Teologia pastorale
Avvertenza per gli
studenti
Il presente fascicolo contiene i materiali per lo studio della disciplina.
Attingono a fonti diversi e rielaborati dal docente.
Per l'approfondimento di alcuni temi saranno
date indicazioni bibliografiche durante
il corso.
Bibliografia
Aa.Vv.,
La teologia pastorale oggi, Lateran
University Press, Città del Vaticano 2010;
Asolan P., Il tacchino induttivista. Questioni di teologia pastorale, Il
Pozzo di Giacobbe, Trapani 2009.
Lanza s.,
Introduzione alla teologia pastorale. 1.
Teologia dell'azione ecclesiale, Queriniana, Brescia 1989
Lanza s.,
Convertire Giona - Pastorale
come progetto, OCD, Roma 2005.
Mastantuono A., «La
teologia pratica. Teologia pastorale e catechetica», in G.Lorizio-N.Galantino (edd.), Metodologia teologica. Avviamento allo studio e alla ricerca
pluridisciplinari, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi)2004, 502-540.
Midali M.,
Teologia pratica. Cammino storico di
una riflessione fondante e scientifica, LAS, Roma 2002-2011, 5 voll.;
Seveso, B., Edificare la chiesa. La teologia pastorale e i suoi
problemi, ElleDiCi, Leumann (To) 1982
Seveso B.,
La pratica della fede. Teologia
pastorale nel tempo della Chiesa, Glossa, Milano 2011
Torcivia C.,
La Parola edifica la comunità. Un
percorso di teologia pastorale, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2008.
PASTORALE
FONDAMENTALE
Cap.
1. Difficoltà e obiezioni
«La
teologia pratica è la più giovane tra le discipline teologiche principali e
anche quella la cui denominazione e determinazione dei compiti sono tra le più
discusse»[1]
. Eppure, «nessuna disciplina teologica ha messo a tema in maniera tanto
ostinata la propria autocomprensione quanto la teologia pratica»[2].
Dato di fatto tanto evidente quanto ignorato, se la teologia pastorale ancor
oggi non riceve facilmente la qualifica di vera disciplina teologica: «La
teologia pratica è la più giovane tra le discipline teologiche principali e
parimenti quella la cui denominazione e la cui determinazione dei compiti è la
più discussa. Ironicamente la si è potuta definire come 'senza dimora' [Stellungslos] nel sistema della scienza
teologica»[3].
La si riconosce, per lo più, a livello di tecnologia applicativa costruita a
partire da presupposti teologici (e, quindi, solo indirettamente teologica).
Ciò pregiudica gravemente la sua impostazione, la sua efficacia, la sua
esistenza medesima. Questa 'ignoranza', che ancora abbondantemente alberga
nell'universo teologico, non è certo dovuta soltanto al fatto che essa si
presenta come «la figlia più giovane nella famiglia della scienza teologica»[4];
nemmeno a trascuratezza o, è ovvio, incapacità. Piuttosto, mi sembra, alla
difficoltà - comprensibile ma non incolpevole - ad abbandonare un orizzonte
precomprensivo (un paradigma teologico) per adottarne uno nuovo. Non è
possibile, infatti, riconoscere pertinenza teologica reale alla riflessione
pastorale, se non si allarga (e in parte si modifica) la prospezione
complessiva del sapere teologico. Il mancato apprezzamento della teologia
pastorale, ancora considerata perlopiù succedanea e tecnopoietica, mette in
evidenza che le nuove istanze e prospettive, sviluppate da alcuni filoni della ricerca
teologica e ben presenti nel Magistero del Vaticano II (si pensi soltanto alle
costituzioni dogmatiche Lumen gentium e
Dei Verbum e alla costituzione pastorale [!] Gaudium et spes) non sono scese nel profondo. Istintivi meccanismi
di autodifesa ne hanno bloccato l'azione, sovrapponendola e giustapponendola,
anziché integrandola e ricomponendola in una visione d'insieme rinnovata e
coerente. Non mancano, certo, progressioni felici[5]; ma ancora troppo
disperse per riuscire a modificare precomprensioni e luoghi comuni di secolare
radicazione.
Il
mancato riconoscimento dell'esistenza e consistenza di una autentica teologia
pastorale fa leva, generalmente, su alcune obiezioni che è necessario
esaminare.
1.1. Una espressione vaga e
imprecisa
Pastorale.
Parola ripetuta come poche altre nel linguaggio ecclesiale del nostro tempo.
Parola caricata di risonanze ed evocazioni, di aspettative e invocazioni.
Parola sfruttata, tirata a velo dell'incompetenza, posta a segnale -ingannevole
- di soluzioni a basso costo; mistificata, ridotta a espediente pubblicitario,
per attrarre l'operatore in cerca di orientamento e di aiuto efficace;
mercificata, come altre del resto, a sostenere il fiacco mercato del libro
'teologico'... Parola di successo, senza dubbio, e resistente negli anni;
pagato però con una promiscuità che la rende buona per tutti gli usi' e la
svilisce. Così, la sensibilità pastorale, oggi tanto diffusa, appare anche non
poco confusa. Trova conferma, piuttosto, la sensazione che l'azione
pastorale medesima venga irretita in questa figura emozionale, empirica e
frammentaria, in cui all'intuizione - a volte perspicace, spesso sofferta - dei
disagi e dei problemi, non fa riscontro l'approfondimento coraggioso e
rigoroso, la ricerca delle ragioni e delle cause, l'esplorazione vagliata e
competente delle soluzioni, la verifica degli esiti.
L'impressione
di deriva semantica trova riscontro non solo nell'impiego ignorante e pressappochistico,
ma anche in alcune questioni di rilievo, in cui si manifestano precomprensioni
filosofiche e teologiche diversificate. L'uso corrente, anche in sede
accademica, sconta spesso l'inerzia continuando a contrapporre pastorale a
teologico...
Altre
volte, si dice pastorale in riferimento ristretto al ministero ordinato; altre
ancora pastorale è distinto (contrapposto?) a dottrinale, perdendo così l'unità
tradizionale della “sacra dottrina” coltivata dai Padri e dalla grande
Scolastica.
1.2. Un fatto recente, non
propriamente teologico
A prima
vista, sembra fondata l'obiezione che fa leva sulla data tutto sommato recente
del riconoscimento accademico della disciplina teologico-pastorale e, insieme,
il carattere perlomeno sospetto delle sue motivazioni[6].
Per quanto
riguarda il primo aspetto (data recente) si deve ricordare che la partizione
della riflessione teologica in discipline settoriali non è originaria[7],
ma proviene da precise circostanze storiche. Così è, per esempio, per la
teologia morale (secolo XVI), della ecclesiologia e teologia fondamentale
(coeve, se non successive, alla teologia pastorale) ecc. La specializzazione
disciplinare risponde a specifiche esigenze del vissuto ecclesiale in
determinati momenti storici e movimenti culturali, e non tocca solo la teologia
pastorale.
Per quanto attiene alla qualità teologica, il
discorso si amplia necessariamente, e apre la questione, articolata e
complessa, della natura del sapere teologico. Dalla questione, agitata già
nella Scolastica matura e ripresa polemicamente da Lutero, della sua
inflessione speculativa o pratica, alla sua configurazione metodologica e
valenza scientifica. Del resto, come apparirà da tutta la trattazione,
considerare la teologia pastorale come una aggiunta, sia pur nobile e
necessaria, all'edificio teologico tradizionale comporterebbe inevitabilmente
quella impressione di posticcio che sempre si produce in tali casi. Il
riconoscimento della teologia pastorale come teologia impone una
riconsiderazione non marginale della natura e del metodo del sapere teologico.
Con qualche necessaria conversione e - ci sembra - con non pochi vantaggi.
Il
riferimento classico per la messa in mora delle pretese della teologia
pastorale è al maestro Tommaso. Tuttavia l'assunto tomista («theologia non ergo est scientia practica, sed magis speculaiva»)[8], correttamente
inteso, è meno perentorio di quanto comunemente si intenda, come lascia
intendere quel «magis», che
interrompe l'equilibrio antitetico della frase. La teologia non è speculativa
perché esclude dal proprio ambito l'azione (di Dio e degli uomini), ma perché
ne tratta sotto un preciso angolo visuale - «prout
sunt divino lumine cognoscibilia» e «secundum
quod per eos ordinatur homo ad perfectam Dei cognitionem, in qua aeterna
beatitudo censistit».
Tommaso non
rifiuta sottovaluta l'aspetto pratico, ma non vuole che la teologia sia ridotta
a casistica. Gli sta a cuore l'unità profonda della sacra dottrina, insieme a
una penetrazione spinta ai limiti dell'intelligenza (speculativa) di ogni
aspetto della fede: «omnia autem
pertractantur in sacra doctrina sub ratione Dei; vel quia sunt ipse Deus; vel
quia. habent ordinem ad Deum, ut ad principium et finem. Unde sequitur quod Deus vere sit subiectum huius
scientiae» (STh I, q. 1, a.
7). Né manca alla
intrapresa tommasiana la tensione epica[9], quasi gridata (ed
esasperata) da Lutero («vivendo, immo
moriendo et damnando fit theologus, non intelligendo, legendo aut speculando»).
Nel nostro
tempo, il recupero della nozione di storicità, al di là di formulazioni di
scuola a volte discutibili, fa sentire tutto il suo peso nei confronti dell'eredità
aristotelica. E si incontra con la tradizione biblica: «Essa (la verità
rivelata) non deriva dunque da proposizioni nelle quali si sarebbe fissata
fiori del tempo, e che noi manipoleremmo da buoni logici, in una sorta di
metafisica sacra, sotto la tutela di un'autorità; ma procede da una storia che
Dio guida, in avvenimenti di salvezza, nei quali egli si rivela... Dio parla
oggi, nella comunità cristiana, a partire da questa 'concentrazione
cristologica' che lo Spirito, secondo la promessa di Gesù... distribuisce e
svela in molteplicità di segni che annunciano le cose future, vale a dire il
nuovo ordine di cose, nate dalla morte e dalla risurrezione del Cristo»[10].
Ciò non
significa, è bene sottolinearlo, che la verità rivelata sia un prodotto della
storia (pericolosa infiltrazione hegeliana). E nemmeno che essa, storicamente
mediata e percepita, si stemperi in un incetto relativismo conoscitivo. La
mediazione storica comporta la ristrutturazione ermeneutica e il recupero
prassistico del sapere teologico - quindi dinamismo ed esistenzialità -, non la
sua dissoluzione: «Un cristianesimo che non potesse dirci ciò che esso è e ciò
che non è, e dove corrono i confini tra il suo essere e il suo non essere, non
avrebbe più nessuna funzione da svolgere».[11]
A conclusioni
simili giunge anche J. Alfaro: «L'azione del cristiano deve essere vista non
come semplice espressione o risultato della sua fede o completamento della
stessa, ma come autentico compimento di essa: l'uomo accetta pienamente come
uomo (nella totalità-unità del suo essere corporeo-spirituale) la parola di Dio
solo nel proprio operare. La fede non è una decisione puramente interiore, ma
una decisione pienamente umana, le opere la costituiscono come sottomissione
totale dell'uomo alla grazia di Dio in Cristo».[12]
Dato che la
fede «include in se stessa la prassi cristiana», la teologia - fides quaerens intellectum - «non potrà limitarsi alla
riflessione sulla sua dimensione cognitiva... ma dovrà prendere in
considerazione la prassi della fede ecclesiale»[13]. Non è quindi
soltanto il problema acutissimo del divorzio tra fede e cultura a reclamare un
modo diverso di fare teologia, ma la stessa struttura profonda dell'atto di
fede.
La
necessità della teologia pastorale si riconduce, dunque, alla esigenza che l'azione
ecclesiale sia posta sempre in modo corretto ed efficace, sotto il profilo sia
della sua collocazione storico-culturale, sia della sua qualità evangelica.
Questa seconda esigenza fa immediatamente percepire come non si tratti di
disciplina soltanto funzionale, ma presente per ragione intrinseca all'interno
del discorso teologico. Detto in termini diretti: una teologia che non sviluppi
questo aspetto è mutila e incompleta, e cadrà inevitabilmente nell'ideologia
(dato che l'area pratica deve essere normata, se questo avviene in maniera non
criticamente riflettuta, finirà per attribuire carattere di necessità - magari
dottrinale! - a ciò che è semplicemente l'interpretazione precaria e acritica
del soggetto e/o del momento).
1.3. Incertezza epistemologica
Come si è notato in apertura, un diffuso luogo
comune, che conta sempre nuovi adepti. R. Marlé, che nel 1979[14]
si era espresso in termini moderatamente ottimistici e, in ogni caso, aperti,
ricade pochi anni più tardi in una posizione scettica: la teologia pastorale -
egli scrive nel 1982 - «oggi appare appartenere ad un genere un po' ibrido. Con
la qualificazione 'pastorale' viene meglio definita la sua finalità che non il
suo metodo»[15],
e questa incertezza «la condanna forse a contentarsi sempre di tentativi
parziali, regionali, limitati». Sul
carattere «regionale» della teologia pastorale concordano anche G. Colombo[16]
e G. Angelini, che motiva la sua posizione facendo riferimento alla «condizione
presente della ricerca, che è condizione estremamente iniziale e immatura per
quanto attiene alla figura qui prospettata di 'teologia pratica'»[17].
Gli fa eco B. Seveso, che al Symposium su
«Scienza e prassi pastorale in Italia» promosso dal COP afferma: «Non si può
negare lo stato di labilità teoretica in cui versa questa disciplina Non esiste
su questa materia, specialmente in Italia, una tradizione di scuola
consolidata, capace di sostenere una effettiva comunicazione scientifica, e i
tentativi ricorrenti di dare un volto convincente alla teologia pastorale si arenano
nella babele delle lingue»[18]. Anche in area
tedesca, più sviluppata sotto il profilo della ricerca epistemologica, non
mancano le istanze critiche. R. Zerfass parla di scarsa trasparenza[19],
mentre W.Furst stila un nutrito elenco di sintomi «della intima debolezza di
impianto (della teologia pastorale), risultante dal mancato chiarimento dei
rapporti con la prassi (che genera conflittualità) e, non da ultimo, anche
dall'incertezza in merito alla collocazione teologica e alla specificità della
disciplina, nonchè al suo significato per il futuro del cristianesimo»[20].
Una
situazione di disagio. Ma la constatazione che la situazione di incertezza
epistemologica è tutt'altro che esclusivo problema della teologia pastorale
lascia intendere che tanta severità di giudizio, frequente in area dogmatica e
a volte recepita come verità di fede dai pastoralisti, provenga in realtà da
motivazioni non propriamente teoretiche. Ad essere messa in questione, semmai,
non è propriamente la teologia pastorale, ma l'intero sapere teologico. Il
«carattere problematico della teologia»[21], a sua volta, non
è disgiunto da una situazione più generalizzata, in cui «tutte le scienze si
trovano oggi in crisi di principi»[22]. Così, se «i
teologi non si trovano d'accordo nel rispondere alla domanda su che cosa sia la
teologia (scientia conclusionum ex fide,
scientia fidei, Fides in statu scientiae, intellectus fidei, Fides quaerens
intellectum, etc.)»[23], nemmeno i
filosofi concordano nel definire la filosofia[24], né i sociologi
nell'intendere la sociologia[25], gli psicologi la
psicologia[26]
e via dicendo. E nessuno pensa di negare dignità scientifica al discorso
filosofico, o sociologico, o psicologico ecc. E' curioso che tale conseguenza
negativa sia fatta valere solo per la teologia pastorale che, «inserita
radicalmente nella questione teologica fondamentale... procede o si blocca con
essa»[27].
La qualità
teologica della disciplina è garantita dalla teologicità del suo oggetto e del
suo metodo: vi si tornerà. Ma non è pensabile se non nel quadro di una concezione
adeguata del sapere teologico. Considero determinanti questi riferimenti:
–
l'impostazione
della ricerca teologica, considerata, nella sua globalità, secondo la felice
formula anselmiana, come fides quaerens
intellectum[28] .
–
l'inseparabilità
di fides quae e fides qua.
–
la comprensione inscindibile della fides quae come
quae creditur e quae per caritatem operatur.
Certo, si
può intendere la teologia anche come scienza delle conclusioni, cioè come
costruzione meramente deduttiva a partire da un patrimonio dato e immobile (che
non è sinonimo di immutabile!). Ma ciò produce una triste mortificazione: non
della teologia pastorale, ma della teologia in quanto tale.
1.4. La pastoralità di tutta
la teologia
Se dunque
tutta la teologia si comprende in dimensione e in prospettiva pastorale, che
bisogno c'è di una disciplina ad hoc? Di
fatto, le altre discipline la considerano piuttosto «una specie di appendice
nella quale rientrano le conseguenze pratiche derivanti necessariamente dalle
loro elaborazioni teoriche», o anche «una raccolta di regole tattiche di natura
psicologica, didattica o sociologica, immediatamente ricavabili dalla semplice
pratica della cura d' anime»[29].
Così,
l'affermazione della pastoralità di tutta la teologia rischia di fermarsi a una
volonterosa dichiarazione di intenti, senza conseguenze pratiche. Lo conferma
in maniera evidente la scarsa considerazione che la teologia pastorale riceve
nella mappa delle discipline teologiche curricolari sia nei seminari, sia (e
più) nelle facoltà teologiche: «In campo cattolico, soprattutto nei paesi
latini, non esiste ancora nel piano di studi una 'teologia pratica' come
disciplina veramente autonoma. Le esigenze che il Vaticano II ha sollevato in
questo campo sono ancora assai lontane dall'essere state realizzate»[30].
Sono passati quasi quarant'anni, ma la situazione è cambiata di poco. E non
sempre in meglio.
Senza
la presenza competente della teologia pastorale la 'pastoralità" di tutta
la ricerca teologica non vien di fatto garantita. Essa - la teologia pastorale
- delinea il quadro di riferimento contestuale: pone sul tappeto le questioni
più scottanti per la vita cristiana, provoca le altre discipline teologiche a
una indagine approfondita sotto i diversi profili e approcci, si confronta con
esse e con la realtà, per tracciare indicazioni operative, teologiche e
pratiche ad un tempo.
Esempio
significativo e quanto mai autorevole di questa impostazione sarà la
costituzione pastorale Gaudium et spes, a
proposito della quale M.D. Chenu svolgeva alcune annotazioni pertinenti: «Non
si tratta di un adattamento contingente, opportuno, di verità eterne, ma, in
tutta la potenza di significato del termine, di una 'presenza' oggi, del
Vangelo, in atto attraverso la Chiesa e nella Chiesa... Non si tratta neppure
di 'soluzioni' ex cathedra, insegnate dall'alto e
dall'esterno, a problemi mondiali in evoluzione... Si tratta di posizioni
evangeliche, ispirate dall'interno, sostenute dalla parola di Dio; e, nello
stesso tempo, posizioni che assumono i valori inseriti dal Creatore nella
stessa natura umana... Duplice e unica problematica... nel regime
dell'Incarnazione, secondo il ritmo della storia»[31].
Non si tratta
quindi di legittimare, con qualche forzatura, una nuova disciplina,
addossandola come una nuova ala, un prolungamento all'antico edificio
teologico. Si tratta invece, anzitutto, di una nuova comprensione complessiva
del sapere teologico, radicato nella storia e nella vicenda ecclesiale e ad
esse volto, in cui alla teologia pastorale compete specificamente (non esclusivamente)
l'elaborazione degli aspetti ed ambiti inerenti la prassi, necessaria alla
compiutezza organica del discorso teologico[32]: «Nel suo operare
in rapporto a questi due orizzonti [filosofia e scienze umane], la teologia non
agisce considerando il luogo umano-culturale come un semplice luogo di
applicazione di quanto viene conosciuto ed espresso già perfettamente nel primo
momenti di interpretazione delle fonti. Essa deve tener conto piuttosto che la
vita presente della chiesa in quanto operante nel mondo costituisce un luogo di
rilettura del suo passato che consente di offrire nuove risposte a delle nuove
istanze di interrogazione»[33]. Ciò sia in
riferimento alla ortodossia, che ne viene costantemente illuminata,
approfondita e arricchita: senza la fede ecclesiale vissuta, la teologia
sarebbe priva di un adeguato 'luogo' concreto e pratico di riferimento, con il
rischio di caduta in categorie concettuali puramente astratte; sia in
riferimento alla ortoprassi, come capacità interpretativa, progettuale e attuativa
della vita cristiano-ecclesiale: la teologia pastorale è teoria teologica della
prassi evangelica ecclesiale nella società.
Tema dunque
ben presente a partire dalla sua recezione nei documenti del Vaticano II[34],
ma spesso retoricamente evocato ed esposto a fraintendimento, e bisognoso
pertanto di una non marginale messa a punto.
Non
meriterebbe menzione l'opinione di coloro che fanno della 'pastoralità' il sinonimo di una teologia meno rigorosa e
scientifica, se non fosse ancora tanto diffusa. Si ha l'impressione che
questa decurtazione così deleteria, oltre a mortificare la qualità pastorale
degli assunti e delle attuazioni, la riduca di fatto - e non innocentemente - a
facilitazione e copertura di non lodevoli pigrizie: altro infatti è
divulgazione di qualità volta a stimolare la creatività pastorale delle
comunità concrete; altro - e questa volta non positivamente - la produzione di
merce di facile consumo, da cui provengono solo illusioni presto smentite dai
fatti e agitazioni operative in incidenti. In ogni caso: «Affermare la
pastoralità della teologia non significa parlare di una teologia non
dottrinale, meno scientifica e soltanto praticistica, ma significa impostare
l'insegnamento teologico in funzione della formazione di un prete...»[35].
Conferma autorevolmente la Pastores dabo
vobis: «Si tratta in realtà di due caratteristiche della teologia e del suo
insegnamento che non solo non si oppongono tra loro, ma che concorrono, sia
pure sotto profilo diversi, alla più completa intelligenza della fede. Infatti
la pastoralità della teologia non significa una teologia meno dottrinale o
addirittura destituita della sua scientificità» (n.55).
Sgomberato
il campo da questo penoso fraintendimento, l'insidia viene da altre due
interpretazioni patologiche, che procedendo da una identificazione indebita, si
svolgono simmetricamente e antiteticamente:
·
riducendo
tutta la teologia, da un lato, alla teologia pastorale o pratica: «la teologia
pratica deve essere concepita come scienza teologica dell'azione all'interno di
una teologia concepita come scienza pratica»[36];
·
ritenendo superflua, dall'altro, la teologia
pastorale, perché i suoi compiti sarebbero già sufficientemente svolti dalla
inflessione 'pastorale’ di tutta la teologia, peraltro non meglio precisata nei
suoi contorni[37].
Probabilmente è la stessa scelta
terminologia - 'pastoralità' - a prestare il fianco agli equivoci. Per questo,
piuttosto che di 'pastoralità' della teologia si dovrebbe parlare, più
adeguatamente e propriamente, di contestualità
teologica. Sotto un duplice profilo:
·
culturale: come precomprensione e interesse[38]
in correlazione con l'orizzonte e il flusso dei fenomeni della cultura, sia
accademica sia antroposociale; si tratta di un compito di grande importanza[39],
soprattutto nel nostro tempo: compito che attiene al sapere teologico nel suo
complesso, che quindi non si identifica con la teologia pastorale, ma con un
aspetto della qualità pastorale della teologia.
·
ecclesiale: come riflesso del vissuto
ecclesiale di un'epoca e come servizio alla vita concreta della Chiesa; il
sapere teologico non si avvita su se stesso, ma si pone come funzione
ecclesiale imprescindibile, presente fin dalle origini e in ogni epoca, anche
se in forme diversificate e non necessariamente accademiche (basti pensare al
Nuovo Testamento e ai Padri).
Intesa correttamente come
contestualità, la cosiddetta pastoralità si propone non come semplice valore
aggiunto, o settore, ma come dimensione costitutiva del sapere teologico. Il
riferimento alla prassi è quindi intrinseco alla investigazione teologica e non
deriva soltanto - come sembra intendere Midali[40] - dal necessario
rapportarsi della pastorale alla prassi. E' necessario superare l'equivoco che
la nota di pastoralità di tutta la teologia provenga primariamente dalle
esigenze del ministero pastorale. Si tratta, piuttosto, di una connotazione
propria e irrinunciabile del sapere teologico, che, come si è visto, può essere
opportunamente intesa e denominata come contestualità culturale ed ecclesiale.
Non viene, in altri termini, solo dalle esigenze della pastorale, ma della
teologia tout court: non è perché la
pastorale si riferisce alla prassi, ma perché la teologia è posta in contesto
culturale ed ecclesiale, che essa deve determinare la propria figura
epistemologica e il proprio itinerario metodologico in riferimento alla prassi,
e precisare accuratamente la/e figura/e epistemologica/he e metodologica/he di
tale riferimento.
La corretta
visione della 'pastoralità' di tutta la teologia non determina se il sapere
teologico debba essere inteso come speculativo o pratico[41].
E' quindi necessario distinguere tra:
- il
contributo che le diverse discipline teologiche possono e debbono dare alla
vita della Chiesa, nei suoi diversi aspetti e nelle sue diverse esigenze, senza
per questo rinunciare alla profondità della investigazione e al rigore della
esposizione, ma modulandolo secondo le esigenze del vissuto culturale ed
ecclesiale (si pensi all'importanza che riveste oggi la questione di Dio, e la
scarsa rilevanza odierna delle questioni sulle 'presenza reale' eucaristica,
che hanno appassionato tante generazioni di cristiani e fatto discutere tante
scuole di teologi;
- la
fruibilità e utilizzazione delle elaborazioni e degli asserti teologici
nell'azione pastorale, che apre il discorso della divulgazione competente e
sapiente;
- la
specifica trattazione teologica delle problematiche inerenti l'azione
ecclesiale, che costituisce il campo proprio e peculiare della teologia
pastorale. Che sono tanto più necessarie, quanto più si imbocca la via di una
divulgazione autentica, che è possibile solo se preceduta e accompagnata da una
vera competenza. Negli altri casi, la volgarizzazione scade in volgarità.
Proprio il campo ecclesialmente rilevante della divulgazione costituisce punto
di incontro tra la inflessione teologico-dottrinale e quella
teologico-pastorale: perché tocca alla teologia pastorale fornire - in maniera
scientificamente ineccepibile - le coordinate e le esigenze proprie del vissuto
ecclesiale e sociale, cui l'intento divulgativo intende fornire una risposta di
più ampia e immediata efficacia. La teologia pastorale, quindi, non è la sede
della divulgazione, ma il luogo dove si elabora una competenza necessaria alla
divulgazione.
La
'pastoralità' della teologia tocca perciò sensibilmente:
–
la
precomprensione del lavoro teologico, sia come ricerca, sia come didattica:
esposizione e motivazione allo studio;
–
la
disposizione sistematica della trattatistica, sia come equilibrio tra le parti,
sia come rilevanza (o addirittura emergenza) della questioni (si veda, a questo
proposito la discussione e in merito alla frammentazione del sapere teologico[42]).
Così, per
concretizzar:e con riferimento ai grandi capitoli della formazione al
presbiterato come tracciati dalla Pastores
dabo vobis, la teologia pastorale non sopravviene solo in seconda battuta,
nell'ambito della formazione pastorale (57ss.),
ma è presente - e necessariamente
presente - nell'ambito della formazione intellettuale, che, attenta allo studio
della Parola di Dio e dell'uomo, interlocutore di Dio, esige «Io studio della
dogmatica, della teologia morale, della teologia spirituale, del diritto
canonico e della teologia pastorale» (54).
La
questione non riceve sempre lucidità di approccio, come attesta l'interessante
lavoro curato da Midali e Tonelli.
Qualche
rapida osservazione, che può servire a precisare ulteriormente - magari anche
con qualche inflessione critica - la nostra tesi.
Nel
suo intervento, Bruno Forte definisce con lucidità e proprietà l'ambito della
questione in relazione alla teologia sistematica, individuando come qualità
pastorale «il suo rapporto originario con la prassi della fede e la sua
intrinseca destinazione ad essa nella comunione del popolo di Dio»; cade
tuttavia in equivoco quando, poco più avanti, concretizza il problema come
«interrogativo sul perché e sul come il carattere dottrinale della teologia
sistematica vada coniugato con una sua possibile specifica qualità pastorale»[43].
Che se tale rapporto è, come egli ha affermato in prima battuta, originario,
non si dà sistematica [noi preferiamo dire dogmatica] senza di esso. E quindi
non di coniugazione anzitutto si tratta, ma di componente costitutiva: ne va
cioè dell'integrità, e non solo della funzionalità, della teologia sistematica
(dogmatica). E' evidente che il pensiero trascorre qui insensibilmente da una
considerazione epistemica corretta a una di tipo applicativo ed entra, senza
dichiararlo (e probabilmente senza avvertirlo, tanto invalsa ne è l'abitudine),
nel solito schema deduttivo, dove l'ambito pastorale è pensato come campo di
applicazione del dottrinale. Analogamente poco più avanti, dove, dopo aver
affermato in maniera ineccepibile che «la separazione fra la verità del dogma e
la riflessione morale e pastorale, tipica di molta teologia moderna ammaliata
dal primato assoluto della ragione, è stata causa di una duplice conseguenza
negativa» (verità priva di bellezza e incidenza pratica; riduzione casistica
del teologico-pratico), propone di «fondare l'agire sull'essere, l'etica sul
dogma»[44],
esponendosi a un possibile, duplice fraintendimento: che il rapporto tra essere
e agire venga inteso consecutivamente e non reciprocamente (l'essere si coglie
solo nel suo agire: cosa che del resto l'Autore ben conosce nella sua ampia
trattazione dogmatica, con rilievo segnalato nella elaborazione sia
cristologica, sia trinitaria); che l'etica - che certamente è fondata sul dogma
- venga di fatto considerata fondata sulla dogmatica.
Che
questa non sia l'intenzione di Forte è chiaro[45], come conferma
l'eccellente determinazione che egli prospetta della qualità pastorale della
teologia dogmatica, intesa come simbolica: «La 'simbolica' ritorna così alla
prassi: essa lo fa non con sintesi
definitive e compiute, con sistemi chiusi e onnicomprensivi, ma con
proposte provvisorie e credibili, come si addice al pensiero della profezia»[46].
Avrebbe potuto aggiungere, a questo punto, che proprio la teologia
pastorale ha il compito di dare a tale profezia volto di concretezza, senza mai
restringersi, peraltro, in cosificazioni pragmatiche, senza mai cedere alla
tentazione di trasformarsi in una sospetta futurologia, dove il tempo catturato
non è più aperto alla dimensione kairologica dell'avvento.
La
differenza tra pastoralità della teologia e teologia pastorale è ben
individuata nel contributo di due liturgisti: con formulazione più articolata e
sfumata in Maggiani[47], e più diretta in
Mazza[48]:
«Dato che la liturgia è una celebrazione, la disciplina in questione dovrà
occuparsi necessariamente della celebrazione; dato che questa è essenzialmente
pastorale, posso concludere che è da questa che l'insegnamento della liturgia
trae il suo carattere di disciplina pastorale». Quindi non 'pastoralità' della
liturgia, ma sua fisionomia propriamente e specificamente pastorale.
Non
si può dire altrettanto per altri contributi[49], soprattutto
quelli dove una malintesa interpretazione della pastoralità di tutta la
teologia finirebbe così per ridurre la teologia pastorale a una sorta di
intenzionalità profonda (tanto profonda da essere invisibile?) dell'insegnamento
della teologia, o, ancora e non alternativamente, a una colorazione didattica
dell'insegnamento medesimo (sforzo di chiarezza, di concretezza ecc.: ottimo in
sé ma in alcun modo confondibile con la elaborazione propria e specifica della
teologia pastorale).
1.5. Scarsa incidenza pratica
(inefficacia)
Si è
formulata, nei confronti della teologia pastorale, anche l'obiezione di scarsa
incidenza pratica. Ciò non è senza riscontro nei fatti. Solo a volte, però, ciò
si riconduce a carenze imputabili alla teologia pastorale medesima. Spesso,
invece, è da attribuire alla tentazione (diffusa!), di imboccare scorciatoie,
promettenti quanto illusorie. Si ricorre così volentieri alla sussidiazione,
non sempre di qualità. E a questa si chiede la soluzione di problemi e il
superamento di insuccessi che toccano invece la radice delle cose.
Il buon senso non basta più
Secondo
alcuni, la vita della comunità cristiana può essere efficacemente regolata
dalle norme del diritto, opportunamente integrate e aggiornate dalle direttive
pontificie ed episcopali: per il resto, basterebbero opportuni sussidi pratici
e un po' di buon senso.
Bisogna
superare l'equivoco per cui, ascritta la pastorale al campo delle arti, secondo
la celebre formula di Gregorio Magno (ars
artium regimen animarum), la si ritiene sufficientemente garantita dalla
scuola pratica di maestri sperimentati e virtuosi. Non si "fa"
l'artista senza applicazione metodica e sistematica.
L'impostazione
pastorale tradizionale, configuratasi sapientemente secondo ritmi di
trasformazione abbastanza lenti, è stata messa in scacco dalle modificazioni,
rapide e radicali, dei giorni nostri, che non si affrontano con aggiustamenti
marginali. È facile constatare, infatti, che ogni agire pastorale (come
qualsiasi altra forma di prassi) mette in atto - più o meno consapevolmente -
precise scelte e orientamenti. In altri termini, una determinata, anche se non
conosciuta o riconosciuta, teologia pastorale. La riluttanza a renderla
esplicita è sospetta. E dannosa: improvvisazione e dilettantismo, anche quando
animati da impegno generoso, non sfuggono alla superficialità, e si risolvono
in danno per la vita della Chiesa.
Si deve
decisamente respingere, in conclusione, la convinzione diffusa che fa della
teologia pastorale una materia di complemento nell'olimpo teologico e un'arma
caricata a salve nel quotidiano combattimento pastorale.
L'esigenza di praticità
La
decisione deve essere praticabile. Non può quindi limitarsi agli obiettivi
generali ne' alla loro prima determinazione sul versante esistenziale, ma deve
giungere a stabilire esiti effettivamente «operabili». La determinazione degli
obiettivi è posta fin dall'inizio in prospettiva operativa e non si contenta di
una delineazione valida semel pro semper.
L'esperienza insegna che troppo spesso la nostra pastorale fallisce perché
scambia gli obiettivi finali con quelli operativi immediatamente praticabili.
La decisione pastorale, invece, esige che si giunga al concreto della
programmazione.
Attenzione
alla praticabilità operativa significa metodo della gradualità aperta. Che non
anticipa i tempi, non prende scorciatoie; rispetta, secondo la pedagogia di
Dio, il cammino lento e a volte interrotto degli uomini. Ed è pronta a rivedere
costantemente i propri obiettivi (intermedi, si capisce; quelli sostantivi e
finali appartengono al contenuto della fede) in costante attenzione alla realtà
della situazione e sempre aperta all'azione dello Spirito.
Cap. 2. Uno sguardo alla storia del problema
L'attenzione
al tragitto storico non ha carattere meramente informativo, ma genetico,
tematico e contestuale. Si tratta non solo di ricostruire alcuni episodi ma di
individuare le relazioni e i reciproci influssi tra il sorgere e il
configurarsi della teologia pastorale e la delineazione del sapere teologico,
da un lato, e le condizioni sociali e politiche dall'altro[50].
La
riflessione teologico-pastorale, infatti, che si costituisce in relazione
all'agire ecclesiale, ne avverte tutta la problematicità a partire dal momento
in cui viene a scomporsi (e quindi a infrangersi) la pacifica identificazione
chiesa -società. L'unità del sapere teologico, che trova in Tomaso d'Aquino la
sua massima espressione, corrisponde infatti a una concezione unitaria della
società, la societas christiana. Con
il suo progressivo sfaldarsi, emergono nuove esigenze, che differenziano la
riflessione teologica (senza che ne vada perduta - o almeno così dovrebbe
essere - la fondamentale unità). All' inizio del secolo XVII nasce cosi la
teologia morale come disciplina universitaria autonoma[51].
Meno di due secoli dopo, come si è visto, è la volta della teologia pastorale.
La
ricostruzione della vicenda della teologia pastorale si collega, ma non deve
essere confusa, con una la storia della azione pastorale, che è campo proprio, anche
se finora non molto esplorato, dalla Storia della Chiesa. Sarebbe certo di
grande interesse rintracciare tali dinamiche e la concezione teologica che vi è
sottesa, nelle sue forme e varianti. La storia - e dunque i fatti e non un
teorema precostituito - si incarica di dare una prima sostanziosa risposta alle
obiezioni mosse contro la plausibilità e pertinenza della teologia pastorale.
Essa mostra nei fatti:
·
l'originaria
interconnessione tra pastorale e dottrinale;
·
la
presenza di una autentica e competente riflessione sulla vita e la prassi della
comunità cristiana fin dagli inizi; l'esistenza, cioè, coestesa alla vicenda
ecclesiale di una vera e propria teologia pastorale implicita, ma non per
questo meno valida.
La
preponderanza di riferimenti all'area linguistica tedesca risponde al tragitto
storico della ricerca.
2.1. La radice biblica
Le
Scritture non contengono trattati teologici. Sono, in verità, uno svolgimento
teologico originario e normativo. Anche l'aspetto teologico pratico, non meno
di altri, vi è presente, ai diversi livelli. Rapidamente, si possono indicare
questi fattori salienti:
·
Il
NT come letteratura funzionale: come l'AT, il Nuovo nasce in relazione alle
situazioni e alle esigenze delle prime comunità credenti.
·
L'interesse
per la vita della comunità all'interno delle Scritture: non solo nel libro
degli Atti e nelle lettere, ma, in filigrana, lungo tutta la pagina biblica
·
La
capacità pastorale delle prime comunità cristiane. Possiamo ricordare:
a)
il metodo della evangelizzazione e della iniziazione cristiana (giudei/pagani: itinerari differenziati)
b)
il canone delle Scritture
c)
la strutturazione dei ministeri
Come
si vede, non si tratta di fatti marginali, ma della sostanza stessa della fede
creduta e vissuta dalle prime comunità. Cosa che, del resto, prosegue senza
soluzione di continuità nella multiforme testimonianza della stagione
patristica. La restrizione a tendenza razionalistica, infatti, è dovuta non
alla coltivazione privilegiata della teologia speculativa (basti pensare alla
parte seconda della Summa
dell'Aquinate), ma al rimbalzo postilluministico di una poco illuminata
apologetica.
2.2. La concentrazione ecclesiastica
Si viene
esplicitando e tematizzando l'intenzione e l'attenzione teologica in senso
pastorale. Si può citare, senza dubbio, la nota Regula pastoralis di S. Gregorio Magno, ma, non meno rilevanti, le
Decretali, gli interventi per l'evangelizzazione dell'Europa occidentale e
orientale.
Nel 1215, il concilio Lateranense IV dispone che
sia presente in ogni Chiesa metropolitana: un Magister, che, oltre la
Scrittura, insegni «quae ad curam animarum spectare noscuntur». La prospettive
della cura d'anime, che oggi appare decisamente riduttiva, delinea invece
correttamente (anche se non senza limiti evidenti), in situazione di
cristianità, il campo pastorale concreto.
In ambito cattolico, si sviluppa una
vasta produzione di carattere sussidiario per impulso del concilio di Trento.
La manualistica post-tridentina segna sotto questo profilo una fioritura
significativamente più ampia e puntuale. Da un lato persiste - e
nell'atmosfera controversistica per
certi versi si incrementa - la centratura clericale dell'azione ecclesiale;
dall'altro si avvertono i primi sintomi di una svolta che porterà alla
divaricazione moderna tra società e Chiesa, benché ancora ribadita, come
principio formale, dalla pace di Westfalia (cuius
regio eius et religio). Ciò ha riflessi concreti anche nel dispositivo
disciplinare del sapere teologico: nasce, sia pure con netta inflessione
casistica, la teologia morale. Lo stesso impianto pratico-applicativo si
registra nella produzione pastorale, senza che, come invece per la morale, si
pensi ancora a una disciplina curricolare, anche se già nel 16° secolo Andreas
Gerhard Hyperius (teologo a Marburg) intuisce tra i primi l'esigenza di una
disciplina specifica per l'ambito teologico-pratico.
Si è soliti
indicare nell'Enchiridion Theologiae
pastoralis et doctrinae necessariae sacerdotibus curam animarum
administrantibus, pubblicato nel 1591 da P. Biensfeld, vescovo ausiliare di
Treviri, il primo manuale di teologia pastorale, perché tale espressione
compare espressamente nel titolo. In realtà essa era già stata impiegata da
Pietro Canisio, mentre di qualche anno precedente sono il Theologiae practicae compendium di J. Molanus (1585) e la Summa quae Aurea Armilia inscribitur
Bartholomei Fumi, pubblicata a Venezia nel 1554. Non è particolarmente importante stabilire a chi spetti la
palma della priorità assoluta. Si deve invece notare l'orientamento ad un tempo
pratico e clericale, che si riflette nella impostazione canonistica e casistica
delle opere. L'esigenza, in ogni caso, è sentita, e troverà trattazione
fortunata in due opere di larga diffusione: il Manuale parocborum di L. Engel (1661) e il Pastor bonus di J. Opstraet, del 1698, che, tradotto in tedesco nel
1764, diventerà il testo-base consigliato dal Rautenstrauch, fino alla sua
messa all'indice per sospetto di rigorismo giansenista. In ambito protestante
si possono ricordare il Pastorale oder
Hirtenbuch vom Ampt, Wesen und Disziplin der Pastoren und Kirchendiener (Erasmo
Sarcerio, 1550).
Tutto
questo lascia intravedere una situazione in cui la prassi pastorale non sgorga
più quasi spontaneamente dal vissuto ereditato e praticato: si punta allora il
dito sulla impreparazione e nella inconsistenza spirituale del clero. Ciò,
tuttavia, coglieva solo un aspetto della questione. Il manuale sembrò allora
essere uno strumento utile e promozionale. Di fatto portava in sé il germe
insidioso di un ripiegamento praticistico, assolutamente impari ad affrontare i
mutamenti epocali che si andavano preparando. Né si avvertiva, più in
profondità, l'avanzare di altri fenomeni, complessi e prepotenti, che
segneranno il definitivo declino della situazione di cristianità omogenea.
In ambito
accademico, si registra nel 1595, in ambito protestante, la richiesta da parte
di W.Zepper, di nominare un profesor
practicus[52]; una prima
decisione in tal senso sarà presa nel 1794 a Tubingen, ma per l'attuazione
della decisione granducale si dovrà attendere il 1813, con l'assegnazione della
cattedra a Nathanael Friederich Kostlin. In sintesi, qualche altro dato:
- 1646: la denominazione ricorre
forse per la prima volta nel 1659, in
Gisbert Voetius, Disputatio de theologia
practica: morale, ascetica e 'politica ecclesiastica' (liturgia,
disciplina, omiletica).
-
1623: J.H.Alsted: theologia practica come theologia casuum
-
1711: J.F.Buddeus: teologia morale come teologia pratica (tratta non i
credenda, ma gli agenda)
2.3. L’interesse politico
Nell'intento
di «porre le università sotto la guida diretta della amministrazione statale e
rendere lo studio; per quanto possibile, fruttuoso in ordine agli interessi
dello stato»[53],
Maria Teresa d'Austria si era prefissa anche la riforma degli studi. Un primo
progetto riguardante le discipline teologiche, redatto nel 1752 dal gesuita Ludwig de Biel per l'università di Vienna,
prevedeva un aspetto pratico, ma riservato agli studenti meno dotati,
indirizzati al livello inferiore degli studi, con finalità direttamente
pastorali. L'abate di Braunau, Stephan Rautenstrauch, che aveva criticato
questa impostazione venne chiamato alla facoltà teologica di Vienna: a partire
dal 1774 la teologia pastorale entra nell'organigramma; non però come materia
autonoma, ma come parte della «teologia pratica» o corso pratico, unitamente
alla «polemica» e alla «morale pratica». Solo nel 1777 essa compare nel
Vorlesungverzeichnis come disciplina autonoma, insegnata non più in latino ma
in lingua madre e secondo un dettagliato programma, pubblicato dallo stesso
Rautenstrauch[54].
L'intento del Rautenstrauch (formare «servitori degni del vangelo, cioè
perfetti pastori»[55]) si sposava senza
fatica con l'obiettivo concreto e funzionale di Maria Teresa. La configurazione
della disciplina è quindi scandita secondo i compiti attribuiti al pastore
d'anime. In particolare: 1. Il dovere di insegnamento (Unterweisungspflicht), cioè «dell'insegnamento morale del vangelo,
secondo il quale si deve vivere»[56], fonte di
felicità; 2. Il dovere di amministrare e dispensare i sacramenti (Verwaltungs und Ausspendungspflicht), con
le indicazioni liturgiche e operative; 3. Il dovere di edificazione (Erbauungspflicht), cioè quello di
formare buoni cristiani e buoni cittadini. Metodologicamente, l'impianto rimane
rigidamente deduttivo. E, tuttavia, va riconosciuto al Rauntenstrauch, più di
quanto non si faccia comunemente, un merito indubbio; quello di aver
sottolineato le esigenze di una più attenta e attuale proposta del vangelo,
attenta agli aspetti pedagogici e metodologici[57]. Da allora molta
acqua è passata sotto i ponti, ma non si può dire che il modo corrente di
intendere le cose sia andato molto oltre.
Nella
problematica del rapporto cristianesimo - società, qui istituzionalmente
configurato come rapporto chiesa - stato, la teologia pastorale nasce per
prevalente impulso statale. L'equazione buon cristiano = buon cittadino suppone
una perfetta coincidenza tra la gestione dello stato e il vangelo. Cosa
evidentemente tutt'altro che scontata, ma apparentemente pacifica per primi
esponenti accademici della teologia pastorale. Così si esprimeva F. Giftschutz
nel 1786: «Il pastore, come membro particolarmente importante della società, ha
ora un buon numero di occasioni per mantenere i sudditi nella pace, nella
tranquillità, di soffocare ogni spirito di rivolta, inculcando vigorosamente
nella testa dei suoi subordinati; i loro doveri riguardo all'autorità
superiore: fedeltà, obbedienza, rispetto, pagamento onesto delle imposte, ecc.
Ecco ciò che lo stato si aspetta da lui, ciò che da lui esige la religione, i
cui obblighi stanno.. in rapporto strettissimo con. quelli definiti dalla
società. Il buon cristiano è nel medesimo tempo un buon cittadino»[58].
2.4. La configurazione
accademica
1. F. Schleiermacher
Dopo
Lutero e prima dei grandi esponenti della teologia kerygmatica e dialettica,
Schleiermacher è senza dubbio la figura dominante della teologia protestante
tedesca. Non sorprende quindi vederlo indicato come «il padre della teologia
pratica»[59].
Trasferitosi a Berlino dopo la distruzione dell'università di Halle da parte
delle truppe napoleoniche, nel 1807 riceve l'incarico (insieme ad altri
studiosi come Fiche K.W. von Humboldt) di dare vita a una nuova istituzione
universitaria. A sollecitarlo non è solo la novità dell'impresa; è anche la
percezione della diminuita rilevanza del cristianesimo sotto il profilo sociale
e culturale[60]
(non istituzionale; che anzi l'insegnamento della teologia è visto dallo stato
prussiano - non meno che da quello austriaco - come momento politicamente
rilevante, nel quadro della cosiddetta “alleanza tra trono e altare", con
una chiara dipendenza, nel nostro caso, della chiesa dalla istituzione statale.
Schleiermacher, rifacendosi a Schelling e mantenendosi nell'alveo del pensiero
luterano, ma anche rispondendo all'istanza kantiana[61],
cerca una collocazione della teologia all'interno non della scienza pura (di
primo ordine), che si occupa delle verità assolute (filosofia della natura,
etica), ma delle scienze pratiche (di secondo ordine), che non hanno per
oggetto la ricerca della verità in quanto tale, ma lo sviluppo e il
raggiungimento delle finalità proprie e concrete dell'esistenza umana. Commenta
acutamente W. Pannenberg: «In un tempo in cui la tradizionale preminenza delle
tre facoltà classiche, ma soprattutto della teologia, era stata sostituita dal
dominio della filosofia e delle scienze positive da essa originanti,
Schleiermacher è riuscito a definire ex novo il posto della teologia nella
università. Ma questa determinazione del posto della teologia era legata a
presupposti politici più strettamente di quanto Schleiermacher pensasse»[62].
Schleiermacher
espose il suo pensiero nell'opera Breve
presentazione dello studio della teologia, redatta al fine di lezioni
introduttive[63], terminata
nel dicembre 1810 (primo anno di insegnamento a Berlino) e pubblicata l'anno
seguente a Lipsia.
Ascritta
al numero delle scienze positive (quindi legata a un determinato tipo di fede,
«scienza positiva per mezzo del rapporto con il cristianesimo»[64]),
la teologia è necessaria non alla ricerca della verità in sé, ma in rapporto
allo svolgimento del compito pratico della conduzione della comunità ecclesiale
(Kirchenleitung): «la teologia non è
propria di tutti coloro che appartengono ad una determinata chiesa e in quanto
vi appartengono, ma lo è solamente nel caso che e per quanto partecipino alla
conduzione della chiesa. Così l'antitesi tra costoro e la massa e il sorgere
della teologia si condizionano a vicenda»[65].
Anche
l'unità del sapere teologico non viene dedotta dall'oggetto proprio della
teologia (Dio, là fede cristiana), ma dalla sua destinazione pratica. Forse,
più che la filosofia idealistica (il cui movimento dialettico serve per
giustificare una scelta di fatto) influì su Schleiermacher l'esperienza di
vita. Egli aveva infatti intrapreso fin dal 1794 l'attività di pastore della
chiesa riformata.
Accanto
alla teologia filosofica (analisi critica del fatto cristiano come «elemento
necessario per lo sviluppo dello spirito umano»[66]: legittimazione
universitaria dell'ambito teologico; e sua apologia culturale) e alla teologia
storica (parte centrale e fondante della ricerca teologica), la “teologia
pratica", volta al fine della conduzione ecclesiale, ha carattere
decisamente operativo: «il sapere relativo a questa attività si costituisce in
una tecnica che noi, considerando insieme tutti i diversi rami di essa,
indichiamo con il nome di teologia pratica»[67]. Si rimane,
insomma, nell'ambito delle Kunstregeln applicative.
L'aporia è colta già da A. Graf: «si dà
una teologia pratica non per il fatto che la teologia comporta un interesse
anzitutto pratico, ma si dà una teologia pratica, che comporta tale interesse,
per il fatto che la chiesa é una chiesa che si autoedifica»[68].
Osservazione senz'altro pertinente nella pars destruens, ma non scevra anch'essa di problematicità. Piuttosto,
molti degli aspetti che Schleiermacher attribuisce alla teologia filosofica (la
questione della religione in rapporto alla situazione, l'analisi delle prassi
pastorali...) appartengono in realtà al compito proprio della teologia
pastorale.
Schleiermacher,
che avverte il problema, si affretta a precisare che non si tratta di un banale
strumentario pratico ad uso dei pastori, ma di una metodologia nel senso più
alto e nobile del termine. Qualcosa che non si sbriciola nella miriade delle
esecuzioni, ma «ha soltanto a che fare con l'esatto modo di procedere»[69].
Per questo Schleiermacher denomina gli imperativi della teologia pastorale
«regole d'arte nel senso rigoroso della parola»[70], quelle cioè in
cui l'applicazione pratica non è predeterminata, ma deve essere di volta in
volta scoperta in relazione alla situazione concreta. In maniera germinale e
con illuminazione parziale, Schleiermacher tocca qui uno dei nodi cruciali
della problematica teologico-pastorale, evidenziando due esigenze di fondo: la
non deducibilità degli imperativi pastorali dalle premesse dottrinali (al
contrario, la loro individuazione si fa a partire da un confronto delle diverse
prospettive); l'acquisizione, da parte dell'operatore, di un adeguato bagaglio
tecnologico (così traduco le «regole d'arte» in senso rigoroso), da non
confondere surrettiziamente con abilità tecniche. Rimane totalmente aperta la
questione dei delicati equilibri tra i diversi fattori in gioco. Ma sarebbe
ingeneroso attribuirlo a demerito. È su questo terreno infatti, che negli anni
recenti e ancor oggi, si dibatte la quaestio epistemologica della teologia
pastorale (e non solo).
2. Tra pragmatismo e scientificità
Come ha
notato R. Marlè, «ci sono relativamente poche cose da rilevare a proposito
dello sviluppo della teologia pratica e del suo concetto all'interno del
protestantesimo, dopo Schleiermacher»[71].
Possiamo
ricordare l'approccio sistematico di Marheineke[72],
con l'idea guida che «la teologia pratica si colloca nel reale, la teologia
teoretica nel possibile» e quello più disteso e organico di C.I. Nitzsch (1787-1868), discepolo di
Schleiermacher, con i tre volumi della sua Praktische
Theologie[73], destinata
a rimanere per lungo tempo il classico in ambito protestante, tenta una
costruzione organica e fondata. Fermo restando l'impianto pratico di tutta la
teologia, vista come scientia ad praxim, egli
rileva la specificità della teologia pastorale, che ha per oggetto proprio
l'autoattivazione (Selbstatigung) della
chiesa, ed è quindi scientia praxeos[74]. Molto
sottolineato il radicamento ecclesiologico. E il radicamento ecclesiologico,
benché fortemente limitativo, mette in evidenza una dimensione più aperta che
non in Schleiermacher: «il soggetto della pratica ecclesiale del cristianesimo
non è in primo luogo né il singolo cristiano in quanto tale, né il chierico, ma
propriamente la chiesa»[75].
Il tragitto
metodologico che egli propone riveste un certo interesse. Si tratta di tre
dimensioni: empirica (osservazione della situazione storica presente), logica
(costruzione del concetto teologico di chiesa) e tecnica (individuazione dei
modi di procedere idonei alla soluzione del compito) tra loro interconnesse[76].
Un cenno
merita C.D.F. Palmer (1811-1875)
che, durante gli armi di docenza a Tubinga (1852-1875),
approfondisce l'identità propria della teologia pastorale[77].
Pur mantenendone ben saldo il riferimento alla vita ecclesiale, egli vuole
evitare il pericolo che essa finisca per cedere il proprio spessore teologico
alla dogmatica ecclesiologica (come avviene in Nitzsch). Mentre spetta alla
dogmatica «rendere perspicui i fatti divini» nella loro intangibile necessità,
ad altre discipline tocca riflettere su «ciò che non è ancora un fatto, ma
dovrà esserlo, e precisamente non nel senso d'una necessità divina, ma mediante
là libertà umana»[78].
A questo si
dedicano appunto l'etica (per quanto attiene la vita cristiana personale) e la
teologia pratica (per là, vita ecclesiale). Pannenberg ha mostrato i limiti e
le carenze di questa posizione[79]. Tuttavia essa ha
il merito di aver individuato con chiarezza il nodo di una troppo a lungo
protratta sudditanza della teologia pastorale nei confronti della dogmatica,
come pure la sua stretta affinità con l'etica, in quanto ambedue direttamente
concernenti la prassi cristiana.
3. Il manuale, tra efficientismo e interiorità.
In campo
cattolico la manualistica riceve nuovo impulso dalla istituzione della cattedra
universitaria viennese. Si pubblicano manuali di mole ponderosa; vere e proprie
summe di insegnamenti e consigli pratici circa i doveri del pastore d'anime,
soprattutto nella sua qualità di formatore delle coscienze e promotore di
pubbliche virtù. Si tenta in qualche modo di superare l'impostazione atomizzata
della casistica e di ordinare la materia secondo una mappa più articolata e
pensata. Ma il progresso si ferma generalmente qui.
Fa
eccezione, in questo quadro piuttosto appiattito e monocorde, l'opera di J.M. Sailer (1751-1832) che caratterizza
il suo insegnamento («Dillinger Universitat») e, poi, la sua Pastoraltheologie[80] per un più
alto spessore biblico-teologico (polarizzazione cristica, ecclesiale e
salvifica, che strappa il pastore dalla costrizione mortificante del
funzionario statale, per ricollocarlo in una dimensione corretta e feconda).
Permane la concezione della teologia pastorale come «scienza che ha come scopo
immediato la formazione del pastore d'anime»[81].
4. Anton Graf
A. Graf
avverte con chiarezza l'esigenza di una fondazione scientifica e di un radicamento
ecclesiologico della pastorale. Due fattori senza dubbio determinanti.
Raccogliendo
l'eredità di J.S. Drey e di J.B. Hirscher, attento il primo alla connotazione
pratica del fatto cristiano, il secondo alla sua imprescindibile impegnatività
etica, soprattutto, del suo maestro J.A. Mohler, Graf, «Privatdozent» nella
università di Tubingen, pubblica nel 1841 la sua Kritische Darstellung der gegenwartigen Zustandes der praktischen
Theologie prevista in tre volumi e rimasta incompiuta.
La sua
prima preoccupazione è quella di superare definitivamente l'impostazione
empirica e pragmatica dei manuali. «Possediamo noi - si domanda all'inizio del
suo lavoro - una teologia pratica fondata e sviluppata scientificamente?»[82].
Lo stimola certamente la constatazione che «i protestanti hanno fatto molto più
dei cattolici, in questi ultimi anni, per la costruzione scientifica della
teologia pratica»[83]. E, in misura non
minore, il basso profilo della teologia pastorale corrente, in cui «tutto è
trattato a livello pragmatico. I mezzi al fine, il fine stesso e la fisionomia
del clero sono rinvenuti nell'esperienza. Ancora l'esperienza dice che spesso
il clero non è in grado di affrontare adeguatamente i propri compiti. Per cui
si appronta subito un'indicazione... e questa indicazione viene chiamata
teologia pastorale»[84].
Spinto da
questa esigenza scientifica e dall'inconfessato desiderio di rivaleggiare con
la costruzione dell'enciclopedia teologica schleiermacheriana, Graf si impegna
in una delineazione rigorosa. Egli parte da una precisa concezione della
teologia intesa, globalmente, come «autocoscienza scientifica della chiesa»[85],
la quale, dunque, è «l'oggetto necessario che la teologia è chiamata a
sviscerare sotto ogni aspetto»[86]. E poiché la
chiesa presenta tre aspetti fondamentali (ha un passato, una precisa e
determinata essenza divina, si costruisce nel futuro), la teologia si compie in
tre diramazioni principali:
1. teologia
biblica e storica, che ha per oggetto l'origine, la conservazione e lo sviluppo
della chiesa lungo i secoli fino ad oggi;
2. teologia teoretica (dogmatica e
morale), che si rivolge all'essenza immutabile della chiesa;
3.
teologia pratica, che si occupa della conservazione, sviluppo e realizzazione
della chiesa nel futuro, cioè della sua autoedificazione (Selbstserbauung)[87].
La teologia pastorale non è né un'esigenza della conduzione della chiesa
(Schleiermacher:), né si riduce a indicazioni pratiche per la cura d'anime
(manualistica), ma riflette una dimensione intrinseca della esistenza stessa
della chiesa[88].
La
centratura ecclesiologica sembra a prima vista gettare nuova luce sui soggetti
della azione pastorale. Graf infatti, sottolinea che tutte le componenti della
chiesa sono chiamate attivamente in causa. Un'azione che riguarda non soltanto
«i singoli nei confronti dei singoli e del tutto, ma tutti, con e mediante
Cristo e il suo Spirito, nei confronti del singolo e del tutto»[89].
Graf è mosso, in questa sua considerazione, da un'esigenza concreta: garantire
l'indipendenza della chiesa dall'ingerenza statale, rafforzare la sua autonoma
e intima costituzione. Il progresso è innegabile, ma non senza prezzo. La forte
connotazione ecclesiologica si rivela un'arma a doppio taglio: la teologia
pratica come Graf l'intende non è in fondo che una variante della ecclesiologia
sviluppata dalla scuola di Tubinga. Leggervi anticipazioni di una
corresponsabilità reale fondata sulla ecclesiologia di comunione significa
cadere in un imperdonabile anacronismo. Di fatto, Graf rimane fortemente
ancorato a una delimitazione clericale della teologia pastorale. Compito di
questa è infatti trattare «da un lato, l'oggetto, il terreno, la sfera delle
attività spirituali, dall'altro tutti i molteplici fattori che a fianco e con
quello spirituale e per suo mezzo realizzano il regno di Dio»[90].
In altri termini, la teologia pastorale è propriamente interessata e
indirizzata a coloro che ricoprono l'ufficio ecclesiastico. E ciò in due
diramazioni: come «scienza e teoria del governo della chiesa (Kirchenregiment)», configurandosi
principalmente come diritto canonico; come «scienza e teoria del servizio
ecclesiale (Kirchendienst)», nella
figura della teologia pastorale[91].
Ne
risente, di conseguenza, anche l'impostazione metodologica, che rimane
tipicamente deduttiva. Il superamento del pragmatismo empirico conduce cosi il
Graf a una quasi totale svalutazione dell'esperienza.
In seguito,
nonostante il diligente tentativo di J.Amberger[92],
si torna all'impianto manualistico, di stampo applicativo[93].
C'è anche chi considera una elaborazione argomentata e critica dell'agire
ecclesiale come rischio eversivo: «ogni cosiddetta costruzione scientifica
della pastorale è pericolosa e deviante»[94].
2.5. L’interesse pastorale
1. Il Pastoral Counseling
Dopo la
metà del secolo XIX si fa sentire,
particolarmente in ambito protestante, l’influsso delle nuove scienze positive:
l'attenzione alla costruzione sistematica, centrata su un'idea guida, lascia il
posto all'interesse per il dato fattuale nella sua singolarità e osservabilità.
Ne segue l'attenzione alla realtà psicosociale, ma, nell'ultima parte del
secolo (influsso del decadentismo) si accentua nella manualistica la
propensione individualistica e devozionale: l'ufficio pastorale è presentato
come «cura d'anime», intendendo quest'ultima in maniera prettamente
individualistica, e si articola secondo la classica ripartizione del triplice
munus (magisterium verbi, ministerium gratiae, regimen animarum). Dopo la prima
guerra mondiale, la teologia dialettica, con il suo forte impegno il suo
totalitarismo evangelico e la sua attenzione pastorale marca di sé anche la
produzione teologico-pastorale. Soprattutto per quanto concerne la
predicazione, "l'evento della parola".
Ma è negli
Stati Uniti che, a partire dagli anni Trenta, si sviluppa un movimento di tutto
rilievo, che merita la nostra attenzione.
Sul terreno
incerto e insidioso di approcci psicoterapeutici (Clinical Pastoral Training)[95]
si colloca l'opera notevole di S.
Hiltner, «una teologia pastorale che diviene classica nell'ambiente
nordamericano e che sarà ripresa, negli armi '70, in campo europeo superando,
tra l'altro, i confini confessionali»[96].
Hiltner
distingue le discipline teologiche in due grandi ambiti: operation-centred branch of theology (branca della teologia
centrata sull'azione) che si interessa della vita cristiana vissuta,
appartengono le discipline pratiche; al logic-centred
branch of theology (branca della teologia centrata sulla logica) quelle che
si occupano del senso, sviluppo e significato della fede contenuta in testi
scritti[97]
La centratura di queste ultime è detta logica perché esse si riferiscono a
testi normativi e ne organizzano logicamente i contenuti. Le prime, invece,
costruiscono il loro bagaglio teoretico (principi, teorie, conclusioni) a
partire da riflessioni sugli eventi.
Al diverso
oggetto, corrisponde quindi un diverso itinerario metodologico: storico-critico
per le discipline «logiche», empirico-critico per quelle «operative». In questo
quadro, trova posto il rapporto della teologia pastorale con le scienze profane
(in particolare psicologia e sociologia), in analogia con le altre discipline
teologiche più tradizionali, che si sono venute elaborando con il costante
apporto di scienze quali la linguistica, l'archeologia, la storia ecc. La
teologia pastorale si inserisce quindi a pieno titolo nel novero delle
discipline teologiche, in quanto la sua elaborazione «incomincia con
interrogativi teologici e conclude con risposte teologiche»[98].
L'apporto indispensabile delle scienze profane non ne insidia la qualificazione
teologica, ma ne garantisce il carattere di praticità. Praticità che esige
quella sistematicità che è caratteristica del' sapere teologico
scientificamente organizzato.
La
configurazione della teologia pastorale si presenta ben individuata e
articolata:
1.Sheperding (attenzione pastorale).
È la
prospettiva generale caratterizzante. Si deve superare, secondo Hiltner, la
tensione tra aspetto soggettivo (gli atteggiamenti e le disposizioni del
pastore) e aspetto oggettivo (le azioni pastorali «vere e proprie», come predicazione
e catechesi): la cura pastorale, si pone come fascio di relazioni, centrate non
sulla figura del pastore-curatore d'anime, né sulle persone oggetto delle sue
«cure», ma sull'idea guida del massimo comandamento (amore di Dio e del
prossimo, indissolubilmente uniti). L'attenzione pastorale supera così la
classica ripartizione dell'agire pastorale (tria
munera), e meglio si delinea su tre indicatori di riferimento:haeling (salvezza, fisica e spirituale),
sustaining (sostegno, adeguatamente
attrezzato); guiding (attività di
educazione, morale .e spirituale), che costituiscono la pastoral theology propriamente detta.
2.
Communicating (i
processi di comunicazione).
Problema
cruciale per Hiltner, la questione della comunicazione efficace del Vangelo,
attraverso il confronto onesto e metodico con il linguaggio corrente e dei
mass-media. E' necessaria perciò una valutazione attenta dei fenomeni e una più
precisa individuazione della specificità del linguaggio cristiano, che non
consiste - ed è un'intuizione importante - in alcune formule cristallizzate, ma
si realizza nella dinamica comunicativa adeguata alle strutture costitutive
della fede e della vita cristiana. E' la educationa
and evangelistic theology[99].
3. Organizing (i dinamismi organizzativi).
Si tratta
della azione pastorale intesa a costruire la comunità come corpo organico, con
attenzione soprattutto ai più deboli ed emarginati. Da questa prospettiva si
sviluppa la ecclesiastical theology.
L'opera di
Hiltner costituisce un apporto significativo, anche se la sua prospettiva
rimane ancora fortemente tributaria di una visione clericale e individuale.
2. La pastorale d'insieme
Nel 1943 H. Godin e Y. Daniel pubblicano a Parigi un volume destinato ad avere
amplissima risonanza: Francia, paese di
missione?[100]. Il
titolo scuote la convinzione pacifica di una persistente cristianità: siamo di
fronte alla prima lucida presa di coscienza di una situazione radicalmente
mutata. Non mancano prodromi significativi, ma è con quest'opera che il
problema non è più avvertito come settoriale: ad esserne investita è l'intera
concezione dell'agire pastorale. Sulla stessa linea si collocano, due anni
dopo, la ricerca sull'ambiente religioso rurale di F. Boulard, e le considerazioni di G. Michonneau sulla parrocchia urbana[101].
Maturati in ambienti e su esperienze diversi, questi tre lavori evidenziano
alcune linee di fondo comuni che hanno fatto scuola, e vengono comunemente
indicate come «pastorale di insieme». Eccone i tratti salienti.
a .Pastorale
in situazione
L'attenzione
al milieu è il primo elemento
caratteristico della pastorale d'insieme. L'ambiente - inteso nella sua
complessità di intreccio di rapporti, situazioni, strutture sociali - è così
avvertito in tutta la sua forza di condizionamento. Mentre la parrocchia vive nell'illusione
di un ambiente omogeneo (cristiano) in cui esistono - magari numerosi - dei
«lontani», la pastorale d'insieme comprende che, tramontato definitivamente il milieu come dato unitario, ciascun
individuo partecipa di fatto ad ambienti socio-culturali diversi (a volte
divaricati e opposti). Sono questi ambienti, è non l'istituzione territoriale,
a influenzarne la mentalità, a orientarne le scelte. Irrigidita nella sua
univocità, la parrocchia si ripiega su se stessa, offre servizi culturali e «religiosi»
a chi ne fa richiesta, masi marginalizza di fronte ai problemi che toccano la
maggioranza degli uomini.
Necessità
quindi di indagini, metodiche e rigorose, che consentano una comprensione
valida della realtà.
b. Missione
e rinnovamento (cambio di paradigma e di modello)
La
pastorale d'insieme si rende conto che, fermo restando il valore insostituibile
dell'apporto personale, della santità ecc., da certe strettoie si esce solo
cambiando impostazione, metodo e strutture, e, contemporaneamente, sapendo
incidere sulle strutture socio-culturali (milieu), che danno forte impronta
alla formazione della mentalità e del costume. Questa importante intuizione non
avrà, purtroppo, la fortuna che meritava.
Un annuncio
credibile per una missione efficace è possibile solo da parte di comunità
cristiane reali, veri luoghi di fraternità e solidarietà: comunità, missionarie
per le loro stesse modalità di esistenza[102]. Si parla anche
di parrocchie o comunità «per affinità», da raccordare sapientemente a livello
parrocchiale e universale[103].
c. La zona
umana
La
pastorale tradizionale, centrata sul pastore di una piccola comunità, è del
tutto impari. Ecco allora la necessità di ridefinire la suddivisione
territoriale delle parrocchie e, soprattutto, di superare uria visione campanilistica
per trovare, nella interazione e integrazione degli sforzi, strumenti capaci.
di rispondere alla sfida del nuovo. Si tratta allora di individuare la «zona
umana»[104],
l'unità territoriale sociologicamente effettiva: dalla parrocchia centrata su
una topografia anagrafica alla zona pastorale, relativa a una più complessa
realtà di geografia antropica
d. I
soggetti e il metodo della pastorale
È necessario allora il coinvolgimento di tutte
le componenti della comunità ecclesiale. I laici non sono considerati meri
recettori, ma chiamati ad essere soggetti attivi della missione. Il presbitero,
di conseguenza, non limita la propria azione alla cura individuale delle
«anime», ma si fa animatore e promotore di comunità vive e missionarie. Questa
visione segna in maniera caratteristica l'impostazione metodologica: pastorale
d'insieme (come unione e coordinazione delle diverse realtà esistenti, come
correlazione degli sforzi in ordine alla soluzione dei problemi, come metodo di
lavoro: équipe[105] è un'altra delle
parole chiave della pastorale d'insieme più ascoltate e proclamate che
effettivamente realizzate). Con un'opera di coordinamento che non è solo
organizzativa, ma ecclesiale e ministeriale (vescovo e presbitero).
La
'pastorale d'insieme' ha risonanza in tutta Europa[106].
In Italia, G. Ceriani[107],
trae spunto dalla pastorale d'insieme (o «organica», come egli preferisce) per
lanciare il rinnovamento della prassi ecclesiale in Italia. Anche in Germania,
nel contesto della ricostruzione post-bellica, alcuni autori, e in particolare V. Schurr, ripensano l'agire pastorale
in forme più attente alla situazione, dando vita alla cosiddetta «pastorale
d'ambiente» (Umweltseelsorge): superamento
della visione individualistica ed essenzialistica (cura «d'anime»), attenzione
esigenze esistenziali e storiche.
Non emerge
in questo filone la considerazione delle più sottili questioni epistemologiche.
Ma rimane il merito indiscusso di un ben saldo legame con la prassi pastorale
effettiva.
2.6. Il Vaticano II e la teologia pastorale
E' abituale
la connotazione pastorale del Vaticano II[108]. Ma non scontata[109].
Essa dice «nella coscienza del Magistero ecclesiastico la persuasione dovere
essere la dottrina cristiana non soltanto verità da investigare con la ragione
illuminata dalla fede, ma parola generatrice di vita e azione, e non soltanto
doversi limitare l'autorità della Chiesa a condannare gli errori che la
offendono, ma doversi estendere a proclamare gli insegnamenti positivi e
vitali, ond'essa è feconda»[110].
Il Vaticano
II «ha voluto rinnovare la vita della Chiesa e non definire una dottrina; ha
messo in valore la teologia pastorale e orientato tutta la teologia e la
formazione sacerdotale in senso pastorale: ha raccomandato corsi di
introduzione alla pastorale e tirocini pratici, domandato l'animazione di
questa scienza mediante interconnessioni (tra lo studio, la vita spirituale, la
celebrazione della liturgia; con la Chiesa e il mondo di oggi), preteso la
riforma degli studi ecclesiastici in funzione dei loro obiettivi pastorali.
Inoltre, esso reclama l'istituzione di corsi per completare la formazione
pastorale, l'installazione di un consiglio pastorale, la redazione di un
direttorio pastorale, la fondazione di istituti di pastorale»[111].
L'«aggiornamento»
voluto da Giovanni XXIII, ha importanza decisiva per la teologia pastorale.
Questa sta o cade, infatti, a seconda del riconoscimento (critico!) che si
accredita alla legge storica del cambiamento. Ciò non significa certo rottura
con il passato, ma esigenza di «rimettere in valore e in splendore la sostanza
del pensiero e del vivere umano e cristiano di cui la Chiesa è depositaria e
maestra nei secoli»[112]. Patrimonio vivo
e vitale, dunque, che deve essere in ogni tempo e luogo sviluppato secondo le
sue originarie potenzialità, mai esaurite dalle precedenti esperienze.
Altra
espressione emblematica, «segni dei tempi»[113]. Anch'essa
attesta un orientamento pastorale disteso nel confronto culturale e convinto
che la storia degli uomini è essa stessa interpellanza e manifestazione della
volontà di Dio[114].
La
ecclesiologia di comunione (come sarà in seguito denominata) e la rinnovata
dottrina della rivelazione[115] stabiliscono un
quadro di riferimento che rende teologicamente plausibile (necessario!) il
superamento della visione meramente applicativa della teologia pastorale, una
riflessione teologica aperta sul farsi quotidiano della storia salvifica,
impegnata a indicarne, con la povertà ma anche con la ricchezza dei mezzi di
cui dispone, linee progettualmente pertinenti e operativamente efficaci.
Le
conseguenze per la teologia pastorale (e ancor più per l'azione pastorale) sono
di enorme portata. Non c'è capitolo della vita cristiano-ecclesiale che, dopo
la "rivoluzione copernicana" del Concilio, non debba essere
riscritto.
Il Concilio
non affronta, ovviamente, il problema epistemologico dell'identità della
teologia pastorale. L'espressione, del resto, ricorre una sola volta nei
documenti conciliari. Ma la questione è presente, e non a margine. Affiora, per
esempio, quando si tende a distinguere tra l'aspetto propriamente teoretico e
l'esercizio pratico dell'arte pastorale o, anche, nella indicazione dei settori
in cui si articolano le varie discipline di quella che potrebbe chiamarsi
teologia pastorale speciale o, ancora, nel riconoscimento dell'indubbia utilità
delle cosiddette scienze umane (in particolare pedagogia, psicologia e
sociologia, o, per l'ambiente missionario, etnologia) per la formazione
pastorale (nel quadro della connotazione pastorale di tutta la teologia), nella
rilevanza attribuita ai processi di evangelizzazione e di corretta, efficace
inculturazione.
Non
possiamo entrare qui in questioni di dettaglio (ma non per questo di scarso
rilievo). Non può sfuggire, tuttavia, una novità di grande rilievo: la presenza
di un testo, la Gaudium et spes, qualificato
- ed è una novità assoluta - come «costituzione
pastorale». Come nota M.D. Chenu, «sarebbe un grave errore vedere in questo
titolo soltanto l'enunciazione delle esigenze di un opportuno accomodamento
della chiesa alle congiunture in cui si trova nel secolo XX. Si tratta di una
asserzione - costituzionale, che tocca l'esistenza stessa della chiesa»[116],
come conferma la nota esplicativa apposta al titolo nel testo ufficiale, ove si
ribadisce l'unitarietà del documento e la compresenza, in ogni sua parte,
dell'elemento dottrinale e di quello pastorale (superamento della visione
deduttivo-applicativa). La cui portata si comprende appieno solo ricostruendo
la vicenda conciliare della introduzione di questo documento (inizialmente non
previsto) e delle fasi articolate e complesse della sua redazione Deve infatti
la sua nascita a un intervento del cardinal Suenens che, ricollegandosi a un
radiomessaggio di Giovanni XXIII, proponeva di riorganizzare tutta la materia
conciliare attorno a due centri focali, la ecclesia
ad intra e la ecclesia ad extra.
L'immediata adesione, il giorno seguente, del card. Montini spianava la strada
al progetto. Quando nel gennaio 1963 la commissione di coordinamento redigeva
il nuovo elenco degli schemi, inserì il De
Ecclesiae principiis et actione ad bonum societatis promovendum, con il
numero 17. Era previsto in due parti: una teoretica contenente i principi
fondamentali, e una pastorale con le direttive pratiche per il versante
operativo. Tale bipartizione rimane come impostazione di struttura nei lavori
di alcuni esperti qualificati - convocati a Malines tra il 6 e l'8 settembre
1963, con una ulteriore decurtazione: la prima parte, intesa a esporre la
dottrina teologica sulla presenza della chiesa nel mondo contemporaneo, sarebbe
stata sottoposta all'esame del Concilio, in vista della promulgazione di un
documento conciliare; la seconda, di indole pratica, sarebbe stata redatta allo
scopo di fornire ai Padri materiale utile per eventuali istruzioni, emanate
però sotto la. responsabilità delle sottocommissioni e non come testi
conciliari veri e propri. Dopo la seconda fase dei lavori conciliari, una nuova
riunione -questa - volta ufficiale, con la partecipazione di quasi tutta la
sottocommissione a ciò deputata - si svolge a Zurigo (1-3 febbraio1964).
L'orientamento è di distinguere nettamente la parte dottrinale, da sottoporre
ai Padri ed eventualmente promulgare come testo conciliare, dalla parte
pratica, distribuita in cinque capitoli, da presentare come istruzioni pastorali
annesse al documento. Questo doppio suscita perplessità, sia per l'impatto
culturale del documento, sia per la qualificazione teologica degli adnexa, con interventi diversificati in
aula (Felici / Guano / Heenan: «timeo
peritos adnexa ferentes»!). Segna una svolta la decisione (30 dicembre
1964), di ripensare tutta la materia organicità, inserendo in esso ciò che di
importante si trovava negli adnexa. Sorge
allora la questione del genere letterario e della qualifica dottrinale del
documento. Nella riunione della Commissione di coordinamento dell'11 maggio
1965 si decide di proporre ai Padri
la denominazione innovativa di «costituzione pastorale»[117].
Si potrebbe affermare che la storia di questo documento viene a confermare come
la prassi (la vicenda conciliare) abbia una precisa valenza nei confronti della
teoria.
2.7. La qualificazione teologica
Dopo gli
sforzi di Schleiermacher, Graf (Sailer, Herscher...) si deve a Arnold la
ripresa di attenzione alla caratura teologica della disciplina. La messa in questione
degli ordinamenti degli studi nell'epoca della contestazione e la situazione di
progressivo di stanziamento dalla religione di Chiesa rafforzano tale esigenza,
ancor oggi posta in prima attenzione, sia pure con movimento di corsi e
ricorsi.
1. F.X.Arnold
Posta la
distinzione non meramente formale tra processo salvifico (Heilsprozess) come «incontro tra Dio e l'uomo che a Lui si apre in un atto libero e
personale» e mediazione salvifica (Heilsvermitt1ung
ma non si tratta di mediazione della salvezza in senso di intermediazione,
quasi che la salvezza stessa fosse un oggetto da comunicare, una cosa da
trasmettere, e non un evento che si verifica nell'incontro personale tra Dio e
l'uomo), la riflessione arnoldiana si muove tutta attorno al principio fondamentale
che vuole compresenti ambedue le realtà che intervengono nel processo
salvifico, Dio e l'uomo, grazia e libertà, teologia e antropologia, «l'eterno
oltre il tempo» (das überzeitltich Ewig) e
«l'accadimento dal tempo condizionato» (dos
zeitbendigt Einmalige)[118].
É il principio del «divino-umano» (gottmenschliches
Prinzip)[119]; chiave di volta della impostazione di
Arnold: «è necessario ancorare radicalmente
la dottrina pastorale, sviluppata molto spesso senza nessuna criteriologia,
nella dottrina dogmatica di Cristo, il
Dio-uomo». La pastorale - questa e secondo Arnold la questione decisiva - Schicksalsfrage - non si configura più
prevalentemente come cura d'anime, ma come servizio, alla fede (Dienst am Glauben).
Sulla base
di questo principio fondamentale, la delineazione della teologia pastorale nei
suoi elementi portanti (oggetto, soggetti attivi, ambiti, metodo) si compie con
un debito evidente nei confronti di Graf, riconsiderato tuttavia secondo
un'ottica non marginalmente innovativa Campo specifico (oggetto) della teologia
pastorale è dunque l'autoedificazione della chiesa nel futuro. A tale compito
sono chiamati non solo i pastori, ma tutti i cristiani, contro la falsa
clericalizzazione dell'agire ecclesiale, ma anche lontano da ogni «spiritualismo
nemico di ogni autorità e forma gerarchica»[120]. Gli ambiti
prevalenti la predicazione, la celebrazione dei sacramenti e la pietà popolare.
Sotto il profilo metodologico, il riferimento polare è alla figura di Gesù buon
pastore, realizzazione esemplare della mediazione salvifica Da ultimo, il
criterio veritativo degli asserti teologico-pastorali. Anche in questo caso
gioca coerentemente il principio fondamentale: posta tra Dio e l'uomo, tra
l'eterno e il contingente, la realtà pastorale non può essere determinata da
soluzioni valide semel pro semper, ma
rimane necessariamente e incessantemente legata al volgere dei tempi e delle
situazioni.
Non mancano
i limiti[121].
E, tuttavia, Arnold costituisce un punto di non ritorno: la teologia pastorale
si elabora a partire da principi teologici propri e non semplicemente come
regione limitrofa del previo sapere dogmatico; si pone in dialogo, ma non in
dipendenza dalle altre discipline teologiche. In questo senso, si può forse
dire che, paradossalmente, Arnold solleva più problemi di quanti non ne
risolva. Ma sono, finalmente, problemi nella direzione giusta.
2. Lo «Handbuch der
Pastoraltheologie»
Pubblicato
a partire dal 1964 a cura di F.X. Arnold,
K. Rahner, V. Shurr e L.M. Weber,[122]
con il sottotitolo «la teologia
pratica della Chiesa nel suo presente», esso è stato considerato non a torto
(anche se molte puntualizzazioni devono essere fatte al riguardo), come uno dei
segni più rilevanti della nuova era della teologia pratica, in cui si
concretizza, per così dire, la sua definitiva uscita di minorità della teologia
pastorale. Anche se ciò avviene più valenza simbolica che incidenza effettiva,
sia teologica che operativa.
L'opera
risponde all'intento di dare esito alle numerose ricerche teologico-pastorali
precedenti, riconoscendo ormai come compito specifico di questa disciplina lo
studio propriamente teologico della prassi ecclesiale. L'idea di fondo, in cui
si sente l'eco di A. Graf, è così presentata retrospettivamente da Rahner: «In
questa concezione la teologia pastorale, che dovremo chiamare più correttamente
'teologia pratica', si definisce come la riflessione scientifica e teologica
sulla autorealizzazione (Selbstvollzug) che la chiesa in quanto tale deve darsi
nel presente. Il concetto si differenzia da quello del passato soprattutto per
due caratteri: da un lato non ci si limita ad analizzare solo l'opera del clero
(soprattutto di quello più 'basso') e la 'cura d'anime'in senso stretto, ma si
allarga l'attenzione a tutto ciò che la chiesa deve fare, prima nel suo complesso,
poi nelle chiese locali ed infine nelle singole comunità... La seconda
caratteristica di una teologia pastorale intesa nel modo predetto consiste
nella necessità di riflettere sulla concreta situazione della chiesa e fuori
della chiesa, dalla quale logicamente dipende la sua autorealizzazione. Bisogna
riflettere in 'modo teologico', poiché l'analisi del presente richiede sì anche
informazioni profane, che tuttavia, per i fini specifici della pastorale, non
possono non venir elaborate in maniera teologica»[123]
Le
tematiche direttamente affrontate si articolano in un progetto di ampio
respiro: i responsabili dell'autorealizzazione della chiesa (tutta la chiesa,
vescovi, preti, diaconi, laici, papa), le funzioni fondamentali della chiesa
(predicazione, liturgia e sacramenti, disciplina, stati di vita, opere di
carità, missioni...), gli aspetti sociologici, le strutture fondamentali della
comunicazione della salvezza, la situazione attuale, il problema ecumenico, il
rapporto della chiesa con il mondo e i diversi ambiti della cultura;
l'autorealizzazione della chiesa nella comunità (diocesi, parrocchie, comunità
funzionali); i sacramenti; le classi naturali; gli ambiti socioculturali
(paese, professione, città); la pianificazione e la coordinazione nella chiesa.
In tal modo, è superata non solo la restrizione clericale, ma anche la rigida
partizione secondo i tria munera considerata
di ascendenza più giuridica che propriamente teologica.
Viene
esaltato, in questa impostazione, il rapporto con il trattato dogmatico di
ecclesiologia, con cui la teologia pastorale condivide l'oggetto materiale. E'
la distinzione rahneriana tra ecclesiologia «essenziale» (trattato dogmatico)
ed ecclesiologia «esistenziale» (teologia pastorale), che "tiene"
soltanto se non si considera la seconda una mera conseguenza applicativa della
prima, e la prima come (a livello di comprensione) indisgiungibile dalla
seconda: la rivelazione è infatti storica, anche se di una storia con unicità
storica. Proprio per questo motivo Rahner ritiene indispensabile premettere una
fondazione ecclesiologica allo snodarsi della trattazione teologico-pastorale.
Si fa
chiaro così l'oggetto formale della teologia pastorale, il modo specifico
secondo il quale essa riflette sulla realtà chiesa: quello appunto della sua
autorealizzazione storica[124], cioè delle
condizioni di tale realizzazione nella situazione presente. In questa
prospettiva, la chiesa è vista «come una realtà dinamica, operante, strutturata
come società e inserita nella storia»[125].
La tematica
si concentra sui nodi strutturali specifici della comunità ecclesiale in quanto
agenti di autorealizzazione della medesima. Soggetto dell'azione ecclesiale è «ogni membro della chiesa non è
solo consoggetto della costituzione della chiesa in quanto frutto della
salvezza, ma anche (ed in ugual misura) consoggetto della costituzione della
chiesa in quanto mediatrice di salvezza»[126]. La diversità di
funzione di ciascun membro della chiesa non oppone quindi una parte attiva ad
una parte passiva, ma qualifica e differenzia le funzioni proprie di ogni
singolo cristiano, inteso sempre come soggetto attivo dell'autoedificazione
ecclesiale. Le funzioni fondamentali della chiesa sono rinvenute non tanto in
una precostituita griglia teorica, ma a partire dalla vita stessa della chiesa,
da ciò che in essa, da sempre, si fa pertinentemente come espressione e
funzione della sua esistenza. In concreto, si prendono in considerazione la
predicazione della parola di Dio nelle sue diverse forme, la celebrazione della
liturgia e dei sacramenti, l'ordinamento e la disciplina della chiesa, il
servizio della vita cristiana nel mondo, la caritas come elemento saliente di tale
presenza attiva. Problema aperto rimane quello della connessione di queste
diverse funzioni tra loro e con la vita della chiesa nella sua globalità.
È merito
dello Handbuch aver posto chiaramente
in rilievo l'importanza dell'analisi sociale per la teologia pastorale.
Tuttavia al di là di qualche dichiarazione d'intenti, il contributo delle
scienze sociali rimane per lo più marginale e non si integra organicamente
nell'impianto teologico[127]. Il tragitto
rimane quindi sostanzialmente deduttivo[128].
L'individuazione
dell'oggetto materiale e formale nella sua specificità e nella sua
articolazione tematica richiede una metodologia appropriata e richiama
l'esigenza di una «analitica scientifica, veramente teologica, della situazione
attuale della chiesa»[129]. Sono evidenziati
così i due punti focali del metodo: la scientificità dell'analisi e,
contemporaneamente, la sua teologicità. Il che comporta non pochi problemi di
ordine teoretico. La natura teologica dell'assunto, anzitutto, viene messa in
crisi dalla constatazione che l'analitica del presente non rientra nel novero
delle scienze della rivelazione, delle discipline teologiche «essenziali» che
si costruiscono secondo l'itinerario argomentativo
scrittura-magistero-tradizione-riflessione teologica. Non che queste non
abbiano nulla da dire in proposito, ma non connotano certamente la figura
propria dell'analisi sul campo. In secondo luogo, e qui la difficoltà verte
sulla scientificità, data l'esigenza di cogliere la situazione nella sua
singolarità e presenzialità, non si vede come si possa parlare di una scienza
in senso reale (capace cioè di conclusioni veritative certe e assolute). Dovrebbe
trattarsi piuttosto di una scienza descrittiva, di tipo storico o sociologico,
che si limita a rilevare dei dati senza pretendere di formulare conclusioni
ultimative.
L'assunto è
arduo. Viene ribadita, comunque, la necessità ditale analitica scientifica e
teologica, cui risponde l'analitica scientifica della situazione attuale
ecclesiale come scienza teologica sui
generis, motivata teologicamente a partire dal sensus fidei o istinto di fede del popolo di Dio, che implica, per
il suo riferimento allo Spirito, un sapere di natura teologale. Si tratta,
secondo lo Handbuch, di una
comprensione della situazione veramente teologica, anche se spontanea o
atematica, perché posta sotto la guida dello Spirito. Come tale, essa produce
veri asserti teologici che si qualificano come offerta, come provocazione alla
coscienza di fede del popolo di Dio chiamato a confrontare sempre le
motivazioni e la qualità del proprio agire in ordine alla autorealizzazione
della chiesa. Il carattere non conclusivo di tali asserti impone naturalmente
la loro circolazione nel dialogo aperto in cui il teologo pastorale si
confronta con i soggetti dell'agire ecclesiale, in particolare con il
Magistero.
Posizione
fragile, come si vede.
Anche
l'esecuzione pratica ditale percorso rimane ferma alla doppia lettura:
osservazione e rilevazione del dato empirico (scienze umane, sotto un preciso
angolo visuale, quello della loro rilevanza storico-salvifica); approfondimento
e comprensione propriamente teologica. Anche se si invoca una circolarità
ermeneutica tra i due (valutazione di fede già chiaramente presente nella prima
fase analitica[130]). Piuttosto,
questo secondo momento si configura come fase di discernimento in cui si fa
chiaro che cosa, nelle linee fondamentali, «questa situazione, in tal modo
teologicamente interpretata, significa per la chiesa e per il suo agire attuale
e che cosa essa include quanto a esigenze fondamentali per questo agire»[131].
La
correlazione tra conformità dell'agire ecclesiale alla propria natura
originaria (Wesengemassheit) e sua
rispondenza alla situazione concreta (Situationsgerechtigkeit)
è affermata come esigenza, ma non sufficientemente fondata (episteme) né
adeguatamente svolta (metodo).
Oltre che
con le altre discipline teologiche[132], la teologia
pastorale viene opportunamente delimitata rispetto alla formazione del pastore. Su questo punto, lo Handbuch elabora e sostiene con forza una posizione che merita
attenzione: la teologia pastorale non può essere in alcun modo ridotta alla
introduzione al ministero pastorale (leggi: clericale). Essa si occupa della
realizzazione della chiesa nella sua globalità e in questo senso ha a che fare
con la preparazione del pastore.
L'opera
monumentale presenta più di una debolezza. A cominciare, proprio, dalla mole
elefantiaca dell'opera che finisce per scoraggiare non solo gli operatori, ma
anche gli stessi studiosi. Più criticato che letto, verrebbe da dire. Ben
presto, infatti, emergono diffuse insoddisfazioni[133],
che frenano l'entusiasmo iniziale e lasciano per lo più incompiuti i progetti
di traduzione. Anche Rahner ammette: «Aggiungo, per amore di completezza, che
questo lavoro d'équipe presenta nei particolari delle lacune, perché non tutte,
le sue parti riescono a oggettivare con pari successo e compiutezza l'assunto
fondamentale di tutta l'opera».
Inevaso
rimane anche il compito di fornire una precisa configurazione e impostazione
metodologica a quella analisi della situazione, che pure viene indicata come
aspetto peculiare della disciplina.
Questi
appunti critici non devono tuttavia sminuire la rilevanza dell'opera. Va
riconosciuto ai suoi ideatori e curatori il coraggio di aver promosso
un'impresa che segna una svolta di immagine non irrilevante nel panorama
teologico.
2.8. La teologia pastorale nel dibattito contemporaneo
1. L'emergere del problema epistemologico
in orizzonte ecumenico
Il tracciato di
ricostruzione ha riscontrato fin qui il procedere perlopiù indipendente della
riflessione teologico-pratica rispettivamente in campo cattolico e protestante:
se si fa eccezione per A. Graf, si procede generalmente su binari paralleli. Il
nuovo clima venutosi a creare con il Vaticano II, unito ai gravi problemi posti
dalla crescente scristianizzazione, pone le premesse per il superamento di tale
separazione. Inoltre, anche lo Handbuch aveva
contribuito a sfatare il pregiudizio di una theologia
pastoratis perennis[134],
cattolica, cristallizzata e immobile.
È sul terreno
epistemologico che la discussione verifica (almeno per un certo periodo di
tempo) un fecondo scambio interconfessionale.
Nel numero
inaugurale di Theologia practica, G.
Krause individua quattro principali questioni:
·
la
questione dell'oggetto, del metodo e della collocazione della teologia
pastorale nell'ambito della scienza teologica;
·
l'esigenza
di arrestare la fuga della prassi ecclesiale e della fede nello storicismo e
nel dogmatismo;
·
l'esigenza
di riconnettere, negli asserti teologici, scientificità e praticabilità;
·
la
necessità di affrontare seriamente il problema della connessione tra teologia
pastorale e scienze sociali[135].
Sono, in
buona misura, i nodi ancor oggi sul tappeto. È comunque il primo punto a polarizzare
l'attenzione e a produrre i primi frutti di respiro ecumenico. Nella Arnoldshaine Tagung del 1967, sul
rapporto tra teologia pratica e speculativa, la trattazione è svolta in
prospettiva ecumenica. Da parte protestante, E. Jüngel presenta un articolato
tentativo di riconduzione all'unità della prospettiva barthiana (teologia come
scienza posta in relazione costitutiva con l'evento della parola) e schleiermacheriana
(teologia come scienza positiva, orientata all'interesse pratico della
conduzione della chiesa), puntando sul fatto che ambedue le impostazioni si
fondano sull'evento della parola di Dio. Oggetto di ambedue è «il medesimo
evento della parola di Dio, che vuol essere chiarito nella sua dimensione di
accadimento storico (historisch) ed
essere corrisposto in un nuovo accadere storico (geschichtlich)»[136].
La praticità è dunque iscritta
nel cuore stesso della teologia, in quanto la parola deve essere accolta e
sottoposta a riflessione nel suo riferir mento al passato, al presente e al
futuro. La teologia pastorale si configura a sua volta come «scienza teologica
della parola di Dio come evento»[137], e, in senso più
specifico, come «teoria scientifica della prassi ecclesiale da riguadagnare
sempre di nuovo»[138]. Ciò è, di per
sé, compito dell'intera investigazione teologica. L'attribuzione al campo
proprio della teologia pastorale avviene per Jüngel, applicando il principio
del vicendevole sgravio: «La teologia pratica sgrava le altre discipline
teologiche dalla specifica responsabilità storica della ripetizione della
parola di Dio nel presente. La teologia pratica sgrava le altre discipline
teologiche dalla necessita di diventare esse stesse pratiche, in quanto essa si
assume la responsabilità del dover-diventare-pratico della teologia»[139].
Un passo avanti. Ma resta aperto il cruciale problema metodologico, non meno
della questione nodale del rapporto teoria -prassi.
Da parte
cattolica K. Rahner, trattando il tema «La teologia pratica nel complesso delle
discipline teologiche», ribadisce la nota impostazione dello Handbuch[140].
Il
contributo di M. Seitz su «I compiti della teologia pratica»[141]
si colloca pure sul versante metodologico, prospettando una collaborazione tra la
ricerca storica e quella empirico-critica, e
qualificando la teologia pastorale come «scienza dell'attualizzazione
dell'evento Cristo nel mondo»[142].
Anche la Arbeitstagung di Jena si muove in
orizzonte ecumenico e metodologico. Krause propone di collocare la teologia
pratica nell'ambito delle scienze dell'azione, perché tale categoria «rimane
aperta a un uso teologico che si propone di riflettere sul rapporto dell'agire
della chiesa con l'agire di Dio»[143]. Non emanazione della ecclesiologia,
quindi, ma «conoscenza dell'azione ecclesiale come compito fondato sul Vangelo»
e «conoscenza della situazione presente dell'agire ecclesiale»[144].
Per una capacità di giudizio (Urteilsvermogen)
che non si alimenta soltanto alla conoscenza delle modalità di azione
storicamente precedenti, ma esige osservazione critica delle complesse
connessioni antropologiche, giuridiche, culturali, politiche e teologiche, in
riferimento alle quali l'azione si realizza.
Un guadagno
significativo. Ma, come nota W. Fürst, «in questa fase dello sviluppo della
teologia pastorale si può certo parlare di una nuova costellazione, ma non
ancora di una nuova vera situazione, di un superamento della tradizionale
problematica metodologica»[145]. Rimane non
chiarita, infatti, la rilevanza teologica della conoscenza specificamente
empirica (aspetto epistemologico), come anche la modalità del suo impiego in
teologia pastorale (aspetto metodologico).
2. La svolta empirica
L'esito non
del tutto soddisfacente delle proposte elaborate sul terreno propriamente teologico,
con prevalente centratura ecclesiologica e conseguente ricaduta nella figura
secondaria di disciplina applicativa, provoca alcuni interessanti tentativi,
che prendono le mosse da una impostazione profondamente diversa. A ciò spinge
non solo l'impasse epistemologica, ma anche la constatazione di una progressiva
«emigrazione della chiesa dalla società»[146], e il diffondersi
di analisi e ricerche di carattere sociologico. Dove l'ambito della prassi
viene riconosciuto (anche esageratamente a volte) nella valenza di luogo
dinamico di significati.
a. La teologia pastorale, come
scienza empirica dell’azione
Insoddisfatto
delle conclusioni dei convegni di Jena e Arnoldshain, H.D. Bastian[147]
ritiene che solo una esatta conoscenza della realtà (strutture e condizioni di
funzionamento) consenta il superamento della situazione di grave disagio
pastorale: la teologia pastorale deve abbracciare senza indugio la «logica
della ricerca empirica»[148]. Viene
radicalmente superata la dipendenza della teologia pastorale da altre
discipline teologiche, anzi, decisamente rovesciata, in quanto ora essa
sottopone alla rigorosa analisi empirica le possibilità concrete dell'agire
ecclesiale e delle discipline teologiche[149].
La teologia
è «teoria della prassi», «ermeneutica pratica dell'agire ecclesiale»: orientata
criticamente, in quanto osserva la tradizione; orientata empiricamente, in
quanto analizza gli ambiti di azione nel presente; è orientata prospetticamente
in quanto riflette sulla pianificazione per il futuro[150].
Il
tentativo di Bastian, che si riconnette largamente alle tesi di Popper, che ha
il merito porre in scacco il predominio e la diffidenza delle discipline
teologiche tradizionali, finisce per cadere nell'estremo opposto: la sua
impostazione rimane tecnico-funzionale, e pone un concetto e un primato della
prassi decisamente inaccettabile.
b.
Teologia pastorale come teoria funzionale della prassi ecclesiale
Qui (K.W.
Dahm) il riferimento è piuttosto a N. Luhmann e T. Parsons. Dal primo, egli prende
il concetto di religione come istituzione nel senso di un sistema organizzato
per la trasmissione, legittimazione e trascendizzazione di significati e valori
riconosciuti come fondamentali in una società o segmento di essa. Al secondo, è
ispirata l'interpretazione funzionale dell'agire ecclesiale secondo una duplice
accezione; da un lato in riferimento all'intreccio dell'azione ecclesiale con
le altre organizzazioni presenti nella società (impossibilità di considerare
isolato o autosufficiente l'agire ecclesiale); dall'altro come considerazione
dei compiti che la chiesa è chiamata a svolgere e di quelli che di fatto svolge
nella società.
Identificata
la funzione della Chiesa (a. «esposizione e trasmissione dei fondamentali
sistemi di significato e di valore»; b. «presenza di sostegno nelle situazioni
di crisi e nei momenti cruciali dell'esistenza»[151]), la teologia
pastorale - teoria funzionale dell'agire ecclesiale ha il compito di esaminare, teorizzare ed
eventualmente modificare le attività nei due ambiti sopra nominati.
Oltre al
riduzionismo empirico, questa impostazione, mostra due ulteriori fragilità:
insufficiente riferimento alla fede come istanza normativa dell'agire
ecclesiale, ridotto a funzione socioantropica; frammentazione dei problemi, non
colti nell'insieme.
La teologia pastorale come teoria critica
Negli
stessi anni, e con la stessa attenzione a una corretta messa in valore della
prassi, ma in acuta contrapposizione alla soluzione tecnicistica e
funzionalistica, si sviluppa una linea di tendenza che trova ispirazione nella
teoria critica della scuola di Francoforte.
Respingendo
Dahm, Otto rende esplicito il suo riferimento alla scuola di Francoforte; non
come trascrizione pedissequa, ma come orizzonte di pensiero[152].
Ogni teoria è «costitutivamente rapportata alla prassi, cosa come la prassi
mantiene viva la domanda nei confronti della teoria»[153],
è connotata da un preciso interesse: in Schleiermacher quello di stampo
borghese, per il cristianesimo inteso come parte integrante e garante della
società; ora l'interesse per l'emancipazione umana e sociale. La teoria critica
considera «gli uomini come produttori delle loro forme storiche di vita»[154].
Sulla base
di questa impostazione, Otto propone la sua tesi secondo cui la teologia
pratica si pone come «teoria critica della prassi mediata religiosamente nella
società».
La
prospettiva di Otto, ricca di spunti interessanti, rischia tuttavia di premere
a tal punto la dimensione sociale e politica da lasciare a margine quella
individuale e spirituale. Inoltre, la prospettiva metodologica empirico-critica
è più accennata nelle motivazioni fondamentali che proposta nella sua effettiva
esecuzione. Il che rende del tutto giustificata l'obiezione che accusa
l'approccio teorico-critico di essere scarsamente utilizzabile nel concreto
della prassi ecclesiale.
Sulla scia
di Otto si pongono, in ambito cattolico, le proposte di G. Biemer e P. Siller[155],
come anche un contributo di N. Greinacher. Senza progressi significativi sotto
il profilo metodologico. Anche il tentativo di H. Schroer[156],
fortemente impegnato sul piano del confronto con la teoria di Habermas e per
molti versi degno di nota non riesce a dipanare l'intricata matassa.
Dal Congresso di Vienna ai giorni nostri
Si tratta
dell'incontro promosso dalla Konferenz dei
teologi pastorali di lingua tedesca nel secondo centenario dell'ingresso della
teologia pastorale nell'ambito universitario. Il ventaglio degli interventi,
raccolti in una importante miscellanea, mette senza dubbio in evidenza «un
certo consenso riguardo allo stile del pensare teologico-pratico». Cosa che non
deve essere sottovalutata. Nella varietà delle posizioni.
Nello
stesso anno, la rivista Theologia
practica promuove un simposio «sulla coappartenenza di teologia sistematica
e pratica». A cinque interventi di teologi sistematici rispondono quattro prese
di posizione di teologi pratici. Il risultato non è, anche in questo caso, dei
più soddisfacenti, se il punto di incontro deve essere cercato ancora una volta
nell'opera di Schleiermacher[157]. Non mancano,
tuttavia, istanze degne di nota (per il nostro problema, soprattutto gli
interventi di W. Pannenberg[158] e di Ch. Bäumler[159]).
Le diverse impostazioni mettono in evidenza che si cercano nuove vie con
riferimento a una più pertinente determinazione dell'azione ecclesiale, con
riferimento a categorie chiave come parola, simbolo, linguaggio, dialogo,
comunità di comunicazione, agire politico; con una rilevante polarizzazione
sulla proposta habermasiana dell'«agire comunicativo» ritenuta capace di
congiungere la realtà obiettiva del simbolico e la capacità intersoggettiva del
simbolizzare e del comprendere critico simbolico.
Teologia pastorale come teoria dell’agire comunicativo
La
riflessione epistemologica sulla teologia pastorale trova ricognizione e
proposta, alla fine degli anni settanta, nell'opera di N. Mette[160].
Egli riprende la denominazione, più volte comparsa in autori precedenti, di
scienza dell'azione (Handlungswissenschafl)
collocandola, da un lato, nel quadro teoretico di una ricomprensione
dell'intero sapere teologico «sulla base di una teoria generale dell'azione»,
secondo l'impostazione epistemologica di H. Peukert[161].
La teologia pratica appare così «come scienza teologica (esplicita)
dell'azione, all'interno di una teologia concepita (nell'insieme) come scienza
pratica»[162],
mentre si viene ancorando più specificamente alla teoria dell'agire
comunicativo. Il punto di intersezione tra la prospettiva di questa
formulazione della teoria critica e lo specifico della fede cristiana è colto
nella finalità, cui la teologia viene ascritta, di edificare la communio cristiana. Viene peraltro
decisamente respinta ogni riduzione meramente prasseologica (applicativa):
Mette prende le distanze non solo dalla impostazione funzionalistica, ma anche
dalle forme di teoria critica in cui lo specifico dell'agire cristiano finisca
per stemperarsi in una non meglio precisata funzione critico-emancipatoria di
carattere generale, e si colloca in una posizione intermedia (Mittelweg).
Ponendosi
nell'orizzonte delle scienze dell'azione così come preconizzato da H. Schelsky[163] e da G. Krause[164]
Mette intende subito escludere lo schema di dipendenza ancillare e di pratica
emarginazione nei confronti delle altre discipline teologiche. In seconda
istanza, indica le caratteristiche fondamentali di una scienza dell'azione:
approccio induttivo, valorizzazione dei metodi empirici, orientamento
interdisciplinare, capacità di incidenza pratico-progettuale: le buone
intenzioni non bastano; è necessaria una precisa impostazione teoretica e
metodologica[165].
Si tratta,
anzitutto, di ridefinire il concetto stesso di prassi, in modo da superare la
nefasta oscillazione tra il pragmatismo che la restringe a mera attività
produttiva e l'ipertrofia che ne fa la levatrice della storia. E di collocarlo
nel cuore stesso della elaborazione teologica: «nella teologia pratica non si
tratta di un sapere che può essere appreso e quindi utilizzato
applicativamente; esso non può essere comunicato informativamente a mo' di
contenuto oggettivo. Si tratta piuttosto, qui, della comunicazione di una realtà,
e insieme del chiarimento della possibilità della sua considerazione teoretica,
che costituisce origine di un modificato modo di agire comunicativo»[166].
Il che non
va, evidentemente, senza problemi. L'intento di superare la dicotomia teoria -
prassi, che sta all'origine di questa impostazione, appare significativo e
lodevole, ma problematico teoreticamente per alcuni versi, e, per altri, non
del tutto convincente nella sua esecuzione pratica.
Conclusione
Come si è
avuto occasione più volte di notare, non era nostro intento presentare una
ricostruzione storica esaustiva. Quello di individuare, piuttosto, i momenti
significativi e di svolta sotto il profilo particolare della autocomprensione
della teologia pastorale: la ricostruzione storica mostra come lo sviluppo
della disciplina rifletta le mutevoli situazioni socio-politico-ecclesiali.
L'ultimo segmento del tragitto - quello fine millennio - fa parte del dibattito
attuale. Non viene qui ricostruito come ricognizione storica, ma è presente, in
seguito, nella trattazione tematica del profilo teologico pratico della
disciplina.
L'indagine
storica ha messo in evidenza l'inseparabilità del sapere teologico dalle
concrete condizioni di esistenza della comunità cristiana. Si fa dunque chiara
anche la connotazione pratica del sapere teologico nel senso del suo
radicamento nella prassi (come già per la letteratura biblica e patristica; e
anche, a ben guardare, per la grande scolastica).
Come sì è
visto, l'interesse per l'agire pastorale - inteso ancora riduttivamente come
ristretto al clero e alla cura d'anime - sorge in un momento di profonda crisi
della cristianità europea. Non è un caso che se ne occupi il concilio di Trento
con l'istituzione dei seminari, e che, in quel contesto, prendano forma le
prime elaborazioni di manuali e prontuari. Anche Lutero, con il catechismo
(l'opera cui dichiarava di tenere di più). L'orizzonte resta ancora,
evidentemente, dentro la convinzione di una cristianità divisa, magari, ma
omogenea territorialmente alla cultura accreditata (cuius regio eius et religio). Per questo in ambedue le confessioni
religiose si mantiene una centratura tipicamente ecclesiocentrica della
teologia pastorale. In campo cattolico con accento controversista e processo di
centralizzazione; in campo protestante con non minore dialettica e processo di
alleanza con la nascente cultura borghese.
È
soprattutto la prima guerra mondiale a mettere in evidenza lo scacco profondo
dell'una e dell'altra posizione, a evidenziare la distanza profonda che si è
venuta creando tra la prospettiva cristiana e la vita concreta degli uomini nei
suoi problemi e nelle sue istanze. Nuovi movimenti teologici e presenze
profetiche significative annunciano, non senza difficoltà e battute d'arresto,
le esigenze emergenti. Il ventaglio di fenomeni che, con una certa
approssimazione, si è soliti ricondurre al fenomeno (per la verità complesso e
differenziato) della secolarizzazione costringe ad allargare le prospettive.
Ciò tocca tutto l'universo del sapere teologico. Ma, avendo origine nella
prassi ecclesiale e nei suoi disagi, ha particolare influenza sulla concezione
della teologia pastorale.
Il nostro
tempo gode della opportunità di un bilancio di questa stagione ricca di
aperture e non scevra da ingenuità. Alcune acquisizioni sembrano ormai
consolidate, e dovrebbero cominciare a dare i loro frutti in una prassi
ecclesiale meno inadeguata e smarrita. Alcune intemperanze prassistiche tendono
a ricondursi a una più equilibrata visione, senza peraltro disperdere il
guadagnò di una valorizzazione non marginale della prassi in ambito teologico.
Anche il rapporto con le discipline non filosofiche si pone in orizzonte più
sereno, non ulteriormente gravato da massimalismi presuntuosi e irrigidimenti
timorosi e miopi. Rimangono problemi aperti, e di non minimo conto, che animano
il dibattito attuale.
Negli anni
Novanta, si distingue, in Italia, l'opera di M.Midali
(Teologia pastorale o pratica. Cammino
storico di una riflessione fondante e scientifica, Roma, Las), giunta ormai
alla quarta edizione (2000) e all'ampiezza di ben cinque volumi. Essa mantiene,
sostanzialmente, il carattere di documentazione storico-problematica del
sorgere, del consolidarsi e, infine, del configurarsi epistemologicamente
pertinente della disciplina. Una ricognizione attenta e puntuale, diventata
amplissima. Interessa qui il quinto
volume, che si segnala per l'articolato impianto dell'itinerario metodologico,
scandito nelle fasi kairologica (analisi valutativa della situazione),
progettuale (fase progettativa della prassi desiderata), strategica (fase
programmatrice del passaggio dalla prassi vigente alla nuova prassi). La figura
teoretica di riferimento è individuata - nell'ambito delle scienze dell'azione
- dalla metodologia empirico-critica, connotata dal riferimento criteriologico
alla fede, perché «in ognuna delle sua tre fasi di attuazione e dei connessi
momenti fa riferimento esplicito a criteri di fede, produce giudizi di fede e
opera un discernirnento alla luce della fede». Non si può che sottoscrivere.
Non viene tuttavia indagata, sotto questo stesso profilo, la specificità
pastorale di tale riferimento criteriologico normativo di fede (quella cioè
che, rapportando costantemente la verità rivelata alla concretezza
antropologica e storica, stabilisce in una prospettiva di reciprocità
dialettica - sia pur asimmetrica - la peculiarità del teologare pastorale), né
mostrato il principio teologico che la regge (principio di incarnazione). Anche
per quanto riguarda l'oggetto materiale della disciplina ci sembra che la posizione
del Midali sia discutibile. Essa, giustamente preoccupata di superare una
visione angustamente ecclesiocentrica, finisce, tuttavia, per sfumare troppo i
contorni della disciplina, che perde così il suo ancoraggio - che è
delineazione precisiva - all'azione ecclesiale. La dimensione religiosa,
allargata alla prassi «anche extra-ecclesiale, alle varie forme di
cristianesimo contemporaneo... o al più vasto fenomeno religioso oggi esistente»
è certamente ambito di riferimento e orizzonte generale della disciplina; essa,
però, trova il proprio specifico campo di indagine nell'azione cristiano
ecclesiale. In altri termini, se è senz'altro vero che questo agire è
interessato e coinvolto nel più ampio quadro della prassi religiosa e non si
ripiega nell'orticello delle coltivazioni intraecclesiali, è altrettanto
opportuno che rimanga ben configurato nel suo ambito proprio, che è ben
identificato dalle coordinate della realtà misterica della chiesa e della sua
missione. Il lodevole superamento della secolare restrizione clericale non può
significare lo sconfinamento in un area tanto vasta da risultare poi
difficilmente determinabile. Non solo. Ne verrebbe, in tal caso, una disciplina
forse legittima nella sua statuizione, ma non più centrata sulla missione cristiano-ecclesiale,
quanto sull'analisi dei fenomeni socioreligiosi in genere. Si comprendono i
motivi (universitari ma non accademici) per cui tale apertura di campo è stata
operata a partire dall'area tedesca (fenomeno analogo è riscontrabile
nell'epistemologia teologica pannenberghiana): ma proprio il carattere non
epistemico di tali motivazioni consiglia maggiore circospezione
nell'accoglierle. Queste istanze parzialmente critiche non vogliono in alcun
modo intaccare il valore di un'opera che onora la produzione teologica italiana
e si segnala - nel suo ambito - tra le migliori in assoluto a livello mondiale.
In
ambito europeo, deve essere ricordata l'opera di van der Ven[167],
su cui si ritornerà in seguito, esponendo il metodo della disciplina e il suo
rapporto con le scienze umane. Peccato che lo stesso autore definisca
ecclesiologia, sia pur contestuale[168], la sua
trattazione tematica, che, in realtà, è un saggio qualitativo di teologia
pastorale generale.
Merita
attenzione anche l'elaborazione "estetica" di A. Grözinger[169],
che colloca lo statuto epistemologico della teologia pratica nell'alveo della
ricerca estetica. La teologia estetica è qui intesa come teoria della cultura[170],
in cui la prassi estetica è posta in connessione con gli altri ambiti del
pensiero e dell'azione, cioè come teoria critica della cultura, con l'intento
di sventare il rischio di una copertura estetizzante del disagio e di un
parallelo snervamento dell'innovazione.
Nell'area
anglofona, che risente evidentemente della ricerca nordamericana (Browning e
Tracy in particolare), lo sviluppo della teologia pastorale è ben documentato -
in prospettiva evangelica - dal New
Dictionary of Christian Ethics and Pastoral Theology, del 1995[171].
Sullo
scorcio del millennio, è ancora l'area tedesca a presentare opere di interesse
nel campo della trattazione fondamentale epistemologica e metodologica. Si segnala
qui l'ampio e originale lavoro di Wolfgang Steck[172], che intende la
teologia pratica come teoria della prassi in orizzonte fenomenologico; con la
sorprendente declinazione, tuttavia, della disciplina in «scienza della
mediazione (mediatisierte[n]
Wissenschaft)»[173].
Ma con una eccellente analisi della situazione culturale (autentica teologia
kairologica) in relazione alla dimensione religiosa e alla azione ecclesiale.
Merita infine di essere ricordato il manuale a più mani edito da Herbert
Haslinger[174],
dove, nonostante qualche discontinuità (per esempio la diversità di accenti sul
metodo vedere, giudicare, agire) viene offerta una valida panoramica della
disciplina nel suo impianto epistemico e nella sua delineazione metodologica e
tematica.
Cap. 3. La teologia pastorale esigenza della
teologia e della pastorale
3.1.Una esigenza della responsabilità pastorale
L'esigenza
(e la fatica) del pensare la pastorale appare immediatamente come esigenza
imprescindibile della pastorale medesima. Non è lusso da intellettuali, non
appartiene al regno del superfluo. Ha una efficacia che si mostra nel tempo e
al tempo resiste.
Le
parole e le opere sono sempre legate a un 'pensato'. Quando questo 'pensato'
non viene pensato, quando resta a livello inconscio, produce gravi danni.
La
nostra epoca, con i suoi cambiamenti radicali, non ammette l'arbitrio e la
ripetizione: empirismo, pressappoco, noia, inefficienza degli schemi
ereditati...; esige, invece, una pastorale pensata, responsabile, coraggiosa e
ben impostata: in quest'ora «magnifica e drammatica» (CfL 3) si giocano - per
quanto è in humanis - molte delle
possibilità di efficacia dell'azione ecclesiale e del dono della salvezza
(Regno di Dio) per le prossime generazioni.
L'esigenza
di una riflessione teologico-pastorale efficace è resa manifesta proprio dal
ricorso massiccio, da parte degli operatori, alla sussidiazione di ogni tipo (e
valore): quasi una implicita richiesta di aiuto. Ma il pret-à-porter offerto
dal mercato, accattivante per la capacità di intercettare la domanda, non
riesce in realtà a fornire modelli efficaci e convincenti.
Questa
situazione di grave disagio, dove nessuna pietra può restare sull'altra, non
deve però indurre a considerare la teologia pastorale come scienza della crisi,
che sorge e tramonta con la crisi medesima.
La
necessità della teologia pastorale si riconduce, piuttosto, alla esigenza che
l'azione ecclesiale sia posta sempre in modo corretto ed efficace, sotto il
profilo della sua collocazione storico-culturale e sotto quello della sua
qualità evangelica. Quest'ultimo aspetto apre la prospettiva sulla necessità
della disciplina per ragione interna/intrinseca allo stesso discorso teologico.
Detto in parole semplici: una teologia che non sviluppi questo aspetto è mutila
e incompleta, e cadrà inevitabilmente nell'ideologia (dato che l'area pratica
deve essere normata, se questo avviene in maniera non criticamente riflettuta,
finirà per attribuire carattere di necessità - magari dottrinale! - a ciò che è
semplicemente l'interpretazione precaria e acritica del soggetto e/o del
momento).
E'
sottesa a questa affermazione una precomprensione che limita arbitrariamente il
sapere teologico all'indagine sulle sulle strutture sempre valide della vita
nella fede. Inoltre, rimane aperta la questione se la tale indagine sia
pertinenza della teologia speculativa o, toccando le 'strutture' della vita,
non chieda necessariamente una comprensione più adeguata. E' fuor di dubbio che
la tp risponda alla esigenza di intelligibilità dell'azione pastorale. Ma in
alcun modo vi si riduce. Essa, al contrario, appartiene nativamente e
costitutivamente al sapere teologico, che, in sua assenza, viene
inesorabilmente decurtato e sbilanciato.
3.2.Una
esigenza nativa del sapere teologico
Generalmente, si fanno
valere a questo proposito le obiezioni sopra ricordate. Al
contrario, la teologia pastorale
costituisce esigenza nativa del pensiero teologico:
·
in
relazione al mistero trinitario (secondo la figura dell'economia)
·
in
relazione all’alleanza, come struttura costitutiva della fede cristiana
·
in
relazione al mistero e alla legge dell'incarnazione[1]
·
in
relazione alla struttura della fede (come fides
quaerens intellectum). La fides quae
per caritatem operatur appartiene - non solo quanto alla sua fondazione, ma
anche quanto alle sue determinazioni concrete - alla riflessione propriamente e
specificamente teologica. Tale riflessione attiene alla vita del singolo (teologia
morale) e della comunità (teologia patorale). Ciò appartiene alla struttura
costitutiva della fede: «In fondo, come si vede, l'ordo doctrinae del Catechismo
romano non è diviso in quattro parti, ma costituisce un grandioso dittico
(fondato sulla Tradizione e non sulla polemica); da un lato, i misteri della
fede in Dio Uno e Trino, professati con il Simbolo e celebrati con i
Sacramenti; dall'altro lato si parla dell'esistenza umana vissuta nella fede -
la fides quae per caritatem operatur -
nell'aspetto della condotta cristiana (il Decalogo) e della preghiera filiale
(il Padre nostro)»[2].
Una
teologia che non riesca a 'tenere insieme' l'alterità radicale di Dio e la sua
presenza operante nella storia è una teologia dimezzata. Che l'operare sia
posto dentro e non fuori della fede (e quindi della teologia) è ben espresso da
Insufficiente, anche se interessante, la posizione recepita dal 47° Sinodo
della Chiesa milanese: «Il profilo scientifico dell'istituzione teologica non
la finalizza immediatamente all'azione pastorale, tuttavia la impegna alla
comprensione delle forme storiche della pratica cristiana nella vita del
credente e della comunità cristiana» (n.529).
Non si capisce perché appartenga alla teologia il momento ermeneutico
critico e non quello ermeneutico progettuale. La vita e l'azione della Chiesa,
infatti, appartiene al profilo scientifico della teologia: ciò che attiene
strutturalmente all'azione ecclesiale e alla determinazione delle sue concrete
figure storiche (non solo alla ricognizione-comprensione di quelle storicamente
già date) nella estensione progettativa e attuativa. Non vi appartiene di
necessità ciò che attiene alla formazione specifica degli operatori: come per
ogni disciplina, la specializzazione e l'acquisizione della competenza professionale
sono estensione (non abusiva!) della fisionomia fondamentale della disciplina
medesima. Tant'è vero che, a volte, le condizioni chiedono che una specialità
si determini in disciplina autonoma (es. l'insegnamento sociale della Chiesa).
Senza per questo uscire dal territorio specifico e proprio del teologare
scientifico.
Il
sapere teologico pratico è dunque teologico per il suo oggetto (materiale e
formale) e per il suo metodo.
Perciò,
deve essere decisamente respinta la posizione secondo cui la teologia pastorale
non sarebbe parte costitutiva del sapere teologico, ma solo esigenza riflessiva
e metodica dell'agire pastorale. Così, per esempio B.Seveso: «Questa [la
teologia pastorale] non deriva da una articolazione della teologia. Non è per
un bisogno della teologia che esiste la teologia pastorale. In particolare essa
non rappresenta un prolungamento della ecclesiologia a fini pratici. Si forma e
si fonda piuttosto a partire da una richiesta di intelligenza che è insita
nell'agire pastorale. La domanda non si limita alle strutture sempre valide
della vita nella fede, ma interroga circa le forme concrete di attuazione»[3].
Così anche P.M.Zulehner[4].
La teologia pastorale risponde
dunque a una esigenza intrinseca del sapere teologico: appartiene
costitutivamente alla compiuta elaborazione scientifica della fides quaerens intellectum, che sarebbe gravemente mutilo senza la
trattazione organica delle problematiche inerenti la vita e l'azione della
Chiesa; rende possibile alle altre discipline teologiche la concretizzazione
fruttuosa e pertinente ditale intenzionalità (divulgazione e fruizione del
sapere scientifico); e, da ultimo, si dedica, per la sua parte, alla formazione
di specifiche competenze per gli operatori pastorali: per la sua parte, m
quanto tale competenza non attiene solo alla progettazione esecuzione
dell'azione pastorale nei suoi diversi ambiti, ma anche alla comprensione del
fatto cristiano: comprensione da cui l'azione non si deduce, ma senza la quale
altrettanto l'azione pastorale non si produce adeguatamente.
Quindi
non si deve ridurre la teologia pastorale a disciplina di formazione
professionale, ma nemmeno distaccarla dal suo radicamento e dalla sua genetica
connessione con la prassi. Perciò, l'articolazione della teologia pastorale - e
del suo campo disciplinare come della sua fisionomia didattica - non viene
anzitutto ed esaustivamente dalle diverse 'professioni' pastorali, ma dalle
esigenze proprie della fede nella sua intrinseca consistenza (osservazione
analoga a quella fatta a Seveso a proposito della articolazione disciplinare
proveniente dai problemi pastorali.
Ciò
che attiene alla formazione degli operatori nelle loro competenze ministeriali
specifiche professionalità...) non è parte integrante del sapere e della
formazione teologica, ma attiene alla fisionomia propria di ciascuna figura: se
tuttavia tale trattazione non è necessaria alla teologia, la teologia è del
tutto necessaria ad essa.
In
ogni caso, l'utilità dello studio della teologia pastorale sul piano concreto
delle prassi ecclesiali si pone anzitutto livello di formazione della
mentalità, come approccio sensibile e competente in ordine alla valutazione
critica e alla modificazione costruttiva. Consente alla elaborazione dottrinale
di non essere estranea e ripetitiva; e alla azione pastorale di non ripiegarsi
nella rassegnazione remissiva.
E'
necessario differenziare (non dividere!) ciò che attiene alla acquisizione di
un compiuto e organico sapere teologico (cui è necessaria la teologia pastorale
per logica interna); da ciò che attiene alle singole competenze
(professionalità!) pastorali. Questa distinzione orienta la configurazione
pertinente del campo didattico-disciplinare.
Cap. 4. Configurazione di una teoria teologica della
prassi.
Tema
unico e multiforme della teologia pastorale è l'azione ecclesiale. In quanto azione, essa deve essere pensata secondo
i principi e i criteri propri di una corretta teoria della prassi (aspetto
conoscitivo generale). In quanto ecclesiale,
esige che tale riflessione si ponga entro l'orizzonte proprio e
qualificante della fede cristiana (aspetto teologico specifico). Tale
connotazione rigorosamente teologica è fondata sul principio di incarnazione.
Poiché esso tocca problematicamente[5] non solo
l'approccio conoscitivo adeguato (rapporto teoria/prassi) di cui ci stiamo ora
occupando, ma anche l'oggetto e il metodo della disciplina (è conditio sine qua non di una disciplina
che si voglia appropriatamente teologica avere oggetto e metodo squisitamente
teologici), vi si dovrà tornare più volte, sotto diverso e convergente profilo.
Procedendo
ordinatamente, dobbiamo quindi anzitutto discutere quale sia l'approccio
conoscitivo adeguato per la formulazione di una valida teoria della prassi. La
questione è resa acuta sia dai luoghi comuni cui spesso si fa (magari
implicitamente) riferimento; sia dal dibattito oggi molto vivo in sede di
filosofia della prassi.
4.1. I connotati
della teoria dell’azione
Spesso, nel pensiero occidentale, l'azione è concepita come espressione del pensiero; o, anche come, manifestazione-esplicazione dell'essere: agere sequitur esse, recita un antico adagio. Tutto ciò è vero, ma solo parzialmente. Se affermato unilateralmente, infatti, dimentica che il pensiero è a sua volta segnato (e non marginalmente, ma costitutivamente) dalla prassi; che l'essere è determinato (non, certo, nella sua struttura ontologica, ma storicamente e psicologicamente) dall'agire (sia precedente: la storia cui si appartiene e la propria storia; sia attuale: l'azione che si sta per compiere, che incide sul soggetto nel momento stesso della decisione di porre o non porre tale azione).
In
altri termini, nessun sapere (né poietico, né noetico) può costituirsi
prescindendo dalla prassi: nessun sapere precede - in senso assoluto - la prassi;
né la prassi origina - in alcun modo autonomamente - il sapere: «Ambedue le
cose, essere e divenire, appartengono a pari diritto all'intera immagine della
verità. La sua essenza dialogica non è qualcosa che debba venir superato alla
fine a favore di un possesso tranquillo. Il dialogico forma piuttosto la
perenne, anzi sempre autosuperantesi, vitalità nell'essenza della verità. Una
concezione della verità eterna, a cui mancasse questa vitalità che di continuo
divampa, sgorga, avanza, non sarebbe che una distorsione e una falsificazione»[6].
Non si
dà passaggio diretto dalla teoria pura (speculativa) alla prassi. La prassi
esige di essere chiarita progettata e attuata a partire da una teoria
propria e specifica.
Teoria
dell'azione non significa necessariamente (e certamente non nel nostro caso)
adesione a una concezione empirica della Handlungswissenschaft.
Piuttosto, una sua comprensione nel quadro di una ermeneutica veritativa e
pratica.
Secondo
Habermas tutte le scienze sono mosse da un interesse pratico:
1. scienze dello spirito: prassi comunicativa
2. scienze della natura: prassi tecnica
3. scienze sociali: prassi critica o
emancipatrice
(1
e 2 sono riconducibilì a 3 negli ambiti della cultura, natura e società).
L'esasperazione
di questa 'precomprensione pratica' che è l'interesse (qui ci interessa come
coinvolgimento della dimensione pratica in quella noetica; nella trattazione
del metodo si farà rilevare la compresenza di fattori precomprensivi in ogni
analisi 'obiettiva' dei fatti) conduce però al relativismo e allo scetticismo:
la teologia deve comprendersi non solo come ermeneutica della fede professata,
ma anche della prassi credente.
Ciò
può essere espresso, in forma sintetica ma non riduttiva, nelle seguenti
'leggi', che presiedono alla corretta costruzione di ogni teoria, in specie di
ogni teoria dell'azione:
·
indeducibilità
della prassi dalla teoria
·
irriducibilità
della teoria alla prassi
·
reciprocità
dialettica di teoria e prassi
Queste
'leggi' hanno influsso nella costruzione di una teoria della prassi sia nel
rapporto della teoria della prassi medesima con le discipline
teoretico/speculative (è il caso della teologia pastorale nei confronti del
sapere teologico dottrinale), sia nel rapporto tra tale teoria della prassi e
la prassi (è il caso della teologia pastorale nei confronti della pastorale).
Dire che la teologia pastorale è
scienza pratica o teoria della prassi significa dire che essa tende all'azione,
riguarda l'azione; il prodotto non come factum, ma come esito di prassi. La
teologia pastorale non si occupa solo dei mezzi (oltre Aristotele) ma anche dei
fini: se ne occupa sotto il profilo pratico, cioè della loro conoscibilità, del
loro raggiungimento e di tutti i fini intermedi...; non dei fini ultimi, ma dei
fini dell'azione posta concretamente hic et nunc.
4.2. La prospettiva teologica
Ciò
che è stato fin qui individuato sul versante della razionalità pratica trova
corrispondenza genuina esigenza teologica. La fede cristiana, infatti, appare
caratterizzata da una costante: la legge
dell'incarnazione.
Il principio di incarnazione
La
prima intuizione in questo senso si deve al pastoralista tedesco F.X.Arnold,
per oltre un ventennio (1942-1969) sulla cattedra che era stata di A.Graf a
Tubinga. Di intuizione, appunto, si tratta, non sufficientemente valorizzata
sotto il profilo epistemologico e non conseguentemente svolta nella
elaborazione metodologica e nella prospettazione del campo disciplinare. Essa
qualifica, nella esposizione di Arnold, più l'azione pastorale che non il
pensiero teologico pastorale. Che tra le due grandezze vi sia connessione, anzi
mutua interiorità, è fuor di dubbio. Ma la trattazione rimane sospesa a
mezz'aria, incoativa ed epistemologicamente acerba.
La valorizzazione postuma di Arnold,
peraltro assai limitata, coglie di fatto più le possibilità messe in valore dal
suo pensiero che non le sue effettive risultanze. Così J.Goldbrunner: «Quanto
F.X.Arnold con la sua formula del 'divino-umano' come principio della teologia
pastorale avesse ragione, lo dimostra l'ora presente»[7]; ma
all'apprezzamento dichiarato non segue la capacità di cogliere in pieno la
valenza euristica del principio. Goldbrunner, infatti, delinea le coordinate
della sua pertinenza e plausibilità, senza svolgere poi il tema della sua
effettiva idoneità a qualificare il discorso teologico pastorale sotto il
profilo dell'approccio conoscitivo, dell'oggetto e del metodo. Anche la
valutazione di K.Delahaye, positiva, non coglie nel segno: «F.X.Arnold ha messo
in piena luce questo punto di partenza [la formulazione di un principio
teologico complessivo, che caratterizzi adeguatamente tutta l'attività della
Chiesa] nei suoi lavori sul principio del 'divino-umano'. Con questa
formulazione rinnovata, chiara e penetrante il teologo di Tubinga riesce ad
ancorare la dottrina pastorale, sotto molti aspetti priva di principi, alla
dottrina dogmatica di Cristo Uomo-Dio». L'ingenuità di questo apprezzamento,
che pone la teologia pastorale in diretta dipendenza da quella dogmatica, non
rende giustizia al pensiero di Arnold. Molto più pertinente e penetrante
l'ampia analisi di B.Seveso[8]. Non ci sentiamo
tuttavia di condividerne del tutto le conclusioni. Da un lato, infatti, egli
riconosce che, «nella sua ricchezza semantica, il principio richiama anzitutto
la proporzione all'interno del duplice momento dell'avvenimento di salvezza e
la natura mediazionale dell'azione ecclesiale; di questa riprende anche la
struttura bipolare e ne indica le conseguenze a livello metodologico; con esso
è significato il riferimento a Cristo come connotativo della mediazione e
inveramento del principio stesso»; dall'altro, però, afferma che «il
principio... ha valenza simbolica e perciò non è suscettibile di
un'articolazione rigorosa sotto il profilo logico; con esso non è dato un
insieme di relazioni logicamente ordinate, ma è significata una intuizione
globale del fenomeno pastorale, in cui sono colte nel loro intreccio le
problematiche a questi inerenti»[9]. Dove - se
comprendiamo bene - la prima affermazione concede troppo, la seconda troppo poco.
Del resto, Seveso rimane molto più legato, nella sua impostazione, alla
posizione rahneriana, che non a quella arnoldiana.
Che
il pensiero di Arnold non abbia trovato apprezzamento effettivo sul piano della
elaborazione della teologia pastorale è confermato dal fatto che lo stesso Handbuch der Pastoraltheologie, di cui
pure Arnold era uno dei curatori, abbia preferito affidare a un dogmatico,
K.Rahner, la fondazione della disciplina e l'impostazione dell'opera.
L'incarnazione
lega come filo conduttore tutta l'opera di R. Tonelli, nell'ambito della
pastorale giovanile. Essa è tuttavia valorizzata più come criterio della azione
pastorale, che come principio euristico della teologia pastorale. Che l'una
cosa rimandi all'altra è senza dubbio vero; ma l'attenzione di Tonelli è molto
più attratta dallo svolgimento concreto delle tematiche pastorali che non dalla
discussione epistemologica. La sua prospettiva, tuttavia, si avvicina -per
questo aspetto - alla nostra: «L'incarnazione... ci propone un evento salvifico,
che fonda un metodo pastorale, un metodo cioè di attuazione di questa salvezza.
In questo senso, la considero il criterio fondamentale della pastorale... La
pongo al centro di ogni ricerca... Dall'evento dell'Incarnazione la pastorale
ritrova il suo obiettivo e l'orientamento metodologico fondamentale: attuare la
salvezza 'incarnandosi' nella vita quotidiana»[10].
L'incarnazione
come principio di fondazione teoretica della teologia pastorale (non meno che
come criterio ermeneutico-progettuale della prassi cristiano-ecclesiale) non è
un avvenimento circoscritto e isolato. La sua singolarità è la singolarità
stessa dell'agire di Dio nella storia per la salvezza dell'uomo. La
manifestazione di Dio gestis verbisque stabilisce
una struttura costituiva del fatto cristiano e, di riflesso, una condizione
noetica imprescindibile della sua pensabilità, sotto il profilo sia speculativo
che pratico. In questo senso, l'incarnazione «rimane il punto di partenza, il
punto centrale di ogni fede cristiana»[11].
Per
quanto attiene la teologia pastorale, ciò può esser così sinteticamente
descritto:
a)
L'oggetto della
disciplina: la legge dell'incarnazione determina senza incertezze la
teologicità dell'oggetto. L'azione ecclesiale non è, nella sua valenza
salvifica, azione semplicemente umana. In essa e per essa (struttura
sacramentale o principio del divino-umano) la salvezza avviene qui e ora. Solo
la dimenticanza di questo principio fondamentale ha potuto collocare l'azione
salvifica alle spalle dell'azione ecclesiale (e non dentro di essa) sfigurando
l'originalità cristiana della 'mediazione', che trova nel Verbo incarnato
figura di riferimento originaria e, propriamente parlando, realizzazione unica
e irripetibile (efapax): ogni altra
'mediazione' ha carattere sacramentale; non ripete, raddoppia, o 'intermedia'
la mediazione di Cristo. E' la stessa unica mediazione fatta sacramentalmente
presente ed efficace. Quanto all'oggetto formale - l'azione ecclesiale 'qui e
ora', nella sua attuazione e progettualità - è evidente come l'attenzione e
l'assunzione dei luoghi antropo-storici non avvenga per successivo adattamento,
ma per intima 'condiscendenza', che qualifica la rivelazione divina (DV 2) e
trova il suo fondamentale riferimento nella realtà della creazione, e
stabilisce pertanto non solo l'opportunità, ma la necessità intrinseca della
inculturazione della fede nelle sue formulazioni cosi come nelle sue
espressioni di vissuto ecclesiale.
b) Il metodo della
disciplina. E' un punto cruciale per l'elaborazione disciplinare. Di fatto,
permangono impostazioni ancora inadeguate, sotto molteplice profilo. Perché il
metodo sia riconosciuto nella sua qualità teologica (ci limitiamo a questo
aspetto) è necessario che esso sia posto in tutto il suo percorso nel segno
esplicito della riflessione di fede. Ciò non avviene, per esempio, in molti
autori della cosiddetta teologia della liberazione; ma nemmeno nel classico
metodo 'vedere, giudicare, agire'. L'inseparabilità di fatti e parole e la
struttura sacramentale dell'azione salvifica che a ciò ben si connette
consentono invece, insieme ad altre considerazioni, di prospettare una
metodologia in cui dall'analisi della situazione alla attuazione del progetto
il discorso proceda in maniera organica e integrata, nella sua corretta
fattispecie teologica. E' necessario anzitutto articolare una analisi della situazione che non sia solo
consecutivamente, ma, appunto, immediatamente teologica (superamento della
dissezione vedere/giudicare). Poi, un momento di decisione-progettazione e uno
di attuazione verifica delineati costantemente nella correlazione di
reciprocità asimmetrica che stabilisce l'idoneità teologico-pastorale della
riflessione: dove la prospettiva di fede si pone in relazione critica e feconda
con le coordinate socio-culturali. Si profila in tal modo una metodologia che
si può definire come metodo del discernimento
pastorale, caso tipico del discernimento evangelico.
La teologia pastorale è dunque
riflessione teologica sotto ogni profilo, in quanto lo è:
·
il
suo oggetto: azione ecclesiale, realtà divino-umana, legge della incarnazione,
struttura sacramentale costitutiva...
·
il
suo metodo: esso si svolge, in tutto il suo itinerario, come riflessione di
fede (dimensioni costitutive, non solo fasi successive!); non mutua i suoi
criteri da altre discipline teologiche (tantomeno da altre scienze umane), ma
li costruisce secondo una propria originale elaborazione, che si esprime
compiutamente nella dimensione criteriologica.
Cap. 5. L'orizzonte
ermeneutico. Il paradigma gnoseologico
I paradigmi rappresentano il quadro
teoretico normativo all'interno del quale devono muoversi le teorie che
aspirino a dignità scientifica.
Contestualità e carattere
interpretativo del sapere teoretico (in relazione alla prassi)
Spesso, nel pensiero occidentale,
l'azione è concepita come espressione del pensiero; o, anche come,
manifestazione-esplicazione dell'essere: agere sequitur esse, recita un
antico adagio. Tutto ciò è vero, ma solo parzialmente. Se affermato
unilateralmente, infatti, dimentica che il pensiero è a sua volta segnato (e
non marginalmente, ma costitutivamente) dalla prassi; che l'essere è
determinato (non, certo, nella sua struttura ontologica, ma storicamente e
psicologicamente) dall'agire, si determina e si conosce nell'agire (sia
precedente: la storia cui si appartiene e la propria storia; sia attuale:
l'azione che si sta per compiere, che incide sul soggetto nel momento stesso
della decisione di porre o non porre tale azione).
Benché possa sembrare paradossale,
anche in ambito teologico gli approcci conoscitivi sono ancora in larga misura
segnati da un obsoleto paradigma paleo-positivistico duro a morire. Tanto più
insidioso, quanto più annidato nell'inconscio e coperto da una presunta
("innocente") neutralità; o, addirittura, confuso e fatto passare
come adeguata e fedele ripresa del realismo gnoseologico della grande
scolastica.
In altri termini, nessun sapere (né
poietico, né noetico) può costituirsi prescindendo dalla prassi: nessun sapere
precede - in senso assoluto -la prassi; né la prassi origina - in alcun modo
autonomamente - il sapere: «Ambedue le cose, essere e divenire, appartengono a
pari diritto all'intera immagine della verità. La sua essenza dialogica non è
qualcosa che debba venire superato alla fine a favore di un possesso
tranquillo. Il dialogico forma piuttosto la perenne, anzi sempre
autosuperantesi vitalità nell'essenza della verità. Una concezione della
verità eterna, a cui mancasse questa vitalità che di continuo divampa, sgorga,
avanza, non sarebbe che una distorsione e una falsificazione»[12].
Questo legame profondo - originario
- non offusca la purezza del pensiero, tantomeno attenua il suo spessore
veritativo.
Verità
e interpretazione: nodo precomprensivo e costitutivo ermeneutico del sapere
(teologico).
Sotto
il profilo filosofico, è particolarmente convincente la riflessione di Luigi
Pareyson[13],
di cui riporto alcune espressioni pregnanti:
a. istanza
veritativa:
- «senza verità, l'aspetto
rivelativo della parola è puramente apparente, e si riduce a una razionalità
vuota e priva di contenuto» (p.19).
- «La presenza della verità nella
parola ha un carattere originario:
è la scaturigine da cui rampolla
incessantemente il pensiero» (p.22).
b. dimensione
veritativa dell'interpretare:
- «comprendere significa allora
interpretare, cioè approfondire l'esplicito per cogliervi quell'infinità
dell'implicito ch'esso annuncia e contiene» (p. 22).
- «la verità è fondamentalmente
inoggettivabile. Per un verso, infatti, se la verità non si offre se non
all'interno d'una prospettiva personale che già la interpreta e la determina, è
impossibile un raffronto tra la verità in sé e la formulazione che se ne dà:
per noi la verità è inseparabile dall'interpretazione personale che ne diamo
non meno di quanto noi stessi siamo inseparabili dalla prospettiva in cui la
cogliamo: noi non possiamo uscire dal nostro punto di vista per coglie da in
una presunta indipendenza che valga a farne un criterio con cui misurare
dall'esterno la nostra formulazione di essa. Per l'altro verso, se la verità
non può essere colta che come inesauribile, essa più che parlarne come se fosse
un tutto concluso, deve contenerla e muoverne e alimentarsene, trovandovi lo
slancio del proprio corso, al fonte dei propri contenuti, la misura del proprio
esercizio, e nel pensiero essa risiede come una presenza tanto più attiva ed
efficace quanto meno configurabile e definibile» (p. 25).
- «questa interpretazione e
formulazione è appunto una rivelazione della verità, e quindi non
propriamente altro dalla verità, ma la verità stessa come personalmente
posseduta, e non per il fatto d'essere una rivelazione essa può
apparirne come un'alterazione o addirittura un travestimento, perché ne è
piuttosto un possesso, tanto più genuino quanto più personale e molteplice»
(p. 27).
- «Il pensiero rivelativo raggiunge
il suo scopo anche se non giunge al "tutto detto", ουτω βαθυν λόγον εχει: il suo ideale non è l'enunciazione
compiuta d'una realtà più o meno adeguabile, ma l'incessante manifestazione
d'un'origine inesauribile» (p. 23).
- «la ragione senza verità non tarda
a sfociare nell'irrazionale, perché è pensiero soltanto storico o tecnico» (p.
29).
- «il pensiero e la libertà
dell'uomo scadono alla neutralità d'una ragione puramente strumentale o d'una
mera tecnica del comportamento se non attingono vigore dalla loro originaria
radicazione ontologica» (p. 43).
Imprescindibile un rapido
riferimento a H.G. Gadamer, benché più sfuggente sul riferimento veritativo[14]:
- «la credenza ingenua nel metodo e
nell'obiettività che esso assicurerebbe... (739)
-
«il modo di attuarsi [vollzugsweise] della comprensione è
l'interpretazione" (793)
- «non è la parola (onoma) ma il
logos il portatore della verità» (841)
- «c’è però un'idea che non è greca
e che rende meglio l'essenza del linguaggio... è l'idea cristiana dell'incarnazione»
(853)
- «Sein, das
verstanden werden kann, ist Sprache» (965)
- «L'ermeneutica, come abbiamo
visto, è in questo senso un aspetto universale della filosofia, e non
solo la base metodologica delle cosiddette scienze dello spirito" (967).
Sotto il profilo teologico, è
illuminante lo sviluppo ampio e suggestivo di Hans Urs von Balthasar[15]:
- «verità come di quella che apre,
che fonda principi e promette altre verità. Se non lo facesse, essa sarebbe allora
finita in se stessa ed esauribile, dovrebbe arrivare per il soggetto un tempo
in cui la verità inizierebbe a perdere il suo carattere di apertura e ad andar
incontro, a poco a poco e sempre di più, a una conclusione. La verità si
arricchirebbe, per così dire, su se stessa e si esaurirebbe» (p. 52)
- «solo
nel suo uscire da se stesso, nel servizio creativo al mondo, il soggetto
sperimenta il suo significato e in esso la sua essenza» (p. 66)
- «Dio
partecipa alla creatura qualcosa della sua energia creatrice anche nell'ambito
della verità. Se l'uomo possedesse solo una funzione conoscitiva misurata dalla
verità delle cose, egli sarebbe, sotto questo profilo, non più causa ma
semplicemente effetto. La sua collaborazione si ridurrebbe alla funzione unicamente
riproduttiva di verità già esistente. Verrebbe certo arricchito dall'intuizione
di quanto lo circonda, ma non avrebbe nella sua conoscenza nessuna possibilità
di incidere formativamente nella verità delle cose stesse. Possederebbe la
forza della causa seconda solo come agente pratico e non anche, alla stregua di
Dio, come soggetto conoscitivo» (p. 121)
- «il
criterio della verità si trova situato parte nell'io e parte nel tu, e come
criterio totale si raggiunge soltanto nel movimento del dialogo. Il criterio
all'interno dell'io si trova nell'evidenza del «cogito ergo sum»,
nell'identità vissuta tra essere e coscienza, alla quale identità ogni evidenza
mediata dev'essere ricondotta come al principio e alla misura di ogni verità.
Ogni giudizio discorsivo, che si pronuncia mediante analisi e sintesi, mediante
astrazione dal sensibile e concrezione del concettuale, deriva la sua
giustificazione da quest'ultima irrecusabile evidenza nello spazio chiuso dello
spirito. E tuttavia essa brilla ogni volta unicamente quando lo spirito esce da
se stesso per deporre la sua parola personale nel concreto agire del mondo,
nel concreto dialogo col tu fuori di se stesso. Lo specchio dell'evidenza
interiore gli viene presentato solo quando non si cerca in se stessi, bensì nel
non-sé. Quest'uscita da se stesso, in cui lo spirito si schiude alla comunione
e trova in essa la sua verità, è a tal punto il movimento della verità che ne
diviene il secondo criterio. Così l'analisi e la sintesi dell'intellectus dividens
et componens si estende oltre la solitaria attività dello spirito verso la
sempre nuova unione e distinzione tra io e comunità, per trovare nel movimento
dialogico la sua pace e la sua (sempre aperta) conclusione» (p. 173)
- «non è
possibile a nessuno sbarazzarsi definitivamente della propria prospettiva.
Ogni conoscente deve rassegnarsi a riconoscersi la limitatezza del proprio
campo di vista nello stesso istante in cui si sente tentato di criticare
l'angustia delle prospettive altrui. Tuttavia
non ha bisogno di rassegnarsi alla relatività del proprio campo, perché ci sono
abbastanza mezzi e metodi a sua disposizione per integrare ed arricchire le
sue prospettive mediante quelle altrui» (p. 185)
- «In realtà, il mistero non sta
dietro la verità, ma è sua perenne proprietà immanente, poiché il nome di
questa verità che ci domina con il suo splendore, la sua unità, la sua perfetta
forza espressiva, altro non è che la bellezza. E quell'aspetto della verità che
non entra in nessuna definizione, che non può essere afferrato fuori
dell'immediato rapporto con essa e che rende ogni nuovo incontro con essa
un'esperienza nuova... Questa eccedenza sopra ciò che può essere espresso in
concetti, definizioni e supervisioni critiche, questo eterno 'più' che è
proprio di ogni essere, è la premessa fondamentale del fatto che la rivelazione
delle cose e la loro conoscenza non ha subito il carattere della noia
invincibile» (p. 146)
In
conclusione, non si danno fatti nudi e crudi, ma sempre - conoscitivamente -
interpretati. Anche le scienze sociali presentano esiti che sono in realtà
costruzioni di secondo grado, comprensibili soltanto in relazione alle modalità
che l'investigazione ha messo in atto. Come nota Stephanie Klein sulla scia di
Georges Devereux, il soggetto vi è implicato con il suo io, il proprio corpo,
le sue relazioni, le sue esperienze[16]. E come sostiene
Adorno, «la lettura della realtà non si ferma frammentariamente ai fatti, ma
cerca la comprensione delle leggi strutturali [Strukturgesetze], che
determinano i fatti, si manifestano in essi e da essi vengono modificate».
L'analisi
teologica contestuale della situazione (i fenomeni e la loro situazione) non si
limita al "dato", come pretende certa sociografia religiosa, ma
intende - deve intendere - darne una comprensione approfondita e globale: non
può limitarsi a registrare il fatto; deve invece interpretarlo e valutarlo.
Una (teologia) pastorale che voglia basarsi su una lettura positivistica del
'dato' è come un'etica che pretenda di fondarsi sulla statistica.
Non
c'è dunque da una parte un fatto e dall'altra una interpretazione, ma c'è «un
atto di interpretazione che viene continuamente ripreso e ri-assunto nella sua
intenzionalità originaria e attraverso il quale la realtà attestata è resa
presente»[17]
Dato
che non confligge con i criteri di una autentica scientificità. L'apertura
dinamica dell'orizzonte ermeneutico non diminuisce, ma garantisce la qualità
scientifica dell'indagine: la riflessione su precomprensione e interesse e la
loro esplicitazione/ chiarificazione sono criteri autentici di scientificità.
Il loro aggiramento, al contrario, modifica e mistifica l'approccio
conoscitivo. Il grado di scientificità riconosciuta, infatti, non si determina
a priori, indipendentemente dalla situazione, ma in relazione al contesto
sociale, culturale e religioso:«… nelle stesse scienze empiriche, noi non
attingiamo mai dei fatti puri, indipendentemente dal linguaggio, che non
possiamo parlare di fatti che interpretandoli, che il linguaggio della scienza
deve dunque essere considerato come un linguaggio ermeneutico... Questo non
vuol dire, naturalmente, che l'esperienza dipende dal linguaggio».[18]
Né
in alcun modo mette in crisi l'istanza veritativa propria della elaborazione
teologica. Lo si è visto seguendo la prospettiva tracciata da von Balthasar. E’
la prospettiva di Gaudium et spes, qualificata - ed è una novità
assoluta - come «costituzione pastorale», e spesso equivocata come avallo della
impostazione deduttivistica, o - coincidentia oppositorum! - come
recezione magisteriale del metodo induttivo.
Sul
primo versante, come notava M.D. Chenu, «sarebbe un grave errore vedere in
questo titolo soltanto l'enunciazione delle esigenze di un opportuno
accomodamento della chiesa alle congiunture in cui si trova nel secolo XX. Si
tratta di una asserzione costituzionale, che tocca l'esistenza stessa della
chiesa»[19],
come conferma la nota esplicativa apposta al titolo nel testo ufficiale, ove
si ribadisce l'unitarietà del documento e la compresenza, in ogni sua parte,
dell'elemento dottrinale e di quello pastorale: superamento della visione
deduttivo/applicativa.
Non
però, d'altronde, metodo induttivo, come spesso erroneamente si dice, ma più
propriamente, come si vedrà più avanti, metodologia fenomenologico-ermeneutica
veritativa. La portata di tutto ciò si comprende appieno solo ricostruendo la
vicenda conciliare che condusse a introdurre questo documento (inizialmente non
previsto) e contrassegnò le fasi articolate e complesse della sua redazione.
La
prospettiva ermeneutica non genera - in quanto tale - relativismo. E’,
piuttosto, il pregiudizio relativista a inquinare il realismo di una sana
ermeneutica veritativa.
La
riduzione positivistica della razionalità (non l'unica, ma nemmeno la minima)
espone, a sua volta, a pressioni deformanti:
- Condizionamento
pragmatico: è
l'influenza del pensiero tecnopratico, il cui verbo è
"funziona!", e che spinge a guardare ai risultati e ignorare i
processi. Che rifugge dalla fatica dell'analisi, corre ai sussidi
"pratici" e, in nome della concretezza, fa progetti che
proclamano ideali tanto alti quanto generici, per saltare rischiosamente
dall'idealizzazione astratta alla imposizione operativa.
·
Condizionamento
teoretico: è quel
modello di conoscenza - quella restrizione dei confini della razionalità - che
a partire dal razionalismo seicentesco si è venuto a cristallizzare nel
paradigma scientifico positivista, che è diventato il paradigma normale
(normativo!), del sapere scientifico: l'evoluzionismo (non ogni teoria
dell'evoluzione), lo strutturalismo, lo storicismo, molte coltivazioni delle
cosiddette scienze umane condividono la convinzione di raggiungere dati nudi e
crudi, a prescindere dall'attività del ricercatore. Una cultura reificata[20]
in cui l'oggettività del sapere è confusa con una presunta oggettivazione
di realtà immobili e immutabili, ottenuta con procedure di assoluta neutralità,
base di sicurezza incontrovertibile per teorie di verità. «forme incoscienti/inconsapevoli
di un pensiero senza soggetto», come sono state efficacemente definite, dove
l'entità conoscente è neutra, senz'anima, senza cultura e senza storia.
Bisogna
al contrario riconoscere l'inevitabilità (e la possibile fecondità) del
condizionamento contestuale. Come ricorda Edgar Morin, «dobbiamo apprendere che
la ricerca di verità richiede la ricerca e l'elaborazione di metapunti di
vista che permettano la riflessività, che comportino in particolare
l'integrazione dell'osservatore-ideatore nell'osservazione-ideazione nonché
l'ecologizzazione dell'osservazione-ideazione nel contesto culturale e mentale
che le è proprio»[21].
Allargare
gli spazi della razionalità significa, tra l'altro, intendere la conoscenza
come via alla verità aperta e multiforme; per nulla oscillante tra il
narcisismo del pensiero debole e il prometeismo della presunzione
tecnopoietica.
Significa fedeltà all'aureo filone
della tradizione teologica autentica:
·
«veritas
creata est mutabilis»[22]
·
«In
fine nostrae cognitionis, Deum tanquam ignotum cognoscimus»[23]
·
«actus
autem credentis terminator non ad enunciabile sed ad rem».[24]
Ermeneutica pratica
In
ambito teologico-pratico, la prospettiva ermeneutica non viene costretta entro
il perimetro del solo “comprendere e interpretare”, che, se assolutizzata,
produce una recezione di stampo inevitabilmente intellettualistico e
tendenzialmente individualistico, ma urge nativamente l’azione. Ciò è proprio
dell’umano ed è nota saliente della Rivelazione, la cui attestazione non è mai
solo informativa, ma sempre performativa (conversione interiore e cambio di
vita).
«Così
possiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una “buona notizia” – una
comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. Nel nostro linguaggio si
direbbe: il messaggio cristiano non era solo “informativo”, ma “performativo”.
Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si
possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La
porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive
diversamente; gli è stata donata una vita nuova».[25]
Questa
prospettiva incardina immediatamente il tema epistemico sul terreno proprio
dell’evangelizzazione: «Una sfida senza precedenti è lanciata oggi ai cristiani
che operano per realizzare questa “civiltà dell’amore”, la quale compendia
tutta l’eredità etico-culturale del Vangelo. Questo compito richiede una nuova
riflessione su ciò che costituisce il rapporto del comandamento supremo
dell’amore con l’ordine sociale considerato nella sua complessità».[26]
In
ogni caso, «chi riduce la sequela di Gesù ad un avvenimento che ha luogo nel
cuore, nelle menti ed entro l’ambito privato delle relazioni interpersonali, ne
restringe la portata, rendendo Gesù inoffensivo»[27]
Queste
considerazioni, mentre ribadiscono il carattere euristico e veritativo,
decidono la radicale insufficienza dell'impostazione meramente empirica: non
solo la decisione e il progetto, ma la stessa indagine conoscitiva della
situazione, richiedono il discernimento (fronesis) e hanno a che fare
con l'interpretazione, la valutazione, la scelta, la determinazione dei
significati e dei fini.
Si
pone allora la questione complessa della determinazione dell'idea di sapere
scientifico, che qui può essere solo molto lacunosamente accennata.
Hans
Blumenberg, nel suo noto La legittimità
dell'età moderna, ha indicato la riabilitazione della curiosità teorica
come una caratteristica fondamentale di tale epoca. Questa tesi appare corretta
soltanto a patto che teniamo presente che il concetto di scienza si è al tempo
stesso profondamente trasformato. Voglio caratterizzare questa trasformazione
evidenziandone quattro fattori. 1) Oggetto della scienza non sono più le
strutture teleologiche della realtà ma nessi causali regolari. 2) Il sapere non
è né sapere pratico né theoria nel senso di contemplazione di ciò che è
conosciuto; ciò che è conosciuto teoricamente è il presupposto su cui si basano
delle applicazioni pratiche oppure è uno stadio nel progredire infinito della
ricerca. 3) il sapere scientifico non è affatto sapere nel senso classico della
parola ma ipotesi, opinione più o meno ben fondata, sempre falsificabile in
linea di principio, giacché poggia non sull'intuizione di essenze, ma sul
tentativo di ordinare da un punto di vista teorico i dati empirici. 4) La
scienza non è il sapere di uomini concreti ma un'impresa collettiva che offre
informazioni che a seconda delle necessità possono essere acquisite
parzialmente da uomini concreti al fine di ulteriori ricerche o di
applicazioni pratiche.
In
questo quadro, tocca sensibilmente il profilo della elaborazione teologica, la
considerazione che la scienza moderna comincia con un rifiuto programmatico
della considerazione teleologica della realtà. Come scrive Francis Bacon, «nam
causarum finalium inquisitio sterilis est et, tanquam virgo Deo consecrata, nihil
parit»[28].
Vediamo
già in queste parole di Bacon il nuovo ideale di scienza: la scienza deve
essere utile. Il sapere teleologico suscita il sospetto di essere un
"asylum ignorantiae", una scusa per la "ignava ratio", la
ragion pigra. La scienza moderna non è contemplazione ma ricerca.
5.1.
La questione del rapporto teoria/prassi. Superamento di un’aporia
metodologica.
È
frequente l'affermazione che identifica nel rapporto teoria/prassi la questione
cruciale della teologia pratico-pastorale:
· «La questione circa l'essenza della
teologia pastorale (o forse, meglio, della teologia pratica) e il suo rapporto
con la totalità della teologia e le sue singole discipline, è fondamentalmente
la questione del rapporto tra teoria e prassi, tra ragione teoretica e ragione
pratica»(K.Rahner).
· «La questione fondamentale [die
Grundfrage] della teologia pratica in ambito accademico è la dialettica di
prassi e teoria»(L.Karrer).
·
«La
costruzione teoretica della teologia pratica si tiene in equilibrio [balanciert]
dinamico [hier und her] tra i due poli agire" (prassi) e riflessione
(teoria)»(L.Karrer).
· «Suo compito è mediare teoria e
prassi»(N.Mette).
Queste
posizioni sono insufficienti.
Poiché
la teologia pastorale è teoria della prassi, si pone immediatamente la questione
di quale teoria si tratti, di come essa si costruisca, e solo in seguito di
come si rapporti alla prassi, di come si determini la costruzione di una teoria
della praxis.
Prima ancora, tuttavia, in coerenza
con la prospettiva ermeneutico-veritativa adottata, sarà opportuno rilevare la
reciproca inclusione di teoria e prassi, che si possono certo distinguere
concettualmente, ma mai si danno, nel concreto, in forma autonoma, indipendente
l'una dall'altra.
Si
dovrà quindi chiarire anche di quale prassi si tratti, questione da trattare
tuttavia contestualmente.
Questi
interrogativi radunano le più scottanti e aperte questioni che agitano il
dibattito in ambito teologico pratico sotto il fondamentale profilo epistemico.
È
opportuno procedere per gradi.
5.2.
Reciproca inclusione di teoria e prassi
Unità
originaria - nella stessa conoscenza - dell'aspetto speculativo e pratico, cioè
di intelligenza e amore, di per sé e per altro: «L'aspetto filosofico e
storico-religioso da rilevare in questa visione della Bibbia sta nel fatto che,
da una parte, ci troviamo di fronte ad un'immagine strettamente metafisica di
Dio: Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo
principio creativo di tutte le cose il
Logos, la ragione primordiale è al contempo un amante con tutta la passione di
un vero amore. In questo modo l'eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente
così purificato da fondersi con l'agape»[29].
Solo
così la conoscenza raggiunge la pienezza della verità: «Allo stesso modo che una
conoscenza non potrebbe esserci senza la volontà, così neppure una verità
sarebbe pensabile senza l'amore. L'amore non è un oltre la verità; l'amore è
nella verità ciò che le assicura, oltre ogni suo svelamento, un mistero sempre
nuovo, è l'eterno più di quanto già si sa, senza che si desse né un
sapere né uno scibile; l'amore è nell'esistente ciò che non gli consente mai
di diventare puro fatto, ed è nella conoscenza ciò che non le consente mai di
riposare in se stessa, ma la rende servibile a qualcosa di più elevato. Il
concetto dell'amore appartiene al concetto pieno della verità, come il concetto
della volontà appartiene al concetto pieno della conoscenza»[30].
In
altri termini, nessun sapere (né poietico, né noetico) può costituirsi
prescindendo dalla prassi: nessun sapere precede - in senso assoluto - la
prassi; né, d'altro canto, la prassi origina autonomamente il sapere, che si
nutre di una costitutiva reciprocità[31].
5.3.
Specificità della
teoria della prassi
Come
si diceva, la teoria non si rapporta indifferentemente alla prassi E
necessario distinguere tra teoria speculativa ("che cosa?") e teoria
pratica ("come?").
Il
rapporto tra teoria speculativa e prassi, di fatto, è fortemente riduttivo e
spesso fonte di equivoci. Infatti, non si dà - se non in forma sporadica e
limitata - passaggio diretto dalla teoria pura (speculativa) alla prassi.
La
prassi esige di essere chiarita, progettata e attuata a partire da una teoria
propria e specifica. Trae quindi in inganno porre il focus della problematica
teologico pratica sulla questione del rapporto teoria/prassi, senza aver prima
messo ben in chiaro che tale rapporto non si dà in maniera pertinente con una
teoria qualsiasi, ma solo con la specifica teoria della prassi.
La
cui costruzione può essere espressa, in forma sintetica ma non riduttiva, nelle
seguenti 'leggi' costitutive e qualificanti:
· indeducibilità
della prassi dalla teoria
· irriducibilità
della teoria alla prassi
· reciprocità
dialettica tra il riferimento normativo (fede) e versante contestuale
(antropologico, socioculturale).
Filosoficamente:
prospettiva ermeneutica veritativa; teologicamente: legge dell'incarnazione.
5.4.
Rapporto teoria/prassi
Configurata adeguatamente una teoria pratica (si apre
qui la questione del metodo, a partire dalle tre "leggi enunciate), essa
viene poi rapportata alla prassi non in forma deduttiva, ma secondo il modello
di reciprocità già sopra delineato: indeducibilità/ irriducibilità/ reciprocità
dialettica di teoria e prassi (qui si tratta effettivamente del rapporto teoria/prassi).
Queste 'leggi' hanno influsso nella costruzione di una
teoria della prassi sia nel rapporto della te6ria della prassi medesima con le
discipline teoretico/speculative (è il caso della teologia pastorale nei
confronti del sapere teologico dottrinale), sia nel rapporto tra tale teoria
della prassi e la prassi (è il caso della teologia pastorale nei confronti
della pastorale).
Dire che la teologia pastorale è scienza pratica o
teoria della prassi, significa dire che essa tende all'azione, riguarda
l'azione; non al prodotto come factum, ma all'azione (e al prodotto in
quanto esito di prassi).
La
teologia pastorale non si occupa solo dei mezzi (oltre Aristotele) ma anche dei
fini: se ne occupa sotto il profilo pratico, cioè della loro conoscibilità,
della loro determinazione, del loro raggiungimento...; non dei fini ultimi
direttamente, ma dei fini dell'azione che concretamente - hic et nunc -
viene posta.
Cap. 6. Oggetto
della teologia pastorale
Che cosa pensa (oggetto materiale)
La
ricostruzione del tragitto storico della disciplina ha fatto emergere il
succedersi di impostazioni diverse: dalla formazione interiore e
tecnicoprofessionale del pastore, alla analisi del ministero pastorale (dei
pastori), alla edificazione della chiesa (ecclesiologia esistenziale). Si è
inoltre segnalata una netta demarcazione tra concezioni di tipo
analitico-descrittivo e di tipo empirico-critico (con il che si tocca più
propriamente l'oggetto formale, ma non senza riflessi sulla connotazione
dell'ambito materiale della disciplina). Attualmente, si possono sinteticamente
indicare tre posizioni.
1.
Posizione restrittiva
E'
la visione che riconduce la realtà e responsabilità pastorale alla figura del
pastore. Lo testimoniano non solo opere abbastanza recenti[32],
ma anche la immediata constatazione della mentalità corrente. La centratura sul
pastore rimane anche nel Vaticano il e nei documenti del Magistero. Ma l'ottica
non è più la stessa, in quanto i pastori sono sempre visti nel loro vitale e
costitutivo rapporto con la comunità tutta intera (ecclesiologia di comunione),
e questa è colta - nella sua esistenza-missione in rapporto con «il mondo in
cui vive». La problematica pastorale allarga così il proprio respiro fino
all'orizzonte planetario della costituzione pastorale «Gaudium et spes». La
Chiesa nel suo insieme definisce l'ambito della prassi pastorale. Si affacciano
così alla considerazione pastorale nuovi ambiti di azione e di studio, come
anche nuove forme aggregative e di intervento, sulla scia di quanto aveva
intravisto e delineato, con felice intuizione, la pastorale d'insieme.
2. Posizione estensiva
E'
la posizione già segnalata di G. Otto (e di altri: p.e. R.Zerfass, N.Mette,
P.M. Zulehner, M.Midali), secondo cui ambito proprio della teologia pratica
(distinta in questo senso dalla teologia pastorale, più ministeriale ed
ecclesiale) è "la prassi mediata religiosamente nella chiesa e nella
società". Lo stesso Otto indica per punti l'oggetto della teologia pratica,
come segue:
·
le
manifestazioni, i modi di comportamento e di azione motivati religiosamente,
presenti nella società;
·
la
«religione» nelle storie di vita dei soggetti, i quali vengono in tal modo resi
coscienti della loro dignità. umana, cioè resi veri soggetti; la prassi
ecclesiale e la sua legittimazione nei diversi ambiti e concrezioni;
·
il
retroterra storico, in rapporto alla situazione di conflittualità che si
determina nei confronti delle tradizioni (accettazione/rifiuto);
·
il
superamento delle attuali questioni di identità nella chiesa e nella società,
senza cadere nel fissismo e nella ripetitività, ma con lo spirito sempre desto
alle possibilità del futuro.
Questa
articolata proposta appare esposta al triplice pericolo di ridursi a
formulazioni estremamente teoriche e generali, o di rimanere, di fronte a così
numerosi problemi, a un livello sempre superficiale, o di concentrarsi poi, di
fatto, su alcuni problemi singoli, facendo valere degli “interessi” né
confessati, né vagliati. Si deve aggiungere inoltre che essa appare - anche se
non dichiaratamente -preoccupata di una legittimazione della teologia pastorale
in ordine alla presenza nelle università di stato tedesche, di fronte alla
bordata di accuse rivolte alla teologia sullo scorcio degli armi Sessanta e all'inizio
del decennio seguente.
3. Posizione adeguata
Crediamo
che la connotazione di pastoralità non possa in alcun modo prescindere dalla
specificità del riferimento cristiano ed ecclesiale. Ciò non significa a né
restrizione, nè decurtazione; ma, appunto, specificità. Individuata chiaramente
questa incardinazione, l'attenzione all'orizzonte totale propugnata da Otto non
si stempera nella labilità fenomenologica e spesso equivoca del “religioso”, ma
prende in considerazione tali problematiche in quanto presenti all'azione
ecclesiale. Non le sono estranee, pertanto, le questioni della società e
dell'uomo, che investono il senso e il progetto della vita, perché «pastorale
è, l'azione multiforme della comunità ecclesiale, animata dallo Spirito Santo,
per l'attuazione nel tempo del progetto: di salvezza di. Dio sull'uomo e sulla
storia, in riferimento alle concrete situazioni di vita»[33].
L'azione
ecclesiale, che è servizio (ministero) di salvezza, presenta come dimensioni
caratterizzanti:
·
una
dimensione antropologica globale: tocca tutto l'uomo, animai corpo, con le sue
esigenze e domande fondamentali;
·
una
dimensione sociopolitica: la realizzazione dell'uomo avviene, storicamente, nel
- e in relazione - al suo habitat;
·
una
dimensione cosmico-universale: azione pastorale è anche azione per la
salvaguardia e lo sviluppo della realtà creata;
·
una
dimensione escatologica: il cristianesimo non è una ideologia intramondana; sa
che le tre dimensioni precedenti si scoprono e si promuovono convenientemente
alla luce della rivelazione, e, soprattutto, che il raggiungimento della
realizzazione totale è dono di Dio e non trova compimento nella esistenza
terrena.
Questa
visione della realtà pastorale (qui solo abbozzata) corrisponde allo spirito
più autentico del Vaticano II: «nel Concilio la Chiesa cerca se stessa: con
grande fiducia e grande sforzo, tenta di definirsi meglio, di comprendere essa
stessa ciò che è. Infatti, dopo venti secoli di storia; la Chiesa sembra quasi
sommersa dalla civiltà profana, come assente dal mondo attuale. Prova allora il
bisogno di raccogliersi, purificarsi, rifarsi, per poter riprendere con energia
il proprio cammino. E mentre cerca così di 'definirsi e di qualificarsi, la
Chiesa cerca il mondo, tenta di venire in contatto con. questa società... E in
che maniera realizzare questo contatto? Essa riallaccia il dialogo col mondo,
leggendo i bisogni della società in cui opera, osservando le carenze, le
necessità, le aspirazioni, le sofferenze, le speranze che si trovano
nell'intimo dell'uomo»[34].
Con
quel «e mentre», il card. Montini stabiliva il principio metodologico della
reciprocità tra i due momenti, quello della ricerca, della costruzione della
identità, e quello della missione. Questo orizzonte definisce, nel suo,
insieme, la vita pastorale della comunità cristiana, su cui la teologia
pastorale riflette (oggetto materiale).
Anche
Pannenberg conferma: «La prassi ecclesiale deve restare l'oggetto specifico
della teologia pratica, a meno che essa poi voglia ampliarsi in un'etica
generale cristiana, nel cui quadro la struttura sociale dell'agire cristiano in
quanto azione ecclesiale ed ecclesiastico-formativa rappresenterebbe una
particolare sezione di temi. Ma anche se la prassi ecclesiale rimane il suo
oggetto specifico, non per questo la teologia pratica è necessariamente una
mera teologia pastorale, introduttiva al campo delle tradizionali attività dei
parroci come si è voluto rilevare nella suddivisione della teologia pratica in
omiletica, catechetica, ministero e liturgia»[35]
Tale
oggetto è adeguato perché risponde alla natura propria della Chiesa; è
teologico, secondo il principio di incarnazione o del divino-umano (struttura
sacramentale dell'azione ecclesiale).
Da quale punto di vista
(oggetto formale)
L'approccio
specifico della teologia pastorale, nell'orizzonte ermeneutico della fede, non
è solo descrittivo, narrativo, interpretativo (anche), ma in ultima analisi
specificamente volto all'azione (decisione-progetto): inflessione pragmatica
(nel senso della pragmatica linguistica).
Le
opinioni degli studiosi riflettono, su questo punto, quelle segnalate a
proposito dell'aggetto materiale. La corrente che restringe l'ambito della
teologia pastorale alla topica del pastore sarà incline a considerarla
disciplina di carattere tecnico-pratico, descrittiva e operativa, da collocarsi
nell'area della formazione specifica (ministeriale) del pastore; mentre le
impostazioni a sfondo ecclesiologico vedono nella correlazione con il presente
l'elemento formale che caratterizza la teologia pastorale. Tipica la posizione
di Rahner e di Arnold, variamente ripresa con accentuazioni e sfumature
diverse.
La
formalità propria del sapere teologico pastorale è data dal radicamento nella
teologia dell'incarnazione e dalla visione prospettica dell'agire ecclesiale
nella sua autocoscienza critica e nella sua capacità progettuale e attuativa.
Cap. 7. Come pensa la teologia
pastorale (il metodo)
Di
fronte alla obiettiva difficoltà di una elaborazione metodologica solida e
convincente, è diffusa tra i pastoralisti una posizione di ripiegamento: «non
esistono metodi teologico pratici specifici, ma si dà una combinazione di
metodi in prospettiva teologico-pratica»[36]. Come dire nessun
metodo.
Si
comprende allora che, oltre alla interdisciplinarità e alla (eventuale)
transdisciplinarità, si deve parlare, con van der Ven, di intradisciplinarità.
L'apporto delle scienze umane non è prioritariamente da confinare nella fase
interpretativa o operativa, ma si pone nel cuore stesso della elaborazione
teologico-pastorale in quanto teologica.
Non
del tutto chiara e per certi versi discutibile sembra la proposta di H
Steinkamp[37],
che vede la teologia pratica come scienza sociale. Benché egli intenda questa
delineazione come «variante "pratica" del modello interdisciplinare
(o, come egli lo chiama, delle «opzioni convergenti» la sua proposta appare
teoreticamente fragile e non convince. Sarebbe errato, comunque, accusare
Steinkamp di riduzione della teologia pastorale a scienza sociale nel senso di
uno smarrimento della sua qualificazione teologica. Le esemplificazioni addotte
lasciano percepire una metodologia interdisciplinare, che procede «da una parte
appropriandosi delle conoscenze generali di psicologia della religione e
dall'altra in contatto con la teologia sistematica...»[38].
Ma non si precisano i termini degli apporti, né si fa chiaro il tipo di
disciplina che ne proviene. Si ricade così nella obiezione mossa alla
concezione della teologia pastorale come teoria critica, se cioè essa «non
tragga i suoi criteri in maniera troppo esclusiva da una sociologia critica
anziché dalla teologia». D'altro canto, non si può non consentire con l'autore
quando accusa le proposte fin qui formulate di sottosviluppo metodologico, cioè
della incapacità di fornire percorsi effettivamente praticabili. Di fronte alla
osservazione che «rimane in ogni caso un problema, di grande portata: il
compito di connettere risultati empirici, ipotesi sociologiche e riflessione
teologica non è ancora risolto», egli sembra preferire la strada della
verifica. concreta sul campo. Così, il problema teoretico, apparentemente
eluso, ritorna sul tappeto. Lo stesso Steinkamp, infatti, si dichiara
insoddisfatto dei risultati fin qui ottenuti da tali ricerche; e non può farlo,
evidentemente, senza un modello su cui commisurare e valutare le ricerche
medesime.
Più interessante il contributo di van der Ven, in
numerosi interventi[39]. Acquisito
l'orizzonte di intradisciplinarità, egli ricostruisce l'itinerario metodologico
sulla base del ciclo empirico di A.D. De Grot[40], in cinque
momenti:
–
Elaborazione
teologica della problematica e degli obiettivi
–
Induzione
teologica
–
Deduzione
teologia
–
Verifica
emprico-teologica
–
Valutazione
teologica,
e
tenta una risposta, alle obiezioni (empirismo, pragmatismo, modernismo,
scientismo) rivolte alla sua proposta metodologica. A mio parere, tali
obiezioni colgono alcune fragilità reali. Soprattutto la mancanza di un vero
principio teologico di fondazione e una inclinazione pericolosa su metodologie
di carattere empirico. Tuttavia, van der Ven presenta un tentativo di indubbio
rilievo, che forse meriterebbe maggiore attenzione (anche se critica).
Si
parla qui di intradisciplinarità perché, come per la filosofia nella grande
stagione scolastica, la teologia è chiamata a sviluppare al proprio interno
questi nuovi apporti disciplinari. La situazione della teologia pastorale ai
nostri giorni non presenta, di fatto, grandi progressi in questa direzione,
come già notava Steinkamp, che per via diversa (sorvegliata
epistemologicamente) giunge a conclusioni similari. Ci si limita per lo più a
ricerche descrittive o esplorative; e quando la dimensione empirica entra più
direttamente nel discorso teologico-pastorale, viene confinata nella zona
intermedia tra fase applicativa e decisionale: il territorio della elaborazione
criteriologica é considerato dominio esclusivo e geloso della «teologia».
La
metodologia della teologia pastorale è e deve rimanere teologica, si elabora in
forma propria e originale e non si lascia incantare dalle sirene, né frustrare
da complessi di inferiorità.
7.1. Insufficienza del metodo applicativo
Massicciamente
rappresentato nella manualistica e nella storia della disciplina, gode oggi di
poco credito a livello scientifico. Ma è tutt' altro che tramontato; anzi è
certamente ancora diffuso.
L'impianto
del metodo è lineare: dalla identificazione-elaborazione dei principi inerenti
l'azione pastorale per lo più ristretta all'ambito clericale) alla puntuale ed
efficace applicazione alla prassi pastorale medesima: «Descrivendo inoltre le
caratteristiche della teologia pastorale come scienza (e sapienza, secondo la concezione che San Tommaso ha della
teologia in generale), e come scienza
pratica (o per meglio dire, speculativo-pratica), che si potrebbe dire
"scienza dell'azione pastorale”, "scienza dell'apostolato", o
anche "teologia dell'azione", "teologia applicata e direttiva
dell'azione", ma ancora e sempre teologia scientifica, che abbraccia: a)
alcuni principi; che essa investiga per averne luce in ordine all'azione; b) le
deduzioni teologiche di questi
principi in ordine alla direzione delle attività dei pastori d'anime
nell'attuazione della loro missione nell'economia della salvezza».
In
questa concezione, la teologia pastorale viene riassorbita nella ecclesiologia.
Non scade nel solito empirismo prassistico, ma paga questa sua nobilitazione
teologica e scientifica con la restrizione all'ambito dei principi, da cui si
deducono - e bene sottolinearlo - non progetti, né, tantomeno, programmi
operativi, ma soltanto direttive.
Anche
prescindendo dal più generale e vasto problema della qualificazione scientifica
propria della teologia, lo schema deduttivistico presenta le seguenti gravi
insufficienze:
- suppone una: possibilità di
formulazione dei principi, astraendo dalla realtà concreta del vissuto cristiano;
- non coglie il coefficiente di
teoria insito nella prassi corrente = e non e in grado di smascherane gli
«interessi» latenti;
- non valorizza la prassi in sede-di
valutazione degli esiti e di verifica della bontà della teoria medesima.
Non
migliore è quel « criptodeduttivismo» che si fornisce di una pletora di
strumenti tecnici aggiornatissimi è si correda di rilevamenti statistici d'ogni
genere, rimanendo però incapace di far interagire questi dati ed elementi
(spesso raccolti e utilizzati, tra l'altro, senza preparazione e con
avventurismo dilettantistico) con il patrimonio dottrinale: l'analisi della
situazione non deve risolversi in un elenco delle cose che vanno o
rispettivamente non vanno nella realtà effettiva, per poi tornare ai principi
generalissimi della dottrina cristiana che sola sarebbe capace di tracciare
l'immagine completa dell'ideale. Il procedimento metodologico della teologia
pastorale, volto a illuminare (valutare e orientare) la prassi pastorale è,
nell'insieme, ben più complesso. Né vale, a favore della impostazione
deduttivistica, l'argomento che questo è il modo prevalente di procedere dei
documenti, magisteriali. La esprime con chiarezza la Octogesima adveniens: «Davanti a tante nuove questioni, la chiesa
fa uno sforzo di riflessione per rispondere, nell'ambito che le è proprio,
all'attesa degli uomini. Se oggi i problemi appaiono inediti per la loro
ampiezza, e per la loro. urgenza, è forse l'uomo incapace di risolverli? Con
tutta la sua dinamica l'insegnamento sociale della chiesa accompagna gli uomini
nella loro ricerca. Se esso non interviene per autenticare una data struttura o
per proporre un modello prefabbricato, non si limita neppure a richiamare
alcuni principi generali: esso si sviluppa attraverso una situazione condotta a
contatto delle situazioni mutevoli di questo mondo, sotto l'impulso del vangelo
come fonte di rinnovamento, allorché si accetta il suo messaggio nella sua
totalità e nelle sue esigenze. Si sviluppa altresì mediante la sensibilità
propria della chiesa, sensibilità rafforzata da una volontà disinteressata di
servizio e dall'attenzione ai più poveri. Attinge infine ad una ricca
esperienza secolare che gli permette di assumere, nella. continuità delle sue
preoccupazioni permanenti, l'innovazione ardita e creatrice, richiesta dalla
presente situazione del mondo».
7.2. Paralogismo
dell’approccio induttivo
Il
riferimento alla via induttiva è tanto frequente, quanto confuso e disseminato
di imprecisioni, prima ancora che il vaglio critico lo dichiari costitutivamente
impercorribile.
È possibile rilevare due errori:
1. Si confonde induttivo con esperienziale:
l'esigenza - innegabile - del riferimento alla realtà non deve essere confusa
con il modo - l'approccio gnoseologico - con cui la realtà stessa viene
indagata e conosciuta: per comprendere la situazione si danno altre modalità,
di orizzonte ermeneutico-pratico, senz'altro più adeguate.
2. I "segni dei tempi" sono una
categoria propria e specifica dell'analisi teologica, non di una supposta
neutrale investigazione sociologica: sono "segni dei tempi" in
quanto colti alla luce del Vangelo, non da rapportare al Vangelo solo in un
secondo momento. Naturalmente ciò non dimentica la distinzione tra ricognizione
e approfondimento critico: ma sostiene che entrambi tali momenti hanno - cioè
possono legittimamente avere sotto il profilo epistemico e devono
necessariamente avere sotto il profilo teologico pratico - vera e propria
qualità teologica, essere cioè posti nell'orizzonte della fede conosciuta e
vissuta.
La qualità induttiva è spesso riconosciuta al metodo
"vedere giudica agire", a torto, come si vedrà in dettaglio: se la
prospettiva teologica non è coestesa originariamente, introdurla
successivamente sarà sempre un posticcio (e un pasticcio). Ancor più fuorviante
è ricondurre tale impostazione al ConcilioVaticano II.
Propriamente
il metodo induttivo non esiste.
Autorevole
e significativo, a questo proposito, il parere di A. Einstein, espresso in un
breve articolo apparso il 25 dicembre del 1919 sul «Berliner Tageblatt», con
titolo Induktion und Deduktion in der Physik. Eccolo integralmente.
«L’immagine
più semplice che ci si può formare dell'origine di una scienza empirica (Erfahrungswissenschaft)
è quella che si basa sul metodo induttivo. Fatti singoli vengono scelti e
raggruppati in modo da lasciare emergere con chiarezza la relazione legiforme
che li connette. Tramite il raggruppamento di queste regolarità è possibile
conseguire ulteriormente regolarità più generali, fino a configurare - in
considerazione dell'insieme disponibile dei singoli fatti - un insieme più o
meno unitario, tale che la mente che guarda le cose a partire dalle
generalizzazioni raggiunte per ultimo potrebbe, a ritroso, per via puramente
logica, pervenire di nuovo ai singoli fatti particolari. Un pur rapido sguardo
allo sviluppo effettivo della scienza mostra che i grandi progressi della
conoscenza scientifica solo in piccola parte si sono avuti in questo modo.
Infatti, se il ricercatore si avvicinasse alle cose senza una qualche idea (Meinung)
preconcetta, come potrebbe egli mai afferrare dal mezzo di una enorme
quantità della più complicata esperienza fatti i quali sono semplicemente
sufficienti a rendere palesi relazioni legiformi? Galilei non avrebbe mai
potuto trovare la legge della caduta libera dei gravi senza l'idea preconcetta
stando alla quale, sebbene i rapporti che noi di fatto troviamo siano
complicati dall'azione della resistenza dell'aria, nondimeno noi consideriamo
cadute di gravi nelle quali tale resistenza gioca un ruolo sostanzialmente
nullo. I progressi veramente grandi della conoscenza della natura si sono avuti
seguendo una via quasi diametralmente opposta a quella dell'induzione. Una
concezione (Erfassung) intuitiva dell'essenziale di un grosso complesso
di cose porta il ricercatore alla proposta (Aufrtellung) di un principio
(Grundlage) ipotetico o di più principi di tal genere. Dal principio
(sistema di assiomi) egli deduce per via puramente logico-deduttiva le
conseguenze in maniera più completa possibile. Queste conseguenze estraibili
dal principio, spesso tramite sviluppi e calcoli noiosi, vengono poi messe a
confronto con l'esperienza e forniscono così un criterio per la giustificazione
(Berechtrgung) del principio ammesso. Il principio (assiomi) e le
conseguenze formano insieme quella che si dice una 'teoria'. Ogni persona colta
sa che i più grandi progressi della conoscenza della natura - per esempio, la
teoria della gravitazione di Newton, la termodinamica, la teoria cinetica dei
gas, l'elettrodinamica moderna ecc. - hanno tutti avuto origine per questa via,
e che il loro fondamento è di natura ipotetica. Il ricercatore parte dunque
sempre dai fatti, il cui nesso costituisce lo scopo dei suoi sforzi. Ma egli,
tuttavia, si avvicina ai fatti tramite una scelta intuitiva tra teorie
pensabili basate su assiomi.
Una
teoria può ben venir riconosciuta come sbagliata, qualora ci sia un errore
logico nelle sue deduzioni o può venir riconosciuta come inadeguata (unzutreffende)
allorché un fatto non si accorda con una delle sue conseguenze. Ma mai può
venir dimostrata la verità di una teoria. E ciò perché mai si sa se anche nel
futuro non si scoprirà nessuna esperienza che contraddica le sue conseguenze;
e sono sempre pensabili altri sistemi di pensiero, in grado di connettere gli
stessi fatti dati. Se sono a disposizione due teorie, entrambe compatibili con
il materiale fattuale dato, allora non esiste nessun altro criterio per
preferire l'una all'altra fuorché lo sguardo intuitivo del ricercatore. E così
che si capisce come acuti ricercatori i quali dominano teorie o fatti possano
tuttavia essere appassionati sostenitori di teorie opposte.
In
questa agitata epoca io sottopongo al lettore le presenti brevi, oggettive
considerazioni, giacché io sono dell'avviso che per mezzo della silenziosa
dedizione a scopi eterni, comuni a tutte le culture umane, si può oggi essere
più attivamente utili al risanamento politico che attraverso le trattazioni e
le professioni politiche»[41].
La
critica più efficace e nota venne però da K. Popper, non a torto definito
«l'opposizione ufficiale» al circolo di Vienna. Popper vede in maniera nuova il
rapporto tra esperienza e conoscenza. Alla prima non dà il compito di
attribuire senso alle asserzioni, e neppure di verificarle: essa non può
mostrare la verità di proposizioni universali (filosofiche o scientifiche) dato
il suo costitutivo carattere di particolarità. L'ambito del senso trascende
l'esperienza e anche la stessa scientificità. Né si può far valere a questo
scopo il metodo induttivo, per il semplice motivo che l'induzione, come metodo
scientifico, non esiste: «non c'è induzione, perché le teorie universali non
sono mai deducibili da asserzioni singolari, da descrizioni di fatti
osservabili»[42].
Il che equivale a dire che la validità delle teorie universali non può essere
giustificata mediante la verifica esperienziale. E’ morta dunque ogni
possibilità di conoscenza scientifica, oltre che filosofica e teologica? Per
Popper morto è unicamente il positivismo logico[43]. Se infatti non ci
è dato sapere in modo definitivo, attraverso la verificazione, se una teoria
scientifica è vera, possiamo però sapere con certezza quando essa è falsa.
Mentre il verificazionismo neo-positivista si rivela alla prova dei fatti
inficiato dello stesso mitologismo che intendeva combattere, il criterio di
falsificabilità si pone come il più adatto a saggiare la scientificità delle
teorie. Ciò, non conduce certo, secondo Popper, a un criterio generale di
verità[44],
ma neppure a un totale spaesamento conoscitivo. Lo scienziato procede per
congetture e confutazioni (trial and error), in un perenne avvicendarsi
di proposta di teorie e di loro confutazione, allo scopo di sostituirle con
altre, non più vere in assoluto, ma provvisoriamente più adatte a spiegare la realtà.
Secondo Popper quindi la razionalità non consiste nell'adeguazione della verità
come per la metafisica, né nella delimitazione delle proposizioni sensate
rispetto a quelle insensate come per il positivismo logico, ma nella capacità
incessante di superarle sottoponendole a vaglio critico: «critico è il miglior
sinonimo di razionale»73
Per
quanto concerne la critica alla impostazione induttiva del metodo, Popper
ricorda che aver visto sempre dei cigni bianchi ci farà prevedere di vederne
sempre di bianchi, ma ciò non esclude l'esistenza di quelli neri.
Nella
Logica della scoperta scientifica (1° edizione 1934), egli afferma
risolutamente: «L'induzione non esiste, e la concezione opposta è un errore
bell'e buono». L'induzione si intende in due modi: induzione per enumerazione o
ripetitiva ed induzione per eliminazione. La prima richiama l'esempio dei
cigni, sopra ricordato. La seconda - induzione per eliminazione o confutazione
delle teorie false - risale a Bacone e Stuart Mill, i quali ritenevano che,
eliminando tutte le teorie false, si potesse determinare la teoria vera. Ma non
consideravano che il numero delle teorie rivali è infinito e, inoltre, anche
una teoria vera può venire in seguito falsificata, perlomeno nel senso di un
suo superamento (come nel caso della geometria euclidea).
Di
conseguenza è un errore pensare che la scienza empirica proceda con metodi
induttivi. Secondo Popper, dunque, da un punto di vista logico, è tutt'altro
che ovvio che si sia giustificati nell'inferire asserzioni universali da
asserzioni singolari, per quanto numerose siano queste ultime; infatti
qualsiasi conclusione tratta in questo modo può sempre rivelarsi falsa (si
ricordi l'esempio dei cigni).
Popper
contesta anche la posizione - da noi già esaminata - secondo cui la mente del
ricercatore dovrebbe essere priva di presupposti, di ipotesi, di interessi;
quasi tabula rasa atta a rispecchiare la realtà. Questo approccio, che
Popper chiama "osservativismo" è un mito: la nostra mente è una tabula
piena dei segni che la storia e la cultura vi hanno lasciato. Inoltre, è
sempre orientata da aspettative e precomprensioni teoriche: ipotesi, congetture
idee o teorie..., anche se spesso non ne siamo consapevoli. La mente che ne
fosse priva, non sarebbe una mente pura, ma una mente vuota.
La
ricerca, osserva acutamente Popper, non parte da osservazioni ma da problemi,
teorici o pratici, che chiedono soluzioni. E per prospettare soluzioni è
necessaria l'immaginazione creatrice, capace di formulare ipotesi e congetture.
Il rigore metodologico è necessario alla ricerca e alla giustificazione della
scoperta, ma non è sufficiente alla scoperta medesima (si pensi alla
celeberrima "serendipità"): una cosa è la genesi delle idee; un'altra
è la loro prova.
Per
questo ogni teoria che voglia dignità scientifica deve essere falsificabile
sperimentalmente: scientifica, in questo caso, mai però definitiva, in quanto
sempre aperta ad essere rivista, integrata o confutata.
7.3.
Meriti e limiti di un metodo diffuso (vedere/giudicare/agire)
Messa
in onore dalla JOC. del card. Cardijn e ripresa, in Italia, dalla produzione
catechistica della Azione Cattolica, questa metodologia ha costituito per anni
il fronte più avanzato della pastorale.
Nonostante
i suoi meriti storici, questo metodo deve essere giudicato insoddisfacente per
i seguenti motivi:
1.
Il metodo separa nettamente il vedere (affidato di solito alla sociologia) dal
giudicare (demandato alla teologia, intesa come dogmatica). Ma in verità non
si dà né si può dare un 'vedere' che si ponga sul piano meramente descrittivo e
non implichi, invece, fin dall'inizio, una precisa prospettiva di lettura
(precomprensione/interesse) e una, almeno iniziale (anche se magari
inconscia), attivazione di criteri interpretativi. Questa aporia (illusione
positivistica o 'neorealistica') è tanto più insidiosa quando affida alla
sociologia (erroneamente supposta obiettiva e 'innocente') il compito di fotografare
e dire la realtà: non esiste sociologia neutrale e univoca, ma le sociologie;
anzi, i sociologi, nella loro diversificazione spesso assai marcata.
2. La pretesa di neutralità conduce
di fatto a una posizione inconsciamente ideologica. Si propone infatti come
dato ciò che in realtà è l'esito di una lettura del dato. Che va sempre compresa
correlando il risultato con il quesito che è stato posto: la risposta contiene
in qualche modo la domanda, che la orienta. Inevitabilmente! Ideologia,
perciò, in quanto si dà valore di dato al vedere, come se non si trattasse,
piuttosto e inevitabilmente, di una visone e interpretazione del dato, da
vagliare criticamente. La validità scientifica non è data dall'assenza
(impossibile) di presupposti, ma dalla capacità autocritica di essi.
3. Tale metodo si rivela pertanto
impraticabile. Se si procede correttamente, il riferimento metodologico risulta
solo nominale. Si veda, ad esempio, la lettera pastorale di C. M. Martini sul
comunicare[45].
Benché scandita - dopo una premessa e una introduzione - secondo il classico
trinomio, essa presenta fin dalle prime battute elementi espliciti di
interrogazione critica e di interpretazione: siamo di fronte a un modo di
procedere corretto, ma con un riferimento improprio al metodo
vedere/giudicare/agire). Se invece si segue il metodo, si cade inesorabilmente
in una insuperabile aporia.
4. Le fasi di progettazione e di
attuazione, ristrette nella sola indicazione 'agire', non vengono svolte, in
questa impostazione di metodo, nella loro specificità e nelle necessarie
articolazioni. Le determinazioni concrete dell'azione, infatti, vengono
ricondotte all'ambito applicativo e ascritte alle discipline pratiche (di fatto
alle scienze umane, compresse in una visione subalterna, neutrale e applicativa).
In realtà, rischiano così di essere assorbite o nella (presunta) neutralità del
vedere (come in alcune forme della teologia della liberazione, dove il
"vedere" comanda di fatto la determinazione dell'agire: il
riferimento biblico è selettivo e succedaneo), o nella (impropria) ideologia
del giudicare (come nelle applicazioni che si pretendono comandate dal dato
dogmatico, o presunto tale: come accade molto di frequente in ambito
pastorale, dove le decisioni vengono fatte abusivamente risalire al vincolo
dogmatico).
5. Questo metodo viene spesso
presentato come induttivo, ma è, in realtà, criptodeduttivo. Infatti, rovescia
(ma non corregge) la pretesa del metodo deduttivo: l'aspetto normativo non è
influenzato minimamente dal vedere, ma viene totalmente svolto nell'ambito del
giudicare, ritenuto appannaggio della teologia speculativa: si decide, cioè
fuori e indipendentemente dal riferimento alla situazione, che verrà ripreso
solo come contesto applicativo.
6. Così, ad esempio, della catechesi
la dogmatica (teologia!) valuterà la dottrina, mentre la metodologia
(pedagogia) si occuperà delle prassi. Non ci si avvede della indissolubile
interdipendenza dell'ambito metodologico e contenutistico. Se così non fosse,
perché il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica? Non bastava l'ottimo Catechismus
ad parochos, magari aggiornato linguisticamente e stilisticamente?
Evidentemente il linguaggio non è mero rivestimento, ma forma di comprensione
del contenuto, che ne viene rimodellato, cioè riprodotto. Si finisce inoltre
per attribuire a una attività umana (la teologia speculativa lo è indubitabilmente)
una valenza e una, per così dire, trascendenza, che compete solo alla fede.
Come ricorda Jean Ladrière, «non c'è dunque da una parte un fatto e dall'altra
una interpretazione, ma c è un atto di interpretazione che viene continuamente
ripreso e ri-assunto nella sua intenzionalità originaria e attraverso il quale
la realtà attestata è resa presente»[46].
7. Il riferimento (esplicito o implicito)
al metodo vedere/giudicare/ agire produce frequentemente una netta scollatura
tra la fase analitica e quella progettuale propriamente detta: l'analisi e
valutazione (quando c'è) della situazione, infatti, non influisce sulla determinazione
degli obiettivi e delle scelte, che sono rivenute (o così si dichiara e si
crede) nell'ambito della fede in forma pre-scritta e indipendente dal contesto
(mentre, in realtà, la fede determina i principi; i criteri, come sopra
indicato, si elaborano teologicamente secondo il metodo del discernimento
pastorale, e cioè in circolarità asimmetrica). Raramente si determinano le
priorità pastorali attraverso una valutazione situata, ben connessa, cioè,
alla situazione: la pastorale è chiamata a decidere che cosa è più importante e
urgente non in sé, ma in relazione alle esigenze reali di quella comunità o di
quella persona: mettendo quindi in relazione di reciprocità i principi e i
valori assoluti con la situazione sul campo (p. e., gli argomenti da proporre
nella catechesi, la loro sequenza, il loro spazio non può essere determinato
deduttivamente, come 'calco' dai manuali dottrinali, né per semplice
adattamento didattico, ma solo attraverso una programmazione pedagogica che
coniughi sapientemente le diverse esigenze in gioco, senza mai piegare o
ridurre l'una all'altra). Così è pastoralmente del tutto improprio (e spesso errato)
parlare di "primati": ciascuno ha i suoi (liturgia o catechesi;
adulti o giovani; carità o annuncio...), con relative, inutili diatribe. Ne
viene una progettazione mutila o, per converso, astratta, che si mantiene sulle
generali, sia perché non entra nei problemi e nelle questioni reali (così non
si scontenta nessuno: chi non è d'accordo sulla solidarietà, la pace, la
vita... come valori da proporre e difendere?), sia perché si estende a
dismisura (così si accontentano tutti: si amplia a dismisura il
ventaglio delle problematiche e delle connessioni pastorali, in modo che
nessuno si senta escluso dal progetto). Qui la ricerca di criteri operativi
fondati, certo non facile, è perlopiù demandata a evocazioni di prammatica, che
lasciano il tempo che trovano. E, naturalmente, nessuna verifica, che metterebbe
a nudo l'inconsistenza dell'insieme.
8. Un'altra insidia si annida nel
modo di porre le domande. Bisogna guardarsi dal porre domande tautologiche
(sono quelle che vengono formulate per confermare considerazioni
pre-giudiziali, quelle di cui si conosce in anticipo la risposta); così come,
nel caso di un risultato inatteso (e non gradito), di mettere sotto accusa il
metodo anziché sottoporre a verifica critica i propri pregiudizi.
7.4. Una
proposta
1. Le caratteristiche costitutive del pensiero
teologico-pastorale (dimensioni)
Il
trinomio vedere giudicare agire individua in realtà non la scansione
sequenziale, ma la costituzione stessa del pensare la pastorale. Si tratta cioè
di componenti costitutive (dimensioni), che qualificano il pensiero
teologico-pratico in ogni sua fase o momento.
Queste
tre dimensioni, inoltre, si richiamano costantemente e, per così dire, si
coappartengono: per esempio, la dimensione kairologica, che indica la relazione
costitutiva del pensiero teologico-pastorale con la situazione intesa
teologicamente (kairos), si pone nella forma del discernimento evangelico, che
implica una prospettiva e una criteriologia precise; d'altro canto, l'approccio
alla realtà tipico del pensiero teologico-pastorale è sempre connotato dalla
sua inflessione prassica, e rinvia quindi costantemente alla dimensione
operativa, che in qualche modo già comprende. Si tratta di «cogliere le realtà
spirituali a partire dalle realtà corporee e temporali»[47].
Dal presupposto che Dio è presente nel cuore dell'uomo, dell'umanità e della
storia, scaturisce «un metodo di ricerca secondo cui non si deve mai separare
teoria e prassi, sapienza interiore e vita interiore»[48].
2. Le articolazioni del metodo
Quella
che qui viene sinteticamente delineato è una schematizzazione formale. Indica
il tragitto metodologico della disciplina, e vale analogamente come approccio
corretto nella prassi pastorale.
scheda di sintesi
Fasi (sequenziali)
analisi
e valutazione
decisione
e progettazione
attuazione e verifica
|
Dimensioni (costitutive)
kairologica
criteriologica
operativa
|
·
Le
dimensioni sono presenti in tutte le fasi dell'itinerario. Esempio: analisi e
valutazione della catechesi in parrocchia. Tale processo (1. fase) comporta non
solo la dimensione kairologica, ma, necessariamente e fin dall'inizio,
l'attivazione di criteri di lettura della realtà idonei, cioè
teologico-pastorali (non solo, quindi, l'ortodossia, ma anche la concreta
efficacia pratica): perciò una dimensione criteriologica con chiara attenzione
alla dimensione operativa, verso cui, tra l'altro, la fase di valutazione è
ovviamente orientata.
·
La
scansione presentata non deve essere irrigidita nella sua schematicità. Si deve
tener presente quanto segue:
- la compresenza delle tre
componenti costitutive delle riflessione teologico-pastorale in ogni momento
dell'itinerario metodologico non esclude - anzi comporta - un bilanciamento
differenziato secondo le diverse fasi (es: nella prima fase prevale la
dimensione kairologica...);
- in concreto, tra la fase analitico-valutativa
e quella progettuale si deve prevedere una sorta di "pausa di
riflessione": un approfondimento, cioè, degli aspetti propriamente
criteriologici (e pur sempre in prospettiva kairologica e operativa); ciò
consente - in adeguata circolarità ermeneutica - di ritornare, da un lato,
sulla lettura della situazione per approfondirne la comprensione e valutazione,
e di introdursi competentemente, dall'altro, alla fase di elaborazione
progettuale.
- Secondo la prospettiva
epistemologica adottata, l'elaborazione criteriologica avviene in forma
squisitamente interdisciplinare: nella specifica collocazione
teologico-pratica, in forza del principio di incarnazione, tale correlazione
disciplinare assume la figura della reciprocità dialettica asimmetrica (primato
della fede, ma non mera ancillarità delle scienza umane).
Il
discernimento come qualità e "cuore" del metodo
Le
Scritture attestano largamente l'esigenza di cogliere, nello Spirito,
l'indicazione per la vita della comunità. Non mancano. poi, anche le referenze
esplicite, come 1 Ts 5,12; Rm 12,2; Lc 12,56; 1 Gv 4,1. La consonanza con le
prime comunità cristiane dice che l'esigenza del discernimento si fa pressante,
in specie a livello di prassi collettiva, soprattutto quando gli schemi e i
modelli del passato si mostrano inadeguati e carenti. Così, documenti
dell'Episcopato italiano evidenziano l'urgente necessità del discernimento di
fronte alla sindrome di estraneità da cui è affetta la visione cristiana della
vita: «Il rimedio è appunto il discernimento...»[49]; o ancora, dopo
aver esposto la situazione della chiesa in Italia: «Quanto si è esposto fin qui
mostra l'urgenza di un discernimento spirituale e pastorale relativo ai fatti
di civiltà e di Chiesa e al rapporto tra Chiesa e universo civile entro il
quale essa è via via chiamata a realizzare il proprio compito»[50].
Quanto da sempre la spiritualità cristiana raccomanda sul piano delle scelte
personali viene ora tematizzato come compito essenziale sul piano delle scelte
operative e comunitarie, come configurazione interna alla comunità cristiana[51]
e come sua espressione sul fronte della civiltà e della storia. Si tratta
dunque, come sarà meglio motivato in seguito, di una questione propriamente
teologico-pastorale e, segnatamente, in dimensione kairologica.
a. nozione di discernimento
Sull'urgenza
e la necessità l'accordo è presto fatto, «ma che cosa vuol dire fare un
discernimento? Significa rendersi sensibili all'azione dello Spirito nella
comunità degli uomini d'oggi, per favorire quelle realtà e processi che,
appaiono mossi dallo Spirito di Dio, e per smascherare e contrastare quelle
realtà e processi culturali che appaiono contrari allo spirito evangelico»[52].
L'orientazione propria del discernere è dunque quella della prassi. Non si
limita a interpretare e valutare; tantomeno pensa di poter esibire una
interpretazione prefabbricata da usare quale pietra di paragone, ma comprende
nell'azione e agisce nella comprensione. La storicità dell'uomo e della rivelazione
divina, la libertà sovrana dello Spirito, che si fa presente e attivo nella
singolarità concreta della vicenda umana, impediscono di intendere il
discernimento come applicazione di formulazioni generali a casi particolari. Il
giudizio pastorale di fede emerge da una articolazione più complessa (non
complicata) in cui il kairòs del momento irripetibile e la costanza dell'amore
fedele del Dio che salva si incontrano in una creatività che rimane se stessa
pur essendo sempre nuova. Ha senz'altro ragione B. Seveso quando scrive che «il
discernimento ecclesiale non è esaurito nella riflessione teologica, ma è
coesteso all'agire ecclesiale in tutta la sua ampiezza. La teologia pastorale,
quindi, se vuoi mantenere la propria figura, deve istituire processi di comunicazione
con il discernimento in atto nella realtà ecclesiale»[53].
Si tratta dunque di una tematica specificamente teologico-pastorale...
Oltre a
questo riferimento strutturale alla prassi, ce n'è anche uno più immediatamente
e concretamente percepibile. Il discernere è volto al fare, a decidere: «non si
fanno oggetto di discernimento affermazioni dottrinali e neppure questioni
etiche di principio... un atto di discernimento non è mai una disquisizione
accademica che conclude con la vittoria di una parte sull'altra; esso è invece
una scelta pratica, motivata dalla fede, su una questione concreta e la cui
soluzione comporta per tutti una seria conversione al vangelo»[54].
Questo costitutivo riferimento alla
prassi non deve essere inteso nel senso dell'homo faber, ma nel senso dell'agire responsabile, che trova la sua
forma più alta nelle scelte di vita (opzione fondamentale)...
Per questo il discernimento primo e
originario è legato alla dinamica propria dell'atto di fede: è una lettura cristologica della realtà, sotto l'influsso dello Spirito, perché,
"strettamente congiunti nell'amore", possiamo acquistare "in
tutta la sua ricchezza la piena intelligenza", e giungere a
"penetrare nella perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo, nel
quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza" (Col
2,2-3). Consiste cioè nella capacità di riconoscere nel figlio del carpentiere
il Messia promesso (cf Mc 6,3), nel Crocifisso il Figlio di Dio (Mc 14,27.29:
l'evangelista sottolinea: «vistolo spirare in quel modo», cioè nella maniera
più antieroica, «dando un forte grido»). Paolo ne è ben consapevole, quando
richiama i cristiani di Corinto alla sapienza della croce, «scandalo per i
Giudei, stoltezza per i pagani» (I Cor 1,23), una sapienza «che non è di questo
mondo» (1Cor 2,6). Analogamente in Luca (12,54-56) oggetto del discernere è «questo tempo» (kairòs: non il tempo
atmosferico o cronologico, ma il tempo della salvezza e della decisione), cioè
il tempo che è costituito dall'evento Gesù. Questo discernimento fondamentale
ha carattere di imprescindibilità: senza di esso, che fornisce il quadro di
riferimento e, per così dire, la pietra di paragone, ogni altra forma del
discernere cadrebbe inesorabilmente nella contraffazione di un giudizio
prudenziale, magari apprezzabile, ma non per ciò stesso cristiano, e sempre
esposto al rischio (che l'esperienza dimostra tutt'altro che teorico) di
scadere negli equilibrismi della composizione di facciata e dell'artificio
diplomatico.
Il
discernimento appare così, fin dall'inizio, strappato all'equivoco di una
interpretazione sbiadita e ristretta, che lo accomuna alla umana prudenza o,
ancora più in basso, al buon senso comune. Senza nulla togliere alla capacità
umana (ma pur sempre avvertendone la pericolosa mescolanza di positività e
negatività) Paolo afferma chiaramente la natura carismatica del discernimento,
la sua specificità cristiana di dono dello Spirito. Per questo il
«discernimento degli spiriti» (1 Cor 12,10), la capacità cioè di individuare i
carismi autentici e di non lasciarsi abbagliare dal luccichio delle
manifestazioni straordinarie, e annoverato dall'Apostolo tra i doni dello
Spirito.
Il
discernimento è via spirituale, personale e comunitaria, per riconoscere,
accogliere e mettere in pratica la volontà di Dio. Questo discernimento manifesta
sul piano della vita e dell'azione della comunità cristiana la sapienza della
croce, «scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1Cor 1,23), una
sapienza «che non è di questo mondo» (1Cor 2,6). Consiste cioè nella capacità -
che è dono dello Spirito (cf 1Cor 12,3.10) - di riconoscere nel figlio del
carpentiere il Messia promesso (cf. Mc 6,3), nel Crocifisso il Figlio di Dio
(Mc 14,27.29). Questa pregnanza cristologica ha carattere di imprescindibilità:
senza di essa ogni forma del discernere scadrebbe nella figura inadeguata del
giudizio prudenziale umano, in sé certo apprezzabile, ma non per ciò stesso
cristiano, e sempre esposto al rischio (che l'esperienza, dimostra tutt'altro
che teorico) di scadere negli equilibrismi del compromesso e dell'artificio
diplomatico. Il discernimento, dunque, non è soltanto opera di umana prudenza o
di comune buon senso. E' atto teologale. Riconoscere le vie di Dio esige non
solo l'impegno intenso della ricerca, ma - come ricorda magistralmente S.
Tommaso - la disponibilità ad accogliere la illuminazione dello Spirito «che
eleva la mente a intendere le cose che l'intelletto non può cogliere con la sua
luce naturale».
L'origine e
la qualità carismatica del discernimento non diminuisce, ma qualifica ed esalta
l'impegno sul piano umano: non si dà discernimento senza un tirocinio diligente
e costante, senza la coltivazione attenta e il progressivo sviluppo degli
atteggiamenti e dei requisiti adeguati, che non si possono considerare in alcun
modo scontati nè mai definitivamente acquisiti: «E' più che mai necessario,
dunque, educarsi ai principi e ai metodi di un discernimento non solo
personale, ma anche comunitario» (Giovanni Paolo II).
Posto in ascolto dello Spirito, il
discernimento richiede e alimenta una autentica povertà di spirito: non presume
di conoscere in anticipo problemi e soluzioni; si esercita nella lettura dei
segni dei tempi, per cogliere in essi la libertà dello Spirito.
Il discernimento non è mera
applicazione di formulazioni generali a casi particolari, ma comprende
nell'azione e agisce nella comprensione; non si limita a interpretare e
valutare a livello diagnostico, ma è coesteso all'agire ecclesiale in tutta la
sua ampiezza. E' volto alla decisione e all'azione: una scelta pratica,
motivata dalla fede, su una questione concreta e la cui soluzione comporta una
seria conversione: «il bilancio di un cammino, per una ulteriore e ricca tappa
di crescita nella comunione ecclesiale e nel rinnovamento pastorale».
Benché la verifica
pastorale non si irrigidisca in figure di tipo tecnico-procedurale, ma sia
intesa piuttosto come momento di discernimento comunitario, è atto pastorale
esigente e metodico e non deve scadere nella raccolta estemporanea di
impressioni soggettive, affidate alla schermaglia dialettica.
Il
discernimento, infatti, nella sua peculiarità non riconducibile a sole pratiche
di tecnologia sociometrica o simili, non manca tuttavia di precise 'regole di
esecuzione', che devono essere conosciute e seguite, per non attribuire allo
Spirito inclinazioni e impressioni del tutto soggettive.
b.
Requisiti e atteggiamenti del discernere
La verifica
di discernimento esige un atteggiamento di costante ricerca e fedeltà alla
volontà di Dio.
Il
quadro di riferimento è dato dalla ecclesiologia di comunione: una chiesa che
si comprende e agisce comunità di comunicazione e intesa, che articola funzioni
e partecipazioni seconda una dinamica di scambio pluriforme e di tipo sinodale:
il discernimento, come la missione, «non è opera di navigatori solitari»[55].
In questo orizzonte si leggono emerge il profilo interiore del discernimento
comunitario: «Come espressione dinamica della comunione ecclesiale e metodo di
formazione spirituale, di lettura della storia e di progettazione pastorale, a
Palermo è stato fortemente raccomandato il discernimento
comunitario. Perché esso sia autentico, deve comprendere i seguenti
elementi: docilità allo Spirito e umile ricerca della volontà di Dio; ascolto
fedele della Parola; interpretazione dei segni dei tempi alla luce del Vangelo;
valorizzazione dei carismi nel dialogo fraterno; creatività spirituale,
missionaria, culturale e sociale; obbedienza ai Pastori, cui spetta
disciplinare la ricerca e dare l'approvazione definitiva. Così inteso, il
discernimento comunitario diventa una scuola di vita cristiana, una via per
sviluppare l'amore reciproco, la corresponsabilità, l'inserimento nel mondo a
cominciare dal proprio territorio. Edifica la Chiesa come comunità di fratelli
e di sorelle, di pari dignità, ma con doni e compiti diversi, plasmandone una
figura, che senza deviare in impropri democraticismi e sociologismi, risulta
credibile nella odierna società democratica»[56].
Il primo
tratto risponde alla convinzione che discernere è atto teologale, attivazione
di un dono dello Spirito. Esige quindi il profondo rinnovamento interiore, la
conversione: «non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma
trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di
Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto» (Rm 12,2). Rinnovamento della
mente che non è fatto solo intellettuale, ma globale, e coinvolge il rapporto
con Dio e tutta la prassi della vita cristiana. Alla radice, l'atteggiamento di
disponibilità radicale che contraddistingue la sequela di Gesù. Ciò non avviene
senza una forte caratura spirituale, senza la coltivazione della dimensione
contemplativa della vita.
Ne consegue
l'esigenza di una solida maturità
sapienziale.
Ciò
significa anzitutto quella condizione psicologico-spirituale che è propria
delle persone dal saldo orientamento di vita. Che non si sottraggono alla
osservazione faticosa delle dinamiche della propria interiorità, così da
riconoscere le ansie e le incertezze, le tensioni e le conflittualità; e da
aprirsi all'attenzione e all'ascolto dell'altro.
Implica poi la preparazione umile e
paziente, il non affidarsi superficiale al proprio fiuto, all'abilità
dialettica, o anche alla sola competenza tecnico-professionale. Discernimento è
un'operazione morale prima che intellettuale, che esige trasparenza e libertà
interiore. E' trasparente, sia nella sua esecuzione come nelle sue motivazioni.
Sono gli atteggiamenti tipici della ricerca della volontà di Dio, cui si
oppongono le difficoltà inevitabili - ma superabili - nell'ambito della fiducia
reciproca, della capacità di condivisione, di relazione, di comunicazione.
Discernere
è separare, distinguere; prendere posizione, schierarsi. Gesù è la pietra
fondamentale o la pietra d'inciampo, non un sasso qualsiasi. Ma ciò non comporta
l'erigersi a giudice assoluto. Nessuno
possiede il discernimento, che è dono dello Spirito. E il non accaparramento
del discernere significa, in concreto, atteggiamento di apertura e di
accoglienza. Fare spazio, dunque e non guardare subito con infastidita
sospettosità. Significa pazienza. Fino al punto, apparentemente paradossale,
che vede il corretto esercizio del discernimento proprio nel non discernere (cf
Rm 14,1 ss.). Il confine tra discernimento e divisione è sottile, basta un
nulla per oltrepassarlo: «Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza
discuterne le esitazioni» (Rm 14,1). Il discernimento è anche discrezione
Un
atto di discernimento mai si conclude con la vittoria di una parte sull'altro
posto, invece, nella logica evangelica dei servi 'inutili' (cf Lc 17,10).
Tra i
requisiti c'è senza dubbio quello della competenza. La forza dello Spirito non
può essere alibi alla negligente pigrizia. E' necessaria dunque una 'adeguata
competenza teologica, resa più urgente dalla complessità della situazione
attuale. E, insieme, la capacità di avvalersi di «appropriati strumenti
culturali» perché la carità sia resa «capace di vagliare criticamente il senso
degli eventi civili e dei fatti di Chiesa alla luce della contemplazione del
disegno di Dio per questo nostro tempo»[57]. Un discernimento
senza competenza è come una carità senza giustizia, una fede senza
intelligenza. Tutto ciò esige impegno e fatica. Sempre ricordando, tuttavia,
che un gruppo ecclesiale di discernimento non è un consulto di esperti, nè una
disquisizione accademica.
L'autentico
discernimento evangelico nasce e si sviluppa sul terreno di una testimonianza
viva della carità: «E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i
misteri, ma non ho la carità, non sono nulla» (1Cor 13,2). Il discernimento
genera la carità ecclesiale ed è generato da essa. Quando la carità è
sostanzialmente violata, nessun discernimento è possibile: una contraddizione
talmente radicale, da non permettere di riconoscere il corpo del Signore (cf
lCor 11,29; 1Gv4,l-3).
Per questo
il discernimento è reso impossibile dalla sclerocardia (cf Mc 3,5; 12, 18-27). Attingendo
alla sorgente dell'agape, che lo suscita e lo ravviva, il discernimento diventa
per dinamica interna momento di evangelizzazione, sapienza che manifesta
l'accoglimento della «grazia di annunziare alle genti le imperscrutabili
ricchezze di Cristo» (Ef 3,8).
c. Criteri del discernere
L'indicazione
di alcuni criteri guida non ha carattere esaustivo, nè tecnico. La critica di
genericità che a volte insorge a questo proposito non vede lontano: il fatto
che dalle Scritture non sia possibile ricavare una tavola di regole normative e
definite è la povertà ma, insieme, la ricchezza della fede cristiana. Non
mancano, tuttavia, chiari punti di riferimento e utili indicazioni operative:
un aiuto e una indicazione a camminare nella giusta direzione.
Il
discernimento opera sul filo della memoria storica; è, in altri termini, atto
di tradizione: «la nostra interpretazione deve sempre aver presente: la
continuità della storia della salvezza, come si manifesta in forma più eminente
nelle Scritture dell'Antico e del Nuovo Testamento; l'analogia della fede; il
magistero della chiesa; e i giusti dettami della prudenza umana (cf GS 4.11
.37)»[58].
Al dato tradizionale si aggiunge così il risvolto antropologico-culturale e
l'esplicito riferimento ecclesiale. Il discernimento fa tesoro della esperienza
consolidata: fa riferimento all'orizzonte interpretativo dell'esistenza umana
in cui la fede cristiana incontra la riflessione della filosofia e delle
scienze umane e considera attentamente il momento giuridico e normativo.
Mette al primo posto, inoltre, il
bene fondamentale della comunione ecclesiale, che non deve mai per nessuna
ragione essere lacerata.
Nessuno di questi fattori
costituisce, come si è detto, una regola da applicare meccanicamente. Le
scritture, ad esempio, illuminano e guidano il discernimento, ma esigono a loro
volta discernimento, perché vi si possa udire la voce non contraffatta di Dio e
scorgere il progetto autentico di salvezza. Anche i criteri ecclesiali della
edificazione e dell'utilità comune. così come quelli spirituali e pastorali
della diaconia e della corresponsabilità non sono ricette di immediata
applicazione pratica: orientano il discernimento e, a loro volta, lo esigono.
Ciò non produce incertezza o evasività, ma impone l'umiltà, la fatica, e anche
il rischio, di una ricerca incessante, che non parte mai da zero, ma non è mai
definitivamente conclusa.
Il discernimento pone la verifica su
orizzonti reali e tende a prospettive di azione pastorale praticabile: ha
carattere operativo. Non può quindi limitarsi agli obiettivi generali, ma deve
giungere a stabilire esiti effettivamente «operabili». Gli obiettivi
praticabili richiedono invece la precisa determinazione di alcuni elementi in
forma differenziata: i soggetti chiamati a realizzare un certo obiettivo; le
caratteristiche specifiche di ciò che si vuole raggiungere; quali effetti se ne
attendono; in quali condizioni l'obiettivo deve essere raggiunto; quali tappe e
quali strumenti; quali criteri ne consentono la verifica.
La
pastorale che si confronta nella progettualità esce dal cortocircuito di una
prassi che si prefigge obiettivi generali altissimi e si contenta di risultati
scadenti. Misura invece con obiettività e umiltà vera le proprie forze,
stabilisce le priorità tenendo conto della realtà, verifica i mezzi a
disposizione, sceglie le persone adatte (secondo le disponibilità reali).
La realtà insegna che troppo spesso
la nostra pastorale fallisce perché scambia gli obiettivi finali con quelli
operativi immediatamente praticabili. O perché l'attenzione alla praticabilità
si deforma in preoccupazione di vedere risultati immediati.
Attenzione alla praticabilità
operativa significa, inoltre, metodo della gradualità aperta. Che non anticipa
i tempi, non prende scorciatoie; rispetta, secondo la pedagogia di Dio, il
cammino lento e a volte interrotto degli uomini. Ed è pronta a rivedere
costantemente i propri obiettivi in attenzione alla realtà della situazione e
sempre aperta all'azione dello Spirito. In questo modo, la sensibilità
operativa diventa vera sapienza pastorale. Che trova ottimo riscontro se posta
come momento di partecipazione plurale e costruttiva: ciò che si è deciso
insieme, sarà certamente realizzato con più ampia e fattiva collaborazione.
Il discernimento ha carattere aperto
e dinamico. Secondo la libertà dello Spirito, apre gli spazi della creatività,
valorizza la riflessione di fede sulla vita delle comunità, sventa il pericolo
della burocratizzazione, attenta ai formulari e ai programmi più che alle
persone e alla vita.
Si qualifica, inoltre, per la sua
tempestività, senza nulla cedere al prurito di novità, ma senza nulla
acriticamente respingere, anzi tutto vagliando e tenendo ciò che è buono, per
formulare decisioni e progetti non anacronistici: le cose giuste, insomma, al
momento giusto.
d.
Modalità del discernimento
Ogni
delineazione di itinerario di discernimento non può avere che valore
indicativo, propedeutico e pedagogico, pur mettendo in evidenza fattori ed
elementi di valore, che aiutano a evitare la dispersione empirica. Un
itinerario di massima, quindi, da intendere flessibilmente e da integrare
nell'ambito della pratica vissuta delle comunità. Le indicazioni e 'regole' per
il discernimento comunitario non sono la causa della sua riuscita, ma
unicamente la disposizione del contesto umano adeguato (per quanto è umanamente
possibile) all'azione libera e gratuita dello Spirito. E' Lui, infatti, la
'causa efficiente' del discernimento.
Posto com'è
nel segno e sotto l'azione dello Spirito, tutto il processo di discernimento è
azione di preghiera.(E tuttavia l'espressione di preghiera ha momenti che
devono essere segnalati come più rilevanti ed espliciti.)
Ecco un
possibile itinerario di discernimento in comune.
·
primo
momento: formulazione della questione, valutazione comune della sua rilevanza e
pertinenza pastorale (da cui dipende la prosecuzione, o meno, del lavoro);
presentazione dei vari aspetti del problema (con eventuale partecipazione e
integrazione da parte di esperti ecc.), per non cadere sotto il rimprovero:
«Hai visto molte cose, ma senza farvi attenzione, hai aperto gli occhi, ma
senza sentire» (Is 42,20).
·
secondo
momento: la disposizione condivisa di porsi davanti a Dio per cercarne con
cuore disponibile e aperto la volontà - presente fin dall'inizio - si fa
preghiera personale e comune, in forma esplicita (At 4,24; l0,9ss.; 13,2).
·
terzo
momento: riflessione personale, in comune; non è una contraddizione (personale/insieme)
ma una modalità specifica: il silenzio e la concentrazione personale si
arricchiscono della presenza e condivisione di tutti; ciò esprime,
contemporaneamente, una valenza antropologica e una verità dello Spirito.
·
quarto
momento: scambio sulla questione in oggetto; non si tratta, anzitutto, di un
dibattito; ma di un ascolto attento, in clima di fraternità e di preghiera (la
dimensione pneumatica e comunionale del discernimento diventano così precisa
scelta metodologica); eventuali approfondimenti delle opinioni e dibattiti
sulle motivazioni giungono in un secondo tempo, perché non si sovrapponga la
«carne» allo «spirito»; ma è essenziale che, in una prima fase (che può anche
prolungarsi nel tempo, se non si creano le condizioni idonee) si eviti ogni forma
(diretta e indiretta) di discussione-confronto delle opinioni.
·
quinto
e ultimo momento, la decisione: essa non avviene con il criterio maggioritario,
ma segue le strade della ecclesialità e trova quindi la propria modalità
specifica di realizzazione via via secondo la fisionomia delle diverse realtà
ecclesiali di discernimento (informale, consiglio pastorale, presbiterale,
capitolo monastico ecc.) e la natura delle questioni: ricordando che, a volte,
il discernimento impone di non discernere (non certo per gioco diplomatico o
per codardia, ma quando, ad esempio, è necessaria nuova e più abbondante
illuminazione, o quando una decisione non strettamente necessaria finirebbe per
mettere in grave difficoltà e pericolo l'unità o, perlomeno, l'armonia della
comunità). Perché la comunità non è solo il soggetto attivo del discernimento,
ma anche il luogo in cui esso avviene e la sua «misura» teologica. La chiesa,
luogo della comunione, coglie negli avvenimenti l'evento che dà significato e
direzione al tempo. Per questo "nel Cristianesimo il tempo ha
un'importanza fondamentale» (TMA 10).
[1] Cf.H.U. von Balthasar, Verità di Dio, Teologica 2, Milano 1987, 245: «[il factum incarnazione] rimane il
punto di partenza, il punto centrale di ogni fede cristiana… Le teologia che si
occupano del factum sotto la guida delle affermazioni dogmatiche ecclesiali…
sono nulla più che un riflettere a tentoni che si svolge nella fede al factum
per penetrare nel suo traboccante mistero, a partire dal quale si aprono tutti
gli altri temi teologicamente rilevanti: Trinità di Dio, il rapporto tra il
Logos diventato carne e il suo corpo mistico, rapporto che viene determinato
nella chiesa così strutturata con i suoi sacramenti, il suo ministero, la
parola ad essa affidata e la sua missione universale, infine il rapporto tra la
Parola fatta carne, la storia del mondo e la vita eterna».
[2] P.Rodriguez,
Attualità del Catechismo romano, in L.Adrianopoli (ed.), Il Catechismo romano commentato, Milano
1983 (data imprimatur), XVIII.
[3] B.Seveso,
Teologia pastorale, in B.Seveso-L.Pacomio (edd.), Enciclopedia Pastorale, I, Casale
Monferrato, 431. La correlazione con il vissuto ecclesiale è senz’altro propria
del sapere teologico, e non solo in ambito pastorale: anche la teologia
comunemente detta speculativa o sistematica (meglio dottrinale) nasce da una
richiesta di intelligenza che è insita nel credere. Seveso ha perfettamente
ragione, invece, di respingere la concezione della teologia pastorale come
«prolungamento della ecclesiologia a fini pratici»: segnando quindi
l’inesorabile aporeticità di denominazioni come “ecclesiologia pastorale”, che
rappresentano una patente incongruità. La teologia pastorale non si risolve in
una sorta di ecclesiologia pratica. Non si deve fraintendere la nota
distinzione rahneriana (ecclesiologia essenziale/ecclesiologia esistenziale)
che soffre comunque di contrazione semantica ed è esposta a rischio, come
mostra la fagocitazione della teologia pastorale nella ecclesiologia
(Wiedenhofer, Kehl, van der Ven), sia la produzione di neologismi ancor più
arrischiati (ecclesiologia pastorale: dove o l’aggettivo è tautologico, si
riferisce ciò alla pastoralità di tutta la teologia e, quindi,
dell’ecclesiologia, che in questo senso
o è pastorale o non è; o è qualificativo, e introduce quindi un ossimoro
per nulla letterario, ma espressivo di una intoglibile contradictio in
terminis: o è dottrinale o è pastorale, non può essere ambedue le cose
insieme). La teologia pastorale ha certamente a che fare con l’ecclesiologia,
ma anche con altri trattati teologici: l’agire cristiano ecclesiale è in
relazione con la riflessione articolata su tutta la Rivelazione.
[4] P.M.Zulehner
(unter Mitarbeit von Joannes Haas, Andreas Heller, Maria K. Wild und Repert
Stadler), PastoralTheologie, I, Fundametal-Pastoral. Kirche
zwischen Auftrag und Erwartung,
Düsseldorf 1989; Id., Teologia pratica, in P.Eicher (ed.), Enciclopedia teologica, Brescia 2990, 1100-1108.
[5] E’ evidente che il rapporto
teoria/prassi non è un tema specifico e univoco della teologia. Il principio
dell’incarnazione stabilisce quei parametri che, sul versante teologico, fanno
da vaglio critico alle diverse prospezioni e teorie sul campo (benché sia anche
vero - reciprocamente – che la messa a
tema e la trattazione sllo stesso terreno teologico sia spesso debitrice nei
confronti delle prospettive sviluppate dalla filosofia e dalle scienze umane:
come avviene, magistro Thoma, in ogni
buona impostazione teologica)
[6] H.U.
von Balthasar, Verità del mondo,
Teologica, I, cit., 174.
[7] J.Goldbrunner, Inkarnation als Prinzip der
Pastoraltheologie, in F.Klostermann-R.Zerfass,
Praktische Theologie Heute, München
1974, 132.
[8] B.Seveso,
Edificare la Chiesa, cit., 131-150
[9] Ibid.,
145.
[10] R.Tonelli,
Incarnazione, in M.Midali-R.Tonelli (edd.), Dizionario di pastorale giovanile,
Leumann(TO) 1989, 459.
[11] H.U.von
Balthasar, Verità di Dio,
cit., 245.
[12] H.U.von
Balthasar, Verità del mondo, Teologica 1, Milano, 1987, 174.
[13] L.Pareyson,
Verità e interpretazione, in Opere complete, vol.15, Milano 2005
[14] H.G.
Gadamer, Verità e metodo,
Milano 2000.
[15] H.U.von
Balthasar, Verità del mondo,
cit.
[16] S.Klein, Methodische Zugänge zur sozialen
Wirklichkeit, in H. Haslinger
(ed.), Handbuch Praktische Theologie,
vol. 1, Mainz 1999, 248-259, 251.
[18] Ib.,
121
[19] M.D.Chenu,
La chiesa popolo messianico, Torino
1967, 57; cf. ivi, 63: «Costituzione pastorale: ecco la novità in fatto di
categorie. Ed è la più significativa. Se la presenza al mondo contemporaneo (conditiones nostri temporis), appartiene
alla natura stessa della Chiesa; se la Parola di Dio di cui essa è testimone e
garante, parla oggi, giorno dopo giorno, non è questione soltanto di
conseguenze pratiche che il pastore deduce dalla decisione del dottore; esistere oggi (Dasein) appartiene all’essenza stessa della Chiesa. L’azione
pastorale non è abbandonata a un pi opportunismo di circostanza: è la Chiesa in
atto, luogo teologico della Parola di Dio, nella comunità gerarchica».
[20] Cf. Cl.Geertz,
Antropologia interpretativa, Bologna
1988, 6-8
[21] E.Morin,
I sette saperi necessari all’educazione
del futuro, Milano 2001, 31ss.
[22] S.Th.
1 q 16 a 8; De Veritate q 1 a 6.
[23] Summa
contra gentiles, I, 49, 5.
[24] S.Th.
2-2, 1, 2 ad 2.
[25] Benedetto
XVI, Spe salvi n.2.
[26] Congregazione
per la Dottrina della Fede, Libertatis
conscientia, 81.
[27] L.Schottroff
– W.Stegemann, Gesù di Nazareth,
speranza dei poveri, Torino 1988, 14.
[28] De
dignitate et augmentis scientiarium, III, 5.
[29] Benedetto
XVI, Deus caritas est, 10
[30] H.U.
von Balthasar, Verità del mondo,
cit. 114.
[31] Ib.,
174
[32] Cf. W.Zauner,
Laien und Priester – eine Kirche, in
ThhkQ 135 (1987), 205-212; E. Garhammer,
Die Sicht des Laien in der
Pastoraltheologie, ibid, 213-218.
[33] R.Tonelli,
Pastorale giovanile, cit., 16
[34] G.Montini,
Allocuzione ai preti novelli del
gennaio 1963,cit. in M.D.Chenu, La chiesa popolo messianico, cit., 59.
[35] W.Pannenberg,
Epistemologia e teologia, cit., 411.
[36] Ch.Bäumler,
Praktische-Theologie – ein notwendiges
Element der Wissenschaftlicher Theologie?, in Theologia practica 9 (1974) 77; anche dieci anni più tardi
H.Steinkamp parla di «metodologia non sviluppata» e proprio in riferimento alla
impostazione più accreditata e diffusa di scienza dell’azione, formula l’accusa
di astrattezza e scarsa praticabilità, pur riconoscendole alto livello
teoretico (cf. H.Steinkamp, Zum Beispel: Wahrnebmung von Not.
Kritische Anfragen an den gegenwärtigen Entwicklungsstand einer
pratktisch-theologischen Handlungstheorie, in O. Fuchs (ed.), Theologie
und Handeln,cit., 184), cf. W. Fürst,
Praktisch-theologische Urteilskraft,
cit. 398.
[37]
Cf. H.Steinkamp, Zum Verhältnis von
Praktischer Theologie und Sozialwissensschalten, cit., 172 ss.
[38] Ibid.
[39] Ultimo in ordine di tempo, Van der
Ven, Praktische Theologie und Humanwissenschafen,
in H. Haslinger (ed.), Praktische
Theologie, I, Grunlegungen, Mainz, 1999, 267-278.
[40]
A.D. De Grot, Metodologie. Grondslagne
van onderzoek en denken in de gedragswetenschappen, Gracenhage 1975.
[41] A.Einstein,
Induktion un Dedution in der Physik,
in Berliner Tageblatt, 25 dicembre
1919.
[42] K.Popper,
Logica della scoperta scientifica,
Torino 1970, XIV
[43] K.Popper,
La ricerca non ha fine. Autobiografia
intellettuale, Roma 1976, 91.
[44] K.Popper,
La società aperta e i suoi nemici,
Roma 1974, 494ss: «Non esiste alcun criterio generale di verità. Ma ciò non
legittima la conclusione che la scelta fra teorie concorrenti sia arbitraria:
significa soltanto e molto semplicemente che non possiamo sempre errare nella
nostra scelta, che possiamo sempre vederci sfuggire la verità o che possiamo
non raggiungerla, che non possiamo mai pretendere la certezza…che noi insomma
siamo fallibili».
[45]
Cf. C.M.Martini, Effatà. Apriti, In dialogo, Milano 1990
[46] J.Ladrière, L’articulation du sens.., cit., 118
[47] Agostino, De doctrina cristiana, I, 4.4
[48] C.Dagens, L’intériorité de l’homme selon Saint Augustin. Philosophie, théologie
et vie spirituelle, in Bulletin
ecclésiastique 88 (1987) 270.
[49] Presidenza CEI, La forza della riconciliazione. Sussidio in preparazione al
Convegno “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”, in ECEI, 3, 2039;
cf., CEI, La Chiesa in Italia dopo Loreto,
17, :«In questa luce, realtà quali la società complessa, il pluralismo
culturale, la società del benessere, la secolarizzazione, vanno comprese attraverso
l’esercizio del discernimento..»
[50] La
forza della riconciliazione, cit., 3.2.1. in ECEI, 3, 2100
[51] Cf. T.Citrini,
Per un’ecclesiologia postsinodale, in
Rivista del clero italiano 69 (1988),
21: «Perché la riflessione teologico-pastorale possa offrire strumenti validi a
questo fine… bisogna che la dignità teologica di ciò che avviene nella Chiesa
nelle contingenze della storia sia correttamente intesa, alla luce di Cristo
che è “via della chiesa” e dello Spirito che suscita la quotidiana memoria di
lui nel popolo dei credenti».
[52] La
forza della riconciliazione, cit., 3.2.1., in ECEI,3, 2100
[53] B. Seveso, Edificare la chiesa, cit., 404
[54] L. Della Torre, Metodologia del discernimento in comune,
in Servizio della Parola 191 (numero
speciale 1987), 115.
[55] CEI, Comunione e comunità missionaria, n.15
[56] CEI, Con il dono della carità dentro la storia, n.21.
[57] La
forza della riconciliazione, cit., 1.3.4.
[58] Sinodo dei Vescovi 1980, Post disceptationem. Elenchus
propositionum de muneribus familiae christianae in mundo moderno (24.10.1980), Propositio 5.
[1] G.Ebeling, Studium der Theologie. Eine enzyklopädische
Orientierung, Tübingen 1975, 113.
[2] A.Grözinger,
Erzählen und Halden. Studien zu einer
trinitarischen Grunlegung der Praktische Theologie, München 1989, 7.
[3] L.Fendt,
Die stellung der Pratischen Theologie,
in G.Krause (ed.), Praktische Teologie. Texte zum Werden und Selbstverständins dei praktischen
Diszpilin der evangelischen Theologie, WdF 264
(1972, 314.
[4] A.Grözinger,
Erzählen und Halden. Studien zu einer
trinitarischen Grunlegung der Praktische Theologie, cit., 7
[5] Cf. I.
Sanna (ed), Il sapere teologico e
il suo metodo, Bologna 1993, in particolare le Riflessioni introduttive di M.
Bordoni
[6] Soprattutto in campo cattolico si
chiede al Seelsorger che «secondo la
finalità ultima della religione cristiana si impegni a educare, attraverso il
suo insegnamento, non solo buoni cristiani, ma anche buoni cittadini per lo
stato, e veri uomini-amici per la comunità umana» (citato in F.Dorfmann, Ausgestaltung der Pastoraltheologie zur Universitätsdisziplin un ihre
Weiterbildung nach Archivalien bearbaiter, Wien-Leipzig 1910, 111).
[7] Cf K.Rahner,
Teologia, in Sacramentum mundi, 8, Brescia 1977, 209-225.
[8] S.Th
I, q.1,a.4
[9] Cf. M.D.Chenu:
«In una allegoria assai suggestiva S.Tommaso descrive simbolicamente il
confronto del teologo col mistero di Dio. Evocando l’episodio della lotta di
Giacobbe con l’angelo (Gn 32) commenta: durante tutta la notte si affrontarono,
muscoli tesi, senza che nessuno dei due cedesse. Di primo mattino l’angelo
disparve, lasciando apparentemente il campo al suo avversario; ma Giacobbe
avvertì allora un vivo dolore alla coscia e rimase ferito e claudicante. Così
il teologo affronta il mistero al livello del quale Dio l’ha portato. Egli è
teso, come un puntello,alle sue espressioni umane; ne aggredisce gli oggetti
alla cintola; sembra dominarli; ma a quel punto avverte una debolezza, a un
tempo dolorosa e dolce; perché essere così vinto è in effetti il guadagno del
suo divino combattimento» (Omelia tenuta nel corso della celebrazione
eucaristica, in Aa.Vv., L’avvenire della Chiesa (Bruxelles 1970). Il
libro del Congresso, Brescia 1970, 65)
[10] Ibid.,63
[11] J.Ratzinger,
in Aa.Vv., Pluralismo. Unità della fede e pluralismo teologico, 51. Per questo
egli parla di «mediazione storica (della verità)…nel soggetto-storico-chiesa»
(ib., 35).
[12] J.Alfaro,
Rivelazione cristiana, fede e teologia,
Brescia 1986, 109
[13] Ibid.,
128. Nota ancora J.Alfaro: «La prassi appartiene alla fede cristiana, in quanto
comunità costituita dalla fede, speranza e carità: il coinvolgimento reciproco
del “credere-sperare-amare” cristiano, porta con sé l’accento, l’unità vitale
tra l’ortodossia e l’ortoprassi».
[14] Cf. R.Marlé,
Le projet de Théologie pratique,
Paris 1979
[15] Id.,
Teologia pratica e spirituale, in Aa.Vv., Iniziazione alla pratica della teologia, 5, Brescia 1987, 327.
[16] G.Colombo,
Dogmatica e pastorale, in Aa.Vv., Gesù, il Signore. Riflessioni e scelte pastorali. Miscellanea card. A.Ballestrero, Roma 1983, 190-202.
[17] G.Angelini,
Prefazione in Aa.Vv., Iniziazione
cristiana e immagine di Chiesa, Milano 1998, 7
[18] B.Seveso,
Itinerari ecclesiali e consapevolezza
teologica, in Aa.Vv., Scienza e prassi ecclesiale in Italia,
Napoli 1985, 85.
[19] R.Zerfass, Zur Organisation des Studiums der
Praktischen Theologie, in Id.-
N.Greinacher, Einführung in die
Praktische Theologie,München 1976,
66.
[20] W.Furst, Praktische-theologische Urteilskraft. Auf
dem Weg zu einer symbolischkrtischen Methode der Praktischen Theologie,
Zürich- Einsiendeln – Köln 1068, 228. Egli segnala incertezze riguardo a: 1) una vera e
propria dignità scientifica (se si tratti di tecnica, insegnamento pratico,
scienza applicative o “vera” scienza); 2) la permanente debolezza nella
determinazione di identità e compito (tra teologia pastorale, teologia
ecclesiale, scienza della cura d’anime, ecclesiologia esistenziale, scienza
dell’azione ecclesiale); 3) il dibattito aperto intorno alla classificazione
appropriate del suo status teoretico (teologia pratica, teologia pragmatica,
teoria critica, teoria della prassi, teoria della mediazione, teoria-prassi).
[21] R.Marlé,
Le proiet de…, cit.,22
[22] W.Kasper,
La funzione della teologia nella chiesa,
Brescia 1989, 66.
[23] J.Alfaro,
Rivelazione cristiana…, cit., 132
[24] Ib.,
133
[25] Cf. G.Baum,
Sociologia e teologia, in Concilium 10 (1974) 47-58.
[26] Basterà ricordare la differenza di
impostazione tra psicologia sperimentale e psicologia del profondo, con le
relative e numerose diramazione in ambedue gli ambiti.
[27] G.Colombo,
Prefazione in B.Seveso, Edificare la Chiesa, Leumann (TO) 1982,
18.
[28] E’, come è noto, il sottotitolo del
Proslogion. Cf. J. Alfaro, Rivelazione cristiana…, cit, 333: «Fides quaerens intellectum (sui):
sembra essere questa la migliore descrizione della teologia: la fede che
riflette in profondità su se stessa, ponendosi le domande ultime sulla propria
scelta e sul proprio contenuto; la fede alla ricerca totale di se stessa, ossia
alla ricerca delle condizioni necessarie perché sia intellegibile come “fides
qua” e “fides quae”. Una ricerca orientata dalla fede verso una sempre maggiore
comprensione e realizzazione della vita cristiana, e rivolta al servizio della
comunità ecclesiale»
[29] K.Rahner,
La teologia pratica nel complesso delle
discipline teologiche, in Nuovi Saggi
3, Roma 1969, 161
[30] Ibid.
[31] M.D.Chenu,
La chiesa popolo messianico, Torino
1967, 62.
[32] E’ un punto non ancora acquisito.
Si veda la collocazione e il ruolo della teologia pastorale delineati nei documenti:
Ratio fundamentalis, 79 e nota 171
(EV 3/1918); Orientamenti e norme per la
formazione dei presbiteri della Chiesa italiana (ECEI 3/373); Ratio studiorum dei seminari maggiori
d’Italia, 51.83 (ECEI 3/1802-1805.1855).
[33] M.Bordoni,
Tra ortodossia e ortoprassi, in F.Marinelli (ed.), La teologia pastorale. Natura e compiti, EDB, Bologna 1990, 26;
cf.«L’importanza della prassi di carità per la retta fede (ortodossia) emerge,
a partire dal cristianesimo delle origini e per molta parte dell’era cristiana,
nel modo di pensare la fede e l’eresia. Come ha mostrato Y.Congar, al seguito
degli studi di A.Lang, il concetto di fede e di eresia, in tutto il primo
millennio, nel medioevo e ancora agli
inizi dell’era moderna, è stato più ecclesiologico che dogmatico…La chiesa e la
unità erano considerate come il luogo o sacramento fondamentale della salvezza,
per cui tutto ciò che non concordava con la fede e la prassi della comunità era
considerato eretico…E’ solo dopo Guglielmo di Occam e dopo la Riforma che
l’eresia è stata definita da un punto di vista soprattutto noetico, come una
dottrina che si oppone immediatamente, direttamente e contraddittoriamente alla
verità rivelata da Do e proposta autenticamente come tale dalla Chiesa [MICHEL,
DTC, VI, 2211]».
[34]
Cf. Optatam totius, 16
[35] CEI, La preparazione al sacerdozio ministeriale.Orientamenti e norme (15
agosto 1972) n.162. Esso sottolinea inoltre: l’unità della formazione
filosofico-teologica (n.154ss.) attorno al mistero di Cristo, attorno alla
crescita nella fede del soggetto, attorno alla finalità pastorale “che è
intrinseca alla teologia” (n.161); l’organicità interna al sapere teologico (la
‘gerarchia delle verità’ correttamente intesa) per cui ogni singola parte
mostra la propria significativa correlazione con il tutto, dandogli senso e
figura; l’assimilazione personale, non solo in termini di conoscenza, ma di
vera sostanza di vita, come appropriazione esistenziale; la connessione non per
via esortativa, ma per evidenza logica con il ministero pastorale: ecco tre
criteri di riferimento non caduco per il rinnovamento degli studi
seminaristici, di cui ancora oggi, e non senza motivo, si discute. In questa
linea – è bene rilevarlo – il sapere teologico non solo si inquadra come
componente formativa indispensabile, ma si qualifica come fattore costitutivo e
sorgivo di spiritualità:«Data l’unità intrinseca fra fede e teologia è vitale
che docenti e alunni, sull’esempio dei santi dottori della fede, ricordino che
lo studio della teologia per progredire ha bisogno di essere accompagnato dalla
preghiera (cf.DV 25)», n.164. Una preghiera non accanto alla teologia come componente altra della formazione, ma dentro la teologia come vitalità della
stessa.
[36] N.Mette, Theorie der Praxis.
Wissenschaftgeschichtliche und methodologische Untersuchungen zue
Theorie-Praxis-Problematik innerhalb der praktischen Theologie, Dissertation,
Münster 1976, 628. Sullo
sfondo, la posizione luterana, soprattutto nell’opera polemica Disputatio contra scholasticam theologiam del 1517. Eccone alcune: «Vera
theologia est pratica, et fundamentum eius est Christus…»; «Theologus non fit
nisi id fiat sine Aristotele».
[37] Cf. L.Prenna,
Teologia pastorale o pastoralità della
teologia? Ipotesi di interpretazione rosminiana, in F.Marinelli (ed.) La
teologia pastorale..,cit. 120:«Più che di teologia pastorale si dovrebbe
parlare di pastoralità della teologia, poiché non si tratta di una disciplina
teologica o di un ramo del sapere teologico: è la ragione stessa storica e
pratica della teologia che, come ragione teorica e dottrina ideale, è il sapere
di una sapienza». Dove sono posti in alternativa fattori ugualmente essenziali
e costitutivi.
[38] Interesse è qui inteso in senso
habermasiano, come orizzonte socioculturale che determina (noi diremmo, in
maniera più sfumata, che contribuisce a determinare) la sollecitazione,
l’orizzonte di comprensione e, in qualche misura, gli stessi codici di
elaborazione e comunicazione di una conoscenza; cf. J.Habermas, Conoscenza
e interesse, in Id., Teoria e prassi nella società tecnologica,
Bari 1978, 3-18; Id., Teoria dell’agire comunicativo, Bologna
1987.
[39]
Cf. J.Moltmann, Was ist heute Theologie? Zwei Beiträge zur
ihrerVergegenwärtigung, Freiburg i.B.. 1988, 59:«La mediazione
[Die Vermittlung] fra la
tradizione Cristiana e la cultura del nostro tempo è assolutamente il compito
principale della teologia».
[40] M.Midali,
Il senso della ricerca, in M.Midali-R.Tonelli, Qualità pastorale delle discipline teologiche e del loro insegnamento,
Roma 1993, 14: «Posto questo costitutivo legame della pastorale con la prassi,
intesa nel senso appena indicato [cioè come prassi ecclesiale e non solo dei
pastori, secondo il Vaticano II], per ogni disciplina si pone l’esigenza di
chiarire la propria qualità pastorale, rispondendo a tutta una serie di
domande».
[41] Discutibile la tesi di N.Mette, che sulla scia tracciata da H.Peukert (Wissenschaftstheorie – Handlungtheorie – Fundamentale Theologie.
Analysen zu Ansatz und Status theologischer Theoriebildung, Frankfurt 1978)
e da Habermas, propone di fondare la teologia pratica come «teoria teologica
esplicita dell’agire comunicativo» (Praktische
Theologie als handlungswissenschaft. Begriff und Problematik, in Diakonia 10 (1979), 197), come «scienza
teologica (esplicita) dell’azione nel quadro di una teologia concepita
(globalmente) come scienza pratica» (Theorie
der Praxis. Wissenschaftgeschichtliche
und methodologische Untersuchungen zue Theorie-Praxis-Problematik innerhalb der
praktischen Theologie, Düsseldorf 1978, 342).
[42] G.Lorizio-S.Muratore,
La frammentazione del sapere teologico,
Cinisello Balsamo 1998.
[43] B.Forte,
Qualità pastorale dell’insegnamento della
teologia sistematica, in M.Midali,
Il senso della ricerca, cit., 63.
[44] Ibid.
[45] Cf. Ibid: «Il ritorno alla storia della rivelazione ella prospettiva biblica
unificante dell’alleanza implica perciò anche il recupero del rapporto
originario e strutturale fra dogma ed ethos», con una ineccepibile prospettiva
storico-salvifica.
[46] Ibid,
73
[47] S.Maggiani,
Qualità pastorale della teologia
liturgica, in M-Midali-R.Tonelli
(edd.) Qualità pastorale delle discipline
teologiche…, cit., 142: «Poiché la TL ha come oggetto…la prassi liturgica
della Chiesa… non può non avere una qualità pastorale pena l’arrestare la
ricerca ad un senso teorico, ma astratto. In questo caso, sebbene sia implicata
la conoscenza della materia, la medesima conoscenza in se e per sé non porterà
alla qualità dell’Actio e alla sua veritas»
[48] E.Mazza,
Teologia liturgica centrata sul vissuto
celebrativo, in M-Midali-R.Tonelli
(edd.) Qualità pastorale delle discipline
teologiche…, cit., 143.
[49] La lettura “pastorale” della
Bibbia, per esempio, non è restringibile alla dimensione teologico-spirituale,
ma alla vita e all’azione della comunità cristiana nelle sue diverse
articolazioni (cf. R.Fabris, Dimensione pastorale dell’esegesi e
insegnamento della Scrittura, in M-Midali-R.Tonelli
(edd.) Qualità pastorale delle discipline
teologiche…, cit., 37).
[50] W.Furst,
Praktische-theologische Urteilskraft…, cit.,
380:«Tra il processo di modificazione dell’epoca moderna riguardo la situazione
sociale del cristianesimo e la storia scientifica della teologia pastorale
esiste una stretta connessione, quasi una reciproca correlazione».
[51]
Cf. J.Theiner, Die Entwicklung der Moraltheologie zur
eigenständigen Disziplin, Regensburg 1970.
[52]
Cf. E.Chr. Achelis, Lehrbuch 1, 1911(3), 12.
[53] Citato in F.Dorfmann, Augestaltung
der Pastoraltheologie, cit., 5.
[54] Tabellarius
Grundriss der Pastoraltheologie
[55] Cf. F.Dorfmann,
Augestaltung der Pastoraltheologie,
cit., 111
[56] Ibid.,
106
[57] Citato in J. Müller, Die
Pastoraltheologie innerhalb des theologischen Gesamtkonzepts von Stephan
Rautenstrauch (1774), in PThH, 48
[58] F. Giftschutz, Leitfaden für die in den
katholischen Kirche. Erblanden vorgeschriebenen deutschen Vorlesungen über die
Pastoraltheologie, Wien 1786, 8.
[59] G. Otto, Grundlegung der Praktischen Theologie,
München 1986, 39.
[60] Kant pone esplicitamente la
questione della legittimità della teologia come disciplina universitaria in uno
scritto del 1798 (Der Streit der
Fakultäten); Fichte, proprio in riferimento all’organizzazione degli studi
nella università berlinese (Deduzierter
Plan einer zu Berlin zu errichtenden höheren Lehranstalt), ammette solo a
una teologia senza diretto riferimento a una fede determinata e a una rivelazione
positiva.
[61] Cf. F
Chätelet (ed.), Storia della
filosofia, V, Milano 1976, 7: «Il
merito essenziale di Kant è quello di aver mostrato che ormai il
problema centrale è quello della pratica, dell’azione degli individui nella
società. Ben più che dal cogito cartesiano il pensiero contemporaneo è
determinato dalla Kritik der praktischen
Vernunft (Critica della ragion pratica), nella sua astrazione e nella sua
innocenza aggressiva».
[62] W.Pannenberg,
Epistemologia e teologia, Brescia
1975, 237.
[63] F.Schleiermacher,
Lo studio della teologia. Breve
presentazione, Brescia 1978.
[64] Ibid,
107
[65] Ibid.,
108
[66] Ibid.,
114
[67] Ibid.,
115
[68] Ibid.,
127.
[69] Ibid.,
198.
[70] Ibid.,
200: «Tutte le prescrizioni della teologia pratica possono solo essere
espressioni geniali nelle quali il tipo e il modo del loro uso in casi singoli
non è già insieme determinato.. Vale a dire che esse sono regole d’arte nel
senso rigoroso della parola. In tutte le regole di un’arte meccanica
l’applicazione è già contenuta. Le prescrizioni delle arti più elevate, al
contrario, sono tutte configurate in tal modo che il corretto agire secondo la
misura di tali regole richiede sempre, in più, un particolare talento mediante
il quale si deve individuare ciò che è giusto».
[71] R.Marlé,
Le projet de Théologie pratique,
cit., 64.
[72] Marheineke, Entwurf der praktische
Theologie, Berlin 1937,
[73] C.I.
Nitzsch, Praktische Theologie, Bonn,
1847-1857.
[74] Ibid,
5. Sullo sfondo la convinzione che «la religione non è principalmente un’idea,
ma un fatto (vol.I, 4)) e che di conseguenza la teologia non può e non deve mai
essere sviluppata solo intellettualisticamente (10)
[75] Vol.I, 15
[76] Vol.II, 127: «l’osservazione
storica, lo sviluppo logico e la progettazione tecnica devono procedere
insieme».
[77] Il suo contributo Zur Praktischen Theologie, si trova in Liebner-Ehrenfeuchter-Palmer (edd.), Jarbücher für Deutsche Theologie I,
Stuttgart 1856, 317-361.
[78] G.Otto, Grundlegung der Praktischen Theologie,
cit., 48
[79] W.
Pannenberg, Epistemologia e
teologia, cit., 406.
[80] J.M.
Sailer, Pastoraltheologie, 3
voll., Monaco 1988.
[81] Ibid.,
vol.I, 1.
[82] A.Graf, Kritische Darstellung der gegenwartigen Zustandes der praktischen
Theologie, Tübingen, 1841, 7.
[83] Ibid.,
VII.
[84] Ibid.,
95-96.
[85] Ibid.,
6
[86] Ibid.,
125.
[87] Ibid.,
4; 8-9; 125 ss.; 143.
[88] La teologia pastorale appare quindi
come «scienza dell’attività ecclesiale, divina e umana, per mezzo delle persone
che rivestono un ufficio ecclesiastico, preferibilmente dello stato
ecclesiastico, per l’edificazione della chiesa» (Ibid., 149); o anche «scienza e teoria della chiesa che perfeziona,
edifica se stessa» (Ibid., 269).
[89] A.Graf,
Kritische Darstellung.., cit.,
4ss.
[90] Ibid.,
76
[91] Ibid.,
181 ss.
[92] Discepolo di A.Graf; cf. J.Amberger, Pastoraltheologie, 3 voll, Regensburg 1850-1857.
[93] L’impostazione deduttivi stiva è
ancora chiaramente affermata, ad. Es. in C.Krieg,
Die Wissenschaft der speziellen
Seelenführung, Freiburg 1904 (uno dei manuali che ha trovato maggior
fortuna anche all’esterno) nella cui Introduzione
(VIII) si legge che la teologia pastorale «trasporta le verità e le leggi, date da Cristo e dalla Chiesa, nei
campi molteplici della vita, studiandosi di dar forma scientifica alle funzioni
pastorali»
[94] M.Benger,
Pastoraltheologie, 3 voll. Regensburg
1861, I, 2. L’autore afferma tra l’altro polemicamente che la teologia
pastorale deve cercare la propria legittimazione scientifica e «il proprio
spirito» non in Köninsberg, né «nelle corti» (riferimento a Maria Teresa e
Guglielmo di Prussia), ma «in Roma e in Vaticano» (Ibid., 25).
[95] Sono, in particolare, i tentativi
di Boisen e Cabot. Su questo aspetto cf. H.Faber,
Pastoral Care and Clinical Training in
America, Arnhem 1961.
[96]
Cf. S.Hiltner, Preface to Pastoral Theology, New York
1958.
[97] Ibid.,
20ss., 217.
[98] Ibid.,
23-24.
[99] Ibid.,
28.5., in cui espone l’organigramma delle discipline teologiche.
[100] Cf. H.
Godin- Y. Daniel, La France,pays
de mission?, Paris 1943.
[101] F.
Boulard, Problèmes missionnaires
de la France rurale, 2 voll., Paris 1945; G.
Michonneau, Paroisse, communauté
missionarie. Conclusion de cinq ans d’expérience en milieu populaire, Paris
1945.
[102] G.
Michonneau, Paroisse, communauté
missionarie..,cit., parla
addirittura di «comunità che facciano choc» (267ss.)
[103] H.
Godin- Y. Daniel, La France,pays
de mission?, cit., 122-129.
[104] F.
Boulard, Problèmes missionnaires
de la France rurale, cit., 39-40.
[105] Cf. F.
Boulard, Problèmes missionnaires
de la France rurale, cit., 90-110; G.
Michonneau, Paroisse, communauté
missionarie..,cit., 419-449; su questo cf. anche Y.Congar, Mission de
la paroisse. Structure sociale et pastorale paroissale, Paris 1948, 56-57.
[106] Cf. Aa.Vv.,
La pastorale oggi. Atti del 1°
Congresso internazionale di pastorale (Friburgo 10-12 ottobre 1961), Milano
1963.
[107] Cf. G.
Ceriani, Introduzione alla
teologia pastorale, Roma 1961. A lui si deve anche la fondazione del C.O.P.
(Centro di Orientamento Pastorale).
[108] Cf. Y.Congar,
Die Theologen, das Pastoral-konzil und
die Theologie, in Diakonia 13
(1982) 372-373; M.D.Chenu, Un Concil “pastoral”, in Parole et mission 21 (1963) 185; M.Levebvre, Vers une nouvelle problématique del la théologie pastorale, in NRT 93 (1971) 38.
[109] Cf. Il caustico intervento di
D.Hurley alla XXII congregazione generale, che indicava nella pastoralità il
«peccato originale» di tutto il Concilio.
[110] Paolo
VI, Discorso pronunciato nella
basilica vaticana il 29 settembre 1963 (cf. EV I*, 139).
[111] V.Schurr,
Teologia pastorale, in Aa.Vv., Bilancio della teologia del XX secolo,
II, Assisi
[112] Cf. Acta Synodalia I/I, 171ss.
[113] Entrata nel lessico conciliare
sotto forma di citazione neotestamentaria Mt.16,3
(Bolla di indizione Humanae Salutis),
l’espressione gode di crescente fortuna a partire dalla enciclica Pacem in terris (Cf. M.D.Chenu, La Chiesa nel mondo, Milano 1965, in particolare il cap I: «I segni
dei tempi»).
[114] Cf. W.Kasper,
La Chiesa sotto la parola di Dio, in Concilium 2 (giugno 1965), 68: «Nessun
insegnamento della Chiesa può mai esaurire la perfetta pienezza e ricchezza
delle sue fonti; una teologia che non intenda cadere in preda di una sterile
speculazione, deve continuamente rinnovarsi alle sorgenti».
[115] Cf.Aa.Vv.,
La costituzione dogmatica sulla Divina
rivelazione, Leumann (TO9 1967; R.Latourelle,
Teologia della Rivelazione, Spoleto
1967.
[116] M.D.Chenu,
La chiesa popolo messianico, Torino
1967, 57; cf. ibid., 63: «Costituzione
pastorale: ecco la novità in fatto di categorie. Ed è la più significativa. Se
la presenza al mondo, al mondo contemporaneo (conditiones nostri temporis), appartiene alla natura stessa della
Chiesa; se la Parola di Dio di cui essa è testimone e garante, parla oggi,
giorno dopo giorno, non è questione soltanto di conseguenze pratiche che il
pastore deduce dalla decisione del dottore; esistere oggi (dasein) appartiene all’esistenza stessa della Chiesa. L’azione
pastorale non è abbandonata a un pio opportunismo di circostanza: è la Chiesa
in atto, luogo teologico della Parola di Dio, nella comunità gerarchica».
[117] L’intervento del Card. Suenens
venne pronunciato in aula il 4 dicembre 1962, durante la 33° congregazione
generale. Il radiomessaggio è quello pronunciato da Giovanni XXIII l’11
settembre 1962 a un mese dall’apertura del Concilio. Vi si afferma: «La chiesa
vuole essere ricordata quale essa è nella sua struttura interiore – vitalità ad intra – in atto di ripresentare,
anzitutto ai suoi figli, tesori di fede illuminatrice e di grazia
santificatrice… nei rapporti della sua vitalità ad extra, cioè la chiesa di fronte alle esigenze e ai bisogni dei
popoli – quali le vicende umane vengono volgendo piuttosto verso
l’apprezzamento e il godimento dei beni della terra - … questi problemi di
acutissima gravità stanno da sempre sul cuore della chiesa. Perciò essa li ha
fatti oggetto di studio attento, ed il Concilio Ecumenico potrà offrire, con
chiaro linguaggio, soluzioni che sono postulate dalla dignità dell’uomo e della
sua vocazione cristiana» (in AAS 54
(1962) 680-681).
[118]
Cf. F.X.Arnold, Was ist Pastoraltheologie, in Wort des
Heils als Wort in die Zeit, Gasammelte Reden un Aufsätze, Trier 1961, 296-300.
[119]
Cf. F.X.Arnold, Das Prinzip des Gott-menschlichen und seine
Bedeutung für die Seelsorge, in ThQ 123 (1942) 145-176 (in particolare
151-153).
[120] F.X.Arnold,
Storia moderna della teologia
pastorale, Roma 1970, 113.
[121] Resta indeterminato il percorso
metodico del riferimento alla prassi, così come la corretta valorizzazione
delle scienze umane. Ma gli va il merito di aver colto il problema ed essersi
incamminato nella giusta direzione.
[122] Cui si aggiungerà più tardi, il
pastoralista viennese F.Klostermann.
Su tutto questo cf. V.Schurr, Teologia pastorale, cit., 401-406.
[123] K.Rahner,
Pastorale e teologia dopo il Vaticano II,
in Nuovi Saggi IV, Roma 1973,
164-166.
[124] K.Rahner,
Fondamenti della teologia pastorale,
Brescia 1969, 44ss.: «La chiesa è fondata da Gesù Cristo una volta per sempre,
ma è fondata come entità storica… essa è in fieri: diviene perché è; ed è, solo
in quanto diviene... Con ciò è enunciata la storicità dell’autorealizzazione
della Chiesa. Ciò non significa soltanto (lo ripetiamo ancora una volta) che la
chiesa persevera nella storia nella sua essenza e che in una storia della
chiesa avviene ‘qualcosa’, ma che questa essenza ha essa stessa una storia»
[125] H.Schuster,
Wesen und Aufgabe der Pastoraltheologie
als praktischer Theologie, in HbPTb I, 93; cf. K.Rahner, La teologia
pratica nel complesso delle discipline teologiche, in Nuovi Saggi III, Roma 1969, 155: «La teologia pratica è quella
disciplina che si occupa della auto attuazione che la chiesa deve realizzare di
fatto nella situazione concreta. Alla base di tale disciplina sta la
chiarificazione teologica della situazione storica precisa nella quale la
chiesa è chiamata a realizzarsi in tutti i propri aspetti».
[126] K.Rahner,
Fondamenti della teologia pastorale..,
cit., 61.
[127] Cf. K.Rahner,
La teologia pratica nel complesso delle
discipline teologiche, cit., 158 ss: «Per riflettere scientificamente sulla
situazione presente e per capirla, come è suo compito, essa (la teologia
pastorale) ha bisogno di discipline ausiliarie: la sociologia, le scienze
politiche, la storia contemporanea ecc.. Da tale punto di vista quindi, tutte
queste discipline hanno una funzione ausiliaria per la teologia pratica.
[128] Cf. HbPTb II/1,
23.24.27.28-31.32.34.36-38.
[129] K.Rahner, Die Gegenwart der Kirche, Wissenschalts
teoretiche Vorüberlegungen, in HbPTk II/1, 186.
[130] K.Rahner,
Die Grundlegenden Imperative für den
Selbstvollzug der Kirche in den gegenwärtigen Situation, in HbPTh II/1,
234: «solo l’interpretazione teologia assicura la validità del dato empirico in
teologia pastorale»
[131] Ibid.,
256.
[132] Cf. K.Rahner,
La teologia pratica nel complesso delle
discipline teologiche, cit.
[133] Anzitutto, l’impiego della
categoria “autorealizzazione” della chiesa, su cui tutta l’opera fa perno. Non
bastano le precisazioni di Rahner (la parola ‘autorealizzazione’ va letta nel
suo senso formale. Non implica nessuna introversione della chiesa, quasi che il
suo agire si riferisca, in fondo, a se stessa. Essa deve glorificare Dio,
servire alla salvezza degli uomini, essere a disposizione del mondo. Tutto
questo è precisamente la sua autorealizzazione, così come un uomo si realizza
amando Dio e distanziandosi quindi da se stesso») a respingere le accuse di
ecclesiocentrismo e di larvato clericalismo. Se queste sono, per la verità,
infondate, il concetto di autorealizzazione, cui è sottesa la distinzione tra
ecclesiologia essenziale e ecclesiologia esistenziale, finisce inevitabilmente
per collocare la teologia in un orizzonte tendenzialmente deduttivi stico, a
farne una disciplina in cui, di fatto, si vengono a utilizzare risultati
acquisiti in altre discipline. In altri termini, l’impostazione sembra restare
prigioniera del classico assioma agere
sequitur esse, anche se Rahner si preoccupa di precisare che «noi non
dobbiamo solo sapere che cosa e come essa (la chiesa) deve fare in generale e
sempre, ma anche che cosa e come essa ora deve agire» (K. Rahner, Fondamenti
della teologia pastorale, cit., 9, nota 1). E’ proprio questo rapporto tra
l’aspetto normativo dell’essenza e quello empirico dell’operazione e della
decisione, questo rapporto tra indicativo e imperativo o, in termini più
corretti e moderni, tra teoria e prassi a non essere sufficientemente trattato
e illuminato nella impostazione dello Handbuch.
A questo proposito Rahner sembra avvertire la difficoltà e, quasi, si
schernisce presentandosi come autore che «si trova più o meno ad essere un
dilettante, che soltanto per caso si è smarrito in questi problemi» (K. Rahner, La teologia pratica nel complesso delle discipline teologiche,
cit., 153). Il problema è stato acutamente avvertito, anche se con accenti
diversi, sia in campo protestante (dove la formula “autorealizzazione della
chiesa” non poteva non sollecitare una sensibilità particolarmente acuta); sia
in campo cattolico: cf. R Zerfass,
Praktische Theologie als
Handlungswissenschaft, in Theologische
Revue 69 (1963) 89-98 (qui 92). Anche perché Rahner sembra rimanere
dell’idea che l’ambito della decisione operativa sfugga in ogni caso alla
riflessione teologica pastorale («Nemmeno questa seconda riflessione (quella
cioè «sulla situazione attuale e sul comportamento che la chiesa ora e domani
dovrà assumere», (K.Rahner, La teologia pratica nel complesso delle
discipline teologiche, cit., 154) è in grado di fornire in maniera univoca
e definitiva l’imperativo concreto.
[134]
Cf. G.Krause, Rezension zum «Handuch der Pastoral Theologie», in Theologia pratica 2 (1967) 360-371.
[135]
Cf. G. Krause, Zur Standortbestimmung einer Zeitschrift für
praktische Theologie, in Theologia
pratica 1 (1966) 413.
[136] E.Jüngel, Das Verhältnis der theologischen Disziplinen
untereinander, in E.Jüngel-K.Rahner-M.Seitz,
Die Praktische Theologie zwischen
Wissenschaft und Praxis, München 1968, 11-45 (qui 37).
[137] Ibid.
[138] Ibid.,
40
[139] Ibid.,
44.
[140] La conferenza è pubblicata in versione
italiana in Nuovi Saggi III, Roma
1969, 153-172,
[141] M.Seitz,
Die Aufgabe der Praktischen Theologie,
in E.Jüngel-K.Rahner-M.Seitz, Die Praktische Theologie zwischen
Wissenschaft und Praxis, cit., 65-80
[142] Ibid.,
79
[143] G.Krause,
Praktische Theologie, Darmstadt 1972,
430.
[144] Ibid.,
432.
[145] W.Fürst, Praktisch-theologische Urteilskraft…,
cit. 330-331
[146]
Cf. J.Matthes, Die Emigration der Kirche aus der
Gesellschaft, Hamburg 1964.
[147] H.D.Bastian,
Von Wort zu den Wörtern. Karl Barth und
die Aufgaben der Praktischen Theologie, in Evangelische Theologie 28 (1968) 25-55
[148] Ibid.,
31.
[149] Cf. Ibid., 30: «La teologia pratica non è dunque l’emporio per i
risultati dell’esegesi, né la desiderata opportunità di dare forma applicativa
ai contenuti dogmatici, ma la possibilità documentata mediante metodi specifici
di sottoporre l’agire ecclesiale e teologico a un orizzonte conoscitivo
empirico.».
[150] Cf. Ibid., 41.
[151] K.D.Dahm,
Beruf: Pfarre. Empirische Aspekte,
München 1971, 305ss.
[152] G.Otto,
Grundlegung der Praktischen Theologie,
cit., 74ss
[153] Ibid.,
20
[154] M.Horkheimer,
Traditionelte und Kritische Theorie,
Frankfurt 1970, 57.
[155]
Cf. G.Biemer-P.Siller, Grundfragen der Praktischen, Mainz 1971
[156] H.Schroer, Empirische Wissenschaft und Praktische
Theologie, in Anstosse. Berichte
aus der Arbeit der Evangelischen Akademie Hofgeismas (1970) n.112, 52-65.
[157] Th. Ströhm, Über die Zusammengehörigkeit von
systematischer und praktischer Theologie. Eröffnung einer literarischen
Diskussion, in Theologia practica 9 (1974) 2-6.293.
[158] W.Pannenberg,
Die Praktische Theologie im System
wissenschaftlicher Theologie, in Theologia
practica 9 (1974) 7-18; ripreso in Epistemologia
e teologia, cit., 398-414.
[159] Ch. Bäumler,
Praktische Theologie – ein notwendiges
Element der wissenschaflticher Theologie,
in Theologia practica 9 (1974)
72-84.
[160]
N.Mette, Theorie und Praxis. Wissenschaftgeschichtliche
und methologische Untersuchungen zur Theorie-Praxis-Problematik innerhalb
Praktischen Theologie, Düsseldorf 1978; Id.,
Praktische Theologie als
Handlungwissenschaft. Begriff und Problematik, in Diakonia 10 (1970) 190-203.
[161] H.Peukert, Wissenschaft theorie. Handlungstheorie.
Fundamentale Theologie. Analyse zu Ansatz und Status theologischer
Theoriebldung, Düsseldorf 1976.
[162] N.Mette,
Theorie der Praxis…, cit.,32.
[163] Secondo H.Schelsky, la differenza delle scienze dell’azione da
quelle orientate in senso storico-ermeneutico consiste nel fatto che«esse sono
aperte a immediate conseguenze per l’azione secondo la natura del loro
conoscere, e quindi proprio in quanto teoria» (Einsamkeit und Freiheit. Idee
und Gestalt der deutschen Universität und ihrer Reformen,
Reinbeck 1963, 283).
[164] G.Krause
sembra essere il primo a introdurre il concetto di Handlungwissenschaft nell’ambito della teologia pastorale (cf. Probleme der Praktischen Theologie im Rahmen
der Studienreform, in Id.
(ed.), Praktische Theologie,
Darmstadt 1972, 418-444 (in particolare 430-435).
[165] N.Mette, Praktische
Theologie als Handlungwissenschaft. Begriff und
Problematik…,
193,:«Anche l’interesse per il rapport con la prassi, per il rinnovamento e per
il campo di azione ecclesiale non bastano come criteri».
[166] Ibid.,
203
[167] J.A.van der Ven, Entwurf einer Empirischen
Theologie, Kampen 1990.
[168] J.A.van der Ven, Kontextuelle Ekklesiologie,
Düsseldorf 1995.
[169] A.Grözinger,
Praktische Theologie und Ästhetik,
München 1987.
[170] Ibid,,
87ss.
[171] D.Atkinson-D.Field (edd.), Dictionary of
Christian Ethics and Pastoral Theology, Leicester 1995.
[172] W.Steck, Praktische Theologie I. Horizont der
Religion-Konturen der neuzeitlichen Christentums-Strukturen der religiösen
Lebenswelt, Stuttgart 2000.
[173] Ibid.,
27.
[174] H.Haslinger
(ed.), Praktische Theologie, I.
Grunlegungen, Mainz 1999.
Professor Asolan. Grazie generosa condivisione. È utile per
ReplyDeleteconcetti e idee chiarificatrici della teologia pastorale>
Ora sono ritornato a Roma per la tesi di dottorato.
A presto. Andrea.