, che strappa il pastore dalla costrizione mortificante del funzionario statale, per ricollocarlo in una dimensione corretta e feconda). Permane la concezione della teologia pastorale come «scienza che ha come scopo immediato la formazione del pastore d'anime»[81].

4. Anton Graf
A. Graf avverte con chiarezza l'esigenza di una fondazione scientifica e di un radicamento ecclesiologico della pastorale. Due fattori senza dubbio determinanti.
Raccogliendo l'eredità di J.S. Drey e di J.B. Hirscher, attento il primo alla connotazione pratica del fatto cristiano, il secondo alla sua imprescindibile impegnatività etica, soprattutto, del suo maestro J.A. Mohler, Graf, «Privatdozent» nella università di Tubingen, pubblica nel 1841 la sua Kritische Darstellung der gegenwartigen Zustandes der praktischen Theologie prevista in tre volumi e rimasta incompiuta.
La sua prima preoccupazione è quella di superare definitivamente l'impostazione empirica e pragmatica dei manuali. «Possediamo noi - si domanda all'inizio del suo lavoro - una teologia pratica fondata e sviluppata scientificamente?»[82]. Lo stimola certamente la constatazione che «i protestanti hanno fatto molto più dei cattolici, in questi ultimi anni, per la costruzione scientifica della teologia pratica»[83]. E, in misura non minore, il basso profilo della teologia pastorale corrente, in cui «tutto è trattato a livello pragmatico. I mezzi al fine, il fine stesso e la fisionomia del clero sono rinvenuti nell'esperienza. Ancora l'esperienza dice che spesso il clero non è in grado di affrontare adeguatamente i propri compiti. Per cui si appronta subito un'indicazione... e questa indicazione viene chiamata teologia pastorale»[84].
Spinto da questa esigenza scientifica e dall'inconfessato desiderio di rivaleggiare con la costruzione dell'enciclopedia teologica schleiermacheriana, Graf si impegna in una delineazione rigorosa. Egli parte da una precisa concezione della teologia intesa, globalmente, come «autocoscienza scientifica della chiesa»[85], la quale, dunque, è «l'oggetto necessario che la teologia è chiamata a sviscerare sotto ogni aspetto»[86]. E poiché la chiesa presenta tre aspetti fondamentali (ha un passato, una precisa e determinata essenza divina, si costruisce nel futuro), la teologia si compie in tre diramazioni principali:
1. teologia biblica e storica, che ha per oggetto l'origine, la conservazione e lo sviluppo della chiesa lungo i secoli fino ad oggi;
2. teologia teoretica (dogmatica e morale), che si rivolge all'essenza immutabile della chiesa;
3. teologia pratica, che si occupa della conservazione, sviluppo e realizzazione della chiesa nel futuro, cioè della sua autoedificazione (Selbstserbauung)[87]. La teologia pastorale non è né un'esigenza della conduzione della chiesa (Schleiermacher:), né si riduce a indicazioni pratiche per la cura d'anime (manualistica), ma riflette una dimensione intrinseca della esistenza stessa della chiesa[88].
La centratura ecclesiologica sembra a prima vista gettare nuova luce sui soggetti della azione pastorale. Graf infatti, sottolinea che tutte le componenti della chiesa sono chiamate attivamente in causa. Un'azione che riguarda non soltanto «i singoli nei confronti dei singoli e del tutto, ma tutti, con e mediante Cristo e il suo Spirito, nei confronti del singolo e del tutto»[89]. Graf è mosso, in questa sua considerazione, da un'esigenza concreta: garantire l'indipendenza della chiesa dall'ingerenza statale, rafforzare la sua autonoma e intima costituzione. Il progresso è innegabile, ma non senza prezzo. La forte connotazione ecclesiologica si rivela un'arma a doppio taglio: la teologia pratica come Graf l'intende non è in fondo che una variante della ecclesiologia sviluppata dalla scuola di Tubinga. Leggervi anticipazioni di una corresponsabilità reale fondata sulla ecclesiologia di comunione significa cadere in un imperdonabile anacronismo. Di fatto, Graf rimane fortemente ancorato a una delimitazione clericale della teologia pastorale. Compito di questa è infatti trattare «da un lato, l'oggetto, il terreno, la sfera delle attività spirituali, dall'altro tutti i molteplici fattori che a fianco e con quello spirituale e per suo mezzo realizzano il regno di Dio»[90]. In altri termini, la teologia pastorale è propriamente interessata e indirizzata a coloro che ricoprono l'ufficio ecclesiastico. E ciò in due diramazioni: come «scienza e teoria del governo della chiesa (Kirchenregiment)», configurandosi principalmente come diritto canonico; come «scienza e teoria del servizio ecclesiale (Kirchendienst)», nella figura della teologia pastorale[91].
Ne risente, di conseguenza, anche l'impostazione metodologica, che rimane tipicamente deduttiva. Il superamento del pragmatismo empirico conduce cosi il Graf a una quasi totale svalutazione dell'esperienza.
In seguito, nonostante il diligente tentativo di J.Amberger[92], si torna all'impianto manualistico, di stampo applicativo[93]. C'è anche chi considera una elaborazione argomentata e critica dell'agire ecclesiale come rischio eversivo: «ogni cosiddetta costruzione scientifica della pastorale è pericolosa e deviante»[94].

2.5. L’interesse pastorale
1. Il Pastoral Counseling
Dopo la metà del secolo XIX si fa sentire, particolarmente in ambito protestante, l’influsso delle nuove scienze positive: l'attenzione alla costruzione sistematica, centrata su un'idea guida, lascia il posto all'interesse per il dato fattuale nella sua singolarità e osservabilità. Ne segue l'attenzione alla realtà psicosociale, ma, nell'ultima parte del secolo (influsso del decadentismo) si accentua nella manualistica la propensione individualistica e devozionale: l'ufficio pastorale è presentato come «cura d'anime», intendendo quest'ultima in maniera prettamente individualistica, e si articola secondo la classica ripartizione del triplice munus (magisterium verbi, ministerium gratiae, regimen animarum). Dopo la prima guerra mondiale, la teologia dialettica, con il suo forte impegno il suo totalitarismo evangelico e la sua attenzione pastorale marca di sé anche la produzione teologico-pastorale. Soprattutto per quanto concerne la predicazione, "l'evento della parola".
Ma è negli Stati Uniti che, a partire dagli anni Trenta, si sviluppa un movimento di tutto rilievo, che merita la nostra attenzione.
Sul terreno incerto e insidioso di approcci psicoterapeutici (Clinical Pastoral Training)[95] si colloca l'opera notevole di S. Hiltner, «una teologia pastorale che diviene classica nell'ambiente nordamericano e che sarà ripresa, negli armi '70, in campo europeo superando, tra l'altro, i confini confessionali»[96].
Hiltner distingue le discipline teologiche in due grandi ambiti: operation-centred branch of theology (branca della teologia centrata sull'azione) che si interessa della vita cristiana vissuta, appartengono le discipline pratiche; al logic-centred branch of theology (branca della teologia centrata sulla logica) quelle che si occupano del senso, sviluppo e significato della fede contenuta in testi scritti[97] La centratura di queste ultime è detta logica perché esse si riferiscono a testi normativi e ne organizzano logicamente i contenuti. Le prime, invece, costruiscono il loro bagaglio teoretico (principi, teorie, conclusioni) a partire da riflessioni sugli eventi.
Al diverso oggetto, corrisponde quindi un diverso itinerario metodologico: storico-critico per le discipline «logiche», empirico-critico per quelle «operative». In questo quadro, trova posto il rapporto della teologia pastorale con le scienze profane (in particolare psicologia e sociologia), in analogia con le altre discipline teologiche più tradizionali, che si sono venute elaborando con il costante apporto di scienze quali la linguistica, l'archeologia, la storia ecc. La teologia pastorale si inserisce quindi a pieno titolo nel novero delle discipline teologiche, in quanto la sua elaborazione «incomincia con interrogativi teologici e conclude con risposte teologiche»[98]. L'apporto indispensabile delle scienze profane non ne insidia la qualificazione teologica, ma ne garantisce il carattere di praticità. Praticità che esige quella sistematicità che è caratteristica del' sapere teologico scientificamente organizzato.
La configurazione della teologia pastorale si presenta ben individuata e articolata:
            1.Sheperding (attenzione pastorale).
È la prospettiva generale caratterizzante. Si deve superare, secondo Hiltner, la tensione tra aspetto soggettivo (gli atteggiamenti e le disposizioni del pastore) e aspetto oggettivo (le azioni pastorali «vere e proprie», come predicazione e catechesi): la cura pastorale, si pone come fascio di relazioni, centrate non sulla figura del pastore-curatore d'anime, né sulle persone oggetto delle sue «cure», ma sull'idea guida del massimo comandamento (amore di Dio e del prossimo, indissolubilmente uniti). L'attenzione pastorale supera così la classica ripartizione dell'agire pastorale (tria munera), e meglio si delinea su tre indicatori di riferimento:haeling (salvezza, fisica e spirituale), sustaining (sostegno, adeguatamente attrezzato); guiding (attività di educazione, morale .e spirituale), che costituiscono la pastoral theology propriamente detta.
            2. Communicating (i processi di comunicazione).
Problema cruciale per Hiltner, la questione della comunicazione efficace del Vangelo, attraverso il confronto onesto e metodico con il linguaggio corrente e dei mass-media. E' necessaria perciò una valutazione attenta dei fenomeni e una più precisa individuazione della specificità del linguaggio cristiano, che non consiste - ed è un'intuizione importante - in alcune formule cristallizzate, ma si realizza nella dinamica comunicativa adeguata alle strutture costitutive della fede e della vita cristiana. E' la educationa and evangelistic theology[99].
            3. Organizing (i dinamismi organizzativi).
Si tratta della azione pastorale intesa a costruire la comunità come corpo organico, con attenzione soprattutto ai più deboli ed emarginati. Da questa prospettiva si sviluppa la ecclesiastical theology.
L'opera di Hiltner costituisce un apporto significativo, anche se la sua prospettiva rimane ancora fortemente tributaria di una visione clericale e individuale.

2. La pastorale d'insieme
Nel 1943 H. Godin e Y. Daniel pubblicano a Parigi un volume destinato ad avere amplissima risonanza: Francia, paese di missione?[100]. Il titolo scuote la convinzione pacifica di una persistente cristianità: siamo di fronte alla prima lucida presa di coscienza di una situazione radicalmente mutata. Non mancano prodromi significativi, ma è con quest'opera che il problema non è più avvertito come settoriale: ad esserne investita è l'intera concezione dell'agire pastorale. Sulla stessa linea si collocano, due anni dopo, la ricerca sull'ambiente religioso rurale di F. Boulard, e le considerazioni di G. Michonneau sulla parrocchia urbana[101]. Maturati in ambienti e su esperienze diversi, questi tre lavori evidenziano alcune linee di fondo comuni che hanno fatto scuola, e vengono comunemente indicate come «pastorale di insieme». Eccone i tratti salienti.

a .Pastorale in situazione
L'attenzione al milieu è il primo elemento caratteristico della pastorale d'insieme. L'ambiente - inteso nella sua complessità di intreccio di rapporti, situazioni, strutture sociali - è così avvertito in tutta la sua forza di condizionamento. Mentre la parrocchia vive nell'illusione di un ambiente omogeneo (cristiano) in cui esistono - magari numerosi - dei «lontani», la pastorale d'insieme comprende che, tramontato definitivamente il milieu come dato unitario, ciascun individuo partecipa di fatto ad ambienti socio-culturali diversi (a volte divaricati e opposti). Sono questi ambienti, è non l'istituzione territoriale, a influenzarne la mentalità, a orientarne le scelte. Irrigidita nella sua univocità, la parrocchia si ripiega su se stessa, offre servizi culturali e «religiosi» a chi ne fa richiesta, masi marginalizza di fronte ai problemi che toccano la maggioranza degli uomini.
Necessità quindi di indagini, metodiche e rigorose, che consentano una comprensione valida della realtà.

b. Missione e rinnovamento (cambio di paradigma e di modello)
La pastorale d'insieme si rende conto che, fermo restando il valore insostituibile dell'apporto personale, della santità ecc., da certe strettoie si esce solo cambiando impostazione, metodo e strutture, e, contemporaneamente, sapendo incidere sulle strutture socio-culturali (milieu), che danno forte impronta alla formazione della mentalità e del costume. Questa importante intuizione non avrà, purtroppo, la fortuna che meritava.
Un annuncio credibile per una missione efficace è possibile solo da parte di comunità cristiane reali, veri luoghi di fraternità e solidarietà: comunità, missionarie per le loro stesse modalità di esistenza[102]. Si parla anche di parrocchie o comunità «per affinità», da raccordare sapientemente a livello parrocchiale e universale[103].

c. La zona umana
La pastorale tradizionale, centrata sul pastore di una piccola comunità, è del tutto impari. Ecco allora la necessità di ridefinire la suddivisione territoriale delle parrocchie e, soprattutto, di superare uria visione campanilistica per trovare, nella interazione e integrazione degli sforzi, strumenti capaci. di rispondere alla sfida del nuovo. Si tratta allora di individuare la «zona umana»[104], l'unità territoriale sociologicamente effettiva: dalla parrocchia centrata su una topografia anagrafica alla zona pastorale, relativa a una più complessa realtà di geografia antropica

d. I soggetti e il metodo della pastorale
 È necessario allora il coinvolgimento di tutte le componenti della comunità ecclesiale. I laici non sono considerati meri recettori, ma chiamati ad essere soggetti attivi della missione. Il presbitero, di conseguenza, non limita la propria azione alla cura individuale delle «anime», ma si fa animatore e promotore di comunità vive e missionarie. Questa visione segna in maniera caratteristica l'impostazione metodologica: pastorale d'insieme (come unione e coordinazione delle diverse realtà esistenti, come correlazione degli sforzi in ordine alla soluzione dei problemi, come metodo di lavoro: équipe[105] è un'altra delle parole chiave della pastorale d'insieme più ascoltate e proclamate che effettivamente realizzate). Con un'opera di coordinamento che non è solo organizzativa, ma ecclesiale e ministeriale (vescovo e presbitero).
La 'pastorale d'insieme' ha risonanza in tutta Europa[106]. In Italia, G. Ceriani[107], trae spunto dalla pastorale d'insieme (o «organica», come egli preferisce) per lanciare il rinnovamento della prassi ecclesiale in Italia. Anche in Germania, nel contesto della ricostruzione post-bellica, alcuni autori, e in particolare V. Schurr, ripensano l'agire pastorale in forme più attente alla situazione, dando vita alla cosiddetta «pastorale d'ambiente» (Umweltseelsorge): superamento della visione individualistica ed essenzialistica (cura «d'anime»), attenzione esigenze esistenziali e storiche.
Non emerge in questo filone la considerazione delle più sottili questioni epistemologiche. Ma rimane il merito indiscusso di un ben saldo legame con la prassi pastorale effettiva.

2.6. Il Vaticano II e la teologia pastorale
E' abituale la connotazione pastorale del Vaticano II[108]. Ma non scontata[109]. Essa dice «nella coscienza del Magistero ecclesiastico la persuasione dovere essere la dottrina cristiana non soltanto verità da investigare con la ragione illuminata dalla fede, ma parola generatrice di vita e azione, e non soltanto doversi limitare l'autorità della Chiesa a condannare gli errori che la offendono, ma doversi estendere a proclamare gli insegnamenti positivi e vitali, ond'essa è feconda»[110].
Il Vaticano II «ha voluto rinnovare la vita della Chiesa e non definire una dottrina; ha messo in valore la teologia pastorale e orientato tutta la teologia e la formazione sacerdotale in senso pastorale: ha raccomandato corsi di introduzione alla pastorale e tirocini pratici, domandato l'animazione di questa scienza mediante interconnessioni (tra lo studio, la vita spirituale, la celebrazione della liturgia; con la Chiesa e il mondo di oggi), preteso la riforma degli studi ecclesiastici in funzione dei loro obiettivi pastorali. Inoltre, esso reclama l'istituzione di corsi per completare la formazione pastorale, l'installazione di un consiglio pastorale, la redazione di un direttorio pastorale, la fondazione di istituti di pastorale»[111].
L'«aggiornamento» voluto da Giovanni XXIII, ha importanza decisiva per la teologia pastorale. Questa sta o cade, infatti, a seconda del riconoscimento (critico!) che si accredita alla legge storica del cambiamento. Ciò non significa certo rottura con il passato, ma esigenza di «rimettere in valore e in splendore la sostanza del pensiero e del vivere umano e cristiano di cui la Chiesa è depositaria e maestra nei secoli»[112]. Patrimonio vivo e vitale, dunque, che deve essere in ogni tempo e luogo sviluppato secondo le sue originarie potenzialità, mai esaurite dalle precedenti esperienze.
Altra espressione emblematica, «segni dei tempi»[113]. Anch'essa attesta un orientamento pastorale disteso nel confronto culturale e convinto che la storia degli uomini è essa stessa interpellanza e manifestazione della volontà di Dio[114].
La ecclesiologia di comunione (come sarà in seguito denominata) e la rinnovata dottrina della rivelazione[115] stabiliscono un quadro di riferimento che rende teologicamente plausibile (necessario!) il superamento della visione meramente applicativa della teologia pastorale, una riflessione teologica aperta sul farsi quotidiano della storia salvifica, impegnata a indicarne, con la povertà ma anche con la ricchezza dei mezzi di cui dispone, linee progettualmente pertinenti e operativamente efficaci.
Le conseguenze per la teologia pastorale (e ancor più per l'azione pastorale) sono di enorme portata. Non c'è capitolo della vita cristiano-ecclesiale che, dopo la "rivoluzione copernicana" del Concilio, non debba essere riscritto.
Il Concilio non affronta, ovviamente, il problema epistemologico dell'identità della teologia pastorale. L'espressione, del resto, ricorre una sola volta nei documenti conciliari. Ma la questione è presente, e non a margine. Affiora, per esempio, quando si tende a distinguere tra l'aspetto propriamente teoretico e l'esercizio pratico dell'arte pastorale o, anche, nella indicazione dei settori in cui si articolano le varie discipline di quella che potrebbe chiamarsi teologia pastorale speciale o, ancora, nel riconoscimento dell'indubbia utilità delle cosiddette scienze umane (in particolare pedagogia, psicologia e sociologia, o, per l'ambiente missionario, etnologia) per la formazione pastorale (nel quadro della connotazione pastorale di tutta la teologia), nella rilevanza attribuita ai processi di evangelizzazione e di corretta, efficace inculturazione.
Non possiamo entrare qui in questioni di dettaglio (ma non per questo di scarso rilievo). Non può sfuggire, tuttavia, una novità di grande rilievo: la presenza di un testo, la Gaudium et spes, qualificato - ed è una novità assoluta - come «costituzione pastorale». Come nota M.D. Chenu, «sarebbe un grave errore vedere in questo titolo soltanto l'enunciazione delle esigenze di un opportuno accomodamento della chiesa alle congiunture in cui si trova nel secolo XX. Si tratta di una asserzione - costituzionale, che tocca l'esistenza stessa della chiesa»[116], come conferma la nota esplicativa apposta al titolo nel testo ufficiale, ove si ribadisce l'unitarietà del documento e la compresenza, in ogni sua parte, dell'elemento dottrinale e di quello pastorale (superamento della visione deduttivo-applicativa). La cui portata si comprende appieno solo ricostruendo la vicenda conciliare della introduzione di questo documento (inizialmente non previsto) e delle fasi articolate e complesse della sua redazione Deve infatti la sua nascita a un intervento del cardinal Suenens che, ricollegandosi a un radiomessaggio di Giovanni XXIII, proponeva di riorganizzare tutta la materia conciliare attorno a due centri focali, la ecclesia ad intra e la ecclesia ad extra. L'immediata adesione, il giorno seguente, del card. Montini spianava la strada al progetto. Quando nel gennaio 1963 la commissione di coordinamento redigeva il nuovo elenco degli schemi, inserì il De Ecclesiae principiis et actione ad bonum societatis promovendum, con il numero 17. Era previsto in due parti: una teoretica contenente i principi fondamentali, e una pastorale con le direttive pratiche per il versante operativo. Tale bipartizione rimane come impostazione di struttura nei lavori di alcuni esperti qualificati - convocati a Malines tra il 6 e l'8 settembre 1963, con una ulteriore decurtazione: la prima parte, intesa a esporre la dottrina teologica sulla presenza della chiesa nel mondo contemporaneo, sarebbe stata sottoposta all'esame del Concilio, in vista della promulgazione di un documento conciliare; la seconda, di indole pratica, sarebbe stata redatta allo scopo di fornire ai Padri materiale utile per eventuali istruzioni, emanate però sotto la. responsabilità delle sottocommissioni e non come testi conciliari veri e propri. Dopo la seconda fase dei lavori conciliari, una nuova riunione -questa - volta ufficiale, con la partecipazione di quasi tutta la sottocommissione a ciò deputata - si svolge a Zurigo (1-3 febbraio1964). L'orientamento è di distinguere nettamente la parte dottrinale, da sottoporre ai Padri ed eventualmente promulgare come testo conciliare, dalla parte pratica, distribuita in cinque capitoli, da presentare come istruzioni pastorali annesse al documento. Questo doppio suscita perplessità, sia per l'impatto culturale del documento, sia per la qualificazione teologica degli adnexa, con interventi diversificati in aula (Felici / Guano / Heenan: «timeo peritos adnexa ferentes»!). Segna una svolta la decisione (30 dicembre 1964), di ripensare tutta la materia organicità, inserendo in esso ciò che di importante si trovava negli adnexa. Sorge allora la questione del genere letterario e della qualifica dottrinale del documento. Nella riunione della Commissione di coordinamento dell'11 maggio 1965 si decide di proporre ai Padri la denominazione innovativa di «costituzione pastorale»[117]. Si potrebbe affermare che la storia di questo documento viene a confermare come la prassi (la vicenda conciliare) abbia una precisa valenza nei confronti della teoria.

2.7. La qualificazione teologica
Dopo gli sforzi di Schleiermacher, Graf (Sailer, Herscher...) si deve a Arnold la ripresa di attenzione alla caratura teologica della disciplina. La messa in questione degli ordinamenti degli studi nell'epoca della contestazione e la situazione di progressivo di stanziamento dalla religione di Chiesa rafforzano tale esigenza, ancor oggi posta in prima attenzione, sia pure con movimento di corsi e ricorsi.

1. F.X.Arnold
Posta la distinzione non meramente formale tra processo salvifico (Heilsprozess) come «incontro tra Dio e l'uomo che a Lui si apre in un atto libero e personale» e mediazione salvifica (Heilsvermitt1ung ma non si tratta di mediazione della salvezza in senso di intermediazione, quasi che la salvezza stessa fosse un oggetto da comunicare, una cosa da trasmettere, e non un evento che si verifica nell'incontro personale tra Dio e l'uomo), la riflessione arnoldiana si muove tutta attorno al principio fondamentale che vuole compresenti ambedue le realtà che intervengono nel processo salvifico, Dio e l'uomo, grazia e libertà, teologia e antropologia, «l'eterno oltre il tempo» (das überzeitltich Ewig) e «l'accadimento dal tempo condizionato» (dos zeitbendigt Einmalige)[118]. É il principio del «divino-umano» (gottmenschliches Prinzip)[119]; chiave di volta della impostazione di Arnold: «è necessario ancorare radicalmente la dottrina pastorale, sviluppata molto spesso senza nessuna criteriologia, nella dottrina dogmatica di Cristo, il Dio-uomo». La pastorale - questa e secondo Arnold la questione decisiva - Schicksalsfrage - non si configura più prevalentemente come cura d'anime, ma come servizio, alla fede (Dienst am Glauben).
Sulla base di questo principio fondamentale, la delineazione della teologia pastorale nei suoi elementi portanti (oggetto, soggetti attivi, ambiti, metodo) si compie con un debito evidente nei confronti di Graf, riconsiderato tuttavia secondo un'ottica non marginalmente innovativa Campo specifico (oggetto) della teologia pastorale è dunque l'autoedificazione della chiesa nel futuro. A tale compito sono chiamati non solo i pastori, ma tutti i cristiani, contro la falsa clericalizzazione dell'agire ecclesiale, ma anche lontano da ogni «spiritualismo nemico di ogni autorità e forma gerarchica»[120]. Gli ambiti prevalenti la predicazione, la celebrazione dei sacramenti e la pietà popolare. Sotto il profilo metodologico, il riferimento polare è alla figura di Gesù buon pastore, realizzazione esemplare della mediazione salvifica Da ultimo, il criterio veritativo degli asserti teologico-pastorali. Anche in questo caso gioca coerentemente il principio fondamentale: posta tra Dio e l'uomo, tra l'eterno e il contingente, la realtà pastorale non può essere determinata da soluzioni valide semel pro semper, ma rimane necessariamente e incessantemente legata al volgere dei tempi e delle situazioni.
Non mancano i limiti[121]. E, tuttavia, Arnold costituisce un punto di non ritorno: la teologia pastorale si elabora a partire da principi teologici propri e non semplicemente come regione limitrofa del previo sapere dogmatico; si pone in dialogo, ma non in dipendenza dalle altre discipline teologiche. In questo senso, si può forse dire che, paradossalmente, Arnold solleva più problemi di quanti non ne risolva. Ma sono, finalmente, problemi nella direzione giusta.

2. Lo  «Handbuch der Pastoraltheologie»
Pubblicato a partire dal 1964 a cura di F.X. Arnold, K. Rahner, V. Shurr e L.M. Weber,[122] con il sottotitolo «la teologia pratica della Chiesa nel suo presente», esso è stato considerato non a torto (anche se molte puntualizzazioni devono essere fatte al riguardo), come uno dei segni più rilevanti della nuova era della teologia pratica, in cui si concretizza, per così dire, la sua definitiva uscita di minorità della teologia pastorale. Anche se ciò avviene più valenza simbolica che incidenza effettiva, sia teologica che operativa.
L'opera risponde all'intento di dare esito alle numerose ricerche teologico-pastorali precedenti, riconoscendo ormai come compito specifico di questa disciplina lo studio propriamente teologico della prassi ecclesiale. L'idea di fondo, in cui si sente l'eco di A. Graf, è così presentata retrospettivamente da Rahner: «In questa concezione la teologia pastorale, che dovremo chiamare più correttamente 'teologia pratica', si definisce come la riflessione scientifica e teologica sulla autorealizzazione (Selbstvollzug) che la chiesa in quanto tale deve darsi nel presente. Il concetto si differenzia da quello del passato soprattutto per due caratteri: da un lato non ci si limita ad analizzare solo l'opera del clero (soprattutto di quello più 'basso') e la 'cura d'anime'in senso stretto, ma si allarga l'attenzione a tutto ciò che la chiesa deve fare, prima nel suo complesso, poi nelle chiese locali ed infine nelle singole comunità... La seconda caratteristica di una teologia pastorale intesa nel modo predetto consiste nella necessità di riflettere sulla concreta situazione della chiesa e fuori della chiesa, dalla quale logicamente dipende la sua autorealizzazione. Bisogna riflettere in 'modo teologico', poiché l'analisi del presente richiede sì anche informazioni profane, che tuttavia, per i fini specifici della pastorale, non possono non venir elaborate in maniera teologica»[123]
Le tematiche direttamente affrontate si articolano in un progetto di ampio respiro: i responsabili dell'autorealizzazione della chiesa (tutta la chiesa, vescovi, preti, diaconi, laici, papa), le funzioni fondamentali della chiesa (predicazione, liturgia e sacramenti, disciplina, stati di vita, opere di carità, missioni...), gli aspetti sociologici, le strutture fondamentali della comunicazione della salvezza, la situazione attuale, il problema ecumenico, il rapporto della chiesa con il mondo e i diversi ambiti della cultura; l'autorealizzazione della chiesa nella comunità (diocesi, parrocchie, comunità funzionali); i sacramenti; le classi naturali; gli ambiti socioculturali (paese, professione, città); la pianificazione e la coordinazione nella chiesa. In tal modo, è superata non solo la restrizione clericale, ma anche la rigida partizione secondo i tria munera considerata di ascendenza più giuridica che propriamente teologica.
Viene esaltato, in questa impostazione, il rapporto con il trattato dogmatico di ecclesiologia, con cui la teologia pastorale condivide l'oggetto materiale. E' la distinzione rahneriana tra ecclesiologia «essenziale» (trattato dogmatico) ed ecclesiologia «esistenziale» (teologia pastorale), che "tiene" soltanto se non si considera la seconda una mera conseguenza applicativa della prima, e la prima come (a livello di comprensione) indisgiungibile dalla seconda: la rivelazione è infatti storica, anche se di una storia con unicità storica. Proprio per questo motivo Rahner ritiene indispensabile premettere una fondazione ecclesiologica allo snodarsi della trattazione teologico-pastorale.
Si fa chiaro così l'oggetto formale della teologia pastorale, il modo specifico secondo il quale essa riflette sulla realtà chiesa: quello appunto della sua autorealizzazione storica[124], cioè delle condizioni di tale realizzazione nella situazione presente. In questa prospettiva, la chiesa è vista «come una realtà dinamica, operante, strutturata come società e inserita nella storia»[125].
La tematica si concentra sui nodi strutturali specifici della comunità ecclesiale in quanto agenti di autorealizzazione della medesima. Soggetto dell'azione ecclesiale è «ogni membro della chiesa non è solo consoggetto della costituzione della chiesa in quanto frutto della salvezza, ma anche (ed in ugual misura) consoggetto della costituzione della chiesa in quanto mediatrice di salvezza»[126]. La diversità di funzione di ciascun membro della chiesa non oppone quindi una parte attiva ad una parte passiva, ma qualifica e differenzia le funzioni proprie di ogni singolo cristiano, inteso sempre come soggetto attivo dell'autoedificazione ecclesiale. Le funzioni fondamentali della chiesa sono rinvenute non tanto in una precostituita griglia teorica, ma a partire dalla vita stessa della chiesa, da ciò che in essa, da sempre, si fa pertinentemente come espressione e funzione della sua esistenza. In concreto, si prendono in considerazione la predicazione della parola di Dio nelle sue diverse forme, la celebrazione della liturgia e dei sacramenti, l'ordinamento e la disciplina della chiesa, il servizio della vita cristiana nel mondo, la caritas come elemento saliente di tale presenza attiva. Problema aperto rimane quello della connessione di queste diverse funzioni tra loro e con la vita della chiesa nella sua globalità.
È merito dello Handbuch aver posto chiaramente in rilievo l'importanza dell'analisi sociale per la teologia pastorale. Tuttavia al di là di qualche dichiarazione d'intenti, il contributo delle scienze sociali rimane per lo più marginale e non si integra organicamente nell'impianto teologico[127]. Il tragitto rimane quindi sostanzialmente deduttivo[128].
L'individuazione dell'oggetto materiale e formale nella sua specificità e nella sua articolazione tematica richiede una metodologia appropriata e richiama l'esigenza di una «analitica scientifica, veramente teologica, della situazione attuale della chiesa»[129]. Sono evidenziati così i due punti focali del metodo: la scientificità dell'analisi e, contemporaneamente, la sua teologicità. Il che comporta non pochi problemi di ordine teoretico. La natura teologica dell'assunto, anzitutto, viene messa in crisi dalla constatazione che l'analitica del presente non rientra nel novero delle scienze della rivelazione, delle discipline teologiche «essenziali» che si costruiscono secondo l'itinerario argomentativo scrittura-magistero-tradizione-riflessione teologica. Non che queste non abbiano nulla da dire in proposito, ma non connotano certamente la figura propria dell'analisi sul campo. In secondo luogo, e qui la difficoltà verte sulla scientificità, data l'esigenza di cogliere la situazione nella sua singolarità e presenzialità, non si vede come si possa parlare di una scienza in senso reale (capace cioè di conclusioni veritative certe e assolute). Dovrebbe trattarsi piuttosto di una scienza descrittiva, di tipo storico o sociologico, che si limita a rilevare dei dati senza pretendere di formulare conclusioni ultimative.
L'assunto è arduo. Viene ribadita, comunque, la necessità ditale analitica scientifica e teologica, cui risponde l'analitica scientifica della situazione attuale ecclesiale come scienza teologica sui generis, motivata teologicamente a partire dal sensus fidei o istinto di fede del popolo di Dio, che implica, per il suo riferimento allo Spirito, un sapere di natura teologale. Si tratta, secondo lo Handbuch, di una comprensione della situazione veramente teologica, anche se spontanea o atematica, perché posta sotto la guida dello Spirito. Come tale, essa produce veri asserti teologici che si qualificano come offerta, come provocazione alla coscienza di fede del popolo di Dio chiamato a confrontare sempre le motivazioni e la qualità del proprio agire in ordine alla autorealizzazione della chiesa. Il carattere non conclusivo di tali asserti impone naturalmente la loro circolazione nel dialogo aperto in cui il teologo pastorale si confronta con i soggetti dell'agire ecclesiale, in particolare con il Magistero.
Posizione fragile, come si vede.
Anche l'esecuzione pratica ditale percorso rimane ferma alla doppia lettura: osservazione e rilevazione del dato empirico (scienze umane, sotto un preciso angolo visuale, quello della loro rilevanza storico-salvifica); approfondimento e comprensione propriamente teologica. Anche se si invoca una circolarità ermeneutica tra i due (valutazione di fede già chiaramente presente nella prima fase analitica[130]). Piuttosto, questo secondo momento si configura come fase di discernimento in cui si fa chiaro che cosa, nelle linee fondamentali, «questa situazione, in tal modo teologicamente interpretata, significa per la chiesa e per il suo agire attuale e che cosa essa include quanto a esigenze fondamentali per questo agire»[131].
La correlazione tra conformità dell'agire ecclesiale alla propria natura originaria (Wesengemassheit) e sua rispondenza alla situazione concreta (Situationsgerechtigkeit) è affermata come esigenza, ma non sufficientemente fondata (episteme) né adeguatamente svolta (metodo).
Oltre che con le altre discipline teologiche[132], la teologia pastorale viene opportunamente delimitata rispetto alla formazione del pastore. Su questo punto, lo Handbuch elabora e sostiene con forza una posizione che merita attenzione: la teologia pastorale non può essere in alcun modo ridotta alla introduzione al ministero pastorale (leggi: clericale). Essa si occupa della realizzazione della chiesa nella sua globalità e in questo senso ha a che fare con la preparazione del pastore.
L'opera monumentale presenta più di una debolezza. A cominciare, proprio, dalla mole elefantiaca dell'opera che finisce per scoraggiare non solo gli operatori, ma anche gli stessi studiosi. Più criticato che letto, verrebbe da dire. Ben presto, infatti, emergono diffuse insoddisfazioni[133], che frenano l'entusiasmo iniziale e lasciano per lo più incompiuti i progetti di traduzione. Anche Rahner ammette: «Aggiungo, per amore di completezza, che questo lavoro d'équipe presenta nei particolari delle lacune, perché non tutte, le sue parti riescono a oggettivare con pari successo e compiutezza l'assunto fondamentale di tutta l'opera».
Inevaso rimane anche il compito di fornire una precisa configurazione e impostazione metodologica a quella analisi della situazione, che pure viene indicata come aspetto peculiare della disciplina.
Questi appunti critici non devono tuttavia sminuire la rilevanza dell'opera. Va riconosciuto ai suoi ideatori e curatori il coraggio di aver promosso un'impresa che segna una svolta di immagine non irrilevante nel panorama teologico.

2.8. La teologia pastorale nel dibattito contemporaneo

1. L'emergere del problema epistemologico in orizzonte ecumenico
Il tracciato di ricostruzione ha riscontrato fin qui il procedere perlopiù indipendente della riflessione teologico-pratica rispettivamente in campo cattolico e protestante: se si fa eccezione per A. Graf, si procede generalmente su binari paralleli. Il nuovo clima venutosi a creare con il Vaticano II, unito ai gravi problemi posti dalla crescente scristianizzazione, pone le premesse per il superamento di tale separazione. Inoltre, anche lo Handbuch aveva contribuito a sfatare il pregiudizio di una theologia pastoratis perennis[134], cattolica, cristallizzata e immobile.
È sul terreno epistemologico che la discussione verifica (almeno per un certo periodo di tempo) un fecondo scambio interconfessionale.
Nel numero inaugurale di Theologia practica, G. Krause individua quattro principali questioni:
·       la questione dell'oggetto, del metodo e della collocazione della teologia pastorale nell'ambito della scienza teologica;
·       l'esigenza di arrestare la fuga della prassi ecclesiale e della fede nello storicismo e nel dogmatismo;
·       l'esigenza di riconnettere, negli asserti teologici, scientificità e praticabilità;
·       la necessità di affrontare seriamente il problema della connessione tra teologia pastorale e scienze sociali[135].
Sono, in buona misura, i nodi ancor oggi sul tappeto. È comunque il primo punto a polarizzare l'attenzione e a produrre i primi frutti di respiro ecumenico. Nella Arnoldshaine Tagung del 1967, sul rapporto tra teologia pratica e speculativa, la trattazione è svolta in prospettiva ecumenica. Da parte protestante, E. Jüngel presenta un articolato tentativo di riconduzione all'unità della prospettiva barthiana (teologia come scienza posta in relazione costitutiva con l'evento della parola) e schleiermacheriana (teologia come scienza positiva, orientata all'interesse pratico della conduzione della chiesa), puntando sul fatto che ambedue le impostazioni si fondano sull'evento della parola di Dio. Oggetto di ambedue è «il medesimo evento della parola di Dio, che vuol essere chiarito nella sua dimensione di accadimento storico (historisch) ed essere corrisposto in un nuovo accadere storico (geschichtlich)»[136]. La praticità è dunque iscritta nel cuore stesso della teologia, in quanto la parola deve essere accolta e sottoposta a riflessione nel suo riferir mento al passato, al presente e al futuro. La teologia pastorale si configura a sua volta come «scienza teologica della parola di Dio come evento»[137], e, in senso più specifico, come «teoria scientifica della prassi ecclesiale da riguadagnare sempre di nuovo»[138]. Ciò è, di per sé, compito dell'intera investigazione teologica. L'attribuzione al campo proprio della teologia pastorale avviene per Jüngel, applicando il principio del vicendevole sgravio: «La teologia pratica sgrava le altre discipline teologiche dalla specifica responsabilità storica della ripetizione della parola di Dio nel presente. La teologia pratica sgrava le altre discipline teologiche dalla necessita di diventare esse stesse pratiche, in quanto essa si assume la responsabilità del dover-diventare-pratico della teologia»[139]. Un passo avanti. Ma resta aperto il cruciale problema metodologico, non meno della questione nodale del rapporto teoria -prassi.
Da parte cattolica K. Rahner, trattando il tema «La teologia pratica nel complesso delle discipline teologiche», ribadisce la nota impostazione dello Handbuch[140].
Il contributo di M. Seitz su «I compiti della teologia pratica»[141] si colloca pure sul versante metodologico, prospettando una collaborazione tra la ricerca storica e quella empirico-critica, e qualificando la teologia pastorale come «scienza dell'attualizzazione dell'evento Cristo nel mondo»[142].
Anche la Arbeitstagung di Jena si muove in orizzonte ecumenico e metodologico. Krause propone di collocare la teologia pratica nell'ambito delle scienze dell'azione, perché tale categoria «rimane aperta a un uso teologico che si propone di riflettere sul rapporto dell'agire della chiesa con l'agire di Dio»[143]. Non emanazione della ecclesiologia, quindi, ma «conoscenza dell'azione ecclesiale come compito fondato sul Vangelo» e «conoscenza della situazione presente dell'agire ecclesiale»[144]. Per una capacità di giudizio (Urteilsvermogen) che non si alimenta soltanto alla conoscenza delle modalità di azione storicamente precedenti, ma esige osservazione critica delle complesse connessioni antropologiche, giuridiche, culturali, politiche e teologiche, in riferimento alle quali l'azione si realizza.
Un guadagno significativo. Ma, come nota W. Fürst, «in questa fase dello sviluppo della teologia pastorale si può certo parlare di una nuova costellazione, ma non ancora di una nuova vera situazione, di un superamento della tradizionale problematica metodologica»[145]. Rimane non chiarita, infatti, la rilevanza teologica della conoscenza specificamente empirica (aspetto epistemologico), come anche la modalità del suo impiego in teologia pastorale (aspetto metodologico).

2. La svolta empirica
L'esito non del tutto soddisfacente delle proposte elaborate sul terreno propriamente teologico, con prevalente centratura ecclesiologica e conseguente ricaduta nella figura secondaria di disciplina applicativa, provoca alcuni interessanti tentativi, che prendono le mosse da una impostazione profondamente diversa. A ciò spinge non solo l'impasse epistemologica, ma anche la constatazione di una progressiva «emigrazione della chiesa dalla società»[146], e il diffondersi di analisi e ricerche di carattere sociologico. Dove l'ambito della prassi viene riconosciuto (anche esageratamente a volte) nella valenza di luogo dinamico di significati.

a. La teologia pastorale, come scienza empirica dell’azione
Insoddisfatto delle conclusioni dei convegni di Jena e Arnoldshain, H.D. Bastian[147] ritiene che solo una esatta conoscenza della realtà (strutture e condizioni di funzionamento) consenta il superamento della situazione di grave disagio pastorale: la teologia pastorale deve abbracciare senza indugio la «logica della ricerca empirica»[148]. Viene radicalmente superata la dipendenza della teologia pastorale da altre discipline teologiche, anzi, decisamente rovesciata, in quanto ora essa sottopone alla rigorosa analisi empirica le possibilità concrete dell'agire ecclesiale e delle discipline teologiche[149].
La teologia è «teoria della prassi», «ermeneutica pratica dell'agire ecclesiale»: orientata criticamente, in quanto osserva la tradizione; orientata empiricamente, in quanto analizza gli ambiti di azione nel presente; è orientata prospetticamente in quanto riflette sulla pianificazione per il futuro[150].
Il tentativo di Bastian, che si riconnette largamente alle tesi di Popper, che ha il merito porre in scacco il predominio e la diffidenza delle discipline teologiche tradizionali, finisce per cadere nell'estremo opposto: la sua impostazione rimane tecnico-funzionale, e pone un concetto e un primato della prassi decisamente inaccettabile.

b. Teologia pastorale come teoria funzionale della prassi ecclesiale
Qui (K.W. Dahm) il riferimento è piuttosto a N. Luhmann e T. Parsons. Dal primo, egli prende il concetto di religione come istituzione nel senso di un sistema organizzato per la trasmissione, legittimazione e trascendizzazione di significati e valori riconosciuti come fondamentali in una società o segmento di essa. Al secondo, è ispirata l'interpretazione funzionale dell'agire ecclesiale secondo una duplice accezione; da un lato in riferimento all'intreccio dell'azione ecclesiale con le altre organizzazioni presenti nella società (impossibilità di considerare isolato o autosufficiente l'agire ecclesiale); dall'altro come considerazione dei compiti che la chiesa è chiamata a svolgere e di quelli che di fatto svolge nella società.
Identificata la funzione della Chiesa (a. «esposizione e trasmissione dei fondamentali sistemi di significato e di valore»; b. «presenza di sostegno nelle situazioni di crisi e nei momenti cruciali dell'esistenza»[151]), la teologia pastorale - teoria funzionale dell'agire ecclesiale  ha il compito di esaminare, teorizzare ed eventualmente modificare le attività nei due ambiti sopra nominati.
Oltre al riduzionismo empirico, questa impostazione, mostra due ulteriori fragilità: insufficiente riferimento alla fede come istanza normativa dell'agire ecclesiale, ridotto a funzione socioantropica; frammentazione dei problemi, non colti nell'insieme.

La teologia pastorale come teoria critica
Negli stessi anni, e con la stessa attenzione a una corretta messa in valore della prassi, ma in acuta contrapposizione alla soluzione tecnicistica e funzionalistica, si sviluppa una linea di tendenza che trova ispirazione nella teoria critica della scuola di Francoforte.
Respingendo Dahm, Otto rende esplicito il suo riferimento alla scuola di Francoforte; non come trascrizione pedissequa, ma come orizzonte di pensiero[152]. Ogni teoria è «costitutivamente rapportata alla prassi, cosa come la prassi mantiene viva la domanda nei confronti della teoria»[153], è connotata da un preciso interesse: in Schleiermacher quello di stampo borghese, per il cristianesimo inteso come parte integrante e garante della società; ora l'interesse per l'emancipazione umana e sociale. La teoria critica considera «gli uomini come produttori delle loro forme storiche di vita»[154].
Sulla base di questa impostazione, Otto propone la sua tesi secondo cui la teologia pratica si pone come «teoria critica della prassi mediata religiosamente nella società».
La prospettiva di Otto, ricca di spunti interessanti, rischia tuttavia di premere a tal punto la dimensione sociale e politica da lasciare a margine quella individuale e spirituale. Inoltre, la prospettiva metodologica empirico-critica è più accennata nelle motivazioni fondamentali che proposta nella sua effettiva esecuzione. Il che rende del tutto giustificata l'obiezione che accusa l'approccio teorico-critico di essere scarsamente utilizzabile nel concreto della prassi ecclesiale.
Sulla scia di Otto si pongono, in ambito cattolico, le proposte di G. Biemer e P. Siller[155], come anche un contributo di N. Greinacher. Senza progressi significativi sotto il profilo metodologico. Anche il tentativo di H. Schroer[156], fortemente impegnato sul piano del confronto con la teoria di Habermas e per molti versi degno di nota non riesce a dipanare l'intricata matassa.

Dal Congresso di Vienna ai giorni nostri
Si tratta dell'incontro promosso dalla Konferenz dei teologi pastorali di lingua tedesca nel secondo centenario dell'ingresso della teologia pastorale nell'ambito universitario. Il ventaglio degli interventi, raccolti in una importante miscellanea, mette senza dubbio in evidenza «un certo consenso riguardo allo stile del pensare teologico-pratico». Cosa che non deve essere sottovalutata. Nella varietà delle posizioni.
Nello stesso anno, la rivista Theologia practica promuove un simposio «sulla coappartenenza di teologia sistematica e pratica». A cinque interventi di teologi sistematici rispondono quattro prese di posizione di teologi pratici. Il risultato non è, anche in questo caso, dei più soddisfacenti, se il punto di incontro deve essere cercato ancora una volta nell'opera di Schleiermacher[157]. Non mancano, tuttavia, istanze degne di nota (per il nostro problema, soprattutto gli interventi di W. Pannenberg[158] e di Ch. Bäumler[159]). Le diverse impostazioni mettono in evidenza che si cercano nuove vie con riferimento a una più pertinente determinazione dell'azione ecclesiale, con riferimento a categorie chiave come parola, simbolo, linguaggio, dialogo, comunità di comunicazione, agire politico; con una rilevante polarizzazione sulla proposta habermasiana dell'«agire comunicativo» ritenuta capace di congiungere la realtà obiettiva del simbolico e la capacità intersoggettiva del simbolizzare e del comprendere critico simbolico.

Teologia pastorale come teoria dell’agire comunicativo
La riflessione epistemologica sulla teologia pastorale trova ricognizione e proposta, alla fine degli anni settanta, nell'opera di N. Mette[160]. Egli riprende la denominazione, più volte comparsa in autori precedenti, di scienza dell'azione (Handlungswissenschafl) collocandola, da un lato, nel quadro teoretico di una ricomprensione dell'intero sapere teologico «sulla base di una teoria generale dell'azione», secondo l'impostazione epistemologica di H. Peukert[161]. La teologia pratica appare così «come scienza teologica (esplicita) dell'azione, all'interno di una teologia concepita (nell'insieme) come scienza pratica»[162], mentre si viene ancorando più specificamente alla teoria dell'agire comunicativo. Il punto di intersezione tra la prospettiva di questa formulazione della teoria critica e lo specifico della fede cristiana è colto nella finalità, cui la teologia viene ascritta, di edificare la communio cristiana. Viene peraltro decisamente respinta ogni riduzione meramente prasseologica (applicativa): Mette prende le distanze non solo dalla impostazione funzionalistica, ma anche dalle forme di teoria critica in cui lo specifico dell'agire cristiano finisca per stemperarsi in una non meglio precisata funzione critico-emancipatoria di carattere generale, e si colloca in una posizione intermedia (Mittelweg).
Ponendosi nell'orizzonte delle scienze dell'azione così come preconizzato da H.  Schelsky[163] e da G. Krause[164] Mette intende subito escludere lo schema di dipendenza ancillare e di pratica emarginazione nei confronti delle altre discipline teologiche. In seconda istanza, indica le caratteristiche fondamentali di una scienza dell'azione: approccio induttivo, valorizzazione dei metodi empirici, orientamento interdisciplinare, capacità di incidenza pratico-progettuale: le buone intenzioni non bastano; è necessaria una precisa impostazione teoretica e metodologica[165].
Si tratta, anzitutto, di ridefinire il concetto stesso di prassi, in modo da superare la nefasta oscillazione tra il pragmatismo che la restringe a mera attività produttiva e l'ipertrofia che ne fa la levatrice della storia. E di collocarlo nel cuore stesso della elaborazione teologica: «nella teologia pratica non si tratta di un sapere che può essere appreso e quindi utilizzato applicativamente; esso non può essere comunicato informativamente a mo' di contenuto oggettivo. Si tratta piuttosto, qui, della comunicazione di una realtà, e insieme del chiarimento della possibilità della sua considerazione teoretica, che costituisce origine di un modificato modo di agire comunicativo»[166].
Il che non va, evidentemente, senza problemi. L'intento di superare la dicotomia teoria - prassi, che sta all'origine di questa impostazione, appare significativo e lodevole, ma problematico teoreticamente per alcuni versi, e, per altri, non del tutto convincente nella sua esecuzione pratica.

Conclusione
Come si è avuto occasione più volte di notare, non era nostro intento presentare una ricostruzione storica esaustiva. Quello di individuare, piuttosto, i momenti significativi e di svolta sotto il profilo particolare della autocomprensione della teologia pastorale: la ricostruzione storica mostra come lo sviluppo della disciplina rifletta le mutevoli situazioni socio-politico-ecclesiali. L'ultimo segmento del tragitto - quello fine millennio - fa parte del dibattito attuale. Non viene qui ricostruito come ricognizione storica, ma è presente, in seguito, nella trattazione tematica del profilo teologico pratico della disciplina.
L'indagine storica ha messo in evidenza l'inseparabilità del sapere teologico dalle concrete condizioni di esistenza della comunità cristiana. Si fa dunque chiara anche la connotazione pratica del sapere teologico nel senso del suo radicamento nella prassi (come già per la letteratura biblica e patristica; e anche, a ben guardare, per la grande scolastica).
Come sì è visto, l'interesse per l'agire pastorale - inteso ancora riduttivamente come ristretto al clero e alla cura d'anime - sorge in un momento di profonda crisi della cristianità europea. Non è un caso che se ne occupi il concilio di Trento con l'istituzione dei seminari, e che, in quel contesto, prendano forma le prime elaborazioni di manuali e prontuari. Anche Lutero, con il catechismo (l'opera cui dichiarava di tenere di più). L'orizzonte resta ancora, evidentemente, dentro la convinzione di una cristianità divisa, magari, ma omogenea territorialmente alla cultura accreditata (cuius regio eius et religio). Per questo in ambedue le confessioni religiose si mantiene una centratura tipicamente ecclesiocentrica della teologia pastorale. In campo cattolico con accento controversista e processo di centralizzazione; in campo protestante con non minore dialettica e processo di alleanza con la nascente cultura borghese.
È soprattutto la prima guerra mondiale a mettere in evidenza lo scacco profondo dell'una e dell'altra posizione, a evidenziare la distanza profonda che si è venuta creando tra la prospettiva cristiana e la vita concreta degli uomini nei suoi problemi e nelle sue istanze. Nuovi movimenti teologici e presenze profetiche significative annunciano, non senza difficoltà e battute d'arresto, le esigenze emergenti. Il ventaglio di fenomeni che, con una certa approssimazione, si è soliti ricondurre al fenomeno (per la verità complesso e differenziato) della secolarizzazione costringe ad allargare le prospettive. Ciò tocca tutto l'universo del sapere teologico. Ma, avendo origine nella prassi ecclesiale e nei suoi disagi, ha particolare influenza sulla concezione della teologia pastorale.
Il nostro tempo gode della opportunità di un bilancio di questa stagione ricca di aperture e non scevra da ingenuità. Alcune acquisizioni sembrano ormai consolidate, e dovrebbero cominciare a dare i loro frutti in una prassi ecclesiale meno inadeguata e smarrita. Alcune intemperanze prassistiche tendono a ricondursi a una più equilibrata visione, senza peraltro disperdere il guadagnò di una valorizzazione non marginale della prassi in ambito teologico. Anche il rapporto con le discipline non filosofiche si pone in orizzonte più sereno, non ulteriormente gravato da massimalismi presuntuosi e irrigidimenti timorosi e miopi. Rimangono problemi aperti, e di non minimo conto, che animano il dibattito attuale.
Negli anni Novanta, si distingue, in Italia, l'opera di M.Midali (Teologia pastorale o pratica. Cammino storico di una riflessione fondante e scientifica, Roma, Las), giunta ormai alla quarta edizione (2000) e all'ampiezza di ben cinque volumi. Essa mantiene, sostanzialmente, il carattere di documentazione storico-problematica del sorgere, del consolidarsi e, infine, del configurarsi epistemologicamente pertinente della disciplina. Una ricognizione attenta e puntuale, diventata amplissima. Interessa qui  il quinto volume, che si segnala per l'articolato impianto dell'itinerario metodologico, scandito nelle fasi kairologica (analisi valutativa della situazione), progettuale (fase progettativa della prassi desiderata), strategica (fase programmatrice del passaggio dalla prassi vigente alla nuova prassi). La figura teoretica di riferimento è individuata - nell'ambito delle scienze dell'azione - dalla metodologia empirico-critica, connotata dal riferimento criteriologico alla fede, perché «in ognuna delle sua tre fasi di attuazione e dei connessi momenti fa riferimento esplicito a criteri di fede, produce giudizi di fede e opera un discernirnento alla luce della fede». Non si può che sottoscrivere. Non viene tuttavia indagata, sotto questo stesso profilo, la specificità pastorale di tale riferimento criteriologico normativo di fede (quella cioè che, rapportando costantemente la verità rivelata alla concretezza antropologica e storica, stabilisce in una prospettiva di reciprocità dialettica - sia pur asimmetrica - la peculiarità del teologare pastorale), né mostrato il principio teologico che la regge (principio di incarnazione). Anche per quanto riguarda l'oggetto materiale della disciplina ci sembra che la posizione del Midali sia discutibile. Essa, giustamente preoccupata di superare una visione angustamente ecclesiocentrica, finisce, tuttavia, per sfumare troppo i contorni della disciplina, che perde così il suo ancoraggio - che è delineazione precisiva - all'azione ecclesiale. La dimensione religiosa, allargata alla prassi «anche extra-ecclesiale, alle varie forme di cristianesimo contemporaneo... o al più vasto fenomeno religioso oggi esistente» è certamente ambito di riferimento e orizzonte generale della disciplina; essa, però, trova il proprio specifico campo di indagine nell'azione cristiano ecclesiale. In altri termini, se è senz'altro vero che questo agire è interessato e coinvolto nel più ampio quadro della prassi religiosa e non si ripiega nell'orticello delle coltivazioni intraecclesiali, è altrettanto opportuno che rimanga ben configurato nel suo ambito proprio, che è ben identificato dalle coordinate della realtà misterica della chiesa e della sua missione. Il lodevole superamento della secolare restrizione clericale non può significare lo sconfinamento in un area tanto vasta da risultare poi difficilmente determinabile. Non solo. Ne verrebbe, in tal caso, una disciplina forse legittima nella sua statuizione, ma non più centrata sulla missione cristiano-ecclesiale, quanto sull'analisi dei fenomeni socioreligiosi in genere. Si comprendono i motivi (universitari ma non accademici) per cui tale apertura di campo è stata operata a partire dall'area tedesca (fenomeno analogo è riscontrabile nell'epistemologia teologica pannenberghiana): ma proprio il carattere non epistemico di tali motivazioni consiglia maggiore circospezione nell'accoglierle. Queste istanze parzialmente critiche non vogliono in alcun modo intaccare il valore di un'opera che onora la produzione teologica italiana e si segnala - nel suo ambito - tra le migliori in assoluto a livello mondiale.
In ambito europeo, deve essere ricordata l'opera di van der Ven[167], su cui si ritornerà in seguito, esponendo il metodo della disciplina e il suo rapporto con le scienze umane. Peccato che lo stesso autore definisca ecclesiologia, sia pur contestuale[168], la sua trattazione tematica, che, in realtà, è un saggio qualitativo di teologia pastorale generale.
Merita attenzione anche l'elaborazione "estetica" di A. Grözinger[169], che colloca lo statuto epistemologico della teologia pratica nell'alveo della ricerca estetica. La teologia estetica è qui intesa come teoria della cultura[170], in cui la prassi estetica è posta in connessione con gli altri ambiti del pensiero e dell'azione, cioè come teoria critica della cultura, con l'intento di sventare il rischio di una copertura estetizzante del disagio e di un parallelo snervamento dell'innovazione.
Nell'area anglofona, che risente evidentemente della ricerca nordamericana (Browning e Tracy in particolare), lo sviluppo della teologia pastorale è ben documentato - in prospettiva evangelica - dal New Dictionary of Christian Ethics and Pastoral Theology, del 1995[171].
Sullo scorcio del millennio, è ancora l'area tedesca a presentare opere di interesse nel campo della trattazione fondamentale epistemologica e metodologica. Si segnala qui l'ampio e originale lavoro di Wolfgang Steck[172], che intende la teologia pratica come teoria della prassi in orizzonte fenomenologico; con la sorprendente declinazione, tuttavia, della disciplina in «scienza della mediazione (mediatisierte[n] Wissenschaft)»[173]. Ma con una eccellente analisi della situazione culturale (autentica teologia kairologica) in relazione alla dimensione religiosa e alla azione ecclesiale. Merita infine di essere ricordato il manuale a più mani edito da Herbert Haslinger[174], dove, nonostante qualche discontinuità (per esempio la diversità di accenti sul metodo vedere, giudicare, agire) viene offerta una valida panoramica della disciplina nel suo impianto epistemico e nella sua delineazione metodologica e tematica.








Cap. 3. La teologia pastorale esigenza della teologia  e della pastorale

3.1.Una esigenza della responsabilità pastorale
L'esigenza (e la fatica) del pensare la pastorale appare immediatamente come esigenza imprescindibile della pastorale medesima. Non è lusso da intellettuali, non appartiene al regno del superfluo. Ha una efficacia che si mostra nel tempo e al tempo resiste.
Le parole e le opere sono sempre legate a un 'pensato'. Quando questo 'pensato' non viene pensato, quando resta a livello inconscio, produce gravi danni.
La nostra epoca, con i suoi cambiamenti radicali, non ammette l'arbitrio e la ripetizione: empirismo, pressappoco, noia, inefficienza degli schemi ereditati...; esige, invece, una pastorale pensata, responsabile, coraggiosa e ben impostata: in quest'ora «magnifica e drammatica» (CfL 3) si giocano - per quanto è in humanis - molte delle possibilità di efficacia dell'azione ecclesiale e del dono della salvezza (Regno di Dio) per le prossime generazioni.
L'esigenza di una riflessione teologico-pastorale efficace è resa manifesta proprio dal ricorso massiccio, da parte degli operatori, alla sussidiazione di ogni tipo (e valore): quasi una implicita richiesta di aiuto. Ma il pret-à-porter offerto dal mercato, accattivante per la capacità di intercettare la domanda, non riesce in realtà a fornire modelli efficaci e convincenti.
Questa situazione di grave disagio, dove nessuna pietra può restare sull'altra, non deve però indurre a considerare la teologia pastorale come scienza della crisi, che sorge e tramonta con la crisi medesima.
La necessità della teologia pastorale si riconduce, piuttosto, alla esigenza che l'azione ecclesiale sia posta sempre in modo corretto ed efficace, sotto il profilo della sua collocazione storico-culturale e sotto quello della sua qualità evangelica. Quest'ultimo aspetto apre la prospettiva sulla necessità della disciplina per ragione interna/intrinseca allo stesso discorso teologico. Detto in parole semplici: una teologia che non sviluppi questo aspetto è mutila e incompleta, e cadrà inevitabilmente nell'ideologia (dato che l'area pratica deve essere normata, se questo avviene in maniera non criticamente riflettuta, finirà per attribuire carattere di necessità - magari dottrinale! - a ciò che è semplicemente l'interpretazione precaria e acritica del soggetto e/o del momento).
E' sottesa a questa affermazione una precomprensione che limita arbitrariamente il sapere teologico all'indagine sulle sulle strutture sempre valide della vita nella fede. Inoltre, rimane aperta la questione se la tale indagine sia pertinenza della teologia speculativa o, toccando le 'strutture' della vita, non chieda necessariamente una comprensione più adeguata. E' fuor di dubbio che la tp risponda alla esigenza di intelligibilità dell'azione pastorale. Ma in alcun modo vi si riduce. Essa, al contrario, appartiene nativamente e costitutivamente al sapere teologico, che, in sua assenza, viene inesorabilmente decurtato e sbilanciato.

3.2.Una esigenza  nativa del sapere teologico
Generalmente, si fanno valere a questo proposito le obiezioni sopra ricordate. Al
contrario, la teologia pastorale costituisce esigenza nativa del pensiero teologico:
·       in relazione al mistero trinitario (secondo la figura dell'economia)
·       in relazione all’alleanza, come struttura costitutiva della fede cristiana
·       in relazione al mistero e alla legge dell'incarnazione[1]
·       in relazione alla struttura della fede (come fides quaerens intellectum). La fides quae per caritatem operatur appartiene - non solo quanto alla sua fondazione, ma anche quanto alle sue determinazioni concrete - alla riflessione propriamente e specificamente teologica. Tale riflessione attiene alla vita del singolo (teologia morale) e della comunità (teologia patorale). Ciò appartiene alla struttura costitutiva della fede: «In fondo, come si vede, l'ordo doctrinae del Catechismo romano non è diviso in quattro parti, ma costituisce un grandioso dittico (fondato sulla Tradizione e non sulla polemica); da un lato, i misteri della fede in Dio Uno e Trino, professati con il Simbolo e celebrati con i Sacramenti; dall'altro lato si parla dell'esistenza umana vissuta nella fede - la fides quae per caritatem operatur - nell'aspetto della condotta cristiana (il Decalogo) e della preghiera filiale (il Padre nostro)»[2].
Una teologia che non riesca a 'tenere insieme' l'alterità radicale di Dio e la sua presenza operante nella storia è una teologia dimezzata. Che l'operare sia posto dentro e non fuori della fede (e quindi della teologia) è ben espresso da Insufficiente, anche se interessante, la posizione recepita dal 47° Sinodo della Chiesa milanese: «Il profilo scientifico dell'istituzione teologica non la finalizza immediatamente all'azione pastorale, tuttavia la impegna alla comprensione delle forme storiche della pratica cristiana nella vita del credente e della comunità cristiana» (n.529). Non si capisce perché appartenga alla teologia il momento ermeneutico critico e non quello ermeneutico progettuale. La vita e l'azione della Chiesa, infatti, appartiene al profilo scientifico della teologia: ciò che attiene strutturalmente all'azione ecclesiale e alla determinazione delle sue concrete figure storiche (non solo alla ricognizione-comprensione di quelle storicamente già date) nella estensione progettativa e attuativa. Non vi appartiene di necessità ciò che attiene alla formazione specifica degli operatori: come per ogni disciplina, la specializzazione e l'acquisizione della competenza professionale sono estensione (non abusiva!) della fisionomia fondamentale della disciplina medesima. Tant'è vero che, a volte, le condizioni chiedono che una specialità si determini in disciplina autonoma (es. l'insegnamento sociale della Chiesa). Senza per questo uscire dal territorio specifico e proprio del teologare scientifico.
Il sapere teologico pratico è dunque teologico per il suo oggetto (materiale e formale) e per il suo metodo.
Perciò, deve essere decisamente respinta la posizione secondo cui la teologia pastorale non sarebbe parte costitutiva del sapere teologico, ma solo esigenza riflessiva e metodica dell'agire pastorale. Così, per esempio B.Seveso: «Questa [la teologia pastorale] non deriva da una articolazione della teologia. Non è per un bisogno della teologia che esiste la teologia pastorale. In particolare essa non rappresenta un prolungamento della ecclesiologia a fini pratici. Si forma e si fonda piuttosto a partire da una richiesta di intelligenza che è insita nell'agire pastorale. La domanda non si limita alle strutture sempre valide della vita nella fede, ma interroga circa le forme concrete di attuazione»[3]. Così anche P.M.Zulehner[4].
La teologia pastorale risponde dunque a una esigenza intrinseca del sapere teologico: appartiene costitutivamente alla compiuta elaborazione scientifica della fides quaerens intellectum, che sarebbe gravemente mutilo senza la trattazione organica delle problematiche inerenti la vita e l'azione della Chiesa; rende possibile alle altre discipline teologiche la concretizzazione fruttuosa e pertinente ditale intenzionalità (divulgazione e fruizione del sapere scientifico); e, da ultimo, si dedica, per la sua parte, alla formazione di specifiche competenze per gli operatori pastorali: per la sua parte, m quanto tale competenza non attiene solo alla progettazione esecuzione dell'azione pastorale nei suoi diversi ambiti, ma anche alla comprensione del fatto cristiano: comprensione da cui l'azione non si deduce, ma senza la quale altrettanto l'azione pastorale non si produce adeguatamente.
Quindi non si deve ridurre la teologia pastorale a disciplina di formazione professionale, ma nemmeno distaccarla dal suo radicamento e dalla sua genetica connessione con la prassi. Perciò, l'articolazione della teologia pastorale - e del suo campo disciplinare come della sua fisionomia didattica - non viene anzitutto ed esaustivamente dalle diverse 'professioni' pastorali, ma dalle esigenze proprie della fede nella sua intrinseca consistenza (osservazione analoga a quella fatta a Seveso a proposito della articolazione disciplinare proveniente dai problemi pastorali.
Ciò che attiene alla formazione degli operatori nelle loro competenze ministeriali specifiche professionalità...) non è parte integrante del sapere e della formazione teologica, ma attiene alla fisionomia propria di ciascuna figura: se tuttavia tale trattazione non è necessaria alla teologia, la teologia è del tutto necessaria ad essa.
In ogni caso, l'utilità dello studio della teologia pastorale sul piano concreto delle prassi ecclesiali si pone anzitutto livello di formazione della mentalità, come approccio sensibile e competente in ordine alla valutazione critica e alla modificazione costruttiva. Consente alla elaborazione dottrinale di non essere estranea e ripetitiva; e alla azione pastorale di non ripiegarsi nella rassegnazione remissiva.
E' necessario differenziare (non dividere!) ciò che attiene alla acquisizione di un compiuto e organico sapere teologico (cui è necessaria la teologia pastorale per logica interna); da ciò che attiene alle singole competenze (professionalità!) pastorali. Questa distinzione orienta la configurazione pertinente del campo didattico-disciplinare.























Cap. 4. Configurazione di una teoria teologica della prassi.

Tema unico e multiforme della teologia pastorale è l'azione ecclesiale. In quanto azione, essa deve essere pensata secondo i principi e i criteri propri di una corretta teoria della prassi (aspetto conoscitivo generale). In quanto ecclesiale, esige che tale riflessione si ponga entro l'orizzonte proprio e qualificante della fede cristiana (aspetto teologico specifico). Tale connotazione rigorosamente teologica è fondata sul principio di incarnazione. Poiché esso tocca problematicamente[5] non solo l'approccio conoscitivo adeguato (rapporto teoria/prassi) di cui ci stiamo ora occupando, ma anche l'oggetto e il metodo della disciplina (è conditio sine qua non di una disciplina che si voglia appropriatamente teologica avere oggetto e metodo squisitamente teologici), vi si dovrà tornare più volte, sotto diverso e convergente profilo.
Procedendo ordinatamente, dobbiamo quindi anzitutto discutere quale sia l'approccio conoscitivo adeguato per la formulazione di una valida teoria della prassi. La questione è resa acuta sia dai luoghi comuni cui spesso si fa (magari implicitamente) riferimento; sia dal dibattito oggi molto vivo in sede di filosofia della prassi.

4.1. I connotati della teoria dell’azione

Spesso, nel pensiero occidentale, l'azione è concepita come espressione del pensiero; o, anche come, manifestazione-esplicazione dell'essere: agere sequitur esse, recita un antico adagio. Tutto ciò è vero, ma solo parzialmente. Se affermato unilateralmente, infatti, dimentica che il pensiero è a sua volta segnato (e non marginalmente, ma costitutivamente) dalla prassi; che l'essere è determinato (non, certo, nella sua struttura ontologica, ma storicamente e psicologicamente) dall'agire (sia precedente: la storia cui si appartiene e la propria storia; sia attuale: l'azione che si sta per compiere, che incide sul soggetto nel momento stesso della decisione di porre o non porre tale azione).
In altri termini, nessun sapere (né poietico, né noetico) può costituirsi prescindendo dalla prassi: nessun sapere precede - in senso assoluto - la prassi; né la prassi origina - in alcun modo autonomamente - il sapere: «Ambedue le cose, essere e divenire, appartengono a pari diritto all'intera immagine della verità. La sua essenza dialogica non è qualcosa che debba venir superato alla fine a favore di un possesso tranquillo. Il dialogico forma piuttosto la perenne, anzi sempre autosuperantesi, vitalità nell'essenza della verità. Una concezione della verità eterna, a cui mancasse questa vitalità che di continuo divampa, sgorga, avanza, non sarebbe che una distorsione e una falsificazione»[6].
Non si dà passaggio diretto dalla teoria pura (speculativa) alla prassi. La prassi esige di essere chiarita progettata e attuata a partire da una teoria propria e specifica.
Teoria dell'azione non significa necessariamente (e certamente non nel nostro caso) adesione a una concezione empirica della Handlungswissenschaft. Piuttosto, una sua comprensione nel quadro di una ermeneutica veritativa e pratica.
Secondo Habermas tutte le scienze sono mosse da un interesse pratico:
1.  scienze dello spirito: prassi comunicativa
2.  scienze della natura: prassi tecnica
3.  scienze sociali: prassi critica o emancipatrice
(1 e 2 sono riconducibilì a 3 negli ambiti della cultura, natura e società).
L'esasperazione di questa 'precomprensione pratica' che è l'interesse (qui ci interessa come coinvolgimento della dimensione pratica in quella noetica; nella trattazione del metodo si farà rilevare la compresenza di fattori precomprensivi in ogni analisi 'obiettiva' dei fatti) conduce però al relativismo e allo scetticismo: la teologia deve comprendersi non solo come ermeneutica della fede professata, ma anche della prassi credente.
Ciò può essere espresso, in forma sintetica ma non riduttiva, nelle seguenti 'leggi', che presiedono alla corretta costruzione di ogni teoria, in specie di ogni teoria dell'azione:
·       indeducibilità della prassi dalla teoria
·       irriducibilità della teoria alla prassi
·       reciprocità dialettica di teoria e prassi
Queste 'leggi' hanno influsso nella costruzione di una teoria della prassi sia nel rapporto della teoria della prassi medesima con le discipline teoretico/speculative (è il caso della teologia pastorale nei confronti del sapere teologico dottrinale), sia nel rapporto tra tale teoria della prassi e la prassi (è il caso della teologia pastorale nei confronti della pastorale).
Dire che la teologia pastorale è scienza pratica o teoria della prassi significa dire che essa tende all'azione, riguarda l'azione; il prodotto non come factum, ma come esito di prassi. La teologia pastorale non si occupa solo dei mezzi (oltre Aristotele) ma anche dei fini: se ne occupa sotto il profilo pratico, cioè della loro conoscibilità, del loro raggiungimento e di tutti i fini intermedi...; non dei fini ultimi, ma dei fini dell'azione posta concretamente hic et nunc.

4.2. La prospettiva teologica

Ciò che è stato fin qui individuato sul versante della razionalità pratica trova corrispondenza genuina esigenza teologica. La fede cristiana, infatti, appare caratterizzata da una costante: la legge dell'incarnazione.

Il principio di incarnazione
La prima intuizione in questo senso si deve al pastoralista tedesco F.X.Arnold, per oltre un ventennio (1942-1969) sulla cattedra che era stata di A.Graf a Tubinga. Di intuizione, appunto, si tratta, non sufficientemente valorizzata sotto il profilo epistemologico e non conseguentemente svolta nella elaborazione metodologica e nella prospettazione del campo disciplinare. Essa qualifica, nella esposizione di Arnold, più l'azione pastorale che non il pensiero teologico pastorale. Che tra le due grandezze vi sia connessione, anzi mutua interiorità, è fuor di dubbio. Ma la trattazione rimane sospesa a mezz'aria, incoativa ed epistemologicamente acerba.
La valorizzazione postuma di Arnold, peraltro assai limitata, coglie di fatto più le possibilità messe in valore dal suo pensiero che non le sue effettive risultanze. Così J.Goldbrunner: «Quanto F.X.Arnold con la sua formula del 'divino-umano' come principio della teologia pastorale avesse ragione, lo dimostra l'ora presente»[7]; ma all'apprezzamento dichiarato non segue la capacità di cogliere in pieno la valenza euristica del principio. Goldbrunner, infatti, delinea le coordinate della sua pertinenza e plausibilità, senza svolgere poi il tema della sua effettiva idoneità a qualificare il discorso teologico pastorale sotto il profilo dell'approccio conoscitivo, dell'oggetto e del metodo. Anche la valutazione di K.Delahaye, positiva, non coglie nel segno: «F.X.Arnold ha messo in piena luce questo punto di partenza [la formulazione di un principio teologico complessivo, che caratterizzi adeguatamente tutta l'attività della Chiesa] nei suoi lavori sul principio del 'divino-umano'. Con questa formulazione rinnovata, chiara e penetrante il teologo di Tubinga riesce ad ancorare la dottrina pastorale, sotto molti aspetti priva di principi, alla dottrina dogmatica di Cristo Uomo-Dio». L'ingenuità di questo apprezzamento, che pone la teologia pastorale in diretta dipendenza da quella dogmatica, non rende giustizia al pensiero di Arnold. Molto più pertinente e penetrante l'ampia analisi di B.Seveso[8]. Non ci sentiamo tuttavia di condividerne del tutto le conclusioni. Da un lato, infatti, egli riconosce che, «nella sua ricchezza semantica, il principio richiama anzitutto la proporzione all'interno del duplice momento dell'avvenimento di salvezza e la natura mediazionale dell'azione ecclesiale; di questa riprende anche la struttura bipolare e ne indica le conseguenze a livello metodologico; con esso è significato il riferimento a Cristo come connotativo della mediazione e inveramento del principio stesso»; dall'altro, però, afferma che «il principio... ha valenza simbolica e perciò non è suscettibile di un'articolazione rigorosa sotto il profilo logico; con esso non è dato un insieme di relazioni logicamente ordinate, ma è significata una intuizione globale del fenomeno pastorale, in cui sono colte nel loro intreccio le problematiche a questi inerenti»[9]. Dove - se comprendiamo bene - la prima affermazione concede troppo, la seconda troppo poco. Del resto, Seveso rimane molto più legato, nella sua impostazione, alla posizione rahneriana, che non a quella arnoldiana.
Che il pensiero di Arnold non abbia trovato apprezzamento effettivo sul piano della elaborazione della teologia pastorale è confermato dal fatto che lo stesso Handbuch der Pastoraltheologie, di cui pure Arnold era uno dei curatori, abbia preferito affidare a un dogmatico, K.Rahner, la fondazione della disciplina e l'impostazione dell'opera.
L'incarnazione lega come filo conduttore tutta l'opera di R. Tonelli, nell'ambito della pastorale giovanile. Essa è tuttavia valorizzata più come criterio della azione pastorale, che come principio euristico della teologia pastorale. Che l'una cosa rimandi all'altra è senza dubbio vero; ma l'attenzione di Tonelli è molto più attratta dallo svolgimento concreto delle tematiche pastorali che non dalla discussione epistemologica. La sua prospettiva, tuttavia, si avvicina -per questo aspetto - alla nostra: «L'incarnazione... ci propone un evento salvifico, che fonda un metodo pastorale, un metodo cioè di attuazione di questa salvezza. In questo senso, la considero il criterio fondamentale della pastorale... La pongo al centro di ogni ricerca... Dall'evento dell'Incarnazione la pastorale ritrova il suo obiettivo e l'orientamento metodologico fondamentale: attuare la salvezza 'incarnandosi' nella vita quotidiana»[10].
L'incarnazione come principio di fondazione teoretica della teologia pastorale (non meno che come criterio ermeneutico-progettuale della prassi cristiano-ecclesiale) non è un avvenimento circoscritto e isolato. La sua singolarità è la singolarità stessa dell'agire di Dio nella storia per la salvezza dell'uomo. La manifestazione di Dio gestis verbisque stabilisce una struttura costituiva del fatto cristiano e, di riflesso, una condizione noetica imprescindibile della sua pensabilità, sotto il profilo sia speculativo che pratico. In questo senso, l'incarnazione «rimane il punto di partenza, il punto centrale di ogni fede cristiana»[11].
Per quanto attiene la teologia pastorale, ciò può esser così sinteticamente descritto:
            a) L'oggetto della disciplina: la legge dell'incarnazione determina senza incertezze la teologicità dell'oggetto. L'azione ecclesiale non è, nella sua valenza salvifica, azione semplicemente umana. In essa e per essa (struttura sacramentale o principio del divino-umano) la salvezza avviene qui e ora. Solo la dimenticanza di questo principio fondamentale ha potuto collocare l'azione salvifica alle spalle dell'azione ecclesiale (e non dentro di essa) sfigurando l'originalità cristiana della 'mediazione', che trova nel Verbo incarnato figura di riferimento originaria e, propriamente parlando, realizzazione unica e irripetibile (efapax): ogni altra 'mediazione' ha carattere sacramentale; non ripete, raddoppia, o 'intermedia' la mediazione di Cristo. E' la stessa unica mediazione fatta sacramentalmente presente ed efficace. Quanto all'oggetto formale - l'azione ecclesiale 'qui e ora', nella sua attuazione e progettualità - è evidente come l'attenzione e l'assunzione dei luoghi antropo-storici non avvenga per successivo adattamento, ma per intima 'condiscendenza', che qualifica la rivelazione divina (DV 2) e trova il suo fondamentale riferimento nella realtà della creazione, e stabilisce pertanto non solo l'opportunità, ma la necessità intrinseca della inculturazione della fede nelle sue formulazioni cosi come nelle sue espressioni di vissuto ecclesiale.
            b) Il metodo della disciplina. E' un punto cruciale per l'elaborazione disciplinare. Di fatto, permangono impostazioni ancora inadeguate, sotto molteplice profilo. Perché il metodo sia riconosciuto nella sua qualità teologica (ci limitiamo a questo aspetto) è necessario che esso sia posto in tutto il suo percorso nel segno esplicito della riflessione di fede. Ciò non avviene, per esempio, in molti autori della cosiddetta teologia della liberazione; ma nemmeno nel classico metodo 'vedere, giudicare, agire'. L'inseparabilità di fatti e parole e la struttura sacramentale dell'azione salvifica che a ciò ben si connette consentono invece, insieme ad altre considerazioni, di prospettare una metodologia in cui dall'analisi della situazione alla attuazione del progetto il discorso proceda in maniera organica e integrata, nella sua corretta fattispecie teologica. E' necessario anzitutto articolare una  analisi della situazione che non sia solo consecutivamente, ma, appunto, immediatamente teologica (superamento della dissezione vedere/giudicare). Poi, un momento di decisione-progettazione e uno di attuazione verifica delineati costantemente nella correlazione di reciprocità asimmetrica che stabilisce l'idoneità teologico-pastorale della riflessione: dove la prospettiva di fede si pone in relazione critica e feconda con le coordinate socio-culturali. Si profila in tal modo una metodologia che si può definire come metodo del discernimento pastorale, caso tipico del discernimento evangelico.
La teologia pastorale è dunque riflessione teologica sotto ogni profilo, in quanto lo è:
·       il suo oggetto: azione ecclesiale, realtà divino-umana, legge della incarnazione, struttura sacramentale costitutiva...
·       il suo metodo: esso si svolge, in tutto il suo itinerario, come riflessione di fede (dimensioni costitutive, non solo fasi successive!); non mutua i suoi criteri da altre discipline teologiche (tantomeno da altre scienze umane), ma li costruisce secondo una propria originale elaborazione, che si esprime compiutamente nella dimensione criteriologica.


Cap. 5. L'orizzonte ermeneutico. Il paradigma gnoseologico

I paradigmi rappresentano il quadro teoretico normativo all'interno del quale devono muoversi le teorie che aspirino a dignità scientifica.
Contestualità e carattere interpretativo del sapere teoretico (in rela­zione alla prassi)
Spesso, nel pensiero occidentale, l'azione è concepita come espres­sione del pensiero; o, anche come, manifestazione-esplicazione dell'es­sere: agere sequitur esse, recita un antico adagio. Tutto ciò è vero, ma solo parzialmente. Se affermato unilateralmente, infatti, dimentica che il pensiero è a sua volta segnato (e non marginalmente, ma costituti­vamente) dalla prassi; che l'essere è determinato (non, certo, nella sua struttura ontologica, ma storicamente e psicologicamente) dall'agire, si determina e si conosce nell'agire (sia precedente: la storia cui si appar­tiene e la propria storia; sia attuale: l'azione che si sta per compiere, che incide sul soggetto nel momento stesso della decisione di porre o non porre tale azione).
Benché possa sembrare paradossale, anche in ambito teologico gli approcci conoscitivi sono ancora in larga misura segnati da un obsoleto paradigma paleo-positivistico duro a morire. Tanto più insidioso, quan­to più annidato nell'inconscio e coperto da una presunta ("innocente") neutralità; o, addirittura, confuso e fatto passare come adeguata e fedele ripresa del realismo gnoseologico della grande scolastica.
In altri termini, nessun sapere (né poietico, né noetico) può costitu­irsi prescindendo dalla prassi: nessun sapere precede - in senso assoluto -la prassi; né la prassi origina - in alcun modo autonomamente - il sapere: «Ambedue le cose, essere e divenire, appartengono a pari diritto all'intera immagine della verità. La sua essenza dialogica non è qualcosa che debba venire superato alla fine a favore di un possesso tranquillo. Il dialogico forma piuttosto la perenne, anzi sempre autosuperantesi vitalità nell'es­senza della verità. Una concezione della verità eterna, a cui mancasse questa vitalità che di continuo divampa, sgorga, avanza, non sarebbe che una distorsione e una falsificazione»[12].
Questo legame profondo - originario - non offusca la purezza del pensiero, tantomeno attenua il suo spessore veritativo.
Verità e interpretazione: nodo precomprensivo e costitutivo erme­neutico del sapere (teologico).
Sotto il profilo filosofico, è particolarmente convincente la riflessio­ne di Luigi Pareyson[13], di cui riporto alcune espressioni pregnanti:
a.     istanza veritativa:
- «senza verità, l'aspetto rivelativo della parola è puramente apparente, e si riduce a una razionalità vuota e priva di contenuto» (p.19).
- «La presenza della verità nella parola ha un carattere originario:
è la scaturigine da cui rampolla incessantemente il pensiero» (p.22).
b.    dimensione veritativa dell'interpretare:
- «comprendere significa allora interpretare, cioè approfondire l'esplicito per cogliervi quell'infinità dell'implicito ch'esso an­nuncia e contiene» (p. 22).
- «la verità è fondamentalmente inoggettivabile. Per un verso, in­fatti, se la verità non si offre se non all'interno d'una prospettiva personale che già la interpreta e la determina, è impossibile un raffronto tra la verità in sé e la formulazione che se ne dà: per noi la verità è inseparabile dall'interpretazione personale che ne dia­mo non meno di quanto noi stessi siamo inseparabili dalla pro­spettiva in cui la cogliamo: noi non possiamo uscire dal nostro punto di vista per coglie da in una presunta indipendenza che valga a farne un criterio con cui misurare dall'esterno la nostra formulazione di essa. Per l'altro verso, se la verità non può essere colta che come inesauribile, essa più che parlarne come se fosse un tutto concluso, deve contenerla e muoverne e alimentarsene, trovandovi lo slancio del proprio corso, al fonte dei propri con­tenuti, la misura del proprio esercizio, e nel pensiero essa risiede come una presenza tanto più attiva ed efficace quanto meno configurabile e definibile» (p. 25).
- «questa interpretazione e formulazione è appunto una rivela­zione della verità, e quindi non propriamente altro dalla verità, ma la verità stessa come personalmente posseduta, e non per il fatto d'essere una rivelazione essa può apparirne come un'al­terazione o addirittura un travestimento, perché ne è piuttosto un possesso, tanto più genuino quanto più personale e molte­plice» (p. 27).
- «Il pensiero rivelativo raggiunge il suo scopo anche se non giun­ge al "tutto detto", ουτω βαθυν  λόγον εχει: il suo ideale non è l'enunciazione compiuta d'una realtà più o meno adeguabile, ma l'incessante manifestazione d'un'origine inesauribile» (p. 23).
- «la ragione senza verità non tarda a sfociare nell'irrazionale, per­ché è pensiero soltanto storico o tecnico» (p. 29).
- «il pensiero e la libertà dell'uomo scadono alla neutralità d'una ragione puramente strumentale o d'una mera tecnica del com­portamento se non attingono vigore dalla loro originaria radica­zione ontologica» (p. 43).
Imprescindibile un rapido riferimento a H.G. Gadamer, benché più sfug­gente sul riferimento veritativo[14]:
- «la credenza ingenua nel metodo e nell'obiettività che esso assicurerebbe... (739)
- «il modo di attuarsi [vollzugsweise] della comprensione è l'interpreta­zione" (793)
- «non è la parola (onoma) ma il logos il portatore della verità» (841)
- «c’è però un'idea che non è greca e che rende meglio l'essenza del linguaggio... è l'idea cristiana dell'incarnazione» (853)
- «Sein, das verstanden werden kann, ist Sprache» (965)
- «L'ermeneutica, come abbiamo visto, è in questo senso un aspet­to universale della filosofia, e non solo la base metodologica delle cosiddette scienze dello spirito" (967).
Sotto il profilo teologico, è illuminante lo sviluppo ampio e suggestivo di Hans Urs von Balthasar[15]:
- «verità come di quella che apre, che fonda principi e promet­te altre verità. Se non lo facesse, essa sarebbe allora finita in se stessa ed esauribile, dovrebbe arrivare per il soggetto un tempo in cui la verità inizierebbe a perdere il suo carattere di apertura e ad andar incontro, a poco a poco e sempre di più, a una con­clusione. La verità si arricchirebbe, per così dire, su se stessa e si esaurirebbe» (p. 52)
- «solo nel suo uscire da se stesso, nel servizio creativo al mondo, il soggetto sperimenta il suo significato e in esso la sua essenza» (p. 66)
- «Dio partecipa alla creatura qualcosa della sua energia creatrice anche nell'ambito della verità. Se l'uomo possedesse solo una funzione conoscitiva misurata dalla verità delle cose, egli sarebbe, sotto questo profilo, non più causa ma semplicemente effetto. La sua collaborazione si ridurrebbe alla funzione unicamente riproduttiva di verità già esistente. Verrebbe certo arricchito dall'intuizione di quanto lo circonda, ma non avrebbe nella sua conoscenza nessuna possibilità di incidere formativamente nella verità delle cose stesse. Possederebbe la forza della causa seconda solo come agente pratico e non anche, alla stregua di Dio, come soggetto conoscitivo» (p. 121)
- «il criterio della verità si trova situato parte nell'io e parte nel tu, e come criterio totale si raggiunge soltanto nel movimen­to del dialogo. Il criterio all'interno dell'io si trova nell'evi­denza del «cogito ergo sum», nell'identità vissuta tra essere e coscienza, alla quale identità ogni evidenza mediata dev'essere ricondotta come al principio e alla misura di ogni verità. Ogni giudizio discorsivo, che si pronuncia mediante analisi e sintesi, mediante astrazione dal sensibile e concrezione del concet­tuale, deriva la sua giustificazione da quest'ultima irrecusabile evidenza nello spazio chiuso dello spirito. E tuttavia essa brilla ogni volta unicamente quando lo spirito esce da se stesso per deporre la sua parola personale nel concreto agire del mon­do, nel concreto dialogo col tu fuori di se stesso. Lo specchio dell'evidenza interiore gli viene presentato solo quando non si cerca in se stessi, bensì nel non-sé. Quest'uscita da se stesso, in cui lo spirito si schiude alla comunione e trova in essa la sua verità, è a tal punto il movimento della verità che ne diviene il secondo criterio. Così l'analisi e la sintesi dell'intellectus di­videns et componens si estende oltre la solitaria attività dello spirito verso la sempre nuova unione e distinzione tra io e comunità, per trovare nel movimento dialogico la sua pace e la sua (sempre aperta) conclusione» (p. 173)
- «non è possibile a nessuno sbarazzarsi definitivamente della pro­pria prospettiva. Ogni conoscente deve rassegnarsi a riconoscersi la limitatezza del proprio campo di vista nello stesso istante in cui si sente tentato di criticare l'angustia delle prospettive altrui. Tuttavia non ha bisogno di rassegnarsi alla relatività del proprio campo, perché ci sono abbastanza mezzi e metodi a sua dispo­sizione per integrare ed arricchire le sue prospettive mediante quelle altrui» (p. 185)
- «In realtà, il mistero non sta dietro la verità, ma è sua perenne proprietà immanente, poiché il nome di questa verità che ci domina con il suo splendore, la sua unità, la sua perfetta forza espressiva, altro non è che la bellezza. E quell'aspetto della verità che non entra in nessuna definizione, che non può essere affer­rato fuori dell'immediato rapporto con essa e che rende ogni nuovo incontro con essa un'esperienza nuova... Questa ecce­denza sopra ciò che può essere espresso in concetti, definizioni e supervisioni critiche, questo eterno 'più' che è proprio di ogni essere, è la premessa fondamentale del fatto che la rivelazione delle cose e la loro conoscenza non ha subito il carattere della noia invincibile» (p. 146)
In conclusione, non si danno fatti nudi e crudi, ma sempre - co­noscitivamente - interpretati. Anche le scienze sociali presentano esiti che sono in realtà costruzioni di secondo grado, comprensibili soltanto in relazione alle modalità che l'investigazione ha messo in atto. Come nota Stephanie Klein sulla scia di Georges Devereux, il soggetto vi è implicato con il suo io, il proprio corpo, le sue relazioni, le sue esperienze[16]. E come sostiene Adorno, «la lettura della realtà non si ferma frammentariamente ai fatti, ma cerca la comprensione delle leggi strutturali [Strukturgesetze], che determinano i fatti, si manifestano in essi e da essi vengono modificate».
L'analisi teologica contestuale della situazione (i fenomeni e la loro situazione) non si limita al "dato", come pretende certa sociografia re­ligiosa, ma intende - deve intendere - darne una comprensione appro­fondita e globale: non può limitarsi a registrare il fatto; deve invece in­terpretarlo e valutarlo. Una (teologia) pastorale che voglia basarsi su una lettura positivistica del 'dato' è come un'etica che pretenda di fondarsi sulla statistica.
Non c'è dunque da una parte un fatto e dall'altra una interpretazio­ne, ma c'è «un atto di interpretazione che viene continuamente ripreso e ri-assunto nella sua intenzionalità originaria e attraverso il quale la realtà attestata è resa presente»[17]
Dato che non confligge con i criteri di una autentica scientifici­tà. L'apertura dinamica dell'orizzonte ermeneutico non diminuisce, ma garantisce la qualità scientifica dell'indagine: la riflessione su precom­prensione e interesse e la loro esplicitazione/ chiarificazione sono cri­teri autentici di scientificità. Il loro aggiramento, al contrario, modifica e mistifica l'approccio conoscitivo. Il grado di scientificità riconosciuta, infatti, non si determina a priori, indipendentemente dalla situazione, ma in relazione al contesto sociale, culturale e religioso:«… nelle stesse scien­ze empiriche, noi non attingiamo mai dei fatti puri, indipendentemente dal linguaggio, che non possiamo parlare di fatti che interpretandoli, che il linguaggio della scienza deve dunque essere considerato come un lin­guaggio ermeneutico... Questo non vuol dire, naturalmente, che l'espe­rienza dipende dal linguaggio».[18]
Né in alcun modo mette in crisi l'istanza veritativa propria della elaborazione teologica. Lo si è visto seguendo la prospettiva tracciata da von Balthasar. E’ la prospettiva di Gaudium et spes, qualificata - ed è una novità assoluta - come «costituzione pastorale», e spesso equivocata come avallo della impostazione deduttivistica, o - coincidentia oppositorum! - come recezione magisteriale del metodo induttivo.
Sul primo versante, come notava M.D. Chenu, «sarebbe un grave errore vedere in questo titolo soltanto l'enunciazione delle esigenze di un opportuno accomodamento della chiesa alle congiunture in cui si trova nel secolo XX. Si tratta di una asserzione costituzionale, che tocca l'esistenza stessa della chiesa»[19], come conferma la nota espli­cativa apposta al titolo nel testo ufficiale, ove si ribadisce l'unitarietà del documento e la compresenza, in ogni sua parte, dell'elemento dottrinale e di quello pastorale: superamento della visione deduttivo/­applicativa.
Non però, d'altronde, metodo induttivo, come spesso erroneamen­te si dice, ma più propriamente, come si vedrà più avanti, metodologia fenomenologico-ermeneutica veritativa. La portata di tutto ciò si com­prende appieno solo ricostruendo la vicenda conciliare che condusse a introdurre questo documento (inizialmente non previsto) e contrassegnò le fasi articolate e complesse della sua redazione.
La prospettiva ermeneutica non genera - in quanto tale - relativismo. E’, piuttosto, il pregiudizio relativista a inquinare il realismo di una sana ermeneutica veritativa.
La riduzione positivistica della razionalità (non l'unica, ma nemme­no la minima) espone, a sua volta, a pressioni deformanti:
  • Condizionamento pragmatico: è l'influenza del pensiero tecnopratico, il cui verbo è "funziona!", e che spinge a guardare ai risultati e ignorare i processi. Che rifugge dalla fatica dell'analisi, corre ai sussidi "pratici" e, in nome della concretezza, fa progetti che proclamano ideali tan­to alti quanto generici, per saltare rischiosamente dall'idealizzazione astratta alla imposizione operativa.
·       Condizionamento teoretico: è quel modello di conoscenza - quella restrizione dei confini della razionalità - che a partire dal raziona­lismo seicentesco si è venuto a cristallizzare nel paradigma scienti­fico positivista, che è diventato il paradigma normale (normativo!), del sapere scientifico: l'evoluzionismo (non ogni teoria dell'evolu­zione), lo strutturalismo, lo storicismo, molte coltivazioni delle co­siddette scienze umane condividono la convinzione di raggiungere dati nudi e crudi, a prescindere dall'attività del ricercatore. Una cultura reificata[20] in cui l'oggettività del sapere è confusa con una presunta oggettivazione di realtà immobili e immutabili, ottenuta con procedure di assoluta neutralità, base di sicurezza incontrover­tibile per teorie di verità. «forme incoscienti/inconsapevoli di un pensiero senza soggetto», come sono state efficacemente definite, dove l'entità conoscente è neutra, senz'anima, senza cultura e senza storia.
Bisogna al contrario riconoscere l'inevitabilità (e la possibile fe­condità) del condizionamento contestuale. Come ricorda Edgar Morin, «dobbiamo apprendere che la ricerca di verità richiede la ricerca e l'ela­borazione di metapunti di vista che permettano la riflessività, che com­portino in particolare l'integrazione dell'osservatore-ideatore nell'osser­vazione-ideazione nonché l'ecologizzazione dell'osservazione-ideazione nel contesto culturale e mentale che le è proprio»[21].
Allargare gli spazi della razionalità significa, tra l'altro, intendere la conoscenza come via alla verità aperta e multiforme; per nulla oscillante tra il narcisismo del pensiero debole e il prometeismo della presunzione tecnopoietica.
Significa fedeltà all'aureo filone della tradizione teologica autentica:
·       «veritas creata est mutabilis»[22]
·       «In fine nostrae cognitionis, Deum tanquam ignotum cognoscimus»[23]
·       «actus autem credentis terminator non ad enunciabile sed ad rem».[24]

Ermeneutica pratica
In ambito teologico-pratico, la prospettiva ermeneutica non viene costretta entro il perimetro del solo “comprendere e interpretare”, che, se assolutizzata, produce una recezione di stampo inevitabilmente intellettualistico e tendenzialmente individualistico, ma urge nativamente l’azione. Ciò è proprio dell’umano ed è nota saliente della Rivelazione, la cui attestazione non è mai solo informativa, ma sempre performativa (conversione interiore e cambio di vita).
«Così possiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una “buona notizia” – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo “informativo”, ma “performativo”. Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova».[25]
Questa prospettiva incardina immediatamente il tema epistemico sul terreno proprio dell’evangelizzazione: «Una sfida senza precedenti è lanciata oggi ai cristiani che operano per realizzare questa “civiltà dell’amore”, la quale compendia tutta l’eredità etico-culturale del Vangelo. Questo compito richiede una nuova riflessione su ciò che costituisce il rapporto del comandamento supremo dell’amore con l’ordine sociale considerato nella sua complessità».[26]
In ogni caso, «chi riduce la sequela di Gesù ad un avvenimento che ha luogo nel cuore, nelle menti ed entro l’ambito privato delle relazioni interpersonali, ne restringe la portata, rendendo Gesù inoffensivo»[27]
Queste considerazioni, mentre ribadiscono il carattere euristico e veritativo, decidono la radicale insufficienza dell'impostazione meramen­te empirica: non solo la decisione e il progetto, ma la stessa indagine co­noscitiva della situazione, richiedono il discernimento (fronesis) e hanno a che fare con l'interpretazione, la valutazione, la scelta, la determinazione dei significati e dei fini.
Si pone allora la questione complessa della determinazione dell'idea di sapere scientifico, che qui può essere solo molto lacunosamente ac­cennata.
Hans Blumenberg, nel suo noto La legittimità dell'età moderna, ha indicato la riabilitazione della curiosità teorica come una caratteristica fondamentale di tale epoca. Questa tesi appare corretta soltanto a pat­to che teniamo presente che il concetto di scienza si è al tempo stesso profondamente trasformato. Voglio caratterizzare questa trasformazione evidenziandone quattro fattori. 1) Oggetto della scienza non sono più le strutture teleologiche della realtà ma nessi causali regolari. 2) Il sapere non è né sapere pratico né theoria nel senso di contemplazione di ciò che è conosciuto; ciò che è conosciuto teoricamente è il presupposto su cui si basano delle applicazioni pratiche oppure è uno stadio nel progredire infinito della ricerca. 3) il sapere scientifico non è affatto sapere nel senso classico della parola ma ipotesi, opinione più o meno ben fondata, sempre falsificabile in linea di principio, giacché poggia non sull'intuizione di essenze, ma sul tentativo di ordinare da un punto di vista teorico i dati empirici. 4) La scienza non è il sapere di uomini concreti ma un'impresa collettiva che offre informazioni che a seconda delle necessità possono essere acquisite parzialmente da uomini concreti al fine di ulteriori ricer­che o di applicazioni pratiche.
In questo quadro, tocca sensibilmente il profilo della elaborazione teologica, la considerazione che la scienza moderna comincia con un ri­fiuto programmatico della considerazione teleologica della realtà. Come scrive Francis Bacon, «nam causarum finalium inquisitio sterilis est et, tanquam virgo Deo consecrata, nihil parit»[28].
Vediamo già in queste parole di Bacon il nuovo ideale di scienza: la scienza deve essere utile. Il sapere teleologico suscita il sospetto di essere un "asylum ignorantiae", una scusa per la "ignava ratio", la ragion pigra. La scienza moderna non è contemplazione ma ricerca.

5.1.        La questione del rapporto teoria/prassi. Superamento di un’aporia metodologica.

È frequente l'affermazione che identifica nel rapporto teoria/prassi la questione cruciale della teologia pratico-pastorale:
· «La questione circa l'essenza della teologia pastorale (o forse, me­glio, della teologia pratica) e il suo rapporto con la totalità della teologia e le sue singole discipline, è fondamentalmente la questio­ne del rapporto tra teoria e prassi, tra ragione teoretica e ragione pratica»(K.Rahner).
· «La questione fondamentale [die Grundfrage] della teologia pratica in ambito accademico è la dialettica di prassi e teoria»(L.Karrer).
·     «La costruzione teoretica della teologia pratica si tiene in equilibrio [balanciert] dinamico [hier und her] tra i due poli agire" (prassi) e riflessione (teoria)»(L.Karrer).
· «Suo compito è mediare teoria e prassi»(N.Mette).

Queste posizioni sono insufficienti.
Poiché la teologia pastorale è teoria della prassi, si pone immedia­tamente la questione di quale teoria si tratti, di come essa si costruisca, e solo in seguito di come si rapporti alla prassi, di come si determini la costruzione di una teoria della praxis.
Prima ancora, tuttavia, in coerenza con la prospettiva ermeneutico-­veritativa adottata, sarà opportuno rilevare la reciproca inclusione di teo­ria e prassi, che si possono certo distinguere concettualmente, ma mai si danno, nel concreto, in forma autonoma, indipendente l'una dall'altra.
Si dovrà quindi chiarire anche di quale prassi si tratti, questione da trattare tuttavia contestualmente.
Questi interrogativi radunano le più scottanti e aperte questioni che agitano il dibattito in ambito teologico pratico sotto il fondamentale profilo epistemico.
È opportuno procedere per gradi.

               5.2. Reciproca inclusione di teoria e prassi

Unità originaria - nella stessa conoscenza - dell'aspetto speculativo e pratico, cioè di intelligenza e amore, di per sé e per altro: «L'aspetto filosofico e storico-religioso da rilevare in questa visione della Bibbia sta nel fatto che, da una parte, ci troviamo di fronte ad un'immagine stretta­mente metafisica di Dio: Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di tutte le cose   il Logos, la ragione primordiale è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore. In questo modo l'eros è nobilitato al massimo, ma contempora­neamente così purificato da fondersi con l'agape»[29].
Solo così la conoscenza raggiunge la pienezza della verità: «Allo stesso modo che una conoscenza non potrebbe esserci senza la volontà, così neppure una verità sarebbe pensabile senza l'amore. L'amore non è un oltre la verità; l'amore è nella verità ciò che le assicura, oltre ogni suo svelamento, un mistero sempre nuovo, è l'eterno più di quanto già si sa, senza che si desse né un sapere né uno scibile; l'amore è nell'esi­stente ciò che non gli consente mai di diventare puro fatto, ed è nella co­noscenza ciò che non le consente mai di riposare in se stessa, ma la rende servibile a qualcosa di più elevato. Il concetto dell'amore appartiene al concetto pieno della verità, come il concetto della volontà appartiene al concetto pieno della conoscenza»[30].
In altri termini, nessun sapere (né poietico, né noetico) può costitu­irsi prescindendo dalla prassi: nessun sapere precede - in senso assoluto - la prassi; né, d'altro canto, la prassi origina autonomamente il sapere, che si nutre di una costitutiva reciprocità[31].

5.3.        Specificità della teoria della prassi

Come si diceva, la teoria non si rapporta indifferentemente alla pras­si E necessario distinguere tra teoria speculativa ("che cosa?") e teoria pratica ("come?").
Il rapporto tra teoria speculativa e prassi, di fatto, è fortemente ridutti­vo e spesso fonte di equivoci. Infatti, non si dà - se non in forma sporadica e limitata - passaggio diretto dalla teoria pura (speculativa) alla prassi.
La prassi esige di essere chiarita, progettata e attuata a partire da una teoria propria e specifica. Trae quindi in inganno porre il focus della pro­blematica teologico pratica sulla questione del rapporto teoria/prassi, senza aver prima messo ben in chiaro che tale rapporto non si dà in ma­niera pertinente con una teoria qualsiasi, ma solo con la specifica teoria della prassi.
La cui costruzione può essere espressa, in forma sintetica ma non riduttiva, nelle seguenti 'leggi' costitutive e qualificanti:
·       indeducibilità della prassi dalla teoria
·       irriducibilità della teoria alla prassi
·       reciprocità dialettica tra il riferimento normativo (fede) e versan­te contestuale (antropologico, socioculturale).
Filosoficamente: prospettiva ermeneutica veritativa; teologicamente: leg­ge dell'incarnazione.

5.4.         Rapporto teoria/prassi

Configurata adeguatamente una teoria pratica (si apre qui la que­stione del metodo, a partire dalle tre "leggi enunciate), essa viene poi rapportata alla prassi non in forma deduttiva, ma secondo il modello di reciprocità già sopra delineato: indeducibilità/ irriducibilità/ reciprocità dialettica di teoria e prassi (qui si tratta effettivamente del rapporto teo­ria/prassi).
Queste 'leggi' hanno influsso nella costruzione di una teoria della prassi sia nel rapporto della te6ria della prassi medesima con le discipline teoretico/speculative (è il caso della teologia pastorale nei confronti del sapere teologico dottrinale), sia nel rapporto tra tale teoria della prassi e la prassi (è il caso della teologia pastorale nei confronti della pastorale).
Dire che la teologia pastorale è scienza pratica o teoria della prassi, significa dire che essa tende all'azione, riguarda l'azione; non al prodotto come factum, ma all'azione (e al prodotto in quanto esito di prassi).
La teologia pastorale non si occupa solo dei mezzi (oltre Aristotele) ma anche dei fini: se ne occupa sotto il profilo pratico, cioè della loro conoscibilità, della loro determinazione, del loro raggiungimento...; non dei fini ultimi direttamente, ma dei fini dell'azione che concretamente - hic et nunc - viene posta.


Cap. 6. Oggetto della teologia pastorale

Che cosa pensa (oggetto materiale)
La ricostruzione del tragitto storico della disciplina ha fatto emergere il succedersi di impostazioni diverse: dalla formazione interiore e tecnicoprofessionale del pastore, alla analisi del ministero pastorale (dei pastori), alla edificazione della chiesa (ecclesiologia esistenziale). Si è inoltre segnalata una netta demarcazione tra concezioni di tipo analitico-descrittivo e di tipo empirico-critico (con il che si tocca più propriamente l'oggetto formale, ma non senza riflessi sulla connotazione dell'ambito materiale della disciplina). Attualmente, si possono sinteticamente indicare tre posizioni.

1. Posizione restrittiva
E' la visione che riconduce la realtà e responsabilità pastorale alla figura del pastore. Lo testimoniano non solo opere abbastanza recenti[32], ma anche la immediata constatazione della mentalità corrente. La centratura sul pastore rimane anche nel Vaticano il e nei documenti del Magistero. Ma l'ottica non è più la stessa, in quanto i pastori sono sempre visti nel loro vitale e costitutivo rapporto con la comunità tutta intera (ecclesiologia di comunione), e questa è colta - nella sua esistenza-missione in rapporto con «il mondo in cui vive». La problematica pastorale allarga così il proprio respiro fino all'orizzonte planetario della costituzione pastorale «Gaudium et spes». La Chiesa nel suo insieme definisce l'ambito della prassi pastorale. Si affacciano così alla considerazione pastorale nuovi ambiti di azione e di studio, come anche nuove forme aggregative e di intervento, sulla scia di quanto aveva intravisto e delineato, con felice intuizione, la pastorale d'insieme.
2. Posizione estensiva
E' la posizione già segnalata di G. Otto (e di altri: p.e. R.Zerfass, N.Mette, P.M. Zulehner, M.Midali), secondo cui ambito proprio della teologia pratica (distinta in questo senso dalla teologia pastorale, più ministeriale ed ecclesiale) è "la prassi mediata religiosamente nella chiesa e nella società". Lo stesso Otto indica per punti l'oggetto della teologia pratica, come segue:
·       le manifestazioni, i modi di comportamento e di azione motivati religiosamente, presenti nella società;
·       la «religione» nelle storie di vita dei soggetti, i quali vengono in tal modo resi coscienti della loro dignità. umana, cioè resi veri soggetti; la prassi ecclesiale e la sua legittimazione nei diversi ambiti e concrezioni;
·       il retroterra storico, in rapporto alla situazione di conflittualità che si determina nei confronti delle tradizioni (accettazione/rifiuto);
·       il superamento delle attuali questioni di identità nella chiesa e nella società, senza cadere nel fissismo e nella ripetitività, ma con lo spirito sempre desto alle possibilità del futuro.
Questa articolata proposta appare esposta al triplice pericolo di ridursi a formulazioni estremamente teoriche e generali, o di rimanere, di fronte a così numerosi problemi, a un livello sempre superficiale, o di concentrarsi poi, di fatto, su alcuni problemi singoli, facendo valere degli “interessi” né confessati, né vagliati. Si deve aggiungere inoltre che essa appare - anche se non dichiaratamente -preoccupata di una legittimazione della teologia pastorale in ordine alla presenza nelle università di stato tedesche, di fronte alla bordata di accuse rivolte alla teologia sullo scorcio degli armi Sessanta e all'inizio del decennio seguente.

3. Posizione adeguata
Crediamo che la connotazione di pastoralità non possa in alcun modo prescindere dalla specificità del riferimento cristiano ed ecclesiale. Ciò non significa a né restrizione, nè decurtazione; ma, appunto, specificità. Individuata chiaramente questa incardinazione, l'attenzione all'orizzonte totale propugnata da Otto non si stempera nella labilità fenomenologica e spesso equivoca del “religioso”, ma prende in considerazione tali problematiche in quanto presenti all'azione ecclesiale. Non le sono estranee, pertanto, le questioni della società e dell'uomo, che investono il senso e il progetto della vita, perché «pastorale è, l'azione multiforme della comunità ecclesiale, animata dallo Spirito Santo, per l'attuazione nel tempo del progetto: di salvezza di. Dio sull'uomo e sulla storia, in riferimento alle concrete situazioni di vita»[33].
L'azione ecclesiale, che è servizio (ministero) di salvezza, presenta come dimensioni caratterizzanti:
·       una dimensione antropologica globale: tocca tutto l'uomo, animai corpo, con le sue esigenze e domande fondamentali;
·       una dimensione sociopolitica: la realizzazione dell'uomo avviene, storicamente, nel - e in relazione - al suo habitat;
·       una dimensione cosmico-universale: azione pastorale è anche azione per la salvaguardia e lo sviluppo della realtà creata;
·       una dimensione escatologica: il cristianesimo non è una ideologia intramondana; sa che le tre dimensioni precedenti si scoprono e si promuovono convenientemente alla luce della rivelazione, e, soprattutto, che il raggiungimento della realizzazione totale è dono di Dio e non trova compimento nella esistenza terrena.
Questa visione della realtà pastorale (qui solo abbozzata) corrisponde allo spirito più autentico del Vaticano II: «nel Concilio la Chiesa cerca se stessa: con grande fiducia e grande sforzo, tenta di definirsi meglio, di comprendere essa stessa ciò che è. Infatti, dopo venti secoli di storia; la Chiesa sembra quasi sommersa dalla civiltà profana, come assente dal mondo attuale. Prova allora il bisogno di raccogliersi, purificarsi, rifarsi, per poter riprendere con energia il proprio cammino. E mentre cerca così di 'definirsi e di qualificarsi, la Chiesa cerca il mondo, tenta di venire in contatto con. questa società... E in che maniera realizzare questo contatto? Essa riallaccia il dialogo col mondo, leggendo i bisogni della società in cui opera, osservando le carenze, le necessità, le aspirazioni, le sofferenze, le speranze che si trovano nell'intimo dell'uomo»[34].
Con quel «e mentre», il card. Montini stabiliva il principio metodologico della reciprocità tra i due momenti, quello della ricerca, della costruzione della identità, e quello della missione. Questo orizzonte definisce, nel suo, insieme, la vita pastorale della comunità cristiana, su cui la teologia pastorale riflette (oggetto materiale).
Anche Pannenberg conferma: «La prassi ecclesiale deve restare l'oggetto specifico della teologia pratica, a meno che essa poi voglia ampliarsi in un'etica generale cristiana, nel cui quadro la struttura sociale dell'agire cristiano in quanto azione ecclesiale ed ecclesiastico-formativa rappresenterebbe una particolare sezione di temi. Ma anche se la prassi ecclesiale rimane il suo oggetto specifico, non per questo la teologia pratica è necessariamente una mera teologia pastorale, introduttiva al campo delle tradizionali attività dei parroci come si è voluto rilevare nella suddivisione della teologia pratica in omiletica, catechetica, ministero e liturgia»[35]
Tale oggetto è adeguato perché risponde alla natura propria della Chiesa; è teologico, secondo il principio di incarnazione o del divino-umano (struttura sacramentale dell'azione ecclesiale).

Da quale punto di vista (oggetto formale)
L'approccio specifico della teologia pastorale, nell'orizzonte ermeneutico della fede, non è solo descrittivo, narrativo, interpretativo (anche), ma in ultima analisi specificamente volto all'azione (decisione-progetto): inflessione pragmatica (nel senso della pragmatica linguistica).
Le opinioni degli studiosi riflettono, su questo punto, quelle segnalate a proposito dell'aggetto materiale. La corrente che restringe l'ambito della teologia pastorale alla topica del pastore sarà incline a considerarla disciplina di carattere tecnico-pratico, descrittiva e operativa, da collocarsi nell'area della formazione specifica (ministeriale) del pastore; mentre le impostazioni a sfondo ecclesiologico vedono nella correlazione con il presente l'elemento formale che caratterizza la teologia pastorale. Tipica la posizione di Rahner e di Arnold, variamente ripresa con accentuazioni e sfumature diverse.
La formalità propria del sapere teologico pastorale è data dal radicamento nella teologia dell'incarnazione e dalla visione prospettica dell'agire ecclesiale nella sua autocoscienza critica e nella sua capacità progettuale e attuativa.



Cap. 7.  Come pensa la teologia pastorale (il metodo)

Di fronte alla obiettiva difficoltà di una elaborazione metodologica solida e convincente, è diffusa tra i pastoralisti una posizione di ripiegamento: «non esistono metodi teologico pratici specifici, ma si dà una combinazione di metodi in prospettiva teologico-pratica»[36]. Come dire nessun metodo.
Si comprende allora che, oltre alla interdisciplinarità e alla (eventuale) transdisciplinarità, si deve parlare, con van der Ven, di intradisciplinarità. L'apporto delle scienze umane non è prioritariamente da confinare nella fase interpretativa o operativa, ma si pone nel cuore stesso della elaborazione teologico-pastorale in quanto teologica.
Non del tutto chiara e per certi versi discutibile sembra la proposta di H Steinkamp[37], che vede la teologia pratica come scienza sociale. Benché egli intenda questa delineazione come «variante "pratica" del modello interdisciplinare (o, come egli lo chiama, delle «opzioni convergenti» la sua proposta appare teoreticamente fragile e non convince. Sarebbe errato, comunque, accusare Steinkamp di riduzione della teologia pastorale a scienza sociale nel senso di uno smarrimento della sua qualificazione teologica. Le esemplificazioni addotte lasciano percepire una metodologia interdisciplinare, che procede «da una parte appropriandosi delle conoscenze generali di psicologia della religione e dall'altra in contatto con la teologia sistematica...»[38]. Ma non si precisano i termini degli apporti, né si fa chiaro il tipo di disciplina che ne proviene. Si ricade così nella obiezione mossa alla concezione della teologia pastorale come teoria critica, se cioè essa «non tragga i suoi criteri in maniera troppo esclusiva da una sociologia critica anziché dalla teologia». D'altro canto, non si può non consentire con l'autore quando accusa le proposte fin qui formulate di sottosviluppo metodologico, cioè della incapacità di fornire percorsi effettivamente praticabili. Di fronte alla osservazione che «rimane in ogni caso un problema, di grande portata: il compito di connettere risultati empirici, ipotesi sociologiche e riflessione teologica non è ancora risolto», egli sembra preferire la strada della verifica. concreta sul campo. Così, il problema teoretico, apparentemente eluso, ritorna sul tappeto. Lo stesso Steinkamp, infatti, si dichiara insoddisfatto dei risultati fin qui ottenuti da tali ricerche; e non può farlo, evidentemente, senza un modello su cui commisurare e valutare le ricerche medesime.
Più interessante il contributo di van der Ven, in numerosi interventi[39]. Acquisito l'orizzonte di intradisciplinarità, egli ricostruisce l'itinerario metodologico sulla base del ciclo empirico di A.D. De Grot[40], in cinque momenti:
        Elaborazione teologica della problematica e degli obiettivi
        Induzione teologica
        Deduzione teologia
        Verifica emprico-teologica
        Valutazione teologica,
e tenta una risposta, alle obiezioni (empirismo, pragmatismo, modernismo, scientismo) rivolte alla sua proposta metodologica. A mio parere, tali obiezioni colgono alcune fragilità reali. Soprattutto la mancanza di un vero principio teologico di fondazione e una inclinazione pericolosa su metodologie di carattere empirico. Tuttavia, van der Ven presenta un tentativo di indubbio rilievo, che forse meriterebbe maggiore attenzione (anche se critica).
Si parla qui di intradisciplinarità perché, come per la filosofia nella grande stagione scolastica, la teologia è chiamata a sviluppare al proprio interno questi nuovi apporti disciplinari. La situazione della teologia pastorale ai nostri giorni non presenta, di fatto, grandi progressi in questa direzione, come già notava Steinkamp, che per via diversa (sorvegliata epistemologicamente) giunge a conclusioni similari. Ci si limita per lo più a ricerche descrittive o esplorative; e quando la dimensione empirica entra più direttamente nel discorso teologico-pastorale, viene confinata nella zona intermedia tra fase applicativa e decisionale: il territorio della elaborazione criteriologica é considerato dominio esclusivo e geloso della «teologia».
La metodologia della teologia pastorale è e deve rimanere teologica, si elabora in forma propria e originale e non si lascia incantare dalle sirene, né frustrare da complessi di inferiorità.

7.1. Insufficienza del metodo applicativo
           
Massicciamente rappresentato nella manualistica e nella storia della disciplina, gode oggi di poco credito a livello scientifico. Ma è tutt' altro che tramontato; anzi è certamente ancora diffuso.
L'impianto del metodo è lineare: dalla identificazione-elaborazione dei principi inerenti l'azione pastorale per lo più ristretta all'ambito clericale) alla puntuale ed efficace applicazione alla prassi pastorale medesima: «Descrivendo inoltre le caratteristiche della teologia pastorale come scienza (e sapienza, secondo la concezione che San Tommaso ha della teologia in generale), e come scienza pratica (o per meglio dire, speculativo-pratica), che si potrebbe dire "scienza dell'azione pastorale”, "scienza dell'apostolato", o anche "teologia dell'azione", "teologia applicata e direttiva dell'azione", ma ancora e sempre teologia scientifica, che abbraccia: a) alcuni principi; che essa investiga per averne luce in ordine all'azione; b) le deduzioni teologiche di questi principi in ordine alla direzione delle attività dei pastori d'anime nell'attuazione della loro missione nell'economia della salvezza».
In questa concezione, la teologia pastorale viene riassorbita nella ecclesiologia. Non scade nel solito empirismo prassistico, ma paga questa sua nobilitazione teologica e scientifica con la restrizione all'ambito dei principi, da cui si deducono - e bene sottolinearlo - non progetti, né, tantomeno, programmi operativi, ma soltanto direttive.
Anche prescindendo dal più generale e vasto problema della qualificazione scientifica propria della teologia, lo schema deduttivistico presenta le seguenti gravi insufficienze:
- suppone una: possibilità di formulazione dei principi, astraendo dalla realtà concreta del vissuto cristiano;
- non coglie il coefficiente di teoria insito nella prassi corrente = e non e in grado di smascherane gli «interessi» latenti;
- non valorizza la prassi in sede-di valutazione degli esiti e di verifica della bontà della teoria medesima.
Non migliore è quel « criptodeduttivismo» che si fornisce di una pletora di strumenti tecnici aggiornatissimi è si correda di rilevamenti statistici d'ogni genere, rimanendo però incapace di far interagire questi dati ed elementi (spesso raccolti e utilizzati, tra l'altro, senza preparazione e con avventurismo dilettantistico) con il patrimonio dottrinale: l'analisi della situazione non deve risolversi in un elenco delle cose che vanno o rispettivamente non vanno nella realtà effettiva, per poi tornare ai principi generalissimi della dottrina cristiana che sola sarebbe capace di tracciare l'immagine completa dell'ideale. Il procedimento metodologico della teologia pastorale, volto a illuminare (valutare e orientare) la prassi pastorale è, nell'insieme, ben più complesso. Né vale, a favore della impostazione deduttivistica, l'argomento che questo è il modo prevalente di procedere dei documenti, magisteriali. La esprime con chiarezza la Octogesima adveniens: «Davanti a tante nuove questioni, la chiesa fa uno sforzo di riflessione per rispondere, nell'ambito che le è proprio, all'attesa degli uomini. Se oggi i problemi appaiono inediti per la loro ampiezza, e per la loro. urgenza, è forse l'uomo incapace di risolverli? Con tutta la sua dinamica l'insegnamento sociale della chiesa accompagna gli uomini nella loro ricerca. Se esso non interviene per autenticare una data struttura o per proporre un modello prefabbricato, non si limita neppure a richiamare alcuni principi generali: esso si sviluppa attraverso una situazione condotta a contatto delle situazioni mutevoli di questo mondo, sotto l'impulso del vangelo come fonte di rinnovamento, allorché si accetta il suo messaggio nella sua totalità e nelle sue esigenze. Si sviluppa altresì mediante la sensibilità propria della chiesa, sensibilità rafforzata da una volontà disinteressata di servizio e dall'attenzione ai più poveri. Attinge infine ad una ricca esperienza secolare che gli permette di assumere, nella. continuità delle sue preoccupazioni permanenti, l'innovazione ardita e creatrice, richiesta dalla presente situazione del mondo».

7.2.  Paralogismo dell’approccio induttivo

Il riferimento alla via induttiva è tanto frequente, quanto confuso e disseminato di imprecisioni, prima ancora che il vaglio critico lo dichiari costitutivamente impercorribile.
È possibile rilevare due errori:
     1. Si confonde induttivo con esperienziale: l'esigenza - innega­bile - del riferimento alla realtà non deve essere confusa con il modo - l'approccio gnoseologico - con cui la realtà stessa viene indagata e conosciuta: per comprendere la situazione si danno altre modalità, di orizzonte ermeneutico-pratico, senz'altro più adeguate.
     2. I "segni dei tempi" sono una categoria propria e specifica dell'analisi teologica, non di una supposta neutrale investigazio­ne sociologica: sono "segni dei tempi" in quanto colti alla luce del Vangelo, non da rapportare al Vangelo solo in un secondo momento. Naturalmente ciò non dimentica la distinzione tra ricognizione e approfondimento critico: ma sostiene che en­trambi tali momenti hanno - cioè possono legittimamente avere sotto il profilo epistemico e devono necessariamente avere sotto il profilo teologico pratico - vera e propria qualità teologica, essere cioè posti nell'orizzonte della fede conosciuta e vissuta.
La qualità induttiva è spesso riconosciuta al metodo "vedere giudica agire", a torto, come si vedrà in dettaglio: se la prospettiva teologica non è coestesa originariamente, introdurla successivamente sarà sempre un posticcio (e un pasticcio). Ancor più fuorviante è ricondurre tale impo­stazione al ConcilioVaticano II.

Propriamente il metodo induttivo non esiste.
Autorevole e significativo, a questo proposito, il parere di A. Einstein, espresso in un breve articolo apparso il 25 dicembre del 1919 sul «Ber­liner Tageblatt», con titolo Induktion und Deduktion in der Physik. Eccolo integralmente.
«L’immagine più semplice che ci si può formare dell'origine di una scienza empirica (Erfahrungswissenschaft) è quella che si basa sul metodo induttivo. Fatti singoli vengono scelti e raggruppati in modo da lasciare emergere con chiarezza la relazione legiforme che li connette. Tramite il raggruppamento di queste regolarità è possibile conseguire ulteriormente regolarità più generali, fino a configurare - in considerazione dell'insie­me disponibile dei singoli fatti - un insieme più o meno unitario, tale che la mente che guarda le cose a partire dalle generalizzazioni raggiunte per ultimo potrebbe, a ritroso, per via puramente logica, pervenire di nuovo ai singoli fatti particolari. Un pur rapido sguardo allo sviluppo effettivo della scienza mostra che i grandi progressi della conoscenza scientifica solo in piccola parte si sono avuti in questo modo. Infatti, se il ricercato­re si avvicinasse alle cose senza una qualche idea (Meinung) preconcetta, come potrebbe egli mai afferrare dal mezzo di una enorme quantità della più complicata esperienza fatti i quali sono semplicemente sufficienti a rendere palesi relazioni legiformi? Galilei non avrebbe mai potuto tro­vare la legge della caduta libera dei gravi senza l'idea preconcetta stando alla quale, sebbene i rapporti che noi di fatto troviamo siano complicati dall'azione della resistenza dell'aria, nondimeno noi consideriamo ca­dute di gravi nelle quali tale resistenza gioca un ruolo sostanzialmente nullo. I progressi veramente grandi della conoscenza della natura si sono avuti seguendo una via quasi diametralmente opposta a quella dell'indu­zione. Una concezione (Erfassung) intuitiva dell'essenziale di un grosso complesso di cose porta il ricercatore alla proposta (Aufrtellung) di un principio (Grundlage) ipotetico o di più principi di tal genere. Dal prin­cipio (sistema di assiomi) egli deduce per via puramente logico-deduttiva le conseguenze in maniera più completa possibile. Queste conseguenze estraibili dal principio, spesso tramite sviluppi e calcoli noiosi, vengono poi messe a confronto con l'esperienza e forniscono così un criterio per la giustificazione (Berechtrgung) del principio ammesso. Il principio (as­siomi) e le conseguenze formano insieme quella che si dice una 'teoria'. Ogni persona colta sa che i più grandi progressi della conoscenza della natura - per esempio, la teoria della gravitazione di Newton, la termodi­namica, la teoria cinetica dei gas, l'elettrodinamica moderna ecc. - hanno tutti avuto origine per questa via, e che il loro fondamento è di natura ipotetica. Il ricercatore parte dunque sempre dai fatti, il cui nesso costi­tuisce lo scopo dei suoi sforzi. Ma egli, tuttavia, si avvicina ai fatti tramite una scelta intuitiva tra teorie pensabili basate su assiomi.
Una teoria può ben venir riconosciuta come sbagliata, qualora ci sia un errore logico nelle sue deduzioni o può venir riconosciuta come inadeguata (unzutreffende) allorché un fatto non si accorda con una delle sue conseguenze. Ma mai può venir dimostrata la verità di una teoria. E ciò perché mai si sa se anche nel futuro non si scoprirà nessuna espe­rienza che contraddica le sue conseguenze; e sono sempre pensabili altri sistemi di pensiero, in grado di connettere gli stessi fatti dati. Se sono a disposizione due teorie, entrambe compatibili con il materiale fattuale dato, allora non esiste nessun altro criterio per preferire l'una all'altra fuorché lo sguardo intuitivo del ricercatore. E così che si capisce come acuti ricercatori i quali dominano teorie o fatti possano tuttavia essere appassionati sostenitori di teorie opposte.
In questa agitata epoca io sottopongo al lettore le presenti brevi, oggettive considerazioni, giacché io sono dell'avviso che per mezzo della silenziosa dedizione a scopi eterni, comuni a tutte le culture umane, si può oggi essere più attivamente utili al risanamento politico che attraver­so le trattazioni e le professioni politiche»[41].
La critica più efficace e nota venne però da K. Popper, non a torto definito «l'opposizione ufficiale» al circolo di Vienna. Popper vede in maniera nuova il rapporto tra esperienza e conoscenza. Alla prima non dà il compito di attribuire senso alle asserzioni, e neppure di verificarle: essa non può mostrare la verità di proposizioni universali (filosofiche o scientifiche) dato il suo costitutivo carattere di particolarità. L'ambito del senso trascende l'esperienza e anche la stessa scientificità. Né si può far valere a questo scopo il metodo induttivo, per il semplice motivo che l'induzione, come metodo scientifico, non esiste: «non c'è induzione, perché le teorie universali non sono mai deducibili da asserzioni singola­ri, da descrizioni di fatti osservabili»[42]. Il che equivale a dire che la validità delle teorie universali non può essere giustificata mediante la verifica esperienziale. E’ morta dunque ogni possibilità di conoscenza scientifi­ca, oltre che filosofica e teologica? Per Popper morto è unicamente il positivismo logico[43]. Se infatti non ci è dato sapere in modo definitivo, attraverso la verificazione, se una teoria scientifica è vera, possiamo però sapere con certezza quando essa è falsa. Mentre il verificazionismo neo-positivista si rivela alla prova dei fatti inficiato dello stesso mitologismo che intendeva combattere, il criterio di falsificabilità si pone come il più adatto a saggiare la scientificità delle teorie. Ciò, non conduce certo, se­condo Popper, a un criterio generale di verità[44], ma neppure a un totale spaesamento conoscitivo. Lo scienziato procede per congetture e confu­tazioni (trial and error), in un perenne avvicendarsi di proposta di teorie e di loro confutazione, allo scopo di sostituirle con altre, non più vere in assoluto, ma provvisoriamente più adatte a spiegare la realtà. Secondo Popper quindi la razionalità non consiste nell'adeguazione della verità come per la metafisica, né nella delimitazione delle proposizioni sensate rispetto a quelle insensate come per il positivismo logico, ma nella capa­cità incessante di superarle sottoponendole a vaglio critico: «critico è il miglior sinonimo di razionale»73
Per quanto concerne la critica alla impostazione induttiva del me­todo, Popper ricorda che aver visto sempre dei cigni bianchi ci farà pre­vedere di vederne sempre di bianchi, ma ciò non esclude l'esistenza di quelli neri.
Nella Logica della scoperta scientifica (1° edizione 1934), egli afferma risolutamente: «L'induzione non esiste, e la concezione opposta è un errore bell'e buono». L'induzione si intende in due modi: induzione per enumerazione o ripetitiva ed induzione per eliminazione. La prima ri­chiama l'esempio dei cigni, sopra ricordato. La seconda - induzione per eliminazione o confutazione delle teorie false - risale a Bacone e Stuart Mill, i quali ritenevano che, eliminando tutte le teorie false, si potesse determinare la teoria vera. Ma non consideravano che il numero delle teorie rivali è infinito e, inoltre, anche una teoria vera può venire in se­guito falsificata, perlomeno nel senso di un suo superamento (come nel caso della geometria euclidea).
Di conseguenza è un errore pensare che la scienza empirica proce­da con metodi induttivi. Secondo Popper, dunque, da un punto di vista logico, è tutt'altro che ovvio che si sia giustificati nell'inferire asserzio­ni universali da asserzioni singolari, per quanto numerose siano queste ultime; infatti qualsiasi conclusione tratta in questo modo può sempre rivelarsi falsa (si ricordi l'esempio dei cigni).
Popper contesta anche la posizione - da noi già esaminata - secon­do cui la mente del ricercatore dovrebbe essere priva di presupposti, di ipotesi, di interessi; quasi tabula rasa atta a rispecchiare la realtà. Questo approccio, che Popper chiama "osservativismo" è un mito: la nostra men­te è una tabula piena dei segni che la storia e la cultura vi hanno lasciato. Inoltre, è sempre orientata da aspettative e precomprensioni teoriche: ipotesi, congetture idee o teorie..., anche se spesso non ne siamo con­sapevoli. La mente che ne fosse priva, non sarebbe una mente pura, ma una mente vuota.
La ricerca, osserva acutamente Popper, non parte da osservazioni ma da problemi, teorici o pratici, che chiedono soluzioni. E per prospetta­re soluzioni è necessaria l'immaginazione creatrice, capace di formulare ipotesi e congetture. Il rigore metodologico è necessario alla ricerca e alla giustificazione della scoperta, ma non è sufficiente alla scoperta me­desima (si pensi alla celeberrima "serendipità"): una cosa è la genesi delle idee; un'altra è la loro prova.
Per questo ogni teoria che voglia dignità scientifica deve essere falsi­ficabile sperimentalmente: scientifica, in questo caso, mai però definitiva, in quanto sempre aperta ad essere rivista, integrata o confutata.

7.3. Meriti e limiti di un metodo diffuso (vedere/giudicare/agire)

Messa in onore dalla JOC. del card. Cardijn e ripresa, in Italia, dalla produzione catechistica della Azione Cattolica, questa metodologia ha costituito per anni il fronte più avanzato della pastorale.
Nonostante i suoi meriti storici, questo metodo deve essere giudi­cato insoddisfacente per i seguenti motivi:
            1. Il metodo separa nettamente il vedere (affidato di solito alla so­ciologia) dal giudicare (demandato alla teologia, intesa come dog­matica). Ma in verità non si dà né si può dare un 'vedere' che si ponga sul piano meramente descrittivo e non implichi, invece, fin dall'inizio, una precisa prospettiva di lettura (precomprensione/in­teresse) e una, almeno iniziale (anche se magari inconscia), attiva­zione di criteri interpretativi. Questa aporia (illusione positivistica o 'neorealistica') è tanto più insidiosa quando affida alla sociologia (erroneamente supposta obiettiva e 'innocente') il compito di fo­tografare e dire la realtà: non esiste sociologia neutrale e univoca, ma le sociologie; anzi, i sociologi, nella loro diversificazione spesso assai marcata.
            2. La pretesa di neutralità conduce di fatto a una posizione inconscia­mente ideologica. Si propone infatti come dato ciò che in realtà è l'esito di una lettura del dato. Che va sempre compresa correlando il risultato con il quesito che è stato posto: la risposta contiene in qualche modo la domanda, che la orienta. Inevitabilmente! Ideo­logia, perciò, in quanto si dà valore di dato al vedere, come se non si trattasse, piuttosto e inevitabilmente, di una visone e interpreta­zione del dato, da vagliare criticamente. La validità scientifica non è data dall'assenza (impossibile) di presupposti, ma dalla capacità autocritica di essi.
            3. Tale metodo si rivela pertanto impraticabile. Se si procede correttamente, il riferimento metodologico risulta solo nominale. Si veda, ad esempio, la lettera pastorale di C. M. Martini sul comunicare[45]. Benché scandita - dopo una premessa e una introduzio­ne - secondo il classico trinomio, essa presenta fin dalle prime battute elementi espliciti di interrogazione critica e di interpretazione: siamo di fronte a un modo di procedere corretto, ma con un riferimento improprio al metodo vedere/giudicare/agire). Se invece si segue il metodo, si cade inesorabilmente in una insuperabile aporia.
            4. Le fasi di progettazione e di attuazione, ristrette nella sola indicazione 'agire', non vengono svolte, in questa impostazione di metodo, nella loro specificità e nelle necessarie articolazioni. Le determinazioni con­crete dell'azione, infatti, vengono ricondotte all'ambito applicativo e ascritte alle discipline pratiche (di fatto alle scienze umane, compresse in una visione subalterna, neutrale e applicativa). In realtà, rischiano così di essere assorbite o nella (presunta) neutralità del vedere (come in alcune forme della teologia della liberazione, dove il "vedere" comanda di fatto la determinazione dell'agire: il riferimento biblico è selettivo e succedaneo), o nella (impropria) ideologia del giudicare (come nelle applicazioni che si pretendono comandate dal dato dogmatico, o pre­sunto tale: come accade molto di frequente in ambito pastorale, dove le decisioni vengono fatte abusivamente risalire al vincolo dogmatico).
            5. Questo metodo viene spesso presentato come induttivo, ma è, in realtà, criptodeduttivo. Infatti, rovescia (ma non corregge) la pretesa del metodo deduttivo: l'aspetto normativo non è influenzato mi­nimamente dal vedere, ma viene totalmente svolto nell'ambito del giudicare, ritenuto appannaggio della teologia speculativa: si deci­de, cioè fuori e indipendentemente dal riferimento alla situazione, che verrà ripreso solo come contesto applicativo.
            6. Così, ad esempio, della catechesi la dogmatica (teologia!) valuterà la dottrina, mentre la metodologia (pedagogia) si occuperà delle pras­si. Non ci si avvede della indissolubile interdipendenza dell'ambito metodologico e contenutistico. Se così non fosse, perché il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica? Non bastava l'ottimo Catechismus ad parochos, magari aggiornato linguisticamente e stilisticamente? Evidentemente il linguaggio non è mero rivestimento, ma forma di comprensione del contenuto, che ne viene rimodellato, cioè ri­prodotto. Si finisce inoltre per attribuire a una attività umana (la teologia speculativa lo è indubitabilmente) una valenza e una, per così dire, trascendenza, che compete solo alla fede. Come ricorda Jean Ladrière, «non c'è dunque da una parte un fatto e dall'altra una interpretazione, ma c è un atto di interpretazione che viene continuamente ripreso e ri-assunto nella sua intenzionalità origi­naria e attraverso il quale la realtà attestata è resa presente»[46].
       7. Il riferimento (esplicito o implicito) al metodo vedere/giudicare/ agire produce frequentemente una netta scollatura tra la fase anali­tica e quella progettuale propriamente detta: l'analisi e valutazione (quando c'è) della situazione, infatti, non influisce sulla determi­nazione degli obiettivi e delle scelte, che sono rivenute (o così si dichiara e si crede) nell'ambito della fede in forma pre-scritta e indipendente dal contesto (mentre, in realtà, la fede determina i principi; i criteri, come sopra indicato, si elaborano teologicamente secondo il metodo del discernimento pastorale, e cioè in circolarità asimmetrica). Raramente si determinano le priorità pastorali attra­verso una valutazione situata, ben connessa, cioè, alla situazione: la pastorale è chiamata a decidere che cosa è più importante e urgen­te non in sé, ma in relazione alle esigenze reali di quella comunità o di quella persona: mettendo quindi in relazione di reciprocità i principi e i valori assoluti con la situazione sul campo (p. e., gli argomenti da proporre nella catechesi, la loro sequenza, il loro spa­zio non può essere determinato deduttivamente, come 'calco' dai manuali dottrinali, né per semplice adattamento didattico, ma solo attraverso una programmazione pedagogica che coniughi sapien­temente le diverse esigenze in gioco, senza mai piegare o ridurre l'una all'altra). Così è pastoralmente del tutto improprio (e spesso errato) parlare di "primati": ciascuno ha i suoi (liturgia o catechesi; adulti o giovani; carità o annuncio...), con relative, inutili diatribe. Ne viene una progettazione mutila o, per converso, astratta, che si mantiene sulle generali, sia perché non entra nei problemi e nelle questioni reali (così non si scontenta nessuno: chi non è d'accordo sulla solidarietà, la pace, la vita... come valori da proporre e di­fendere?), sia perché si estende a dismisura (così si accontentano tutti: si amplia a dismisura il ventaglio delle problematiche e delle connessioni pastorali, in modo che nessuno si senta escluso dal pro­getto). Qui la ricerca di criteri operativi fondati, certo non facile, è perlopiù demandata a evocazioni di prammatica, che lasciano il tempo che trovano. E, naturalmente, nessuna verifica, che mette­rebbe a nudo l'inconsistenza dell'insieme.
            8. Un'altra insidia si annida nel modo di porre le domande. Bisogna guardarsi dal porre domande tautologiche (sono quelle che vengo­no formulate per confermare considerazioni pre-giudiziali, quelle di cui si conosce in anticipo la risposta); così come, nel caso di un risultato inatteso (e non gradito), di mettere sotto accusa il metodo anziché sottoporre a verifica critica i propri pregiudizi.

7.4. Una proposta

1. Le caratteristiche costitutive del pensiero teologico-pastorale (dimensioni)
Il trinomio vedere giudicare agire individua in realtà non la scansione sequenziale, ma la costituzione stessa del pensare la pastorale. Si tratta cioè di componenti costitutive (dimensioni), che qualificano il pensiero teologico-pratico in ogni sua fase o momento.
Queste tre dimensioni, inoltre, si richiamano costantemente e, per così dire, si coappartengono: per esempio, la dimensione kairologica, che indica la relazione costitutiva del pensiero teologico-pastorale con la situazione intesa teologicamente (kairos), si pone nella forma del discernimento evangelico, che implica una prospettiva e una criteriologia precise; d'altro canto, l'approccio alla realtà tipico del pensiero teologico-pastorale è sempre connotato dalla sua inflessione prassica, e rinvia quindi costantemente alla dimensione operativa, che in qualche modo già comprende. Si tratta di «cogliere le realtà spirituali a partire dalle realtà corporee e temporali»[47]. Dal presupposto che Dio è presente nel cuore dell'uomo, dell'umanità e della storia, scaturisce «un metodo di ricerca secondo cui non si deve mai separare teoria e prassi, sapienza interiore e vita interiore»[48].

2. Le articolazioni del metodo
Quella che qui viene sinteticamente delineato è una schematizzazione formale. Indica il tragitto metodologico della disciplina, e vale analogamente come approccio corretto nella prassi pastorale.

scheda di sintesi

Fasi (sequenziali)
analisi e valutazione
decisione e progettazione
 attuazione e verifica
Dimensioni (costitutive)
kairologica
criteriologica
operativa


·       Le dimensioni sono presenti in tutte le fasi dell'itinerario. Esempio: analisi e valutazione della catechesi in parrocchia. Tale processo (1. fase) comporta non solo la dimensione kairologica, ma, necessariamente e fin dall'inizio, l'attivazione di criteri di lettura della realtà idonei, cioè teologico-pastorali (non solo, quindi, l'ortodossia, ma anche la concreta efficacia pratica): perciò una dimensione criteriologica con chiara attenzione alla dimensione operativa, verso cui, tra l'altro, la fase di valutazione è ovviamente orientata.
·       La scansione presentata non deve essere irrigidita nella sua schematicità. Si deve tener presente quanto segue:
- la compresenza delle tre componenti costitutive delle riflessione teologico-pastorale in ogni momento dell'itinerario metodologico non esclude - anzi comporta - un bilanciamento differenziato secondo le diverse fasi (es: nella prima fase prevale la dimensione kairologica...);
-  in concreto, tra la fase analitico-valutativa e quella progettuale si deve prevedere una sorta di "pausa di riflessione": un approfondimento, cioè, degli aspetti propriamente criteriologici (e pur sempre in prospettiva kairologica e operativa); ciò consente - in adeguata circolarità ermeneutica - di ritornare, da un lato, sulla lettura della situazione per approfondirne la comprensione e valutazione, e di introdursi competentemente, dall'altro, alla fase di elaborazione progettuale.
- Secondo la prospettiva epistemologica adottata, l'elaborazione criteriologica avviene in forma squisitamente interdisciplinare: nella specifica collocazione teologico-pratica, in forza del principio di incarnazione, tale correlazione disciplinare assume la figura della reciprocità dialettica asimmetrica (primato della fede, ma non mera ancillarità delle scienza umane).

Il discernimento come qualità e "cuore" del metodo
Le Scritture attestano largamente l'esigenza di cogliere, nello Spirito, l'indicazione per la vita della comunità. Non mancano. poi, anche le referenze esplicite, come 1 Ts 5,12; Rm 12,2; Lc 12,56; 1 Gv 4,1. La consonanza con le prime comunità cristiane dice che l'esigenza del discernimento si fa pressante, in specie a livello di prassi collettiva, soprattutto quando gli schemi e i modelli del passato si mostrano inadeguati e carenti. Così, documenti dell'Episcopato italiano evidenziano l'urgente necessità del discernimento di fronte alla sindrome di estraneità da cui è affetta la visione cristiana della vita: «Il rimedio è appunto il discernimento...»[49]; o ancora, dopo aver esposto la situazione della chiesa in Italia: «Quanto si è esposto fin qui mostra l'urgenza di un discernimento spirituale e pastorale relativo ai fatti di civiltà e di Chiesa e al rapporto tra Chiesa e universo civile entro il quale essa è via via chiamata a realizzare il proprio compito»[50]. Quanto da sempre la spiritualità cristiana raccomanda sul piano delle scelte personali viene ora tematizzato come compito essenziale sul piano delle scelte operative e comunitarie, come configurazione interna alla comunità cristiana[51] e come sua espressione sul fronte della civiltà e della storia. Si tratta dunque, come sarà meglio motivato in seguito, di una questione propriamente teologico-pastorale e, segnatamente, in dimensione kairologica.

a. nozione di discernimento
Sull'urgenza e la necessità l'accordo è presto fatto, «ma che cosa vuol dire fare un discernimento? Significa rendersi sensibili all'azione dello Spirito nella comunità degli uomini d'oggi, per favorire quelle realtà e processi che, appaiono mossi dallo Spirito di Dio, e per smascherare e contrastare quelle realtà e processi culturali che appaiono contrari allo spirito evangelico»[52]. L'orientazione propria del discernere è dunque quella della prassi. Non si limita a interpretare e valutare; tantomeno pensa di poter esibire una interpretazione prefabbricata da usare quale pietra di paragone, ma comprende nell'azione e agisce nella comprensione. La storicità dell'uomo e della rivelazione divina, la libertà sovrana dello Spirito, che si fa presente e attivo nella singolarità concreta della vicenda umana, impediscono di intendere il discernimento come applicazione di formulazioni generali a casi particolari. Il giudizio pastorale di fede emerge da una articolazione più complessa (non complicata) in cui il kairòs del momento irripetibile e la costanza dell'amore fedele del Dio che salva si incontrano in una creatività che rimane se stessa pur essendo sempre nuova. Ha senz'altro ragione B. Seveso quando scrive che «il discernimento ecclesiale non è esaurito nella riflessione teologica, ma è coesteso all'agire ecclesiale in tutta la sua ampiezza. La teologia pastorale, quindi, se vuoi mantenere la propria figura, deve istituire processi di comunicazione con il discernimento in atto nella realtà ecclesiale»[53]. Si tratta dunque di una tematica specificamente teologico-pastorale...
Oltre a questo riferimento strutturale alla prassi, ce n'è anche uno più immediatamente e concretamente percepibile. Il discernere è volto al fare, a decidere: «non si fanno oggetto di discernimento affermazioni dottrinali e neppure questioni etiche di principio... un atto di discernimento non è mai una disquisizione accademica che conclude con la vittoria di una parte sull'altra; esso è invece una scelta pratica, motivata dalla fede, su una questione concreta e la cui soluzione comporta per tutti una seria conversione al vangelo»[54].
Questo costitutivo riferimento alla prassi non deve essere inteso nel senso dell'homo faber, ma nel senso dell'agire responsabile, che trova la sua forma più alta nelle scelte di vita (opzione fondamentale)...
Per questo il discernimento primo e originario è legato alla dinamica propria dell'atto di fede: è una lettura cristologica della realtà, sotto l'influsso dello Spirito, perché, "strettamente congiunti nell'amore", possiamo acquistare "in tutta la sua ricchezza la piena intelligenza", e giungere a "penetrare nella perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza" (Col 2,2-3). Consiste cioè nella capacità di riconoscere nel figlio del carpentiere il Messia promesso (cf Mc 6,3), nel Crocifisso il Figlio di Dio (Mc 14,27.29: l'evangelista sottolinea: «vistolo spirare in quel modo», cioè nella maniera più antieroica, «dando un forte grido»). Paolo ne è ben consapevole, quando richiama i cristiani di Corinto alla sapienza della croce, «scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (I Cor 1,23), una sapienza «che non è di questo mondo» (1Cor 2,6). Analogamente in Luca (12,54-56) oggetto del discernere è «questo tempo» (kairòs: non il tempo atmosferico o cronologico, ma il tempo della salvezza e della decisione), cioè il tempo che è costituito dall'evento Gesù. Questo discernimento fondamentale ha carattere di imprescindibilità: senza di esso, che fornisce il quadro di riferimento e, per così dire, la pietra di paragone, ogni altra forma del discernere cadrebbe inesorabilmente nella contraffazione di un giudizio prudenziale, magari apprezzabile, ma non per ciò stesso cristiano, e sempre esposto al rischio (che l'esperienza dimostra tutt'altro che teorico) di scadere negli equilibrismi della composizione di facciata e dell'artificio diplomatico.
Il discernimento appare così, fin dall'inizio, strappato all'equivoco di una interpretazione sbiadita e ristretta, che lo accomuna alla umana prudenza o, ancora più in basso, al buon senso comune. Senza nulla togliere alla capacità umana (ma pur sempre avvertendone la pericolosa mescolanza di positività e negatività) Paolo afferma chiaramente la natura carismatica del discernimento, la sua specificità cristiana di dono dello Spirito. Per questo il «discernimento degli spiriti» (1 Cor 12,10), la capacità cioè di individuare i carismi autentici e di non lasciarsi abbagliare dal luccichio delle manifestazioni straordinarie, e annoverato dall'Apostolo tra i doni dello Spirito.
Il discernimento è via spirituale, personale e comunitaria, per riconoscere, accogliere e mettere in pratica la volontà di Dio. Questo discernimento manifesta sul piano della vita e dell'azione della comunità cristiana la sapienza della croce, «scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1Cor 1,23), una sapienza «che non è di questo mondo» (1Cor 2,6). Consiste cioè nella capacità - che è dono dello Spirito (cf 1Cor 12,3.10) - di riconoscere nel figlio del carpentiere il Messia promesso (cf. Mc 6,3), nel Crocifisso il Figlio di Dio (Mc 14,27.29). Questa pregnanza cristologica ha carattere di imprescindibilità: senza di essa ogni forma del discernere scadrebbe nella figura inadeguata del giudizio prudenziale umano, in sé certo apprezzabile, ma non per ciò stesso cristiano, e sempre esposto al rischio (che l'esperienza, dimostra tutt'altro che teorico) di scadere negli equilibrismi del compromesso e dell'artificio diplomatico. Il discernimento, dunque, non è soltanto opera di umana prudenza o di comune buon senso. E' atto teologale. Riconoscere le vie di Dio esige non solo l'impegno intenso della ricerca, ma - come ricorda magistralmente S. Tommaso - la disponibilità ad accogliere la illuminazione dello Spirito «che eleva la mente a intendere le cose che l'intelletto non può cogliere con la sua luce naturale».
L'origine e la qualità carismatica del discernimento non diminuisce, ma qualifica ed esalta l'impegno sul piano umano: non si dà discernimento senza un tirocinio diligente e costante, senza la coltivazione attenta e il progressivo sviluppo degli atteggiamenti e dei requisiti adeguati, che non si possono considerare in alcun modo scontati nè mai definitivamente acquisiti: «E' più che mai necessario, dunque, educarsi ai principi e ai metodi di un discernimento non solo personale, ma anche comunitario» (Giovanni Paolo II).
Posto in ascolto dello Spirito, il discernimento richiede e alimenta una autentica povertà di spirito: non presume di conoscere in anticipo problemi e soluzioni; si esercita nella lettura dei segni dei tempi, per cogliere in essi la libertà dello Spirito.
Il discernimento non è mera applicazione di formulazioni generali a casi particolari, ma comprende nell'azione e agisce nella comprensione; non si limita a interpretare e valutare a livello diagnostico, ma è coesteso all'agire ecclesiale in tutta la sua ampiezza. E' volto alla decisione e all'azione: una scelta pratica, motivata dalla fede, su una questione concreta e la cui soluzione comporta una seria conversione: «il bilancio di un cammino, per una ulteriore e ricca tappa di crescita nella comunione ecclesiale e nel rinnovamento pastorale».
Benché la verifica pastorale non si irrigidisca in figure di tipo tecnico-procedurale, ma sia intesa piuttosto come momento di discernimento comunitario, è atto pastorale esigente e metodico e non deve scadere nella raccolta estemporanea di impressioni soggettive, affidate alla schermaglia dialettica.
Il discernimento, infatti, nella sua peculiarità non riconducibile a sole pratiche di tecnologia sociometrica o simili, non manca tuttavia di precise 'regole di esecuzione', che devono essere conosciute e seguite, per non attribuire allo Spirito inclinazioni e impressioni del tutto soggettive.

b. Requisiti e atteggiamenti del discernere
La verifica di discernimento esige un atteggiamento di costante ricerca e fedeltà alla volontà di Dio.
Il quadro di riferimento è dato dalla ecclesiologia di comunione: una chiesa che si comprende e agisce comunità di comunicazione e intesa, che articola funzioni e partecipazioni seconda una dinamica di scambio pluriforme e di tipo sinodale: il discernimento, come la missione, «non è opera di navigatori solitari»[55]. In questo orizzonte si leggono emerge il profilo interiore del discernimento comunitario: «Come espressione dinamica della comunione ecclesiale e metodo di formazione spirituale, di lettura della storia e di progettazione pastorale, a Palermo è stato fortemente raccomandato il discernimento comunitario. Perché esso sia autentico, deve comprendere i seguenti elementi: docilità allo Spirito e umile ricerca della volontà di Dio; ascolto fedele della Parola; interpretazione dei segni dei tempi alla luce del Vangelo; valorizzazione dei carismi nel dialogo fraterno; creatività spirituale, missionaria, culturale e sociale; obbedienza ai Pastori, cui spetta disciplinare la ricerca e dare l'approvazione definitiva. Così inteso, il discernimento comunitario diventa una scuola di vita cristiana, una via per sviluppare l'amore reciproco, la corresponsabilità, l'inserimento nel mondo a cominciare dal proprio territorio. Edifica la Chiesa come comunità di fratelli e di sorelle, di pari dignità, ma con doni e compiti diversi, plasmandone una figura, che senza deviare in impropri democraticismi e sociologismi, risulta credibile nella odierna società democratica»[56].
Il primo tratto risponde alla convinzione che discernere è atto teologale, attivazione di un dono dello Spirito. Esige quindi il profondo rinnovamento interiore, la conversione: «non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui  gradito    e perfetto» (Rm 12,2). Rinnovamento della mente che non è fatto solo intellettuale, ma globale, e coinvolge il rapporto con Dio e tutta la prassi della vita cristiana. Alla radice, l'atteggiamento di disponibilità radicale che contraddistingue la sequela di Gesù. Ciò non avviene senza una forte caratura spirituale, senza la coltivazione della dimensione contemplativa della vita.
Ne consegue l'esigenza di una solida maturità sapienziale.
Ciò significa anzitutto quella condizione psicologico-spirituale che è propria delle persone dal saldo orientamento di vita. Che non si sottraggono alla osservazione faticosa delle dinamiche della propria interiorità, così da riconoscere le ansie e le incertezze, le tensioni e le conflittualità; e da aprirsi all'attenzione e all'ascolto dell'altro.
Implica poi la preparazione umile e paziente, il non affidarsi superficiale al proprio fiuto, all'abilità dialettica, o anche alla sola competenza tecnico-professionale. Discernimento è un'operazione morale prima che intellettuale, che esige trasparenza e libertà interiore. E' trasparente, sia nella sua esecuzione come nelle sue motivazioni. Sono gli atteggiamenti tipici della ricerca della volontà di Dio, cui si oppongono le difficoltà inevitabili - ma superabili - nell'ambito della fiducia reciproca, della capacità di condivisione, di relazione, di comunicazione.
Discernere è separare, distinguere; prendere posizione, schierarsi. Gesù è la pietra fondamentale o la pietra d'inciampo, non un sasso qualsiasi. Ma ciò non comporta l'erigersi a giudice assoluto.  Nessuno possiede il discernimento, che è dono dello Spirito. E il non accaparramento del discernere significa, in concreto, atteggiamento di apertura e di accoglienza. Fare spazio, dunque e non guardare subito con infastidita sospettosità. Significa pazienza. Fino al punto, apparentemente paradossale, che vede il corretto esercizio del discernimento proprio nel non discernere (cf Rm 14,1 ss.). Il confine tra discernimento e divisione è sottile, basta un nulla per oltrepassarlo: «Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni» (Rm 14,1). Il discernimento è anche discrezione
Un atto di discernimento mai si conclude con la vittoria di una parte sull'altro posto, invece, nella logica evangelica dei servi 'inutili' (cf Lc 17,10).
Tra i requisiti c'è senza dubbio quello della competenza. La forza dello Spirito non può essere alibi alla negligente pigrizia. E' necessaria dunque una 'adeguata competenza teologica, resa più urgente dalla complessità della situazione attuale. E, insieme, la capacità di avvalersi di «appropriati strumenti culturali» perché la carità sia resa «capace di vagliare criticamente il senso degli eventi civili e dei fatti di Chiesa alla luce della contemplazione del disegno di Dio per questo nostro tempo»[57]. Un discernimento senza competenza è come una carità senza giustizia, una fede senza intelligenza. Tutto ciò esige impegno e fatica. Sempre ricordando, tuttavia, che un gruppo ecclesiale di discernimento non è un consulto di esperti, nè una disquisizione accademica.
L'autentico discernimento evangelico nasce e si sviluppa sul terreno di una testimonianza viva della carità: «E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri, ma non ho la carità, non sono nulla» (1Cor 13,2). Il discernimento genera la carità ecclesiale ed è generato da essa. Quando la carità è sostanzialmente violata, nessun discernimento è possibile: una contraddizione talmente radicale, da non permettere di riconoscere il corpo del Signore (cf lCor 11,29; 1Gv4,l-3).
Per questo il discernimento è reso impossibile dalla sclerocardia (cf Mc 3,5; 12, 18-27). Attingendo alla sorgente dell'agape, che lo suscita e lo ravviva, il discernimento diventa per dinamica interna momento di evangelizzazione, sapienza che manifesta l'accoglimento della «grazia di annunziare alle genti le imperscrutabili ricchezze di Cristo» (Ef 3,8).

c. Criteri del discernere
L'indicazione di alcuni criteri guida non ha carattere esaustivo, nè tecnico. La critica di genericità che a volte insorge a questo proposito non vede lontano: il fatto che dalle Scritture non sia possibile ricavare una tavola di regole normative e definite è la povertà ma, insieme, la ricchezza della fede cristiana. Non mancano, tuttavia, chiari punti di riferimento e utili indicazioni operative: un aiuto e una indicazione a camminare nella giusta direzione.
Il discernimento opera sul filo della memoria storica; è, in altri termini, atto di tradizione: «la nostra interpretazione deve sempre aver presente: la continuità della storia della salvezza, come si manifesta in forma più eminente nelle Scritture dell'Antico e del Nuovo Testamento; l'analogia della fede; il magistero della chiesa; e i giusti dettami della prudenza umana (cf GS 4.11 .37)»[58]. Al dato tradizionale si aggiunge così il risvolto antropologico-culturale e l'esplicito riferimento ecclesiale. Il discernimento fa tesoro della esperienza consolidata: fa riferimento all'orizzonte interpretativo dell'esistenza umana in cui la fede cristiana incontra la riflessione della filosofia e delle scienze umane e considera attentamente il momento giuridico e normativo.
Mette al primo posto, inoltre, il bene fondamentale della comunione ecclesiale, che non deve mai per nessuna ragione essere lacerata.
Nessuno di questi fattori costituisce, come si è detto, una regola da applicare meccanicamente. Le scritture, ad esempio, illuminano e guidano il discernimento, ma esigono a loro volta discernimento, perché vi si possa udire la voce non contraffatta di Dio e scorgere il progetto autentico di salvezza. Anche i criteri ecclesiali della edificazione e dell'utilità comune. così come quelli spirituali e pastorali della diaconia e della corresponsabilità non sono ricette di immediata applicazione pratica: orientano il discernimento e, a loro volta, lo esigono. Ciò non produce incertezza o evasività, ma impone l'umiltà, la fatica, e anche il rischio, di una ricerca incessante, che non parte mai da zero, ma non è mai definitivamente conclusa.
Il discernimento pone la verifica su orizzonti reali e tende a prospettive di azione pastorale praticabile: ha carattere operativo. Non può quindi limitarsi agli obiettivi generali, ma deve giungere a stabilire esiti effettivamente «operabili». Gli obiettivi praticabili richiedono invece la precisa determinazione di alcuni elementi in forma differenziata: i soggetti chiamati a realizzare un certo obiettivo; le caratteristiche specifiche di ciò che si vuole raggiungere; quali effetti se ne attendono; in quali condizioni l'obiettivo deve essere raggiunto; quali tappe e quali strumenti; quali criteri ne consentono la verifica.
La pastorale che si confronta nella progettualità esce dal cortocircuito di una prassi che si prefigge obiettivi generali altissimi e si contenta di risultati scadenti. Misura invece con obiettività e umiltà vera le proprie forze, stabilisce le priorità tenendo conto della realtà, verifica i mezzi a disposizione, sceglie le persone adatte (secondo le disponibilità reali).
La realtà insegna che troppo spesso la nostra pastorale fallisce perché scambia gli obiettivi finali con quelli operativi immediatamente praticabili. O perché l'attenzione alla praticabilità si deforma in preoccupazione di vedere risultati immediati.
Attenzione alla praticabilità operativa significa, inoltre, metodo della gradualità aperta. Che non anticipa i tempi, non prende scorciatoie; rispetta, secondo la pedagogia di Dio, il cammino lento e a volte interrotto degli uomini. Ed è pronta a rivedere costantemente i propri obiettivi in attenzione alla realtà della situazione e sempre aperta all'azione dello Spirito. In questo modo, la sensibilità operativa diventa vera sapienza pastorale. Che trova ottimo riscontro se posta come momento di partecipazione plurale e costruttiva: ciò che si è deciso insieme, sarà certamente realizzato con più ampia e fattiva collaborazione.
Il discernimento ha carattere aperto e dinamico. Secondo la libertà dello Spirito, apre gli spazi della creatività, valorizza la riflessione di fede sulla vita delle comunità, sventa il pericolo della burocratizzazione, attenta ai formulari e ai programmi più che alle persone e alla vita.
Si qualifica, inoltre, per la sua tempestività, senza nulla cedere al prurito di novità, ma senza nulla acriticamente respingere, anzi tutto vagliando e tenendo ciò che è buono, per formulare decisioni e progetti non anacronistici: le cose giuste, insomma, al momento giusto.

d. Modalità del discernimento
Ogni delineazione di itinerario di discernimento non può avere che valore indicativo, propedeutico e pedagogico, pur mettendo in evidenza fattori ed elementi di valore, che aiutano a evitare la dispersione empirica. Un itinerario di massima, quindi, da intendere flessibilmente e da integrare nell'ambito della pratica vissuta delle comunità. Le indicazioni e 'regole' per il discernimento comunitario non sono la causa della sua riuscita, ma unicamente la disposizione del contesto umano adeguato (per quanto è umanamente possibile) all'azione libera e gratuita dello Spirito. E' Lui, infatti, la 'causa efficiente' del discernimento.
Posto com'è nel segno e sotto l'azione dello Spirito, tutto il processo di discernimento è azione di preghiera.(E tuttavia l'espressione di preghiera ha momenti che devono essere segnalati come più rilevanti ed espliciti.)
Ecco un possibile itinerario di discernimento in comune.
·       primo momento: formulazione della questione, valutazione comune della sua rilevanza e pertinenza pastorale (da cui dipende la prosecuzione, o meno, del lavoro); presentazione dei vari aspetti del problema (con eventuale partecipazione e integrazione da parte di esperti ecc.), per non cadere sotto il rimprovero: «Hai visto molte cose, ma senza farvi attenzione, hai aperto gli occhi, ma senza sentire» (Is 42,20).
·       secondo momento: la disposizione condivisa di porsi davanti a Dio per cercarne con cuore disponibile e aperto la volontà - presente fin dall'inizio - si fa preghiera personale e comune, in forma esplicita (At 4,24; l0,9ss.; 13,2).
·       terzo momento: riflessione personale, in comune; non è una contraddizione (personale/insieme) ma una modalità specifica: il silenzio e la concentrazione personale si arricchiscono della presenza e condivisione di tutti; ciò esprime, contemporaneamente, una valenza antropologica e una verità dello Spirito.
·       quarto momento: scambio sulla questione in oggetto; non si tratta, anzitutto, di un dibattito; ma di un ascolto attento, in clima di fraternità e di preghiera (la dimensione pneumatica e comunionale del discernimento diventano così precisa scelta metodologica); eventuali approfondimenti delle opinioni e dibattiti sulle motivazioni giungono in un secondo tempo, perché non si sovrapponga la «carne» allo «spirito»; ma è essenziale che, in una prima fase (che può anche prolungarsi nel tempo, se non si creano le condizioni idonee) si eviti ogni forma (diretta e indiretta) di discussione-confronto delle opinioni.
·       quinto e ultimo momento, la decisione: essa non avviene con il criterio maggioritario, ma segue le strade della ecclesialità e trova quindi la propria modalità specifica di realizzazione via via secondo la fisionomia delle diverse realtà ecclesiali di discernimento (informale, consiglio pastorale, presbiterale, capitolo monastico ecc.) e la natura delle questioni: ricordando che, a volte, il discernimento impone di non discernere (non certo per gioco diplomatico o per codardia, ma quando, ad esempio, è necessaria nuova e più abbondante illuminazione, o quando una decisione non strettamente necessaria finirebbe per mettere in grave difficoltà e pericolo l'unità o, perlomeno, l'armonia della comunità). Perché la comunità non è solo il soggetto attivo del discernimento, ma anche il luogo in cui esso avviene e la sua «misura» teologica. La chiesa, luogo della comunione, coglie negli avvenimenti l'evento che dà significato e direzione al tempo. Per questo "nel Cristianesimo il tempo ha un'importanza fondamentale» (TMA 10).









[1] Cf.H.U. von Balthasar, Verità di Dio, Teologica 2, Milano 1987, 245: «[il factum incarnazione] rimane il punto di partenza, il punto centrale di ogni fede cristiana… Le teologia che si occupano del factum sotto la guida delle affermazioni dogmatiche ecclesiali… sono nulla più che un riflettere a tentoni che si svolge nella fede al factum per penetrare nel suo traboccante mistero, a partire dal quale si aprono tutti gli altri temi teologicamente rilevanti: Trinità di Dio, il rapporto tra il Logos diventato carne e il suo corpo mistico, rapporto che viene determinato nella chiesa così strutturata con i suoi sacramenti, il suo ministero, la parola ad essa affidata e la sua missione universale, infine il rapporto tra la Parola fatta carne, la storia del mondo e la vita eterna».
[2] P.Rodriguez, Attualità del Catechismo romano, in L.Adrianopoli (ed.), Il Catechismo romano commentato, Milano 1983 (data imprimatur), XVIII.
[3] B.Seveso, Teologia pastorale, in B.Seveso-L.Pacomio (edd.), Enciclopedia Pastorale, I, Casale Monferrato, 431. La correlazione con il vissuto ecclesiale è senz’altro propria del sapere teologico, e non solo in ambito pastorale: anche la teologia comunemente detta speculativa o sistematica (meglio dottrinale) nasce da una richiesta di intelligenza che è insita nel credere. Seveso ha perfettamente ragione, invece, di respingere la concezione della teologia pastorale come «prolungamento della ecclesiologia a fini pratici»: segnando quindi l’inesorabile aporeticità di denominazioni come “ecclesiologia pastorale”, che rappresentano una patente incongruità. La teologia pastorale non si risolve in una sorta di ecclesiologia pratica. Non si deve fraintendere la nota distinzione rahneriana (ecclesiologia essenziale/ecclesiologia esistenziale) che soffre comunque di contrazione semantica ed è esposta a rischio, come mostra la fagocitazione della teologia pastorale nella ecclesiologia (Wiedenhofer, Kehl, van der Ven), sia la produzione di neologismi ancor più arrischiati (ecclesiologia pastorale: dove o l’aggettivo è tautologico, si riferisce ciò alla pastoralità di tutta la teologia e, quindi, dell’ecclesiologia, che in questo senso  o è pastorale o non è; o è qualificativo, e introduce quindi un ossimoro per nulla letterario, ma espressivo di una intoglibile contradictio in terminis: o è dottrinale o è pastorale, non può essere ambedue le cose insieme). La teologia pastorale ha certamente a che fare con l’ecclesiologia, ma anche con altri trattati teologici: l’agire cristiano ecclesiale è in relazione con la riflessione articolata su tutta la Rivelazione.
[4] P.M.Zulehner (unter Mitarbeit von Joannes Haas, Andreas Heller, Maria K. Wild und Repert Stadler), PastoralTheologie, I, Fundametal-Pastoral. Kirche zwischen Auftrag und Erwartung, Düsseldorf 1989; Id., Teologia pratica, in P.Eicher (ed.), Enciclopedia teologica, Brescia 2990, 1100-1108.
[5] E’ evidente che il rapporto teoria/prassi non è un tema specifico e univoco della teologia. Il principio dell’incarnazione stabilisce quei parametri che, sul versante teologico, fanno da vaglio critico alle diverse prospezioni e teorie sul campo (benché sia anche vero  - reciprocamente – che la messa a tema e la trattazione sllo stesso terreno teologico sia spesso debitrice nei confronti delle prospettive sviluppate dalla filosofia e dalle scienze umane: come avviene, magistro Thoma, in ogni buona impostazione teologica)
[6] H.U. von Balthasar, Verità del mondo, Teologica, I, cit., 174.
[7] J.Goldbrunner, Inkarnation als Prinzip der Pastoraltheologie, in F.Klostermann-R.Zerfass, Praktische Theologie Heute, München 1974, 132.
[8] B.Seveso, Edificare la Chiesa, cit., 131-150
[9] Ibid., 145.
[10] R.Tonelli, Incarnazione, in M.Midali-R.Tonelli (edd.), Dizionario di pastorale giovanile, Leumann(TO) 1989, 459.
[11] H.U.von Balthasar, Verità di Dio, cit., 245.
[12] H.U.von Balthasar, Verità del mondo, Teologica 1, Milano, 1987, 174.
[13] L.Pareyson, Verità e interpretazione, in Opere complete, vol.15, Milano 2005
[14] H.G. Gadamer, Verità e metodo, Milano 2000.
[15] H.U.von Balthasar, Verità del mondo, cit.
[16] S.Klein, Methodische Zugänge zur sozialen Wirklichkeit, in H. Haslinger (ed.), Handbuch Praktische Theologie, vol. 1, Mainz 1999, 248-259, 251.
[17] J.Ladrière, L’articulation du sens. II. Les languages de la foi, Paris 1984, 118.
[18] Ib., 121
[19] M.D.Chenu, La chiesa popolo messianico, Torino 1967, 57; cf. ivi, 63: «Costituzione pastorale: ecco la novità in fatto di categorie. Ed è la più significativa. Se la presenza al mondo contemporaneo (conditiones nostri temporis), appartiene alla natura stessa della Chiesa; se la Parola di Dio di cui essa è testimone e garante, parla oggi, giorno dopo giorno, non è questione soltanto di conseguenze pratiche che il pastore deduce dalla decisione del dottore; esistere oggi (Dasein) appartiene all’essenza stessa della Chiesa. L’azione pastorale non è abbandonata a un pi opportunismo di circostanza: è la Chiesa in atto, luogo teologico della Parola di Dio, nella comunità gerarchica».
[20] Cf. Cl.Geertz, Antropologia interpretativa, Bologna 1988, 6-8
[21] E.Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano 2001, 31ss.
[22] S.Th. 1 q 16 a 8; De Veritate q 1 a 6.
[23] Summa contra gentiles, I, 49, 5.
[24] S.Th. 2-2, 1, 2 ad 2.
[25] Benedetto XVI, Spe salvi n.2.
[26] Congregazione per la Dottrina della Fede, Libertatis conscientia, 81.
[27] L.Schottroff – W.Stegemann, Gesù di Nazareth, speranza dei poveri, Torino 1988, 14.
[28] De dignitate et augmentis scientiarium, III, 5.
[29] Benedetto XVI, Deus caritas est, 10
[30] H.U. von Balthasar, Verità del mondo, cit. 114.
[31] Ib., 174
[32] Cf. W.Zauner, Laien und Priester – eine Kirche, in ThhkQ 135 (1987), 205-212; E. Garhammer, Die Sicht des Laien in der Pastoraltheologie, ibid, 213-218.
[33] R.Tonelli, Pastorale giovanile, cit., 16
[34] G.Montini, Allocuzione ai preti novelli del gennaio 1963,cit. in M.D.Chenu, La chiesa popolo messianico, cit., 59.
[35] W.Pannenberg, Epistemologia e teologia, cit., 411.
[36] Ch.Bäumler, Praktische-Theologie – ein notwendiges Element der Wissenschaftlicher Theologie?, in Theologia practica 9 (1974) 77; anche dieci anni più tardi H.Steinkamp parla di «metodologia non sviluppata» e proprio in riferimento alla impostazione più accreditata e diffusa di scienza dell’azione, formula l’accusa di astrattezza e scarsa praticabilità, pur riconoscendole alto livello teoretico (cf. H.Steinkamp, Zum Beispel: Wahrnebmung von Not. Kritische Anfragen an den gegenwärtigen Entwicklungsstand einer pratktisch-theologischen Handlungstheorie, in O. Fuchs (ed.), Theologie und Handeln,cit., 184), cf. W. Fürst, Praktisch-theologische Urteilskraft, cit. 398.
[37] Cf. H.Steinkamp, Zum Verhältnis von Praktischer Theologie und Sozialwissensschalten, cit., 172 ss.
[38] Ibid.
[39] Ultimo in ordine di tempo, Van der Ven, Praktische Theologie und Humanwissenschafen, in H. Haslinger (ed.), Praktische Theologie, I, Grunlegungen, Mainz, 1999, 267-278.
[40] A.D. De Grot, Metodologie. Grondslagne van onderzoek en denken in de gedragswetenschappen, Gracenhage 1975.
[41] A.Einstein, Induktion un Dedution in der Physik, in Berliner Tageblatt, 25 dicembre 1919.
[42] K.Popper, Logica della scoperta scientifica, Torino 1970, XIV
[43] K.Popper, La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, Roma 1976, 91.
[44] K.Popper, La società aperta e i suoi nemici, Roma 1974, 494ss: «Non esiste alcun criterio generale di verità. Ma ciò non legittima la conclusione che la scelta fra teorie concorrenti sia arbitraria: significa soltanto e molto semplicemente che non possiamo sempre errare nella nostra scelta, che possiamo sempre vederci sfuggire la verità o che possiamo non raggiungerla, che non possiamo mai pretendere la certezza…che noi insomma siamo fallibili».
[45] Cf. C.M.Martini, Effatà. Apriti, In dialogo, Milano 1990
[46] J.Ladrière, L’articulation du sens.., cit., 118
[47] Agostino, De doctrina cristiana, I, 4.4
[48] C.Dagens, L’intériorité de l’homme selon Saint Augustin. Philosophie, théologie et vie spirituelle, in Bulletin ecclésiastique 88 (1987) 270.
[49]  Presidenza CEI, La forza della riconciliazione. Sussidio in preparazione al Convegno “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”, in ECEI, 3, 2039; cf., CEI, La Chiesa in Italia dopo Loreto, 17, :«In questa luce, realtà quali la società complessa, il pluralismo culturale, la società del benessere, la secolarizzazione, vanno comprese attraverso l’esercizio del discernimento..»
[50] La forza della riconciliazione, cit., 3.2.1. in ECEI, 3, 2100
[51] Cf. T.Citrini, Per un’ecclesiologia postsinodale, in Rivista del clero italiano 69 (1988), 21: «Perché la riflessione teologico-pastorale possa offrire strumenti validi a questo fine… bisogna che la dignità teologica di ciò che avviene nella Chiesa nelle contingenze della storia sia correttamente intesa, alla luce di Cristo che è “via della chiesa” e dello Spirito che suscita la quotidiana memoria di lui nel popolo dei credenti».
[52] La forza della riconciliazione, cit., 3.2.1., in ECEI,3, 2100
[53] B. Seveso, Edificare la chiesa, cit., 404
[54] L. Della Torre, Metodologia del discernimento in comune, in Servizio della Parola 191 (numero speciale 1987), 115.
[55] CEI, Comunione e comunità missionaria, n.15
[56] CEI, Con il dono della carità dentro la storia, n.21.
[57] La forza della riconciliazione, cit., 1.3.4.
[58] Sinodo dei Vescovi 1980, Post disceptationem. Elenchus propositionum de muneribus familiae christianae in mundo moderno (24.10.1980), Propositio 5.




[1] G.Ebeling, Studium der Theologie. Eine enzyklopädische Orientierung, Tübingen 1975, 113.
[2] A.Grözinger, Erzählen und Halden. Studien zu einer trinitarischen Grunlegung der Praktische Theologie, München 1989, 7.
[3] L.Fendt, Die stellung der Pratischen Theologie, in G.Krause (ed.), Praktische Teologie. Texte zum Werden und Selbstverständins dei praktischen Diszpilin der evangelischen Theologie, WdF 264 (1972, 314.
[4] A.Grözinger, Erzählen und Halden. Studien zu einer trinitarischen Grunlegung der Praktische Theologie, cit., 7
[5] Cf. I. Sanna (ed), Il sapere teologico e il suo metodo, Bologna 1993, in particolare le Riflessioni introduttive di M. Bordoni
[6] Soprattutto in campo cattolico si chiede al Seelsorger che «secondo la finalità ultima della religione cristiana si impegni a educare, attraverso il suo insegnamento, non solo buoni cristiani, ma anche buoni cittadini per lo stato, e veri uomini-amici per la comunità umana» (citato in F.Dorfmann, Ausgestaltung der Pastoraltheologie zur Universitätsdisziplin un ihre Weiterbildung nach Archivalien bearbaiter, Wien-Leipzig 1910, 111).
[7] Cf K.Rahner, Teologia, in Sacramentum mundi, 8, Brescia 1977, 209-225.
[8] S.Th I, q.1,a.4
[9] Cf. M.D.Chenu: «In una allegoria assai suggestiva S.Tommaso descrive simbolicamente il confronto del teologo col mistero di Dio. Evocando l’episodio della lotta di Giacobbe con l’angelo (Gn 32) commenta: durante tutta la notte si affrontarono, muscoli tesi, senza che nessuno dei due cedesse. Di primo mattino l’angelo disparve, lasciando apparentemente il campo al suo avversario; ma Giacobbe avvertì allora un vivo dolore alla coscia e rimase ferito e claudicante. Così il teologo affronta il mistero al livello del quale Dio l’ha portato. Egli è teso, come un puntello,alle sue espressioni umane; ne aggredisce gli oggetti alla cintola; sembra dominarli; ma a quel punto avverte una debolezza, a un tempo dolorosa e dolce; perché essere così vinto è in effetti il guadagno del suo divino combattimento» (Omelia tenuta nel corso della celebrazione eucaristica, in Aa.Vv., L’avvenire della Chiesa (Bruxelles 1970). Il libro del Congresso, Brescia 1970, 65)

[10] Ibid.,63
[11] J.Ratzinger, in Aa.Vv., Pluralismo. Unità della fede e pluralismo teologico, 51. Per questo egli parla di «mediazione storica (della verità)…nel soggetto-storico-chiesa» (ib., 35).
[12] J.Alfaro, Rivelazione cristiana, fede e teologia, Brescia 1986, 109
[13] Ibid., 128. Nota ancora J.Alfaro: «La prassi appartiene alla fede cristiana, in quanto comunità costituita dalla fede, speranza e carità: il coinvolgimento reciproco del “credere-sperare-amare” cristiano, porta con sé l’accento, l’unità vitale tra l’ortodossia e l’ortoprassi».

[14] Cf. R.Marlé, Le projet de Théologie pratique, Paris 1979
[15] Id., Teologia pratica e spirituale, in Aa.Vv., Iniziazione alla pratica della teologia, 5, Brescia 1987, 327.
[16] G.Colombo, Dogmatica e pastorale, in Aa.Vv., Gesù, il Signore. Riflessioni e scelte pastorali. Miscellanea  card. A.Ballestrero, Roma 1983, 190-202.
[17] G.Angelini, Prefazione in Aa.Vv., Iniziazione cristiana e immagine di Chiesa, Milano 1998, 7
[18] B.Seveso, Itinerari ecclesiali e consapevolezza teologica, in Aa.Vv., Scienza e prassi ecclesiale in Italia, Napoli 1985, 85.
[19] R.Zerfass, Zur Organisation des Studiums der Praktischen Theologie, in Id.- N.Greinacher, Einführung in die Praktische Theologie,München 1976,  66.
[20] W.Furst, Praktische-theologische Urteilskraft. Auf dem Weg zu einer symbolischkrtischen Methode der Praktischen Theologie, Zürich- Einsiendeln – Köln 1068, 228. Egli segnala incertezze riguardo a: 1) una vera e propria dignità scientifica (se si tratti di tecnica, insegnamento pratico, scienza applicative o “vera” scienza); 2) la permanente debolezza nella determinazione di identità e compito (tra teologia pastorale, teologia ecclesiale, scienza della cura d’anime, ecclesiologia esistenziale, scienza dell’azione ecclesiale); 3) il dibattito aperto intorno alla classificazione appropriate del suo status teoretico (teologia pratica, teologia pragmatica, teoria critica, teoria della prassi, teoria della mediazione, teoria-prassi).
[21] R.Marlé, Le proiet de…, cit.,22
[22] W.Kasper, La funzione della teologia nella chiesa, Brescia 1989, 66.
[23] J.Alfaro, Rivelazione cristiana…, cit., 132
[24] Ib., 133
[25] Cf. G.Baum, Sociologia e teologia, in Concilium 10 (1974) 47-58.
[26] Basterà ricordare la differenza di impostazione tra psicologia sperimentale e psicologia del profondo, con le relative e numerose diramazione in ambedue gli ambiti.
[27] G.Colombo, Prefazione in B.Seveso, Edificare la Chiesa, Leumann (TO) 1982, 18.
[28] E’, come è noto, il sottotitolo del Proslogion. Cf. J. Alfaro, Rivelazione cristiana…, cit, 333: «Fides quaerens intellectum (sui): sembra essere questa la migliore descrizione della teologia: la fede che riflette in profondità su se stessa, ponendosi le domande ultime sulla propria scelta e sul proprio contenuto; la fede alla ricerca totale di se stessa, ossia alla ricerca delle condizioni necessarie perché sia intellegibile come “fides qua” e “fides quae”. Una ricerca orientata dalla fede verso una sempre maggiore comprensione e realizzazione della vita cristiana, e rivolta al servizio della comunità ecclesiale»
[29] K.Rahner, La teologia pratica nel complesso delle discipline teologiche, in Nuovi Saggi 3, Roma 1969, 161
[30] Ibid.
[31] M.D.Chenu, La chiesa popolo messianico, Torino 1967, 62.
[32] E’ un punto non ancora acquisito. Si veda la collocazione e il ruolo della teologia pastorale delineati nei documenti: Ratio fundamentalis, 79 e nota 171 (EV 3/1918); Orientamenti e norme per la formazione dei presbiteri della Chiesa italiana (ECEI 3/373); Ratio studiorum dei seminari maggiori d’Italia, 51.83 (ECEI 3/1802-1805.1855).
[33] M.Bordoni, Tra ortodossia e ortoprassi, in F.Marinelli (ed.), La teologia pastorale. Natura e compiti, EDB, Bologna 1990, 26; cf.«L’importanza della prassi di carità per la retta fede (ortodossia) emerge, a partire dal cristianesimo delle origini e per molta parte dell’era cristiana, nel modo di pensare la fede e l’eresia. Come ha mostrato Y.Congar, al seguito degli studi di A.Lang, il concetto di fede e di eresia, in tutto il primo millennio, nel medioevo  e ancora agli inizi dell’era moderna, è stato più ecclesiologico che dogmatico…La chiesa e la unità erano considerate come il luogo o sacramento fondamentale della salvezza, per cui tutto ciò che non concordava con la fede e la prassi della comunità era considerato eretico…E’ solo dopo Guglielmo di Occam e dopo la Riforma che l’eresia è stata definita da un punto di vista soprattutto noetico, come una dottrina che si oppone immediatamente, direttamente e contraddittoriamente alla verità rivelata da Do e proposta autenticamente come tale dalla Chiesa [MICHEL, DTC, VI, 2211]».
[34] Cf. Optatam totius, 16
[35] CEI, La preparazione al sacerdozio ministeriale.Orientamenti e norme (15 agosto 1972) n.162. Esso sottolinea inoltre: l’unità della formazione filosofico-teologica (n.154ss.) attorno al mistero di Cristo, attorno alla crescita nella fede del soggetto, attorno alla finalità pastorale “che è intrinseca alla teologia” (n.161); l’organicità interna al sapere teologico (la ‘gerarchia delle verità’ correttamente intesa) per cui ogni singola parte mostra la propria significativa correlazione con il tutto, dandogli senso e figura; l’assimilazione personale, non solo in termini di conoscenza, ma di vera sostanza di vita, come appropriazione esistenziale; la connessione non per via esortativa, ma per evidenza logica con il ministero pastorale: ecco tre criteri di riferimento non caduco per il rinnovamento degli studi seminaristici, di cui ancora oggi, e non senza motivo, si discute. In questa linea – è bene rilevarlo – il sapere teologico non solo si inquadra come componente formativa indispensabile, ma si qualifica come fattore costitutivo e sorgivo di spiritualità:«Data l’unità intrinseca fra fede e teologia è vitale che docenti e alunni, sull’esempio dei santi dottori della fede, ricordino che lo studio della teologia per progredire ha bisogno di essere accompagnato dalla preghiera (cf.DV 25)», n.164. Una preghiera non accanto alla teologia come componente altra della formazione, ma dentro la teologia come vitalità della stessa.
[36] N.Mette, Theorie der Praxis. Wissenschaftgeschichtliche und methodologische Untersuchungen zue Theorie-Praxis-Problematik innerhalb der praktischen Theologie, Dissertation, Münster 1976, 628. Sullo sfondo, la posizione luterana, soprattutto nell’opera polemica Disputatio contra scholasticam theologiam del 1517. Eccone alcune: «Vera theologia est pratica, et fundamentum eius est Christus…»; «Theologus non fit nisi id fiat sine Aristotele».
[37] Cf. L.Prenna, Teologia pastorale o pastoralità della teologia? Ipotesi di interpretazione rosminiana, in F.Marinelli (ed.) La teologia pastorale..,cit. 120:«Più che di teologia pastorale si dovrebbe parlare di pastoralità della teologia, poiché non si tratta di una disciplina teologica o di un ramo del sapere teologico: è la ragione stessa storica e pratica della teologia che, come ragione teorica e dottrina ideale, è il sapere di una sapienza». Dove sono posti in alternativa fattori ugualmente essenziali e costitutivi.
[38] Interesse è qui inteso in senso habermasiano, come orizzonte socioculturale che determina (noi diremmo, in maniera più sfumata, che contribuisce a determinare) la sollecitazione, l’orizzonte di comprensione e, in qualche misura, gli stessi codici di elaborazione e comunicazione di una conoscenza; cf. J.Habermas, Conoscenza e interesse, in Id., Teoria e prassi nella società tecnologica, Bari 1978, 3-18; Id., Teoria dell’agire comunicativo, Bologna 1987.
[39] Cf. J.Moltmann, Was ist heute Theologie? Zwei Beiträge zur ihrerVergegenwärtigung, Freiburg i.B.. 1988, 59:«La mediazione  [Die Vermittlung] fra la tradizione Cristiana e la cultura del nostro tempo è assolutamente il compito principale della teologia».
[40] M.Midali, Il senso della ricerca, in M.Midali-R.Tonelli, Qualità pastorale delle discipline teologiche e del loro insegnamento, Roma 1993, 14: «Posto questo costitutivo legame della pastorale con la prassi, intesa nel senso appena indicato [cioè come prassi ecclesiale e non solo dei pastori, secondo il Vaticano II], per ogni disciplina si pone l’esigenza di chiarire la propria qualità pastorale, rispondendo a tutta una serie di domande».
[41] Discutibile la tesi di N.Mette, che sulla scia tracciata da H.Peukert (Wissenschaftstheorie – Handlungtheorie – Fundamentale Theologie. Analysen zu Ansatz und Status theologischer Theoriebildung, Frankfurt 1978) e da Habermas, propone di fondare la teologia pratica come «teoria teologica esplicita dell’agire comunicativo» (Praktische Theologie als handlungswissenschaft. Begriff und Problematik, in Diakonia 10 (1979), 197), come «scienza teologica (esplicita) dell’azione nel quadro di una teologia concepita (globalmente) come scienza pratica» (Theorie der Praxis. Wissenschaftgeschichtliche und methodologische Untersuchungen zue Theorie-Praxis-Problematik innerhalb der praktischen Theologie, Düsseldorf 1978, 342).
[42] G.Lorizio-S.Muratore, La frammentazione del sapere teologico, Cinisello Balsamo 1998.
[43] B.Forte, Qualità pastorale dell’insegnamento della teologia sistematica, in M.Midali, Il senso della ricerca, cit., 63.
[44] Ibid.
[45] Cf. Ibid: «Il ritorno alla storia della rivelazione ella prospettiva biblica unificante dell’alleanza implica perciò anche il recupero del rapporto originario e strutturale fra dogma ed ethos», con una ineccepibile prospettiva storico-salvifica.
[46] Ibid, 73
[47] S.Maggiani, Qualità pastorale della teologia liturgica, in M-Midali-R.Tonelli (edd.) Qualità pastorale delle discipline teologiche…, cit., 142: «Poiché la TL ha come oggetto…la prassi liturgica della Chiesa… non può non avere una qualità pastorale pena l’arrestare la ricerca ad un senso teorico, ma astratto. In questo caso, sebbene sia implicata la conoscenza della materia, la medesima conoscenza in se e per sé non porterà alla qualità dell’Actio e alla sua veritas»
[48] E.Mazza, Teologia liturgica centrata sul vissuto celebrativo, in M-Midali-R.Tonelli (edd.) Qualità pastorale delle discipline teologiche…, cit., 143.
[49] La lettura “pastorale” della Bibbia, per esempio, non è restringibile alla dimensione teologico-spirituale, ma alla vita e all’azione della comunità cristiana nelle sue diverse articolazioni (cf. R.Fabris, Dimensione pastorale dell’esegesi e insegnamento della Scrittura, in M-Midali-R.Tonelli (edd.) Qualità pastorale delle discipline teologiche…, cit., 37).

[50] W.Furst, Praktische-theologische Urteilskraft…, cit., 380:«Tra il processo di modificazione dell’epoca moderna riguardo la situazione sociale del cristianesimo e la storia scientifica della teologia pastorale esiste una stretta connessione, quasi una reciproca correlazione».
[51] Cf. J.Theiner, Die Entwicklung der Moraltheologie zur eigenständigen Disziplin, Regensburg 1970.
[52] Cf. E.Chr. Achelis, Lehrbuch 1, 1911(3), 12.
[53] Citato in F.Dorfmann, Augestaltung der Pastoraltheologie, cit., 5.
[54] Tabellarius Grundriss der Pastoraltheologie
[55] Cf. F.Dorfmann, Augestaltung der Pastoraltheologie, cit., 111
[56] Ibid., 106
[57] Citato in J. Müller, Die Pastoraltheologie innerhalb des theologischen Gesamtkonzepts von Stephan Rautenstrauch (1774), in PThH, 48
[58] F. Giftschutz, Leitfaden für die in den katholischen Kirche. Erblanden vorgeschriebenen deutschen Vorlesungen über die Pastoraltheologie, Wien 1786, 8.
[59] G. Otto, Grundlegung der Praktischen Theologie, München 1986, 39.
[60] Kant pone esplicitamente la questione della legittimità della teologia come disciplina universitaria in uno scritto del 1798 (Der Streit der Fakultäten); Fichte, proprio in riferimento all’organizzazione degli studi nella università berlinese (Deduzierter Plan einer zu Berlin zu errichtenden höheren Lehranstalt), ammette solo a una teologia senza diretto riferimento a una fede determinata e a una rivelazione positiva.
[61] Cf. F Chätelet (ed.), Storia della filosofia, V, Milano 1976, 7: «Il  merito essenziale di Kant è quello di aver mostrato che ormai il problema centrale è quello della pratica, dell’azione degli individui nella società. Ben più che dal cogito cartesiano il pensiero contemporaneo è determinato dalla Kritik der praktischen Vernunft (Critica della ragion pratica), nella sua astrazione e nella sua innocenza aggressiva».
[62] W.Pannenberg, Epistemologia e teologia, Brescia 1975, 237.
[63] F.Schleiermacher, Lo studio della teologia. Breve presentazione, Brescia 1978.
[64] Ibid, 107
[65] Ibid., 108
[66] Ibid., 114
[67] Ibid., 115
[68] Ibid., 127.
[69] Ibid., 198.
[70] Ibid., 200: «Tutte le prescrizioni della teologia pratica possono solo essere espressioni geniali nelle quali il tipo e il modo del loro uso in casi singoli non è già insieme determinato.. Vale a dire che esse sono regole d’arte nel senso rigoroso della parola. In tutte le regole di un’arte meccanica l’applicazione è già contenuta. Le prescrizioni delle arti più elevate, al contrario, sono tutte configurate in tal modo che il corretto agire secondo la misura di tali regole richiede sempre, in più, un particolare talento mediante il quale si deve individuare ciò che è giusto».
[71] R.Marlé, Le projet de Théologie pratique, cit., 64.
[72] Marheineke, Entwurf der praktische Theologie, Berlin 1937,
[73] C.I. Nitzsch, Praktische Theologie, Bonn, 1847-1857.
[74] Ibid, 5. Sullo sfondo la convinzione che «la religione non è principalmente un’idea, ma un fatto (vol.I, 4)) e che di conseguenza la teologia non può e non deve mai essere sviluppata solo intellettualisticamente (10)
[75] Vol.I, 15
[76] Vol.II, 127: «l’osservazione storica, lo sviluppo logico e la progettazione tecnica devono procedere insieme».
[77] Il suo contributo Zur Praktischen Theologie, si trova in Liebner-Ehrenfeuchter-Palmer (edd.), Jarbücher für Deutsche Theologie I, Stuttgart 1856, 317-361.
[78] G.Otto, Grundlegung der Praktischen Theologie, cit., 48
[79] W. Pannenberg, Epistemologia e teologia, cit., 406.
[80] J.M. Sailer, Pastoraltheologie, 3 voll., Monaco 1988.
[81] Ibid., vol.I, 1.
[82] A.Graf, Kritische Darstellung der gegenwartigen Zustandes der praktischen Theologie, Tübingen, 1841, 7.
[83] Ibid., VII.
[84] Ibid., 95-96.
[85] Ibid., 6
[86] Ibid., 125.
[87] Ibid., 4; 8-9; 125 ss.; 143.
[88] La teologia pastorale appare quindi come «scienza dell’attività ecclesiale, divina e umana, per mezzo delle persone che rivestono un ufficio ecclesiastico, preferibilmente dello stato ecclesiastico, per l’edificazione della chiesa» (Ibid., 149); o anche «scienza e teoria della chiesa che perfeziona, edifica se stessa» (Ibid., 269).
[89] A.Graf, Kritische Darstellung.., cit., 4ss.
[90] Ibid., 76
[91] Ibid., 181 ss.
[92] Discepolo di A.Graf; cf. J.Amberger, Pastoraltheologie, 3 voll, Regensburg 1850-1857.
[93] L’impostazione deduttivi stiva è ancora chiaramente affermata, ad. Es. in C.Krieg, Die Wissenschaft der speziellen Seelenführung, Freiburg 1904 (uno dei manuali che ha trovato maggior fortuna anche all’esterno) nella cui Introduzione (VIII) si legge che la teologia pastorale «trasporta le verità e  le leggi, date da Cristo e dalla Chiesa, nei campi molteplici della vita, studiandosi di dar forma scientifica alle funzioni pastorali»
[94] M.Benger, Pastoraltheologie, 3 voll. Regensburg 1861, I, 2. L’autore afferma tra l’altro polemicamente che la teologia pastorale deve cercare la propria legittimazione scientifica e «il proprio spirito» non in Köninsberg, né «nelle corti» (riferimento a Maria Teresa e Guglielmo di Prussia), ma «in Roma e in Vaticano» (Ibid., 25).
[95] Sono, in particolare, i tentativi di Boisen e Cabot. Su questo aspetto cf. H.Faber, Pastoral Care and Clinical Training in America, Arnhem 1961.
[96] Cf. S.Hiltner, Preface to Pastoral Theology, New York 1958.
[97] Ibid., 20ss., 217.
[98] Ibid., 23-24.
[99] Ibid., 28.5., in cui espone l’organigramma delle discipline teologiche.
[100] Cf. H. Godin- Y. Daniel, La France,pays de mission?, Paris 1943.
[101] F. Boulard, Problèmes missionnaires de la France rurale, 2 voll., Paris 1945; G. Michonneau, Paroisse, communauté missionarie. Conclusion de cinq ans d’expérience en milieu populaire, Paris 1945.
[102] G. Michonneau, Paroisse, communauté missionarie..,cit., parla addirittura di «comunità che facciano choc» (267ss.)
[103] H. Godin- Y. Daniel, La France,pays de mission?, cit., 122-129.
[104] F. Boulard, Problèmes missionnaires de la France rurale, cit., 39-40.
[105] Cf. F. Boulard, Problèmes missionnaires de la France rurale, cit., 90-110; G. Michonneau, Paroisse, communauté missionarie..,cit., 419-449; su questo cf. anche Y.Congar, Mission de la paroisse. Structure sociale et pastorale paroissale,  Paris 1948, 56-57.
[106] Cf. Aa.Vv., La pastorale oggi. Atti del 1° Congresso internazionale di pastorale (Friburgo 10-12 ottobre 1961), Milano 1963.
[107] Cf. G. Ceriani, Introduzione alla teologia pastorale, Roma 1961. A lui si deve anche la fondazione del C.O.P. (Centro di Orientamento Pastorale).
[108] Cf. Y.Congar, Die Theologen, das Pastoral-konzil und die Theologie, in Diakonia 13 (1982) 372-373; M.D.Chenu, Un Concil “pastoral”, in Parole et mission 21 (1963) 185; M.Levebvre, Vers une nouvelle problématique del la théologie pastorale, in NRT 93 (1971) 38.
[109] Cf. Il caustico intervento di D.Hurley alla XXII congregazione generale, che indicava nella pastoralità il «peccato originale» di tutto il Concilio.
[110] Paolo VI, Discorso pronunciato nella basilica vaticana il 29 settembre 1963 (cf. EV I*, 139).
[111] V.Schurr, Teologia pastorale, in Aa.Vv., Bilancio della teologia del XX secolo, II, Assisi
[112] Cf. Acta Synodalia I/I, 171ss.
[113] Entrata nel lessico conciliare sotto forma di citazione neotestamentaria Mt.16,3 (Bolla di indizione Humanae Salutis), l’espressione gode di crescente fortuna a partire dalla enciclica Pacem in terris (Cf. M.D.Chenu, La Chiesa nel mondo, Milano 1965, in particolare il cap I: «I segni dei tempi»).
[114] Cf. W.Kasper, La Chiesa sotto la parola di Dio, in Concilium 2 (giugno 1965), 68: «Nessun insegnamento della Chiesa può mai esaurire la perfetta pienezza e ricchezza delle sue fonti; una teologia che non intenda cadere in preda di una sterile speculazione, deve continuamente rinnovarsi alle sorgenti».
[115] Cf.Aa.Vv., La costituzione dogmatica sulla Divina rivelazione, Leumann (TO9 1967; R.Latourelle, Teologia della Rivelazione, Spoleto 1967.
[116] M.D.Chenu, La chiesa popolo messianico, Torino 1967, 57; cf. ibid., 63: «Costituzione pastorale: ecco la novità in fatto di categorie. Ed è la più significativa. Se la presenza al mondo, al mondo contemporaneo (conditiones nostri temporis), appartiene alla natura stessa della Chiesa; se la Parola di Dio di cui essa è testimone e garante, parla oggi, giorno dopo giorno, non è questione soltanto di conseguenze pratiche che il pastore deduce dalla decisione del dottore; esistere oggi (dasein) appartiene all’esistenza stessa della Chiesa. L’azione pastorale non è abbandonata a un pio opportunismo di circostanza: è la Chiesa in atto, luogo teologico della Parola di Dio, nella comunità gerarchica».
[117] L’intervento del Card. Suenens venne pronunciato in aula il 4 dicembre 1962, durante la 33° congregazione generale. Il radiomessaggio è quello pronunciato da Giovanni XXIII l’11 settembre 1962 a un mese dall’apertura del Concilio. Vi si afferma: «La chiesa vuole essere ricordata quale essa è nella sua struttura interiore – vitalità ad intra – in atto di ripresentare, anzitutto ai suoi figli, tesori di fede illuminatrice e di grazia santificatrice… nei rapporti della sua vitalità ad extra, cioè la chiesa di fronte alle esigenze e ai bisogni dei popoli – quali le vicende umane vengono volgendo piuttosto verso l’apprezzamento e il godimento dei beni della terra - … questi problemi di acutissima gravità stanno da sempre sul cuore della chiesa. Perciò essa li ha fatti oggetto di studio attento, ed il Concilio Ecumenico potrà offrire, con chiaro linguaggio, soluzioni che sono postulate dalla dignità dell’uomo e della sua vocazione cristiana» (in AAS 54 (1962) 680-681).
[118] Cf. F.X.Arnold, Was ist Pastoraltheologie, in Wort des Heils als Wort in die Zeit, Gasammelte Reden un Aufsätze, Trier 1961, 296-300.
[119] Cf. F.X.Arnold, Das Prinzip des Gott-menschlichen und seine Bedeutung für die Seelsorge, in ThQ 123 (1942) 145-176 (in particolare 151-153).
[120] F.X.Arnold, Storia moderna della teologia pastorale, Roma 1970, 113.
[121] Resta indeterminato il percorso metodico del riferimento alla prassi, così come la corretta valorizzazione delle scienze umane. Ma gli va il merito di aver colto il problema ed essersi incamminato nella giusta direzione.
[122] Cui si aggiungerà più tardi, il pastoralista viennese F.Klostermann. Su tutto questo cf. V.Schurr, Teologia pastorale, cit., 401-406.
[123] K.Rahner, Pastorale e teologia dopo il Vaticano II, in Nuovi Saggi IV, Roma 1973, 164-166.
[124] K.Rahner, Fondamenti della teologia pastorale, Brescia 1969, 44ss.: «La chiesa è fondata da Gesù Cristo una volta per sempre, ma è fondata come entità storica… essa è in fieri: diviene perché è; ed è, solo in quanto diviene... Con ciò è enunciata la storicità dell’autorealizzazione della Chiesa. Ciò non significa soltanto (lo ripetiamo ancora una volta) che la chiesa persevera nella storia nella sua essenza e che in una storia della chiesa avviene ‘qualcosa’, ma che questa essenza ha essa stessa una storia»
[125] H.Schuster, Wesen und Aufgabe der Pastoraltheologie als praktischer Theologie, in HbPTb I, 93; cf. K.Rahner, La teologia pratica nel complesso delle discipline teologiche, in Nuovi Saggi III, Roma 1969, 155: «La teologia pratica è quella disciplina che si occupa della auto attuazione che la chiesa deve realizzare di fatto nella situazione concreta. Alla base di tale disciplina sta la chiarificazione teologica della situazione storica precisa nella quale la chiesa è chiamata a realizzarsi in tutti i propri aspetti».
[126] K.Rahner, Fondamenti della teologia pastorale.., cit., 61.
[127] Cf. K.Rahner, La teologia pratica nel complesso delle discipline teologiche, cit., 158 ss: «Per riflettere scientificamente sulla situazione presente e per capirla, come è suo compito, essa (la teologia pastorale) ha bisogno di discipline ausiliarie: la sociologia, le scienze politiche, la storia contemporanea ecc.. Da tale punto di vista quindi, tutte queste discipline hanno una funzione ausiliaria per la teologia pratica.
[128] Cf. HbPTb II/1, 23.24.27.28-31.32.34.36-38.
[129] K.Rahner, Die Gegenwart der Kirche, Wissenschalts teoretiche Vorüberlegungen, in HbPTk II/1, 186.
[130] K.Rahner, Die Grundlegenden Imperative für den Selbstvollzug der Kirche in den gegenwärtigen Situation, in HbPTh II/1, 234: «solo l’interpretazione teologia assicura la validità del dato empirico in teologia pastorale»
[131] Ibid., 256.
[132] Cf. K.Rahner, La teologia pratica nel complesso delle discipline teologiche, cit.
[133] Anzitutto, l’impiego della categoria “autorealizzazione” della chiesa, su cui tutta l’opera fa perno. Non bastano le precisazioni di Rahner (la parola ‘autorealizzazione’ va letta nel suo senso formale. Non implica nessuna introversione della chiesa, quasi che il suo agire si riferisca, in fondo, a se stessa. Essa deve glorificare Dio, servire alla salvezza degli uomini, essere a disposizione del mondo. Tutto questo è precisamente la sua autorealizzazione, così come un uomo si realizza amando Dio e distanziandosi quindi da se stesso») a respingere le accuse di ecclesiocentrismo e di larvato clericalismo. Se queste sono, per la verità, infondate, il concetto di autorealizzazione, cui è sottesa la distinzione tra ecclesiologia essenziale e ecclesiologia esistenziale, finisce inevitabilmente per collocare la teologia in un orizzonte tendenzialmente deduttivi stico, a farne una disciplina in cui, di fatto, si vengono a utilizzare risultati acquisiti in altre discipline. In altri termini, l’impostazione sembra restare prigioniera del classico assioma agere sequitur esse, anche se Rahner si preoccupa di precisare che «noi non dobbiamo solo sapere che cosa e come essa (la chiesa) deve fare in generale e sempre, ma anche che cosa e come essa ora deve agire» (K. Rahner, Fondamenti della teologia pastorale, cit., 9, nota 1). E’ proprio questo rapporto tra l’aspetto normativo dell’essenza e quello empirico dell’operazione e della decisione, questo rapporto tra indicativo e imperativo o, in termini più corretti e moderni, tra teoria e prassi a non essere sufficientemente trattato e illuminato nella impostazione dello Handbuch. A questo proposito Rahner sembra avvertire la difficoltà e, quasi, si schernisce presentandosi come autore che «si trova più o meno ad essere un dilettante, che soltanto per caso si è smarrito in questi problemi» (K. Rahner, La teologia pratica nel complesso delle discipline teologiche, cit., 153). Il problema è stato acutamente avvertito, anche se con accenti diversi, sia in campo protestante (dove la formula “autorealizzazione della chiesa” non poteva non sollecitare una sensibilità particolarmente acuta); sia in campo cattolico: cf. R Zerfass, Praktische Theologie als Handlungswissenschaft, in Theologische Revue 69 (1963) 89-98 (qui 92). Anche perché Rahner sembra rimanere dell’idea che l’ambito della decisione operativa sfugga in ogni caso alla riflessione teologica pastorale («Nemmeno questa seconda riflessione (quella cioè «sulla situazione attuale e sul comportamento che la chiesa ora e domani dovrà assumere», (K.Rahner, La teologia pratica nel complesso delle discipline teologiche, cit., 154) è in grado di fornire in maniera univoca e definitiva l’imperativo concreto.
[134] Cf. G.Krause, Rezension zum «Handuch der Pastoral Theologie», in Theologia pratica 2 (1967) 360-371.
[135] Cf. G. Krause, Zur Standortbestimmung einer Zeitschrift für praktische Theologie, in Theologia pratica 1 (1966) 413.
[136] E.Jüngel, Das Verhältnis der theologischen Disziplinen untereinander, in E.Jüngel-K.Rahner-M.Seitz, Die Praktische Theologie zwischen Wissenschaft und Praxis, München 1968, 11-45 (qui 37).
[137] Ibid.
[138] Ibid., 40
[139] Ibid., 44.
[140] La conferenza è pubblicata in versione italiana in Nuovi Saggi III, Roma 1969, 153-172,
[141] M.Seitz, Die Aufgabe der Praktischen Theologie, in E.Jüngel-K.Rahner-M.Seitz, Die Praktische Theologie zwischen Wissenschaft und Praxis, cit., 65-80
[142] Ibid., 79
[143] G.Krause, Praktische Theologie, Darmstadt 1972, 430.
[144] Ibid., 432.
[145] W.Fürst, Praktisch-theologische Urteilskraft…, cit. 330-331
[146] Cf. J.Matthes, Die Emigration der Kirche aus der Gesellschaft, Hamburg 1964.
[147] H.D.Bastian, Von Wort zu den Wörtern. Karl Barth und die Aufgaben der Praktischen Theologie, in Evangelische Theologie 28 (1968) 25-55
[148] Ibid., 31.
[149] Cf. Ibid., 30: «La teologia pratica non è dunque l’emporio per i risultati dell’esegesi, né la desiderata opportunità di dare forma applicativa ai contenuti dogmatici, ma la possibilità documentata mediante metodi specifici di sottoporre l’agire ecclesiale e teologico a un orizzonte conoscitivo empirico.».
[150] Cf. Ibid., 41.
[151] K.D.Dahm, Beruf: Pfarre. Empirische Aspekte, München 1971, 305ss.
[152] G.Otto, Grundlegung der Praktischen Theologie, cit., 74ss
[153] Ibid., 20
[154] M.Horkheimer, Traditionelte und Kritische Theorie, Frankfurt 1970, 57.
[155] Cf. G.Biemer-P.Siller, Grundfragen der Praktischen, Mainz 1971
[156] H.Schroer, Empirische Wissenschaft und Praktische Theologie, in Anstosse. Berichte aus der Arbeit der Evangelischen Akademie Hofgeismas (1970) n.112, 52-65.
[157] Th. Ströhm, Über die Zusammengehörigkeit von systematischer und praktischer Theologie. Eröffnung einer literarischen Diskussion, in Theologia practica  9 (1974) 2-6.293.
[158] W.Pannenberg, Die Praktische Theologie im System wissenschaftlicher Theologie, in Theologia practica 9 (1974) 7-18; ripreso in Epistemologia e teologia, cit., 398-414.
[159] Ch. Bäumler, Praktische Theologie – ein notwendiges Element der wissenschaflticher Theologie,  in Theologia practica 9 (1974) 72-84.
[160] N.Mette, Theorie und Praxis. Wissenschaftgeschichtliche und methologische Untersuchungen zur Theorie-Praxis-Problematik innerhalb Praktischen Theologie, Düsseldorf 1978; Id., Praktische Theologie als Handlungwissenschaft. Begriff und Problematik, in Diakonia 10 (1970) 190-203.
[161] H.Peukert, Wissenschaft theorie. Handlungstheorie. Fundamentale Theologie. Analyse zu Ansatz und Status theologischer Theoriebldung, Düsseldorf 1976.
[162] N.Mette, Theorie der Praxis…, cit.,32.
[163] Secondo H.Schelsky, la differenza delle scienze dell’azione da quelle orientate in senso storico-ermeneutico consiste nel fatto che«esse sono aperte a immediate conseguenze per l’azione secondo la natura del loro conoscere, e quindi proprio in quanto teoria» (Einsamkeit und Freiheit. Idee und Gestalt der deutschen Universität und ihrer Reformen, Reinbeck 1963, 283).
[164] G.Krause sembra essere il primo a introdurre il concetto di Handlungwissenschaft nell’ambito della teologia pastorale (cf. Probleme der Praktischen Theologie im Rahmen der Studienreform, in Id. (ed.), Praktische Theologie, Darmstadt 1972, 418-444 (in particolare 430-435).
[165] N.MettePraktische Theologie als Handlungwissenschaft. Begriff und Problematik…, 193,:«Anche l’interesse per il rapport con la prassi, per il rinnovamento e per il campo di azione ecclesiale non bastano come criteri».
[166] Ibid., 203
[167] J.A.van der Ven, Entwurf einer Empirischen Theologie, Kampen 1990.
[168] J.A.van der Ven, Kontextuelle Ekklesiologie, Düsseldorf 1995.
[169] A.Grözinger, Praktische Theologie und Ästhetik, München 1987.
[170] Ibid,, 87ss.
[171] D.Atkinson-D.Field (edd.), Dictionary of Christian Ethics and Pastoral Theology, Leicester 1995.
[172] W.Steck, Praktische Theologie I. Horizont der Religion-Konturen der neuzeitlichen Christentums-Strukturen der religiösen Lebenswelt, Stuttgart 2000.
[173] Ibid., 27.
[174] H.Haslinger (ed.), Praktische Theologie, I. Grunlegungen, Mainz 1999.

1 comment:

  1. Professor Asolan. Grazie generosa condivisione. È utile per
    concetti e idee chiarificatrici della teologia pastorale>
    Ora sono ritornato a Roma per la tesi di dottorato.
    A presto. Andrea.

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